di Giulio Toffoli
Tonteggiando 5
LA SCHEDA
Titolo originale | Das Cabinet des Dr. Caligari |
Lingua originale | Tedesco |
Paese di produzione | Germania |
Anno di produzione | 1920 |
Durata | 77’ |
Dati tecnici | B/N – Rapporto 1,33: 1 – film muto |
Genere | Fantastico – horror |
Regia | Robert Wiene |
Sceneggiatura | Carl Mayer, Hans Janowitz |
Casa di produzione | Decla film |
Scenografia | Hermann Warm, Walter Reimann, Walter Röhrig |
Attori principali | Werner Krauss: dott. Caligari, Conrad Veidt: Cesare il sonnambulo, Friedrich Fehér: Francis, Lil Dagover: Jane Olsen |
LA TRAMA
Il film è articolato in sei atti con un breve prologo e un epilogo un poco più consistente.
I Atto (2’15’’-12’40’’circa) – Nel prologo si vede Francis che è seduto su una sedia in un giardino con accanto un altro individuo, passa davanti a lui una donna che indica come la sua promessa sposa, poi inizia a raccontare di quello che è successo nella sua città, una piccola cittadina del nord della Germania al confine con l’Olanda: Hostenwall.
A Hostenwall era stata indetta una fiera e stavano per essere posizionate tutta una serie di attrazioni, Francis e il suo amico Alain si incontrano per andare a vedere la fiera.
Nel mentre uno strano figuro, che poi si scopre essere un certo dr. Caligari, si reca dal segretario comunale per ottenere un permesso. Viene però trattato con distacco e poca attenzione. Solo dopo aver atteso a lungo può spiegare il motivo della sua presenza: vuole avere il permesso per mostrare la sua attrazione: un sonnambulo.
Intanto alla fiera è tutto un afflusso di gente e anche il dr. Caligari può richiamare l’attenzione sulla sua attrazione.
II Atto (12’43’’– 24’50’’) – La mattina dopo si diffonde la notizia che il segretario comunale è stato ucciso nella notte. La polizia inizia a indagare. La sera alla fiera il dr. Caligari presenta il suo numero. Mostra, davanti a una folla fra cui anche Francis e Alain, la sua attrazione: una bara che aperta mostra un essere che viene presentato come un giovane che è da 23 anni un sonnambulo di nome Cesare. Fra le sue caratteristiche anche quella di saper prevedere il futuro. Cesare apre gli occhi e Caligari chiede se c’è qualcuno che voglia porre una domanda. Si fa avanti Alain che chiede a Cesare di dirgli quanto tempo gli resta da vivere. La risposta di Cesare è: «Fino all’alba».
Francis e Alain escono sconvolti ma si dimenticano della profezia quando incontrano Jane la promessa sposa di uno di loro due.
Nella notte però una strana figura si avvicina al letto di Alain e lo trafigge con delle pugnalate.
III Atto (25’- 36’) – La mattina Francis viene svegliato e scopre che il suo amico è stato assassinato, proprio come era stato predetto da Cesare. Allora si reca dalla polizia e qui sconvolto racconta di quello che è successo a lui e il suo amico la sera prima.
Francis con l’aiuto di un medico, il padre di Jane, ottiene un mandato per verificare quale sia lo stato di Cesare, si recano nel carro del dr. Caligari e possono vedere Cesare che effettivamente dorme.
Nel mentre però si diffonde la notizia che un altro delitto con caratteristiche uguali è stato realizzato e che l’assassino è stato fermato. Questo sembrerebbe scagionare Cesare e Francis e il dottore sono costretti a tornare sui loro passi. Il dr. Caligari ride.
IV Atto (37’- 48’40’’) – Mentre l’assassino dell’ultimo delitto nega in tutti i modi di essere il responsabile degli altri crimini Jane inizia a girare per la fiera alla ricerca del padre e di Francis. Giunge alla tende del dr. Caligari, entra, vede Cesare nella bara che dorme e fugge.
Francis, per nulla convinto, continua a girare intorno al carro del dr. Caligari e vede la bara aperta con dentro una figura che sembra Cesare dormiente.
Nello stesso momento però Cesare si reca, armato di un coltello, nella casa del medico con l’ordine di uccidere Jane. E’ già su di lei con il coltello pronto a colpire ma viene fermato dalla bellezza della giovane. Decide allora di rapirla. La trascina con se sui tetti della città e poi lungo ponti e sentieri rincorso sempre più da vicino da una pattuglia di inseguitori. Alla fine cede, abbandona Jane e poco dopo stramazza al suolo morto.
Jane riportata a casa dice a Francis che chi aveva attentato alla sua vita non era altri che Cesare.
V Atto (48’57’’- 63’30’’) – Francis assieme alla polizia si reca dal dr. Caligari che cerca di impedire il loro ingresso nel carro. I poliziotti estraggono la bara e aperta scoprono che dentro altro non c’è che un pupazzo.
Il dr. Caligari scappa inseguito da Francis e ripara in manicomio.
Francis parla con i medici e infine giunge nell’ufficio del direttore che altri non è che Caligari.
Francis sconvolto prima fugge, poi riesce a convincere gli altri medici a cercare di indagare fra le carte del direttore per tentare di risolvere il mistero. La notte mentre il direttore dorme entrano nel suo studio e scoprono un antico libro che parla di un certo dr. Caligari, un ciarlatano che in Italia nel 1703 era riuscito a subornare un sonnambulo utilizzandolo per le sue attività criminali. Poi scoprono anche il diario del direttore che lo collega in modo indubitabile con quel dr. Caligari che aveva la sua attrazione alla fiera. Infatti leggono che poco tempo prima era effettivamente stato portato nel manicomio un sonnambulo che poteva avere tutte le caratteristiche di Cesare e che aveva attratto l’attenzione del medico.
VI Atto (63’34’’- 74’) – Nello studio del direttore del manicomio sono riuniti assieme al direttore gli altri dottori e Francis. Viene portato un cadavere che scoperto risulta essere proprio quello del sonnambulo che ha impersonato Cesare. Il direttore cerca di sfuggire ma viene fermato e gli viene messa la camicia di forza.
Giungiamo così all’epilogo. Francis è seduto ancora sulla sedia nel giardino e assieme al suo compagno si avviano verso l’atrio del manicomio dove Francis vede quello che gli sembra essere Cesare, insieme a Jane e un’altra serie di altri malati. Già alterato vede scende le scale il direttore, che altri non è se non una nuova personificazione del dr. Caligari.
Francis dà in escandescenze e gli viene imposta la camicia di forza.
Il direttore lo guarda e sentenzia: «Mi crede il dr. Caligari, ora so come curarlo!»
PERCHE’ RIVEDERLO OGGI?
Perché vedere oggi, a un secolo dalla sua realizzazione, Il gabinetto del dr. Caligari?
Semplicemente perché ogni sua scena è in sé un’opera d’arte.
Sarei portato a dire che lo si deve vedere come se ci si immergesse in una serie di immagini che ci portano in una mostra d’arte virtuale, un esempio unico di arte espressionista, che ha al suo centro la scenografia, il gioco delle luci e delle ombre, il gioco delle didascalie, il movimento degli attori che è in genere particolarmente enfatizzato e costituisce in ogni momento un frammento dell’opera, all’interno di un tutto che è la scena in cui si muovono.
Nel Caligari nulla è lasciato al caso ed è proprio questo che ci deve spingere a fermare l’attenzione su ogni particolare, dalla rappresentazione del paesaggio, il villaggio di Hostenwall, fino alla modalità in cui ci vengono mostrati i singoli oggetti mossi sulla scena che hanno caratteristiche che non sono mai casuali. La loro deformazione, rispetto alle forme codificate che noi conosciamo, rappresenta un tentativo di edificare una specie di inedita poesia filmica.
Se è vero che l’espressionismo, pur in tutte le sue infinite variazioni, rappresenta un tentativo di “veicolare sensazioni ed esperienze primitive”, nel senso di originarie e semplici, allora nel Caligari si ha un continuo gioco fra diversi linguaggi che si sovrappongono e si compenetrano.
Insomma, i 74 minuti de Il gabinetto del dr. Caligari rappresentano a loro modo uno dei vertici dello sperimentalismo cinematografico e tali rimangono anche oggi.
Certo non si tratta di un film facile. Lo notava già Kracauer quando aggiungeva alla sua analisi: “Caligari è un film troppo intellettuale per diventare popolare in Germania”. Ed anche oggi per affrontarlo ci vuole una certa disponibilità a lasciarsi avvolgere dalle spire di un itinerario fantastico e insieme a suo modo tragico.
Ma un film è anche sempre una storia. Kracauer fonda quasi tutto il suo edificio analitico della cinematografia tedesca dalle origini al 1933 sull’assunto che questo sia un film “rivoluzionario”, un aspetto poi volontariamente messo sotto tono dal regista, che lo modifica ampiamente introducendo un prologo e un epilogo che nel testo originale non c’erano. Un film capace di veicolare un preciso messaggio, tanto che “il suo tema fondamentale – l’anima di fronte all’alternativa apparentemente inevitabile fra tirannia e caos – esercitò un fascino straordinario”.
Il messaggio, afferma Kracauer, è eminentemente politico e ha al suo centro la figura del dr. Caligari, abile manipolatore, vera e propria incarnazione del male, capace di sfruttare le debolezze umane per raggiungere i suoi fini criminali, distorcendo ogni valore e ogni principio, ed in più capace di risorgere, modificando parzialmente le sue forme, ed imponendosi sempre con il suo malvagio sorriso.
Facile allora è stato proporre un parallelo con Hitler, grande e tragico manipolatore che è riuscito a sottomettere a sé l’intera Germania grazie alle sue arti di demagogo. Ma è qui che il discorso di Kracauer non convince.
E’ certamente possibile che un medico riesca a manipolare la coscienza di un malato sfruttandone la debolezza, ma troppo facile è credere che il malato sia del tutto incapace di intende e di giudicare e non sappia proprio nulla; forse può amare lasciarsi cullare da fragili speranze, può cedere a momenti di debolezza, ma l’immagine del grande manipolatore appare davvero un poco forzata. Insomma, l’idea che Cesare possa essere del tutto incosciente e che possa rappresentare il popolo tedesco costretto, contro la sua volontà, a ridursi a carnefice e insieme vittima in una guerra che non è sua, appare davvero poco credibile.
Lo stesso discorso vale per il terreno della politica. Che Hitler potesse avere una grande personalità carismatica non vuol dire meccanicamente che il popolo tedesco fosse costituito solo da “volonterosi carnefici” incapaci di un proprio giudizio, buoni solo per servire. La figura di Hitler come politico è infinitamente più complessa per poter essere ridotta alla silhouette di un folle che guida una massa di irresponsabili. Non si può comprendere Hitler senza penetrare nella articolata e multiforme realtà socio-economica della sua epoca. Solo così emergono i suoi rapporti privilegiati con la classe dirigente, industriale e latifondista, post guglielmina e la sua capacità di ottenere il favore del ceto militare e nobiliare, che sono il risultato di un abile disegno politico che viene accettato perché razionalmente convincente e potenzialmente capace di dare alla Germania una collocazione nel contesto delle potenze mondiali capace di riparare ai presunti torti di Versailles. Insomma, partendo da questi presupposti ne esce un Hitler che nulla ha da spartire con Caligari, anche se forse è pur vero che ogni individuo e ogni popolo, in ogni momento della sua esistenza, è segnato da un continuo aut aut, di cui un corno è l’accettazione della subordinazione a un potere forte e l’altro la paura del caos, mentre il disegno di raggiungere un piano di vera libertà rimane sempre sullo sfondo, difficile da costruire, legato come è alla difficoltà di imparare a camminare diritti liberandosi da antichi e nuovi tutori.
Questo è però un discorso che nessun film può pienamente rappresentare.
L’INTERPRETAZIONE DI KRACAUER
Per Kracauer Il gabinetto del dr. Caligari rappresenta in qualche modo l’antefatto di tutta la successiva evoluzione del cinema tedesco fino all’affermarsi della cinematografia nazista. Per questo motivo dedica al film una lunga e approfondita analisi. Proviamo a sintetizzare.
Il discorso inizia con l’analisi del percorso dei due autori del testo, Hans Janowitz e Carl Mayer, entrambi a loro modo segnati dalla guerra, “Carl Mayer – afferma Kracauer – scoprì che quell’eccentrico giovane condivideva le sue idee e i suoi sentimenti rivoluzionari. Perché non esprimerli sullo schermo?” Di qui la stesura della prima sceneggiatura che risultava – si noti – priva sia del prologo sia dell’epilogo.
Per Kracauer: “questo racconto dell’orrore … era apertamente rivoluzionario … in esso avevano semintezionalmente stigmatizzato l’onnipotenza di un’autorità di Stato che si manifestava con la coscrizione universale e le dichiarazioni di guerra. Il governo di guerra tedesco pareva agli autori il prototipo di una simile vorace autorità … Il personaggio di Caligari personifica queste due tendenze: egli rappresenta l’autorità illimitata che idolatra il potere in quanto tale e, per soddisfare la sua smania di dominio, viola spietatamente ogni diritto e valore umano … avevano creato Cesare con il vago proposito di ritrarre l’uomo comune che … viene addestrato ad uccidere e a essere ucciso. Il significato rivoluzionario di questo racconto si manifesta apertamente alla fine quando si rivela che lo psichiatra è Caligari: la ragione vince le forze irrazionali e l’autorità insensata viene simbolicamente abolita”.
La logica del mercato ha fatto invece sì che venisse realizzata una modifica: “contro la quale i due autori protestarono violentemente … La storia originale narrava orrori reali: la versione di Wiene la trasforma in una allucinazione concepita e narrata dal pazzo Francis … Janowitz e Mayer avevano ragione di indignarsi contro la storia che fa da cornice: essa pervertiva se non addirittura capovolgeva le loro autentiche intenzioni. Mentre la storia originale metteva in risalto la follia insita nell’autorità, il Caligari di Wiene glorifica l’autorità e accusa di follia il suo antagonista. Un film rivoluzionario viene così trasformato in un film conformista …”.
Però Kracauer aggiungeva: “Pur trasformato in un film conformista, Caligari conservava e metteva in risalto questo racconto rivoluzionario, sia pure come fantasia di un pazzo. La sconfitta di Caligari rientrava così fra le esperienze psicologiche”.
Vi erano però altri aspetti del film che meritavano di essere segnalati, primo fra tutti l’uso degli scenari dati in appalto a tre pittori espressionisti. Uno di essi, Warm, affermava: “I film devono essere disegni destati alla vita” ed in effetti “gli scenari ottenevano una perfetta trasformazione degli oggetti materiali in decorazioni ad alta valenza emotiva”. Le stesse didascalie: “vennero introdotte come elemento essenziale dello scenario”.
Kracauer però aggiunge che “la versione di Wiene sconfessava il significato rivoluzionario della sceneggiatura espressionista, o per lo meno lo metteva tra parentesi”.
Carl Hauptmann, letterato e poeta, affermava che l’espressionismo era un “veicolo di sensazioni ed esperienze primitive. […] Mentre il linguaggio moderno è troppo snaturato per servire allo scopo, il film offre una possibilità unica di dar forma ai fermenti della vita interiore …” Kracauer aggiunge che in Caligari l’espressionismo aveva: “la funzione di far apparire i fenomeni che avvenivano sullo schermo come fenomeni della psiche, funzione che offuscava il suo valore rivoluzionario. Facendo del film una proiezione esterna di fatti psicologici la sceneggiatura espressionista simboleggiava il generale rinchiudersi nel guscio verificatosi nella Germania del dopoguerra.”
Questa la conclusione del discorso di Kracauer: “Il tema della tirannia, da cui gli autori erano ossessionati, pervade lo schermo dal principio alla fine … Caligari è il tipico precursore di Hitler in quanto usa il suo strumento ipnotico per piegare al suo volere il suo strumento, tecnica che ricorda, per contenuto e per scopo, il plagio che Hitler per primo esercitò su larga scala”. Né sembra esserci altra soluzione se aggiunge: “Che i due autori abbiano scelto la fiera con le sue libertà in contrasto con l’oppressione di Caligari tradisce la falla che incrina le loro aspirazioni rivoluzionarie. Per quanto aspirassero alla libertà, non erano evidentemente capaci di delinearne i contorni. La loro concezione ha qualcosa di zingaresco; sembra frutto di un ingenuo idealismo più che di un’autentica ricerca (S. Kracauer, Cinema tedesco, Mondadori, 1977, pag. 60-78).
Il prossimo film di cui vi suggerisco la visione, la cui scheda uscirà il 18 novembre, è:
Nosferatu di F. W. Murnau.
Come si diceva una volta:
“Buona visione”.
Si, il legame con la pittura e il teatro è in questo film imponente. Si potrebbe parlare di teatralità che appena appena si fa cinema. E la scenografia – con quelle porte trapezoidali e finestre storpiate, con quei pavimenti o quel sentiero espressionisticamente disegnati con segnacci a zig zag– è proprio fuori dai canoni naturalistici o veristi, è un fondale (onirico?)entro il quale si agitano i personaggi spesso ridotti ad ombre che si fondono e confondono con le altre ombre immobili delle pareti, dei pavimenti. La musica sembra bisbligliare proprio i trasalimenti dello spettatore.
L’interpretazione di Kracauer anche a me pare forzata e condizionata eccessivamente dall’incubo nazista che occupava forse la sua mente. La scarterei senza alcun pentimento.
Questa mi pare una fiaba che ha al centro il fascino e la paura della follia. E il regista gioca su questa ambivalenza. Non so dire se Wiene finisce per glorificare l’autorità. Sicuramente gioca un brutto scherzo all’investigatore (Francis) che incarna la ragione e si ritrova bloccato nella camicia di forza.
AGGIUNTA
Credo che qualche spunto di riflessione ulteriore sull’operazione sperimentale condotta da Wiene in questo film possano venire da queste parole di Bifo che ho letto ieri:
La poesia può essere definita come la sperimentazione di questo continuo scivolamento dei modelli semiotici. Ho detto che la poesia può essere definita? L’ho detto ma debbo ricredermi: in verità l’atto di definizione che ho appena compiuto è arbitrario e illecito perché la domanda “cos’è la poesia?” non ha risposta. Non posso dire cosa sia la poesia perché in effetti la poesia non è niente. Possiamo tentare di dire cosa fa il poeta. L’atto di comporre segni (visivi, linguistici, musicali e così via) può aprire uno spazio di significato che non esiste in natura né è fondato su una convenzione sociale. L’atto di linguaggio funzionale alla comunicazione si svolge grazie allo scambio di segni che hanno un significato convenzionalmente stabilito, un senso che ha le caratteristiche dell’inter-soggettività. L’atto poetico, invece, è l’emanazione di un flusso semiotico il cui significato non corrisponde ad alcuna convenzione prestabilita. Il significato nasce invece dalla condivisione di un ritmo, da una vibrazione comune che getta sul mondo la luce di un senso che non è garantito da alcuna convenzione.
(https://operavivamagazine.org/non-posso-respirare/?ct=t(RSS_EMAIL_CAMPAIGN)
P.s.
Avverto che per me le parole di Bifo da me stralciate vanno decontestualizzate dal resto dell’articolo e dalle tesi generali che in esso sostiene.
…ringrazio Giulio Toffoli per la segnalazione del film, da vedere come un’opera d’arte, e per la scheda…Si entra in uno spazio claustrofobico, dove interni ed esterni si distinguono poco perchè la luce piena non vi entra se non per raggiere sghembe, attraverso muri storti e finestre sbilenche. Gli alberi sono stilizzati e scheletriti, come le dita delle mani dei personaggi, sempre sbarrate o ad artiglio; dominano gli angoli acuti nelle forme, ad eccezione del fondale del salotto di Jane con motivi curvi, come seni. Un omaggio alla femminilità?..La ragazza è l’unica “salvata” dal sonnambulo, che in questo modo devia da un ordine perentorio del dott. Calligari, ma subito dopo muore…E’ vero che poi resuscita e l’intera sarabanda dei personaggi confluisce nel manicomio, dove tutto entra di nuovo nel caos delle possibilità, come la diaspora di direzioni che partono dal centro dello spazio antistante…Vedo il film anche come un viaggio nel corpo umano, con arterie, vene, vertebre, organi simulati in cartapesta, un labirinto inestricabile, dove operano mostri consapevoli e inconsapevoli, agenti di polizia, investigatori…E’ molto suggestivo