di Angelo Australi
“… Lui le parla dei reparti, dei laboratori e dei nuovi materiali che vi vengono prodotti, con l’entusiasmo e la competenza con cui, di solito, lei gli parla di piante e animali. Di stelle e maree.
Le indica un impianto, giusto in mezzo a due ciminiere, percorso da tubi, serpentine, condotte, da scale e scarichi che si sviluppano o si snodano labirintici e si perdono in profondità misteriose o si innalzano come pinnacoli o guglie, tra fumi e vapori, solenne e possente come una cattedrale.
Dev’essere il cracking, dice lei.
Gliel’ha sentito nominare spesso.
Sì, il cuore del petrolchimico.
E quello è il grande arco sul canale, che si vede da Venezia, lei dice.
Sì. È una pipeline aerea. Ma il cracking, guarda: in una parte contiene un vero inferno, un forno che brucia a più di mille gradi. Vi si immette il virgin-nafta, dai serbatoi là dietro, vicini alla banchina dove arriva con le navi. Dentro, nell’impianto, il reattore spacca con il calore. Rompe le molecole. Le scompone in etilene, propilene, benzene… Poi, di colpo, viene raffreddata con l’acqua gelida, lì a fianco, per separarne e fissarne gli elementi. Forte, no?
Magico, dice lei. Magico e spaventoso.
Si ottengono così degli idrocarburi leggeri. Carbonio e idrogeno. E composti semplici e potenti, come l’etilene, lui dice. L’etilene è strano, ha una sua doppia natura. Qui in fabbrica innesca una catena da cui si ottengono polietilene, antracene, cloroetano, butano e così via, tutta la filiera delle plastiche, il pvc, il poliestere, roba che in natura non esiste. Creata qui.
E perché sarebbe strano l’etilene? È strana tutta, questa roba.
Perché l’etilene lo producono anche le piante. È un loro ormone.
Cosa?
Un ormone. L’etilene è un ormone. Che molte specie vegetali producono.
Ah.
Non è strano, questo? Qui invece viene prodotto con la piroscissione.
Piro… scissione…
Un processo che con il fuoco e il freddo scinde la molecola di greggio.
E perché non lo prendono in natura, dalle piante, dalle mele, dalle banane, dai pomodori? Senza tutti questi alambicchi del diavolo, dice Rosi.” …
Questo breve brano in cui si descrive il processo di scissione termica del petrolio è tratto dal romanzo Cracking di Gianfranco Bettin, uscito a maggio di quest’anno per la Mondadori. Cracking è appunto la definizione tecnica di questo processo di scissione, e il reparto dove ciò accade. È la fabbrica dove Celeste Vanni ha lavorato una vita, prima di andare in pensione: il Petrolchimico di Porto Marghera. Lui è sulla terrazza della ciminiera della fabbrica con la produzione ormai sospesa, mentre gli operai aspettano, con rassegnazione, di conoscere il loro futuro. Ci è salito di nascosto, durante la notte, e adesso aspetta il giorno perché tutti lo vedano.
È uno scalatore di montagne Celeste Vanni, sa bene come restare sospeso nel vuoto. Nell’attesa che faccia giorno gli scorrono davanti tanti ricordi. Il dialogo sopra riportato è frutto di un’immagine del passato, quando nei primi anni che ci lavorava ha accompagnato sua moglie Rosi a scoprire quale panorama si scorge dalla vetta della ciminiera.
Il Petrolchimico di Porto Marghera è una delle zone industriali costiere più importanti d’Italia, che si estende per oltre 2.000 ettari. L’area industriale nata all’inizio del Novecento, nell’ultimo decennio ha vissuto una pesante crisi e molti impianti produttivi sono stati dismessi, lasciando scheletri incustoditi, immense aree di terreno cariche di veleno, dove per la bonifica servono una marea di soldi che fanno gola a molti intrallazzatori. Storia comune alla maggioranza dei poli industriali del nostro paese, dove gli operai stentano a mantenere il proprio posto di lavoro, anzi, sono d’impiccio.
In Cracking non c’è una trama, almeno come la intendiamo nella narrativa contemporanea, che sembra riconcorrere la cronaca con appena un’idea/pretesto che possa giustificare la banalità degli intrecci così cara alla maggior parte degli scrittori. Gianfranco Bettin usa un linguaggio scarno, essenziale, e il racconto si sviluppa in una notte, quando Celeste Vanni, operaio del Petrolchimico ormai in pensione, ha deciso di salire sulla ciminiera della sua ex fabbrica per fare un gesto estremo che richiami l’attenzione della pubblica opinione sulla rabbia rassegnata degli ex colleghi che la vedono chiudere perché più nessuno è interessato ad investirci. E mentre i capitali sono attratti da altri stati dove è più conveniente spostare la produzione, restano sul campo cordate di figure losche che sperano di far soldi speculando sulla necessità di bonificare quei terreni che hanno sopportato per oltre un secolo ogni forma di spregio ambientale. La ciminiera è alta ben 150 metri, dalla sua terrazza, mentre osserva il paesaggio, in attesa dell’alba lui ripercorre tutta la sua vita trascorsa nel quartiere operaio sorto a ridosso del polo industriale. I pensieri si affacciano con lucidità a ricordargli da dove viene e del come sia stato difficile trovare un’identità in un posto dove è così faticoso vivere. È il ricordo di sua moglie Rosi, morta di cancro ormai da alcuni anni, che fa da collante per tutta la sua vita trascorsa in quel mondo della fabbrica e del quartiere operaio che le sorge a ridosso. Sullo sfondo c’è la laguna di Venezia, il porto industriale del petrolchimico causa di un disastro ambientale e sanitario senza precedenti, di cui si parlava già nella cronaca degli anni Novanta del secolo scorso.
Celeste Vanni è un operaio che sa bene cosa sono state le lotte operaie degli anni Settanta, non c’è nostalgia nel rivedere da quell’altezza un passato che si incunea nel presente di un panorama lagunare la cui storia è una ferita non ancora cicatrizzata. Un personaggio vero, autentico. Con lui vedo gli operai che anch’io conosco, cresciuti culturalmente con gli scioperi, e capaci di tenere insieme alla propria esistenza un’idea di comunità. Non è giusto chiamarli eroi, sono esseri umani che chiedono semplicemente di continuare a costruirsi una vita intorno al proprio lavoro. Non credo che la Storia possa cancellare impunemente l’orgoglio di classe che si cela dietro a questa concreta richiesta.
Consiglio vivamente di leggerlo.