di Giulio Toffoli
Tonteggiando 4
LA SCHEDA
Titolo originale | Der letzte mann |
Lingua originale | Tedesco |
Paese di produzione | Germania |
Anno di produzione | 1924 |
Durata | 77’ |
Dati tecnici | B/N – Rapporto 1,33: 1 – film muto |
Genere | Drammatico |
Regia | F.W. Murnau |
Sceneggiatura | C. Mayer |
Casa di produzione | UFA Universum Film |
Attori principali | Emil Jannings: il portiere |
LA TRAMA
L’ultima risata o forse davvero meglio il titolo originale L’ultimo uomo è un film relativamente breve, articolato in due parti radicalmente ineguali. Il corpo del film di 72’ è infatti seguito da un improbabile e paradossale epilogo negli ultimi 5’.
Il film descrive un momento della vita del portiere del Grand Hotel Atlantic di Berlino. Il portiere è un uomo corpulento, non più giovane, con una grande barba, grandi baffi e delle imponenti fedine, che incorniciano un volto davvero importante. Porta una non meno vistosa divisa tutta alamari e bottoni di cui è particolarmente fiero. Il suo lavoro consiste nell’accompagnare i clienti dell’hotel dalle macchine, che li scaricano davanti all’ingresso, all’interno dell’edificio e accompagnare coloro che escono a prendere i taxi che attendono fuori dalla porta. Si tratta di un funambolico e inesausto andirivieni che si incarna nel continuo movimento della porta circolare che costituisce l’imponente ingresso dell’hotel.
Dopo una giornata di lavoro il portiere torna a casa nel quartiere popolare dove vive e proprio grazie alla divisa è salutato e riverito con deferenza. Il portiere si sente, in qualche modo, partecipe di un “altro mondo” diverso da quello degli umili che gli stanno accanto e il suo comportamento segnala in qualche modo questa “differenza”.
Un giorno di pioggia però, dopo aver accompagnato dei clienti, è costretto a portare all’interno dell’hotel un pesante baule e, per rinfrancarsi, si siede per qualche minuto lasciando sguarnita la porta. Il direttore dell’hotel se ne accorge e decide di prendere provvedimenti.
Il giorno dopo, quando si avvia a prendere servizio, scopre che un altro dipendente ha preso il suo posto. Non se ne capacita; entra e viene invitato a recarsi nell’ufficio del direttore. Qui gli è consegnata una lettera che, prendendo come spunto la sua età ormai avanzata, gli offre la scelta fra il licenziamento e un demansionamento.
Il portiere, che ha sempre svolto il suo lavoro con grande scrupolo, vede un intero mondo che gli crolla addosso. Non comprende perché debba essere punito tanto severamente. Ma le sue proteste non ottengono nessun ascolto.
E’ costretto ad abbandonare la divisa, di cui era tanto fiero, e a recarsi nei sotterranei, dove ci sono i servizi, ed iniziare a svolgere lì una ben più umile mansione di addetto alle toilette.
Quella che vive non è solo la tragedia della perdita del suo ruolo ma si rende conto che anche nel contesto popolare in cui vive è destinato a perdere quel carisma che in qualche modo lo differenziava dagli altri abitanti del quartiere.
Nel tentativo di salvare la sua immagine sottrae furtivamente la divisa e uscito dal lavoro se la rimette per tornare a casa. Ciò non basta perché si sente umiliato ed è pieno di paure temendo di essere scoperto. Infatti proprio una parente che si reca sul luogo di lavoro per portargli del cibo è la prima a fare la scoperta: il portiere non è più al suo posto.
Da questo momento la sua condizione, professionale e umana, conosce un continuo degrado. Non solo fa fatica a svolgere il nuovo lavoro ma è diventato perfino un paria nel suo quartiere. Le comari del suo caseggiato se la ridono di santa ragione e perfino la famiglia lo allontana.
La distruzione della sua personalità è completa e al portiere non resta che restituire a un guardiano notturno, che lo scopre a girare senza meta per l’hotel, la divisa che aveva sottratto e poi a rintanarsi nelle toilette. Proprio il guardiano è l’unico che gli offre un gesto di conforto, lo accarezza, lo stringe e alla fine dopo che si è accoccolato sulla sedia lo copre con il suo cappotto.
L’ultima immagine è proprio quella di quest’uomo, una volta sicuro di sé e felice del suo lavoro, ridotto a un reietto senza valore e senza qualità.
Giunti a questo punto un didascalia ci introduce in quello che viene esplicitamente definito un: “improbabile epilogo”.
Un milionario americano ha lasciato la sua fortuna proprio al portiere dell’albergo e allora vediamo l’ex portiere, con tutta la sua imponente figura, seduto nella sala da pranzo dell’hotel che si rimpinza cin ogni possibile leccornia. Accanto a sé ha proprio il guardiano di notte che è diventato suo compagno di avventure. I ricchi, agli altri tavoli, lo guardano con sussiego, persino i camerieri sarebbero restii a servirlo ma, potenza del denaro, alla fine si piegano.
Poi l’ex portiere scende nei servizi dove ora lavora un altro “reietto” come lui, solo molto più mingherlino, e offre al lavoratore un sigaro, poi gli riempie le tasche di monete e infine costringe un altro cliente a lasciare una mancia adeguata.
Infine il portiere e il guardiano, vestiti come nababbi, escono dall’hotel, salgono sul una carrozza e salutano.
PERCHE’ RIVEDERLO OGGI?
Forse mai come in questo caso la trama di un film potrebbe essere riassunta in una sola parola che è diventata di moda fra noi in questi ultimi anni: demansionamento.
Gli esiti delle “irresistibili” riforme sul lavoro di uno degli ultimi governi non hanno avuto neppure bisogno che la nostra cinematografia si affaticasse a produrre qualche cosa. Tutto è già stato detto in questo L’ultimo uomo di Murnau del 1924.
Non è neppure facile trovare un altro film che sia come questo sostanzialmente imperniato su un solo attore, come in questo caso Emil Jannings che interpreta il portiere del grande albergo e domina con la sua figura quasi ogni fotogramma.
Film realistico o film espressionista? Quasi impossibile dare una definizione visto che l’autore gioca usando costantemente una nota di ambiguità e introducendo elementi che fanno pensare di tanto in tanto all’una o all’altra di queste tendenze. Proprio per questo motivo è difficile affermare che in questo film di Murnau vi sia una volontà di denuncia e una partecipazione sofferta all’umiliazione che vive fino in fondo il protagonista. Piuttosto ci troviamo di fronte a una grande metafora che partendo dal caso del portiere del Grand Hotel Atlantic mette a fuoco quello che è il destino dell’uomo nella realtà dominata dal principio di prestazione.
Fermiamo la nostra attenzione su tre momenti che sono in qualche modo i cardini intorno a cui ruota l’intera vicenda.
Il primo è costituito dai primi 16’ del film quando viene mostrato il portiere nel massimo del suo splendore. Non vi è fotogramma che non faccia vedere il portiere che trova nel lavoro la sua totale gratificazione. Il lavoro rappresenta il senso ultimo della sua esistenza, la sua realtà di individuo è completamente assorbita nella funzione che svolge. Sul lavoro come nel quartiere in cui vive si muove come su una scena dove, protetto ed esaltato dalla divisa che porta, occupa il primo piano quasi fosse un demiurgo che nell’accogliere i clienti dell’hotel come nel salutare i vicini di casa da senso all’intera realtà.
Il secondo momento è costituito dall’intera parte centrale del film, quella scandita dalle fasi della sconfitta, una specie di discesa verso i gironi più bassi della miseria dell’umano. L’uomo che viveva nella pienezza del suo essere, pur svolgendo una funzione servile e sostanzialmente partecipando solo di estremo riflesso alla vita della società borghese benestante che si muove nell’hotel, si trasforma, grazie alla decisione del direttore dell’hotel, nell’immagine inebetita dell’uomo che non riesce ad accettare la sua emarginazione, che guarda con uno sguardo perduto il documento che il direttore gli ha dato fra le mani e che infine con l’asciugamani al braccio non riuscirà a svolgere decentemente neppure il lavoro di servizio a cui è stato destinato. Uscito dall’ufficio vive l’umiliazione della svestizione, abbandonando l’amata divisa, e poi deve mettere la ben più misera giacca bianca dell’uomo di servizio. L’unico strumento che trova per cercare di resistere a questo processo di annullamento sta nel furto della divisa, con cui cerca di salvare il suo ruolo almeno nel quartiere in cui vive. Ma è impossibile mantenere a lungo l’inganno che infatti viene facilmente smascherato. In questo modo il portiere giunge agli ultimi gradini del processo di degrado, deriso dagli altri abitanti della casa in cui viveva e infine emarginato anche dalla famiglia, si trova radicalmente solo e senza una identità. Nessuno compie un gesto, nessuno ha un momento di attenzione, solo derisione ed esclusione segnano il suo destino. Di fronte a questa realtà non ha più senso neppure mantenere la finzione. L’ex portiere è davvero assolutamente solo.
Il terzo momento è rappresentato dalla decisione di restituire la divisa che non serve più a nulla ed è proprio in questa occasione, quando il portiere ridotto a un fantasma di se stesso gira senza forze per l’hotel e viene scoperto da un guardiano notturno, che si presenta come un pur tardo segnale di solidarietà umana. Quello che nessuno gli ha dato, non i famigliari non i vicini, lo ottiene proprio da quest’uomo che percorre come uno spettro l’hotel con una luce appesa al collo per controllare che tutto sia in ordine. E’ quest’uomo che sembra offrire un segnale per comprendere quel che è il senso profondo della vita al di là della dilagante ipocrisia: di fronte all’estrema abiezione di un universo degradato è forse possibile cercare di ridare un volto alla vita fuori dalle finzioni della logica del mercato. Ma si tratta di una possibilità estremamente remota tanto che nell’ultimo fotogramma, della prima parte, il portiere è lì appoggiato alla sedia come un oggetto che ha perduto ogni senso d’essere.
Ciò è ulteriormente chiarito negli ultimi 5’ in quel secondo finale che sa ampiamente di farsa. La falsa redenzione del portiere diventato un nababbo serve a ribadire quanto è già stato detto nel primo finale. E’ impossibile una redenzione nella società che è governata dalle regole della razionalità produttiva. Non esistono reali possibilità di riscatto per chi altro non è se non un oggetto fra oggetti che viene conservato nel suo ruolo finché serve alla razionalità del mercato per essere poi, quando ormai non è più utile, essere messo alle porte, lasciandolo nella più agghiacciante solitudine di chi è ormai per la società ridotto a una “res” senza senso.
Murnau sembra volerci dire che la società in cui viviamo ha come suo fondamento una legge, neppure troppo nascosta, che riduce l’uomo a un oggetto che si muove secondo una reattività meccanica e trova l’unico sua ragione d’essere nella funzione lavorativa e ciò non può che generare una condizione di radicale disagio di esistere, uno scacco che non ha vie d’uscita.
Senza adeguati strumenti critici qualsiasi individuo è destinato a scoprire il suo essere poco più che nulla in una realtà di classe, che mentre enfatizza le differenze ha come sua grammatica profonda un radicale indifferentismo etico.
L’INTERPRETAZIONE DI KRACAUER
Fra i film del primo dopoguerra tedesco, pressappoco fino al 1924 Kracauer individua un gruppo che caratterizza come film che “mettono a fuoco gli appetiti e gli impulsi sregolati che si scatenano in un mondo caotico … film dell’istinto”.
Di questi film l’anima è lo sceneggiatore C. Mayer che in collaborazione con Murnau realizza nel 1924 L’ultima risata.
“Il film sostiene – fa notare Kracauer – che l’autorità e l’autorità soltanto, fonde in un tutto i disparati settori sociali, il crollo dell’uniforme, che rappresenta l’autorità, non può che generare l’anarchia”. Infatti: “se esistesse una via d’uscita per i portieri d’albergo degradati … essa non assomiglierebbe certo ad alcuna soluzione legata ai superficiali concetti della civiltà occidentale. Con il secondo finale il film ribadisce il significato del primo e respinge inoltre l’idea che la «decadenza dell’Occidente» si possa rimediare con i doni dell’Occidente”.
I film di Mayer inoltre sono: “distanti dal realismo per l’insistente uso che si fa di una formula espressionista. Nessun personaggio ha un nome … l’intreccio è esclusivamente raccontato attraverso le immagini … lo stretto legame fra il modo di rappresentare e la materia rappresentata è davvero sorprendente. Istinti e passioni fioriscono al di sotto della dimensione del ragionamento discorsivo, e si prestano quindi ad essere descritti senza spiegazioni verbali. Ciò vale soprattutto per i film di Mayer che hanno una trama intenzionalmente semplificata. Essi raccontano dei fatti sostanzialmente muti …”.
Aggiunge Kracauer: “I film di Mayer sono anche i primi a valersi del mondo degli oggetti … per dar risalto all’azione drammatica … questa tendenza a coinvolgere nell’azione oggetti inanimati scaturisce dall’intima natura dei personaggi di Mayer …(che ndr.) vivono in una mondo determinato dalle sensazioni fisiche e dagli stimoli materiali, mondo in cui gli oggetti balzano in primo piano, assumendo la funzione di ostacoli o di cartelli indicatori, di nemici o di complici”.
“A coronare questi esiti – aggiunge ancora Kracauer – la macchina da presa nei film di Mayer si mette in movimento … una macchina completamente autonoma, capace di ogni specie di movimento … si sposta, viaggia, si alza e si abbassa continuamente tanto da ottenere una narrazione per immagini totalmente fluida e da consentire inoltre allo spettatore di seguire i corso degli avvenimenti da diversi punti di vista … (tanto che ndr.) l’interprete è un suddito passivo della macchina”.
Pur riferendosi ad un altro film di Mayer Kracauer cita una critica del National Board of Review Magazine che dice: «E’ un film … che non ha morale all’infuori di quella … sottintesa al fato dei suoi personaggi, e dalle forze che portano a quel fato … si avvertono i ciechi impulsi traboccare dalla fonte dei bisogni e degli istinti animaleschi»” (Kracauer, Cinema tedesco, Mondadori, 1977, pag. 102-109).
Il prossimo film di cui vi suggerisco la visione, la cui scheda uscirà il 4 novembre, è:
Il gabinetto del dottor Caligari, di R. Weine.
Come si diceva una volta:
“Buona visione”.
Nota di E. A.
Questa scheda doveva uscire il 14 ottobre. Mi scuso del ritardo.
Chiedo a Giulio Toffoli…
…. che mi piacerebbe sapere se tra questo film di Murnau (L’ultima risata – 1924) e Vicki Baum (Hedwig Baum — vedi più sotto : “People at a Hotel” del 1929)
vi è qualche relazione.
grazie – A. S.
(questo attacco **** mi ha fatto pensare al film Grand Hotel del 1932)
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>>>> Di questi film l’anima è lo sceneggiatore C. Mayer che in collaborazione con Murnau realizza nel 1924 L’ultima risata.
**** Il film descrive un momento della vita del portiere del Grand Hotel Atlantic di Berlino. Il portiere è un uomo corpulento, non più giovane, con una grande barba, grandi baffi e delle imponenti fedine, che incorniciano un volto davvero importante. Porta una non meno vistosa divisa tutta alamari e bottoni di cui è particolarmente fiero. Il suo lavoro consiste nell’accompagnare i clienti dell’hotel dalle macchine, che li scaricano davanti all’ingresso, all’interno dell’edificio e accompagnare coloro che escono a prendere i taxi che attendono fuori dalla porta. Si tratta di un funambolico e inesausto andirivieni che si incarna nel continuo movimento della porta circolare che costituisce l’imponente ingresso dell’hotel. >>>>>
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Vicki Baum, all’anagrafe Hedwig Baum; in lingua ebraica: ויקי באום (Vienna, 24 gennaio 1888 – Hollywood, 29 agosto 1960), è stata una scrittrice, sceneggiatrice e giornalista austriaca naturalizzata statunitense.
È conosciuta per essere stata nel 1929 l’autrice del romanzo Menschen im Hotel (People at a Hotel) che è stato il suo primo successo internazionale e che servì da soggetto per il film del 1932 Grand Hotel, interpretato da Greta Garbo, Joan Crawford e John Barrymore, di cui è stato fatto nel 1959 un remake europeo dallo stesso titolo.>>>>>>
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Gentile Antonio
Per quel che mi è dato sapere fra i due film non esiste un nesso evidente sempre che la Baum non abbia preso spunto dalla visione del film.
Non so… certo a mio vedere la struttura dei due film è radicalmente differente. L’uno incentrato su una esperienza individuale l’altro più corale se si vuole proprio alla hollywoodiana. L’unico elemento che mi sembra unisca di primo acchito le due opere è la porta girevole e se si vuole l’idea del grand hotel come centro di un mondo particolare e privilegiato. Ma poi le trame sono del tutto diverse.
Grazie. La risposta mi soddisfa: è più meno quel che pensavo intuitivamente. Comunque come dono Le invio una poesia di Osip Mandel’stam:
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CINEMATOGRAFO
-Cinematografo
Cinematografo. Tre panche.
Febbre sentimentale.
Un’aristocratica e ricca
nelle reti di una ribalda rivale.
Non si può trattenere il volo dell’amore:
ella di nulla è colpevole!
Con abnegazione, come un fratello,
amava il luogotenente della flotta.
Ed egli oggi vaga nel deserto –
figlio adulterino del brizzolato conte.
Così comincia il dozzinale
romanzo della leggiadra contessa.
E con frenesia, come gitana,
ella contorce le mani.
Commiato. Furiosi suoni
di un tartassato pianoforte.
Nel petto fiducioso e debole
c’è ancora abbastanza coraggio
per sottrarre importanti carte
per lo stato maggiore del nemico.
E per il viale di castagni
un mostruoso motore si precipita,
stride il nastro, il cuore palpita
più febbrile e più allegro.
In abito e sacco di viaggio,
nell’automobile e nel vagone,
ella teme soltanto l’inseguimento,
estenuata da un secco miraggio.
Ma quale amara sciocchezza:
il fine non giustifica i mezzi!
A lui – il retaggio paterno
e a lei – la fortezza a vita.
1913
(trad. di A. M. Ripellino)
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Ma se mi potrà dare la sua e-mail, Le invierò informazioni sul cinematografo russo, che non tutti sanno.
Carissimo Antonio
Grazie per la bellissima poesia di Mandel’stam, davvero bella e in tema.
Il mio email è g.toffoli@libero.it.
Un grazie anticipato x ogni informazione sulla cinematografia russa. Credo che una qualche rivisitazione di quella esperienza potrebbe essere utile. Un poco come la rivoluzione del ’17 prima esaltata acriticamente e poi condannata in modo stupido e filisteo anche x la cinematografia converrebbe ragionarci su. Per questo mi sento di rilanciarsi la proposta: perché non fare una scaletta di film su cui discutere fra noi e poi se la cosa funzionasse non trasformarla in un prodotto come le schede che stai leggendo?
Mi sono permesso di passare a un confidenziale tu perché credo che a entrambi interessi in qualche misura il mondo del cinema e il suo rapporto con la società.
A presto e grazie
La scheda di Toffoli sul film di Friedrich Wilhelm Murnau è accurata, interessante e bella e, nella interpretazione, segue una tradizione critica abbastanza consolidata. A mio parere manca però di un elemento importante per meglio inquadrare storicamente e ideologicamente il film, non sottolineato e messo in rilievo né da Toffoli né dalla critica cinematografica.
Toffoli scrive: «Proprio per questo motivo è difficile affermare che in questo film di Murnau vi sia una volontà di denuncia e una partecipazione sofferta all’umiliazione che vive fino in fondo il protagonista. Piuttosto ci troviamo di fronte a una grande metafora che partendo dal caso del portiere del Grand Hotel Atlantic mette a fuoco quello che è il destino dell’uomo nella realtà dominata dal principio di prestazione». Questo è giusto. Ma al principio di prestazione, come alla sua apparenza legata alla divisa e non alla concreta funzione svolta dal lavoratore, è strettamente collegato un tema che non riguarda la dignità del lavoro o del lavoratore (per cui non si tratta di un film di denuncia né di empatia verso il lavoratore), ma che riguarda il potere. La divisa è simbolo (e apparenza) di differenza fra i lavoratori e il potere. Chi la indossa, indossa il potere che ne deriva. Il film diventa metafora del potere.
Kracauer, nella citazione di Toffoli, usa il termine «autorità» che richiama, ma non identifica esattamente, il potere. «“Il film sostiene – fa notare Kracauer – che l’autorità e l’autorità soltanto, fonde in un tutto i disparati settori sociali, il crollo dell’uniforme, che rappresenta l’autorità, non può che generare l’anarchia”». L’anarchia, infatti, è mancanza di potere e di gerarchia del potere.
Siamo nella Germania del 1924, con una precisa tradizione di società tenuta insieme dalla gerarchia del potere che, dagli avvenimenti della guerra 1914-1918 e del dopoguerra, è messa in crisi.
Il cinema dell’espressionismo e del Kammerspiel trattano il tema in molte forme, sia in quelle fantastiche (come in «Nosferatu il vampiro»; «Il gabinetto del dottor Caligari»), sia in quelle del dramma criminale/poliziesco («M – Il mostro di Düsseldorf»; «Il dottor Mabuse») e in quelle della fantascienza («Metropolis»). “Espressionismo”,” kammerspiel” e “Nuova oggettività” sono tre generi o correnti cinematografiche che concorrono ad animare un dibattito sulla Germania degli anni Venti e primi anni Trenta in cui si incrociano crisi politica, crisi economica, ascesa del nazismo, distacco della Germania dalla sua tradizione precedente. Dibattito, spesso, non direttamente ideologico e di denuncia, ma di rappresentazione di situazioni simboliche e metaforiche in cui la ricerca sul mezzo espressivo proprio del cinema è in primo piano. L’ideologia autoritaria introiettata dal borghese come dal lavoratore (e dalla vasta schiera di chi vive fuori dalla legge) diventa uno dei temi maggiormente trattati.
Le differenze fra le persone (naturali, psicologiche, sociali, economiche, politiche, culturali, tecnologiche, istituzionali) creano differenze di potere e di autorità. Spesso non sono le differenze reali, ma i simboli (come la divisa) a creare differenze di potere. L’esercizio del potere evita l’anarchia, ma questa si conserva e sviluppa se l’esercizio del potere è distorto e ingiusto, l’esercizio stesso del potere – ad esempio di quello criminale – diventa promotore di anarchia, di paura e degrado sociale e caduta di valori.
Da questo punto di vista il lieto fine imposto dal produttore al regista per ragioni commerciali, non è poi del tutto fuori luogo. Certo, come scrive Pier Giorgio Tone, «Introduce un effetto di choc, agisce come trauma stilistico, opera una cesura radicale nella continuità della trama narrativa. E così rivela la natura fittizia, artefatta, manipolata, della vicenda, il suo essere cinema». Ma svolge anche un compito critico, il quale, come scrive lo stesso Pier Giorgio Tone, «allude alla falsità della “comedy” americana (e, più in generale, alla mistificazione ideologica dello spettacolo». Ma il lieto fine caduto dal cielo sotto forma di una ricca eredità dello “zio d’America” (e lo zio d’America è un altro potente simbolo) non è solo una critica alla commedia americana ricca di lieti fini, mentre il cinema tedesco dell’espressionismo e della Nuova oggettività ne è avaro, ma una chiara allusione al potere del denaro. Grazie al denaro il portiere recupera potere e autorità. Al potere legato alla condizione sociale della tradizione tedesca (dove un ricco commerciante o capitalista aveva meno potere di un nobile, fosse anche spiantato, secondo un’ideologia nobiliare e militaresca al tramonto) si unisce, e contrappone, il potere legato alla nuda ricchezza, anche spoglia di ogni particolare funzione sociale.
Il finale posticcio collega il film tedesco a quello hollywoodiano e al prossimo vicino destino di tanti registi tedeschi che si trasferiranno negli Stati Uniti. È anche il destino di Murnau che, dopo il successo della versione americana di «Der letzte Mann (The Last Man)» (1925) viene messo sotto contratto dal produttore statunitense William Fox e si trasferisce a Hollywood. Il film «Aurora (Sunrise: A Song of Two Humans)» del 1927 sarà il suo primo capolavoro americano.
Nota: La citazione di Pier Giorgio Tone è tratta dalla scheda che al film dedica il «Dizionario dei capolavori del cinema», di Fernando Di Giammatteo e Cristina Bragaglia (Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 51-52.
Carissimo Luciano
Nulla da obiettare alla tua nota che mi trova assolutamente d’accordo, semmai una piccola nota. Che il cinema sia quasi sempre una sottile analisi delle logiche del potere e che quasi sempre risulti uno strumento di affermazione del primato dell’autorità costituita e della gerarchia sociale credo sia indubitabile. Perciò dietro al dramma del portiere dell’albergo vi è un complesso gioco di acquiescenza dell’autorità e di riconoscimento di un ruolo sociale a cui di è legati quasi per destino naturale. Ciò nonostante c’è in questo discorso un qualche cosa che mi sembrava non fosse del tutto accettabile ed è questo che mi ha spinto a iniziare questo dialogo con voi. Ciò che non mi convince è sostanzialmente il sottotitolo del testo di Kracauer “Da Caligari a Hitler ” che mi sembrava quarant’anni fa, quando vidi questi film per la prima volta, e ancor di più oggi forzato.
Ed è proprio su questo argomento che invito te e gli altri amici che hanno seguito e seguono questo ciclo a intervenire fino alla conclusione della serie dei film che ho proposto.
Ancora buona visione
D’accordo sulla forzatura del sottotitolo di Kracauer. Nel 1924 Hitler era un protagonista di cui ancora non si prevedeva il successo e tutte le conseguenze che si ebbero poi. Sarebbe invece necessario analizzare meglio la crisi della Germania di Weimar, l’incapacità di risolvere i problemi urgenti, il precipitare della situazione economica, la fuga in avanti (o indietro?) della sinistra marxista. In questa situazione caotica i film che «mettono a fuoco gli appetiti e gli impulsi sregolati che si scatenano in un mondo caotico [… ] film dell’istinto», colgono elementi essenziali, ma non ancora quella spinta “dell’istinto” che si può definire “si salvi chi può” e che porterà molta parte del popolo, anche operai, all’abbraccio col nazismo. Per cogliere questo elemento occorreva, e occorre oggi per l’attualità (ad esempio: elezioni in Umbria, in Turingia), una visione critica distaccata e coraggiosa che sappia riconoscere la funzione, che da psicologica diventa politica, delle spinte all’autodifesa, alla legittima difesa, al si salvi chi può, insomma. La sinistra tende a chiudere questa spinta istintiva nel termine “paura”, che dice suscitata ad arte. Ma la paura ha due uscite: la fuga e l’attacco, entrambe con componenti immaginarie (ma l’immaginario è una potente componente storica), ma con le radici nella realtà. Una realtà che i Weimariani dimenticarono, o dalla quale comunque si distaccarono più del consentito. Così sia la fuga che l’attacco favorirono l’ascesa di Hitler.
Solo due appunti veloci.
Ho trovato: – severamente politico il contrasto tra i fotogrammi che si soffermano sulla vita borghese ( soprattutto l’andirivieni frenetico attorno alla porta girevole del Grand Hotel Continental) e quelli che descrivono la vita grama nei casermoni di periferia; – quasi sadica da parte del regista la rappresentazione del contenimento della rabbia del portiere dall’annuncio del demansionamento in poi. (Ho pensato ai personaggi di Gogol).
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Quello che le pur acute e sottili analisi mi sembra trascurano è il ruolo del capitalismo come sistema produttivo industriale assume nell’imporre mansioni che determinano le identita’. Per cui ciascuno è la sua funzione, somministrata dal sistema , e, se demansionato, non è che una nuda fisiologia disperata. Solo un prodigio, un miracolo può salvarlo, magari con una opposta identità di capitalista, a sua volta precaria… Un mondo non di uomini protagonisti della propria vita e del proprio destino, ma di nude fisiologie, socialmente vittoriose o sconfitte in definiva nelle contraddizioni del sistema politico-sociale.