di Donato Salzarulo
1.- L’appuntamento è alle quattro del pomeriggio a casa di Franco. L’accompagnerò ad Avigliano per la prima presentazione pubblica del suo nuovo libro di poesie «L’infinito senza farci caso», uscito da Bompiani il 30 Ottobre. Con noi c’è anche Gerardo, un amico fotografo.
Sistemiamo sulla macchina un borsone e uno zaino di libri, ci accomodiamo e partiamo. Franco è alla guida e, mentre allaccia la cintura di sicurezza, scherza sulla pulizia interna del veicolo, non proprio scintillante. «Male», gli faccio, «un ipocondriaco dovrebbe prestare più attenzione a questa cosa…Sai quante malattie si possono prendere!…» «Ah, sì!… Allora domani mattina la faccio lavare».
Fuori piove, i tergicristalli vanno velocemente avanti e indietro, e imbocchiamo la strada per Avigliano. Andiamo per Calitri, poi facciamo un tratto di Ofantina verso Potenza, ad un certo punto tagliamo in direzione di Lagopesole e, infine…attiviamo il navigatore. Nessuno di noi conosce la strada. Franco c’è stato una sola volta, ma non ricorda bene. Io non ci sono mai stato e Gerardo neanche.
La voce femminile di google map ci scorazza su e giù per strade statali e provinciali. Immersi nel buio, a volte, temiamo di smarrirci. Quando intravediamo in alto la grande sagoma del castello di Lagopesole, il poeta riceve la telefonata di Angela, l’organizzatrice della serata. Ha messo il viva voce e sentiamo la conversazione. Stiamo procedendo bene, ci aspetteranno al primo distributore di benzina, all’ingresso del paese.
Cosa che avviene puntualmente verso le diciassette e trenta. Seguiamo la loro macchina e cinque minuti dopo parcheggiamo dietro la piazza principale, scendiamo, ci stringiamo la mano e facciamo le reciproche presentazioni. Conosciamo così Angela, Donatello e Giandomenico. Dietro di loro, scendendo per stradine scoscese e scalinate varie, ci ritroviamo in una piazzetta. Di fronte, in alto, attraverso le finestre, vediamo la grande sala illuminata di una Biblioteca. È la sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Avigliano. Lo stemma è rappresentato da due mani che si stringono nello spazio di due rami a corona: uno di castagno, mi pare, l’altro di quercia, legati da un fiocco da cui scende un cartello con la data di fondazione della Società 1874 e il disegno della bandiera italiana. Sotto si leggono le parole Solidarietà -Inclusione -Partecipazione.
I nostri amici amano il loro paese e sono generosi. Vorrebbero in pochi minuti metterci a parte delle conoscenze essenziali della loro storia locale. Così quando Franco accenna al banditismo post-unitario, ci spiegano che gli aviglianesi, è vero che diedero i natali a Ninco Nanco, uno dei capi più famosi del banditismo lucano insieme a Carmine Crocco, ma nel 1861 resistettero all’assedio dei banditi e li respinsero. Questo per dire che hanno una bella storia di partecipazione all’Unità d’Italia: contribuirono all’insurrezione lucana e liberarono la regione dai Borboni prima ancora dell’arrivo di Garibaldi…
Intanto saliamo nella sala della Società. Un rappresentante ci dice che ha 2.600 iscritti e che sono proprietari, se ho capito bene, di 4.000 loculi offerti ai soci gratuitamente e per venti anni…Franco non può trattenere le sue pulsioni tanatofile e si abbandona a una risata di gusto: «Bella, questa!… Una Società che si preoccupa della morte dei suoi soci, invece che della vita…». Il signore chiarisce: per i soci e i loro figli non fanno soltanto questo, erogano borse di studio e altre forme di aiuto…
Cambio discorso e chiedo il numero dei volumi della Biblioteca…Sono 12.000 e ci sono anche delle copie cinquecentine e seicentine. Poi il rappresentante tira fuori un voluminoso librone. È la raccolta di tutti i numeri dell’Espresso del 1955 con un memorabile articolo di Manlio Cancogni «CAPITALE CORROTTA = NAZIONE INFETTA». Ci sono anche quelle degli anni successivi, fino a quando la rivista abbandonò, nel 1974, il formato lenzuolo…
Gli amici ci invitano ad andar via. Prima di approdare nella sala “Andrea Claps”, luogo in cui si terrà l’incontro, vogliono farci vedere l’arco con gli angeli e lo squarcio di paesaggio fotografato sul finire del 1952 da Henri Cartier Bresson, durante la sua prima visita in Lucania. Li seguiamo volentieri. Giunti sul punto, tiriamo fuori gli smartphone e clicchiamo qualche foto. Sicuramente non diventeranno famose come quella in bianco e nero del celebre fotografo. Quindi, ci affrettiamo verso la sala dell’appuntamento. È molto grande e spaziosa. Ci sono un centinaio di sedie in semicircolo e due poltroncine in simil pelle per i relatori…
2. – Sono quasi le 18 e 30 quando Angela prende la parola per presentare Franco. La sala è stracolma. Ad occhio più di 150 persone silenziose ed attente. La presentatrice ringrazia il poeta per aver voluto rendere omaggio ad Avigliano cominciando proprio da questo luogo il suo tour di presentazione del nuovo libro. Ringrazia la Società Operaia per aver messo a disposizione la sala Claps. Ringrazia i tanti che si sono adoperati per la riuscita dell’incontro e annota velocemente alcune osservazioni sul profilo culturale del mio amico: «È il poeta più attivo sui social», dice, «diventati sempre più una piazza di insulti e brutture, piena di suggerimenti su come dobbiamo vestirci e su cosa dobbiamo mangiare…Arminio, invece, ci offre le sue pillole quotidiane di bellezza, pillole che sono diventate le nostre medicine, come quella in cui invita i giovani a tornare al Sud…» E, a questo punto, legge la poesia:
Una volta l’emigrante spediva i soldi a casa. I paesi sono pieni di case fatte coi soldi degli emigrati. Ora il giovane laureato che emigra a Milano si compra lì la casa coi soldi dei genitori oppure lavora solo per mangiare e pagare il fitto. L’emigrazione è un furto e i popoli costretti ad emigrare sono popoli derubati. Bisogna dirlo forte e chiaro ai ragazzi meridionali: tornate qui e buttate dalle scale i sindaci addormentati, chiedete ai governanti perché si muore due anni prima che al nord, chiedete perché non ci sono treni, chiedete perché non vengono fermati i criminali. Tornate presto, non pensate se è conveniente per la vostra vita, tornate qui per un moto di rabbia, tornate perché non state in un mondo più avanzato di quello che avete lasciato. Ecco, cominciate la grande migrazione al contrario: qui avete una casa vuota che vi aspetta, la casa che vostro nonno ha costruito coi soldi dell’emigrazione: voi qui potete accendere la vita, altrove al massimo potete tirare avanti solo la vostra vita.
Quando Angela finisce di leggere la poesia, un applauso scrosciante scoppia in sala. «È un messaggio di speranza», dice Silvana, che prende la parola subito dopo e che ringrazia accoratamente Franco per questi suoi versi.
Per quanto mi riguarda, so in quale momento nacquero: il giorno successivo alla relazione tenuta da Isaia Sales nel castello di Bisaccia, durante le giornate di “Altura festival” a fine luglio del 2018. Fu una relazione che impressionò notevolmente tutti noi.
Il paesologo, come spesso fa, tradusse in lampi di poesia i dati e i complessi ragionamenti del saggista e politico, facendone un tema-bandiera del suo impegno letterario e civile, ripreso in varie occasioni. L’ultima, a mia conoscenza, è stata quella di un’intervista a “La Repubblica” il 2 agosto 2019. Ne risultò, ricordo, un dibattito serio e lacerante con l’intervento di una giovane che avrebbe voluto praticare l’appello, ma proprio non le riusciva perché il Sud non è caratterizzato solo dalle case vuote, ma anche dalla mancanza di lavoro, dalla cattiva amministrazione, dalla malavita…
3. – «La poesia letta – comincia Franco nel suo intervento – mi ha fatto pensare alla necessità di organizzare una grande manifestazione nel Sud. Una manifestazione con le chitarre come quella organizzata in questi giorni in Cile, una manifestazione contro chi continua a dimenticare questi nostri luoghi e a non riconoscere quanto sia cresciuto in questi anni il dislivello col Nord…
La nostra è una terra attraversata storicamente da tantissimi popoli, una delle terre più belle al mondo. Dobbiamo smetterla di percepirci come un luogo non riuscito. Con la fine della modernità ogni luogo diventa centro…»
A questo punto, Franco legge due sue poesie: la prima ribadisce l’invito a tornare al proprio paese, un invito rivolto a chi è andato via, ma specialmente a chi è rimasto perché forse è via con la mente; la seconda insiste sul sentirsi a casa, sulla complicità, confidenza, fratellanza che si instaura col paese:
Torna al tuo paese, non c’è luogo più vasto. Torna, non devi fare altro. Se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Al tuo paese ogni finestra è la tua finestra, ogni strada è la tua strada. Non pensare a ciò che manca, accetta i suoi misteri: l’aria che respiri ti conosce, la luce ti fa le sue confidenze, ti è fratello ogni silenzio.
Riprende allora il suo discorso, un discorso ecologico, paesologico, culturalmente e civilmente impegnato tramato con le stesse movenze, a volte paradossali, contenute nel libro «Cedi la strada agli alberi» (Chiarelettere, 2017):
Ho perso i genitori ma il tiglio è ancora lì. Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro. I paesi contribuiscono poco all’inquinamento prodotto dal riscaldamento globale. Basta guardare la cartina geografica dell’inquinamento. La concentrazione massima è nella pianura padana e intorno alle città. Occorre ascoltare gli anziani, lasciare che parlino della loro vita. Salutare un vecchio non è gentilezza, è un progetto di sviluppo locale.
Il paese è un teatro in cui c’è uno scontro non dichiarato. Gli scoraggiatori militanti hanno dichiarato guerra ai sogni. Le storie in piazza, nelle case, per le strade erano la televisione di un tempo. La solitudine è risorsa e disagio. Una volta incontrai una vecchietta che parlava da sola. Mi disse che lo faceva perché aveva paura di perdere la lingua.
Dobbiamo avere un’alta considerazione di noi stessi e dei nostri luoghi. Rivendicare la centralità delle nostre terre e dei nostri paesi e delle nostre città: Avigliano, Padula, Potenza, Capri, Genzano, Cosenza, Napoli, Salerno non sono secondi a nessuno. Saluto con piacere il ritorno della geografia…
Ora il poeta si allontana dalla sedia, si sposta un po’ verso il centro della sala e s’inginocchia. Poi continua:
Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Dobbiamo riattivare il trascendente, diventare tutti restauratori del sacro…
Franco è indubbiamente un po’ istrione e teatrale. La sua è una performance in cui la lingua si fa corpo, gestualità, coinvolgimento. Questo prevede un momento in cui la “comunità provvisoria” costituitasi per l’occasione canti. La canzone scelta è “Azzurro”, poi vengono eseguiti due canti etnici e uno religioso. Ottimamente, devo dire. Ci sono tre o quattro donne abbastanza attive e con una bella voce…
4. – Ad inizio di serata Angela ha chiesto al mio amico di lasciare dello spazio ai giovani del collettivo poetico “Nulla Accademia”, che si riunisce da qualche mese in questi luoghi. Franco ha accettato senza problemi la proposta e, a questo punto della serata, ritiene che sia giunto il momento di dar loro la parola. Il primo a farlo è Nicola Sileo. Dice di aver letto «L’Italia profonda», un pamphlet che Arminio ha scritto con Giovanni Lindo Ferretti (Gog Edizioni 2019), ed è rimasto attratto da un sentimento esistente nell’Italia dell’entroterra, appenninica: da un lato la volontà di restare al passo con i centri metropolitani, dall’altro la tenacia del tener in vita vecchie usanze che potrebbero sembrare grottesche. È questo sentimento che insieme ad altri (di rabbia, di compassione, di pietà) ritrova un po’ in un suo poemetto, scritto due anni fa e che ora si appresta a leggere: «HINTERLAND». È un flusso di parecchi versi. Il primo mi colpisce come un pugno in un occhio: «La mia generazione si è rotta il cazzo di vivere nell’aria ristretta dell’hinterland […]».
Il secondo è Davide Di Bono. Prima di leggere la sua poesia, accenna ad un articolo di Franco che l’ha particolarmente colpito. È stato pubblicato sul «Corriere della Sera» del 24 luglio 2019 ed è stato attratto in modo speciale dal seguente brano: «Ci salveranno i semplici, già lo stanno facendo, si tratta solo di seguirli. Sono vicinissimi a noi, sono ovunque, ma non stanno al centro della scena. Il centro della scena è vuoto. Non c’è una persona, una disciplina, una scelta che può cambiare le sorti. Si tratta di cogliere lietezze provvisorie e di farle crescere, farle durare. […]». La poesia s’intitola «URLO LUCANO, URLO DI LENTEZZA»
«Sono figlio degli uomini chini anneriti dai campi e dal sole delle immense donne madri di mille figli e di mille fosse insomma sono figlio di chi i solchi li ha scavati sulla pelle. […]»
È una poesia tratta da «Resteranno i canti» (Bompiani, 2018) – «Il dolore che ti arriva / guardalo, lavalo, / tienilo con te. […]» – a originare il testo di Celeste Alberti. Non si parla soltanto di un dolore individuale, ma collettivo. «COSA TI STIAMO FACENDO, AMORE MIO?» si domanda ripetutamente l’Io poetante rivolto alla sua terra “ebbra di vino”, paragonata al grembo di sua madre.
È sul suo paese, su Sasso di Castalda che scrive Francesca Berillo, la quarta poetessa della serata. Il titolo della poesia è «PENSIER MIO». Il paese è personificato: «Quanto hai bruciato per me e quanto ti sei inondato di gente / paese mio che parla e non mente / profuma e all’occorrenza s’adorna […]». Afferma di essere stata ispirata dalla seguente poesia di Franco
CONSIGLI SEMPLICI
Per prima cosa attenzione al luogo, un pensiero che viene in un bosco è diverso da un pensiero che viene in ascensore. Disertare le chiacchiere quanto è più possibile, fanno sbiadire l'anima. Essere entusiasti di se stessi, ogni tanto. Procurarsi del tempo per visitare i dintorni. Sentirsi in pericolo e vivere sapendo che sei in pericolo. Rivelarsi, sanguinare, mostrare miserie non visibili a occhio nudo. Badare alla propria lingua. Capire che la questione non è farsi spazio nel mondo, ma sentire lo spirito che c'è in ogni spazio.
L’ultima a prendere la parola è Valeria Iannuzzi. Mi sono rimasti impressi questi versi:
«Sveglia! Stanotte avevo le palpitazioni e nelle pieghe delle mie lenzuola ho immaginato la rivoluzione: compagno, il mondo non è più oceano, è stagno, compagni stanchi nell'angolo piangono.»
Rivolta al poeta, dice di essersi ispirata a un suo articolo apparso su Nazione Indiana il 2 febbraio del 2007, un articolo intitolato «La mia cosmica rivoluzione», che cominciava così: «Voglio la rivoluzione, nient’altro che la rivoluzione. La voglio da me stesso, prima ancora che dal mondo. La voglio perché la furberia dolciastra e la scalmanata indifferenza hanno preso in mano i territori della parola e anche quelli del silenzio. Chi scrive viene tollerato a patto che rimanga nel recinto. Le sue ambizioni possono essere anche altissime, ma solo se vengono esercitate in luoghi millimetrici, invisibili. I fanatici della moderazione avanzano ovunque. In politica come in letteratura. […]». «La rivoluzione che lei vuole – continua Iannuzzi – è intima, personale, non sociale. È una rivoluzione che implica solitudine e un senso di disagio…Come vive questo senso di solitudine?…»
5. – Terminato l’intermezzo dei cinque poeti della “Nulla Accademia”, è proprio da quest’ultima domanda che Franco parte per riprendere il suo discorso:
Noi siamo in esilio. La solitudine è propria di questo animale che si chiama uomo. C’è qualcosa in noi che trova scandaloso tutto questo. Il mio è un dolore che combatte. L’inquietudine di cui sono portatore me l’hanno messa dentro mio padre e mia madre. In seconda elementare aprii la finestra e scappai fuori. Io mi sono seduto per la prima volta dopo i trent’anni. Andare in pizzeria per me era un tormento. Al cinema dopo il primo tempo uscivo. Occorre federare le nostre solitudini. Già se noi riuscissimo a svelare queste nostre ferite sarebbe un risultato grandioso. Da persona sbagliata mio padre riferendosi a me diceva: “dov’è il pazzo?…” Cara poesia, e quindi? Aiutami a riparare il vaso rotto. Anche oggi che ricevo tanti riconoscimenti, mi sento solo. Quando sto meglio, sto ancora più malinconico. Devi fare i conti con la tua natura. Kafka diceva: Che ti manca?… Non ho fatto il ’68, ma gli echi arrivarono anche al mio paese. In quarta elementare facemmo un manifesto contro le spalmate. Bisogna essere fedele alla propria natura…
La Lucania è una terra lirica. A Napoli fanno naturalmente teatro. Il luogo è fondamentale. A Bisaccia la tonalità è aggressiva. Il paese non ti aiuta. Sono comunità malate. Il suggerimento è di guardare questi posti in maniera delicata, ma dura. Abbiamo anche dei grandi difetti. L’umanesimo delle montagne nascerà da voi. Incrociare scrupolo e utopia, il computer e il pero selvatico. Abbiamo bisogno di una modernità plurale, di un uomo conviviale. Tutto ciò è una menzogna? E se anche lo fosse, è una menzogna in cui è utile credere. Conduci una vita migliore…Siamo i figli della Magna Grecia. Qua già si maneggiava il pensiero, quando gli altri facevano altro. La vera infrastruttura che manca in questo territorio è la fiducia. Ognuno diventa il racconto che fa di sé stesso. La nostra è una comunità bellissima. Dobbiamo saper unire poesia e impegno civile. La poesia che sta nella comunità…Chi ci impedisce di leggere poesia a tavola, prima di cominciare a mangiare, o di leggerla dal barbiere o al benzinaio?…
Il discorso di Franco è un flusso. Potrebbe continuare a lungo, ma di tanto in tanto si ferma per tener viva l’attenzione del pubblico in sala e dà volentieri la parola a chi la chiede.
È una signora a prenderla e vuole sapere da lui quale bilancio fa dei suoi anni, da quando ha pubblicato «Viaggio nel cratere» (Sironi, 2003) ad oggi, vuole sapere come è cambiata la situazione del Sud…
Per certi aspetti il Sud è peggiorato, risponde il poeta. I paesi si svuotano ed è aumentata la solitudine. È andato avanti un processo economico d’impoverimento. È cresciuta, però, una certa consapevolezza. Dobbiamo tornare nei centri storici, riabitare i nostri borghi. Dobbiamo superare l’autismo corale. “Fatevi i cazzi degli altri” potrebbe essere lo slogan. Fate esercizi di ammirazione…Per terminare la serata, lettura di qualche “cartolina dei morti”: «Sono morto alle sette del mattino. Un modo come un altro per cominciare la giornata.»
Prima di chiudere la serata, fra gli applausi, Franco ricorda di non aver letto neanche una poesia di quelle appena pubblicate nel libro «L’infinito senza farci caso»…Ma che fa?…Sarà per la prossima volta. Il pubblico intanto si mette in fila per comprarlo e farselo firmare dall’autore.
Verso le 21 ci spostiamo dalla sala Claps al ristorante Gagliardi. La specialità di Avigliano è il baccalà. Cucinato sapientemente ci viene offerto, in diversi piatti e varie ricette. Gli aviglianesi sono generosi e il mio amico, seduto accanto a me, in un tavolo centrale, anima il momento conviviale con alcuni brindisi di ammirazione per i presenti e per il luogo.
6. – Di ritorno da Avigliano, Gerardo sonnecchia dietro di noi. Franco, mentre guida prudentemente fra banchi di nebbia e strade spesso prive di linea bianca di mezzeria e catarifrangenti, dialoga con me. Proviamo a fare un bilancio della piacevole serata. Tutto bene. Peccato che il poeta, come lui stesso ha ammesso, non abbia letto neanche una poesia del suo nuovo libro. Il che ovviamente non significa che non l’abbia promosso. Nel borsone e nello zaino non ne è rimasta neanche una copia e, se ne avesse avute altre, sarebbero andate a ruba. Ma ha aiutato il suo pubblico a leggere il suo nuovo libro?… Gli ha suggerito tempi e modi di composizione?… Gli ha fornito eventuali chiavi interpretative?… Gli ha indicato l’originalità rispetto a raccolte di poesie d’amore di altri autori?…
«Chiaro che no…» mi risponde. «Ma chi è venuto ad ascoltarmi, non l’ha fatto per conoscere risposte a domande simili… Queste sono domande tradizionali… È un modo vecchio di porre le questioni…Occorre capire cos’è poesia e cosa è letteratura oggi…»
«Sì, ma mi sembra che tu abbia svolto un ruolo di supplenza politica…»
«Hai ragione. Ma cosa bisogna fare per mettere il ripopolamento dei paesi al centro dell’agenda politica?… Per modificare la percezione di un Sud miserevole e mal amministrato?… Per propagandare la bellezza dei nostri luoghi?…Per restaurare il sacro nella vita quotidiana?…».
Andiamo avanti così a lungo, per tutta la durata del viaggio di ritorno. Quando arriviamo, verso l’una di notte, Bisaccia è immersa in una nebbia rada. Tante e tante goccioline sospese.
Forse una nuvola 2.0, una nuvola digitale.
Novembre 2019
APPENDICE: TESTI DEI POETI LUCANI INCONTRATI AD AVIGLIANO IL 1° NOVEMBRE 2019 NICOLA SILEO HINTERLAND La mia generazione si è rotta il cazzo di vivere nell’aria ristretta dell’hinterland di gioire per ogni minima stupida pseudo-oasi nel deserto del nulla come miraggi e allucinazioni in questa normale distesa di carta da parati si è rotta di progettare rivoluzioni che non avranno mai luogo di protestare contro abusi di potere e ostruzionismo quotidiano di emanare odori che nessuno sentirà mai e di aspettare la luce del Sole come se fosse nuovo e pulito ogni giorno del terzo millennio. li ho visti con i miei occhi i nativi di questa era trasparente parlare farfugliando briciole di citazioni inappropriate ai contesti li ho ascoltati piangere senza versare una lacrima dai loro occhi liquidi come i ruscelli affollati dai parassiti del petrolio li ho sentiti succhiare il sangue dei libri senza mai averli letti li ho toccati senza poterli sfiorare questi orrendi germogli nati per sbaglio nella nuova preistoria della morte del cosmo lasciarsi andare in sospiri di sollievo e ubriacarsi con roba scadente senza nemmeno più il guasto di ribellarsi a un padre malvagio fumare il tabacco amaro delle loro noie da colmare leccarsi le ferite come i cani nel loro buco di culo di quartiere lasciati a se stessi in un lungo corridoio di un edificio fatiscente lasciare le proprie terre in cerca di nuovi cieli da navigare di nuovi sogni da avere al di fuori dell’hinterland nativo essere qualcun altro che non sia lo specchio del loro essere inconsapevolmente assessori del loro balordo micro-cosmo gente divorarsi il talento per paura della sua stessa rivelazione preferire ammuffire dietro un pallido vetro temperato smettere di cercare lavoro per spacciare trecce di aghi di pino e vivere da fenomeni un giorno e mezzo per la gloria al di fuori dell’hinterland per guardarci meglio in faccia con la realtà migliore del mondo ma non c’è realtà più sincera di questa nullificante periferia di questa grande distesa di anime e pecore e pastori e panni stesi di amori banali e credenze popolari e piante rare e commestibili di marche da discount e banconote di piccolo taglio di storie di coraggio e film che sembrano meravigliosi mostrando la parte meno reale del mondo per far credere che fuggire da qui sia la cosa migliore! ma l’anima dell’hinterland non lascia i suoi cadaverici abitanti neanche nella più lontana delle migrazioni: eccoli lì poeti e contadini e pastori mitologici di questa terra attraversare nuvole e nuvole di tempo e fermarsi: uno si distrae al bivio e non riconosce il cielo in cui è cresciuto e l’altro guarda il borgo in mezzo ai monti e a gomitoli di nebbia. Rocco si alzerebbe in mezzo al cielo all’ilare tempo della sera ad aspettare l’alba nuova della fine e piangerebbe lacrime dure sulle pale eoliche crocifiggerebbe tutti gli uomini grigi piccoli sigari umani ladri di tempo e vita e salute e lavoro Si aggirano forme di vita sconosciute nell’umanità recente che vive lo scontro con l’anziano spirito nazionalpopolare e le sue aspre rivendicazioni di aver fondato un’epoca È la mia generazione affrancata ma forte delle chiavi delle stelle perché epica più grande non esiste dello smarrimento e della guerra continua col sole offuscato da eliche giganti contro i laghi della morte e contro amministrazioni animali. Perché chi nasce nell’hinterland muore nell’hinterland e ama l’hinterland come un padre anziano che non sa che suo figlio è andato oltre la periferia della sua stessa gracile vita. DAVIDE DI BONO URLO LUCANO, URLO DI LENTEZZA (di Davide Di Bono) Sono figlio degli uomini chini anneriti dai campi e dal sole delle immense donne madri di mille figli e di mille fosse insomma sono figlio di chi i solchi li ha scavati sulla pelle. Sono figlio del bracciante, del mastro, del povero, di un ubriaco sono figlio del prete, della masciara, di chi dalla guerra non è più tornato. E la mia notte odora di terra, di paglia, di legna bagnata di stalla, di spifferi di fuoco... di corredo, di una cassettiera di un sudore atavico, della pietra fredda e di un fiore di campo di un vestito della festa logorato dal mio tempo. E mi immergo in ninne nanne e lamentazioni inizio e fine di un dolore chiamato vita che non vuole affrancarmi dal peso di questa terra alluvionata e arsa di lentezza. La lentezza non è pigrizia è lasciare che il tempo ti stia un passo avanti per poter vivere ciò che lascia indietro e non torna. La lentezza non è perdita è contatto, contratto di sopportazione con la Natura per conoscerla e reciprocamente rispettarsi. La lentezza non è scomparsa è trasformazione in altro transustanziazione visibile degli elementi creazione anticipata di futuro digestione maniacale d’infinito. La lentezza non è abbandono anche se ci fa sentire soli (ma se sto usando il plurale non lo siamo) è controllo senza pressione del tempo che passa e dello spazio che crolla. Quello che crediamo dorma non è morto né moribondo ma sta cambiando. Tratteniamolo come una spugna e spremiamolo per curare l’affanno del mondo o, più che altro, dell’uomo. CELESTE ALBERTI Cosa ti stiamo facendo, amore mio? Se sulle tue colline poso l’orecchio sento affievolirsi il battito posso udirti gridare nello strepitio di mille bocche urlanti e vorrei lanciarmi su questa terra ebbra di vino come quando mi rannicchiavo sul grembo di mia madre. Se delle tue acque mi bagno il viso posso vedervi disciolto il tuo sangue e le tue lacrime nero petrolio. Se nell’aere annaspo sento l’odore delle tue pene sento l’odore di quella sorte che ci ha rubato le fragole, le viti, le carpe. Cosa ti stiamo facendo, amore mio? Stanno sparendo i mandorli che avevi sulle ciglia e non vedo più petali sparsi nel verde come coriandoli ma vedo solo ali secche di farfalle morte cucite insieme su terra arsa e roccia nuda ma tu sei così fragile così bella madre mia che al passare dei giorni più non ricordo quale sia stata la prima volta che m’innamorai di te. Cosa ti stiamo facendo? Cosa ti stiamo facendo, amore mio? FRANCESCA BERILLO PENSIER MIO M'avevi tolto il sonno e dato la fatica e dato l'orgoglio e tolto il lamento M'avevi rincuorato e dato il tormento se da lontano ti facevo cenno e da te non mi ero fermato. Perdonami se ti ho amato poco, ma assai ti ho sognato forse un po’ diverso ti volevo e tra me e me dicevo: "Pensier mio vago tu non andrai da nessuna parte oltre l'autunno di queste carte spiegazzate nel camino nella brace". Quanto hai bruciato per me e quanto ti sei inondato di gente paese mio che parla e non mente profuma e all'occorrenza s'adorna e il giorno innanzi s'adombra perché la notte scende sempre dopo il dì di festa e se davvero la grazia mia è questa d'esser nato qui eppure sono in pericolo perché qui posso sognare e non posso essere posso credere e non posso diventare. Ma tra me e me dico sempre: "pensier mio vago se io non fossi nato qui non t'avrei mai pensato" VALERIA IANNUZZI Con tutta l'ansia che non ti so dire potremo insieme vivere e morire. Mogano e le sue schegge un chiodo e batte la possibilità d'azione non posso batterti o abbattermi mi han detto: "sei giovane, ritenta più in là!" Felicità, il più e il meno il desiderio e la sua negazione la calamita tra le mie dita nemica, io come tento la negoziazione poi perdo il conto di ogni mia azione e mi sale al cuore l'agitazione già dal primo sole ancora prima, fino al cordone Adamo ed Eva e quella ribellione e che ci serva tutto da lezione. Ma tu sei in grado di capire se sogni ancora a colazione? Sveglia! Stanotte avevo le palpitazioni e nelle pieghe delle mie lenzuola ho immaginato la rivoluzione: compagno, il mondo non è più oceano, è stagno, compagni stanchi nell'angolo piangono. Oggi la luna è marcia ma riesce a fecondare il mio ventre asciutto: un dono, è un frutto e il lutto è capire che con tutta quest'ansia di nascere io non so più né vivere né morire.
Ringrazio Salzarulo per questo testo fresco e brillante su una serata che sarà stata sicuramente speciale ricca di incontri e di emozioni, la poesia salva la vita? Forse. È tuttavia avvolta nella nebbia come metaforicamente si legge nei passaggi del testo. Perché non si conosce completamente la Poesia se non si studia a fondo e non ci si sacrifica realmente per lei donandosi completamente. Altrimenti si rischia di fare il tour della Poesia senza capire realmente cosa significhi scrivere poesie. In un mondo in cui tutti pensano di sapere e poter fare ogni cosa ( basta seguire un tutorial video su fb) le domande che chiudono il testo dovrebbe tenerle in mente chi voglia scrivere poesie e lasciare una traccia significativa. Ho apprezzato le poesie degli autori di Avigliano è bello che sia stato lasciato uno spazio anche per loro. Il testo di Salzarulo ha uno stile ironico e gentile la sua impronta stilistica rende sempre la lettura scorrevole e cantabile.
PER PRENDERE SUL SERIO LE ASPETTATIVE (MEZZO CHIARE E MEZZO OSCURE…) CHE VENGONO DAL SUD DELL’ITALIA: DALL’ULTIMO LIBRO DI FRANCO ARMINIO, DAI GIOVANI E DALLE GIOVANI CHE HANNO LETTO LE LORO POESIE AD AVIGLIANO, DA DONATO [SALZARULO] CHE HA BEN RACCONTATO L’AVVENIMENTO
Partirei da qui:
«Sì, ma mi sembra che tu abbia svolto un ruolo di supplenza politica…»
«Hai ragione. Ma cosa bisogna fare per mettere il ripopolamento dei paesi al centro dell’agenda politica?… Per modificare la percezione di un Sud miserevole e mal amministrato?… Per propagandare la bellezza dei nostri luoghi?…Per restaurare il sacro nella vita quotidiana?…».
E risponderei:
1. bisogna trovare il coraggio di conoscere il mondo mutato e noi stessi che siamotati con esso: sia se siamo rimasti al Sud sia se siamo emigrati al Nord o in Europa o in altri continenti (*).
2. ripartire da una riflessione a tutto campo sulla cosiddetta “questione meridionale”.
Nel novembre 2007 dedicammo il n. 3 di Poliscritture proprio ad essa (gli aricoli o l’interno numero in PDF può essere scaricato qui: https://www.poliscritture.it/la-rivista-in-pdf/).
Non so se sia possibile ristabilire nuovamente il confronto approfondito di allora tra chi abitava al nord e chi al sud d’Italia. O – se fosse possibile – anche con altri emigrati in Europa o altrove. Ma è giusto e saggio ritentare.
(*)
In una mia poesia di «Salernitudine» (2003) avevo scritto:
Emigrare è conoscere dalla parte delirante del celeste
l’oscuro schianto del comune presepe.
Voi, i rimasti, dalla parte interrata
ne soffrite lo stesso l’agonia.
Per Giulia: la ringrazio per i giudizi positivi su questo mio resoconto, abbastanza fedele, di una serata trascorsa al seguito di Franco Arminio. Non capisco a chi si riferisca quando scrive: «Perché non si conosce completamente la Poesia se non si studia a fondo e non ci si sacrifica realmente per lei donandosi completamente. Altrimenti si rischia di fare il tour della Poesia senza capire realmente cosa significhi scrivere poesie». Se si riferisce al mio amico poeta sbaglia. Arminio ha un talento poetico indubitabile, si è dedicato a questa attività da una vita e fa i necessari sacrifici. Se poi intende che l’obiettivo o gli obiettivi della serata non siano stati quelli di incrementare la consapevolezza del pubblico su “cosa significhi scrivere poesie” probabilmente ha ragione. Ma, come direbbe Arminio, non è questo che il suo pubblico gli chiede. Chi va a queste serate è interessato al “discorso” di Arminio: un “discorso” fatto di poesia, ma non privo di politicità, eticità, religiosità, cultura, impegno civile, ecc. L’amore, la morte, il paese e la paesologia: questi sono i temi di Arminio. Forse occorrerebbe discutere di questo.
Per Ennio: Sono d’accordo con la necessità di «ripartire da una riflessione a tutto campo sulla cosiddetta “questione meridionale”»… In questa “riflessione a tutto campo” non può non trovare posto il lavoro di Arminio, sia come lavoro specificamente poetico che come animatore e organizzatore culturale (festival di Cairano, Aliano, ecc. ). L’Arminio performer che anima serate come quelle sopra descritte che tipo di intellettuale è?… Egli tiene sicuramente conto dei mutamenti indotti nel panorama culturale dall’uso dei social, ma, se lo esprime, quale potenziale critico esprime?…Quale valenza letteraria e politico-culturale ha il suo fare versi e prosa e il suo tramare concetti e pensieri ecologici, paesologici, sociologici, più o meno religiosi, ecc.?…Ecco, occorrerebbe sforzarsi di rispondere a interrogativi simili.
Nessun riferimento al poeta in questione. Il mio commento era riferito alla tendenza contemporanea legata ad una mancanza di studio in generale Non era riferito alla poetica di Arminio che non conosco.
…ringrazio anch’io Donato Salzarulo per la vivace e dettagliata relazione del suo incontro con il poeta Franco Arminio e con la comunità di Avigliano e dei suoi giovani poeti. Sono stata colpita dalle poesie- appelli , quasi suppliche, rivolti ai migranti a fare ritorno nei paesi abbandonati del Sud e li comprendo. Parlano di spazi e luoghi del cuore, dove le persone hanno vissute le loro infanzie…dove tutto è davvero “tuo”, mentre lontano, in esilio, paghi un maggior benessere respirando mortifere polveri e nebbie…Ed è così, è vero, ma anche la mancanza di prospettive di lavoro accorcia la vita, credo. Insomma un discorso bello e accorato ma più che ai singoli, i quali certo non affrontano la migrazione a cuor leggero, dovrebbe essere rivolto alle autorità o anche alle associazioni non mafiose, per un recupero delle risorse locali. A remare contro oggi è anche un tipo di pubblicità che incoraggia ben poco i giovani ad inserirsi in attività del settore terziario, tradizionali, anche con innovazioni…E ciò li fa sentire “vecchi”, fuori dal tempo presente…Così siamo arrivati un po’ tutti, chi è migrato e chi e rimasto, in un luogo-non luogo di terre di mezzo, di frontiera…Fatto di code dolorose di ricordi, di spazi provvisori (lavoro, casa, paesi diversi), precari adattamenti o disadattamenti…Una società che crea forti divari difficili da colmare e fughe…anche tra continenti
Cara Annamaria, hai pienamente ragione. Come accenno, infatti, nel mio resoconto la poesia letta da Angela con l’invito a tornare al paese (e al Sud) insieme ad un’intervista che Arminio diede a “La Repubblica” il 2 agosto del 2019 suscitò un serio e lacerante dibattito. Il sugo è questo: Valentina De Luca, una giovane restauratrice di Caserta, raccontò in una lunga e accorata lettera al quotidiano (chi vuole leggerla la trova facilmente in Rete) di aver resistito fino a 29 anni e di essere stata poi costretta a partire per Berlino. Provò a tornare al Sud, ma fu un fallimento e, quindi, rifece marcia indietro a Berlino…«Tornare al Sud? Se non hai un patrimonio o un capitale da investire, se non conosci le persone giuste e se non hai almeno una casa di proprietà, è praticamente impossibile».
In una successiva intervista Arminio le rispose di nutrire il massimo rispetto per la sua storia e per le sue ragioni, ma che il Sud non è solo inferno. E all’intervistatore che gli chiedeva come uscire dal circolo vizioso rispose così: «Sono un poeta, non un politico. Però vedo questi ragazzi, come Valentina e mille altri, che sono maledettamente in gamba. La loro emigrazione ci impoverisce due volte, togliendoci quello che noi stessi avevamo allevato. Non commettiamo l’errore di litigare fra di noi, perché su questo ha avuto gioco facile la Lega, che ha portato avanti una lotta di classe alla rovescia, dei più ricchi contro i più poveri. Sogno un’alleanza tra intellettuali e giovani. Quelli che sono ancora qua. E quelli che hanno ancora la voglia di tornare».
In pratica, dopo aver lanciato politicamente e culturalmente un sasso nello stagno, invece di continuare a porre la questione politica e culturale del Mezzogiorno approfondendo l’analisi, individuando meglio amici e nemici, livelli di responsabilità, torti e ragioni, Arminio sembra rifugiarsi nel proprio essere poeta. Di fronte all’impoverimento che il Sud subisce, invita correttamente a non “commettere l’errore di litigare tra di noi”, ma poi si abbandona al “sogno di un’alleanza tra intellettuali e giovani”…Intellettuali quali?…Dove collocati?…Impegnati in quali attività?…Lo so. Sono domande che per ricevere risposte richiedono tempi lunghi di riflessione; tempi, purtroppo, non contemplati dal consumismo dell’attuale comunicazione culturale.
« In questa “riflessione a tutto campo” non può non trovare posto il lavoro di Arminio, sia come lavoro specificamente poetico che come animatore e organizzatore culturale (festival di Cairano, Aliano, ecc. ). L’Arminio performer che anima serate come quelle sopra descritte che tipo di intellettuale è?… Egli tiene sicuramente conto dei mutamenti indotti nel panorama culturale dall’uso dei social, ma, se lo esprime, quale potenziale critico esprime?…Quale valenza letteraria e politico-culturale ha il suo fare versi e prosa e il suo tramare concetti e pensieri ecologici, paesologici, sociologici, più o meno religiosi, ecc.?…Ecco, occorrerebbe sforzarsi di rispondere a interrogativi simili» (Donato Salzarulo).
Caro Donato,
vado subito al nocciolo. Da quando, tramite te, ho conosciuto Franco Arminio e cominciato poi a leggere suoi testi (poetici e narrativi) o a seguire le sue molteplici attività di animatore e organizzatore attivo in Irpinia e non solo e anche sui social, mi sono proprio sforzato di rispondere a interrogativi come quelli che poni. Lo possono confermare i miei commenti lasciati sotto i numerosi post che Arminio ha pubblicato su «Le parole e le cose» almeno dal 2011 al 2014; e le repliche e controrepliche spesso ispide (mie e sue). Malgrado la stima che ho per il valore della sua scrittura e la simpatia umana che mi suscita, perché dissento da lui e dal suo «potenziale critico»? Risponderei così: per le notevoli e non conciliabili differenze culturali, politiche e generazionali tra noi. Non voglio rinvangare vecchie cose e sono pronto, se Arminio l’accettasse, a riaprire il confronto con lui. Per ora parto dagli spunti che hai suggerito, e provo sinteticamente a dire la mia opinione sul suo lavoro:
1.
Le attività di Arminio (poeta e narratore; performer, animatore e organizzatore politico e culturale) hanno per me una caratteristica: nascono da una sua visione del mondo antimoderna, non conflittuale, bella e radicaleggiante nella scelta delle parole ma in fondo generica e conciliante (se si vuole: “civilmente conciliante”). Certamente a moltissimi e moltissime oggi la sua poesia e il suo modo di fare cultura piacciono. E, da mio punto di vista, questo va considerato un problema in più, non un dato di fatto al quale inchinarsi, se non si passa per invidiosi. Anzi non voglio nascondere neppure un altro fatto; e, schiettamente, aggiungo: l’ascolto ottenuto da me o da Poliscritture è minimo rispetto a quello conquistato da Arminio. Lui negli ultimi anni ha avuto un buon successo ed è abbastanza noto; io o noi di Poliscritture no, siamo rimasti ignoti, ininfluenti e marginali.
2.
Come mi spiego questo suo buon successo e l’insuccesso mio o nostro? Risponderei così: io e, con varietà d’accenti, la redazione di Poliscritture, attiva come gruppo fino all’aprile del 2018, abbiamo fatto cultura senza cancellare la “nostra” pur problematica e tragica storia (degli anni Settanta e della tradizione socialista e comunista), Arminio e quasi tutti quelli della sua generazione, che oggi scrivono lit-blog molto seguiti, come Doppio zero o Le parole e le cose, o vengono intervistati a RAI 3 oppure sono promotori (pagati) di festival organizzati da amministrazioni “di sinistra” (come Rondoni ed altri promuovono festival che omaggiano Salvini e la “destra”), hanno avuto un atteggiamento – vogliamo chiamarlo “diversamente critico”? – di rifiuto o di cancellazione (disinvolta, secondo me) di quella storia. Noi ci siamo affannati ancora attorno al dilemma «rifondazione o esodo» (continuità o discontinuità). Arminio e gli altri, invece, si sono mossi in un’altra logica, empirica e individualistica.
3.
Se leggo, con i concetti e i valori che ho derivato dalla “nostra” storia, quest’ultimo «Manifesto delle intimità provvisorie», tratto da «L’infinito senza farci caso», pubblicato da un editore importante come Bompiani ( https://www.doppiozero.com/materiali/un-appunto-e-un-manifesto ), posso fare solo le seguenti osservazioni:
– sulla poesia dice cose che cercano di piacere ai lettori senza dispiacere (troppo) ai poeti (i colleghi);
– parla di poesia come «nutrimento intellettuale o emotivo», ma privilegia poi esclusivamente l’emotivo («oggi la poesia si trova nel cuore di chi legge più che nel cuore di chi scrive»);
– afferma che non si può definire la poesia; ma poi espone la sua idea (romantica, secondo me) di poesia: «La poesia, cioè l’arte di cantare la bellezza e il terrore di essere al mondo». (È molto lontano, non voglio dire agli antipodi, dalla mia visione della poesia, sulla quale tentammo di discutere in Poliscritture: https://www.poliscritture.it/2017/02/22/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano-abbastanza/ );
– dà una definizione riduttiva della Rete: «è un gigantesco arcipelago porno»; ed, evitando un’analisi dell’uso politico della medesima, pone un obiettivo limitato: «disciplinare in qualche modo l’uso del porno», perché a dominare sarebbero «l’ipocrisia» e «un certo moralismo» ( e non gli interessi economici e politici e di controllo degli utenti?);
– è attento sempre al “sentimentale” e quasi mai alle condizioni materiali della vita sociale: «Sono cambiate le nostre esigenze di natura sentimentale, ma restiamo dentro le stesse formule»;
– inneggia ad una generica religione dell’amore: «L’amore è la religione che ha per altare i nostri corpi, è il nostro contributo alla festa di essere al mondo», una sorta di panacea dei mali del mondo («L’amore è l’unico modo per uscire dalla galera dell’attualità»).
4.
L’antimodernità a me pare si presenti in Arminio soprattutto come nostalgia del passato e volontà di accantonare i conflitti, che la modernità ha svelato e che potrebbero, malgrado la sconfitta dell’ipotesi socialista e comunista, ancora servire alla costruzione di una nuova forma di civiltà e non alla distruzione di quella esistente. Ma, per un antintellettualismo forse istintivo (e molto meridionale?) Arminio rifiuta di esplorare le cose e le persone anche a livello della ragione. Non vuole affrontare il passaggio (fortiniano) «di pianto in ragione»”. Quanto lontane, dunque, le sue parole, pur belle e radicali, da quelle che Fortini fece scrivere sulla copertina di «Extrema ratio» (1990): «La storia è andata così, la vita anche. Mutare il ribrezzo in lucidità. La speranza in certezza. E in impazienza».
5.
Non credo che le idee di Arminio sulla poesia o la Rete o sulll’amore rispondano a bisogni di vera e piena libertà. Né a quelli della giovane, che citi nel tuo resoconto e «che avrebbe voluto praticare l’appello, ma proprio non le riusciva perché il Sud non è caratterizzato solo dalle case vuote, ma anche dalla mancanza di lavoro, dalla cattiva amministrazione, dalla malavita». Né mi sembra che il suo «discorso ecologico, paesologico, culturalmente e civilmente impegnato» sia in grado di affrontare i problemi posti, anche ai giovani del Sud che lo seguono e l’ammirano, dall’ascesa di Salvini, dai sovranismi, dalla paralisi dell’Europa, dai conflitti geopolitici che si addensano a livello mondiale, dalla crisi dell’Occidente. È un discorso meno peggio di quelli dei Rondoni, dei Feltri, della “destra”ecc.? Può darsi. Eppure né io che sono vecchio né – spero – la ragazza da te nominata possiamo accontentarci di un poesia e di uno scrittore che invita all’accettazione di suggestivi “misteri” («Non pensare a ciò che manca,/ accetta i suoi misteri: l’aria che respiri/ ti conosce,/ la luce ti fa le sue confidenze,/ ti è fratello ogni silenzio»). O alla restaurazione acritica del “sacro” («Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro»; «Dobbiamo riattivare il trascendente, diventare tutti restauratori del sacro…»). O svaluta il problema di distinguere verità da menzogna («Tutto ciò è una menzogna? E se anche lo fosse, è una menzogna in cui è utile credere. »). Non vorrei proprio che ci abituassimo, come dice l’altra lettrice di Arminio che sempre tu citi, a queste «pillole quotidiane di bellezza, pillole che sono diventate le nostre medicine». La poesia non può ridursi a medicinale. E neppure alla «sporca religione dei poeti».
Ho finito. Ora ditemi voi come la vedete.
SEGNALAZIONE
Nel precedente commento sul lavoro di Franco Arminio ho sfiorato i concetti di ‘romanticismo’ («ma poi espone la sua idea (romantica, secondo me) di poesia») e di ‘modernità’/‘ antimodernità’ («Le attività di Arminio (poeta e narratore; performer, animatore e organizzatore politico e culturale) hanno per me una caratteristica: nascono da una sua visione del mondo antimoderna, non conflittuale, bella e radicaleggiante nella scelta delle parole ma in fondo generica e conciliante (se si vuole: “civilmente conciliante”)»; «L’antimodernità a me pare si presenti in Arminio soprattutto come nostalgia del passato e volontà di accantonare i conflitti, che la modernità ha svelato e che potrebbero, malgrado la sconfitta dell’ipotesi socialista e comunista, ancora servire alla costruzione di una nuova forma di civiltà e non alla distruzione di quella esistente.»).
Per un approfondimento senza steccati o schemi rigidi di questi concetti presenti nel lavoro di Arminio, possono servire questi spunti che ho trovato oggi leggendo la seconda parte dell’intervista di Paolo Costa al sociologo Harthmut Rosa su “Le parole e le cose” (http://www.leparoleelecose.it/?p=36959 ):
1. Romanticismo
Tutto dipende da che cosa si intende per Romanticismo. C’è un uso del termine che ne fa il sinonimo di una forma mentis ingenua, sentimentale o nostalgica. In questo senso non mi sento un romantico e nego risolutamente che la mia teoria lo sia anche solo vagamente. Taylor, però, ha in mente qualcosa di più sofisticato quando rivendica questo tipo di discendenza intellettuale. Qui le nostre posizioni si riavvicinano. In effetti, la tradizione romantica, tanto nell’arte quanto nel pensiero, ha recuperato qualcosa che le correnti più intellettualistiche del razionalismo seicentesco e dell’illuminismo avevano accantonato. Il problema sta proprio in questo unilateralismo. Nessuno nega che la capacità di distanziarsi dalla natura, di metterla bene a fuoco e scovare gli strumenti per controllarla, per padroneggiare la contingenza e i rischi che ne derivano, sia utile, addirittura indispensabile. Un atteggiamento manipolativo verso la realtà è presente in ogni cultura umana. Contro l’unilateralismo del razionalismo illuminista, i romantici hanno articolato però l’idea che oltre agli sforzi di autodeterminazione esistano anche degli assi di risonanza: che l’arte, la natura, l’amore, la religione, siano ambiti importanti della vita dove entriamo in contatto con fonti dell’esperienza che non ammettono l’assunzione di un atteggiamento strumentale o manipolativo. Taylor stesso, in un saggio dedicato proprio al tema della risonanza, ha insistito sull’intuizione filosoficamente più preziosa del romanticismo: l’idea cioè che gli esseri umani, attraverso le loro capacità poetico-espressive contribuiscano a far emergere un senso autentico dall’esperienza. Un senso, quindi, che non è né totalmente sotto il controllo del soggetto né totalmente indisponibile. Questa è l’idea romantica della «co-creazione»: un’intuizione ancora oggi molto preziosa. E non c’è dubbio che questa intuizione sia la stessa a cui ho cercato di dare una veste teorica nel mio libro sulla risonanza. La «risonanza» è proprio il luogo mediano, sorgivo, i cui poli inseparabili sono il soggetto e l’oggetto.
2. Modernità/antimodernità
2.1.
Se capisco bene, quindi condividi anche tu una visione non monistica, dialettica, della modernità, l’idea, cioè, che la modernità sia già molteplice anche in Occidente e non solo nelle sue varie manifestazioni a livello globale?
Questo è un punto importante e di comprensione non immediata. Vediamo se riesco a spiegarmi bene, perché credo – o quantomeno spero – di avere dato un contributo originale al dibattito sulle «multiple modernities» a partire da un mio particolare sentimento di frustrazione, se non vera e propria insofferenza verso il carattere ancora etnocentrico e tutt’altro che neutrale del concetto stesso di modernità multiple.[*] Ho il sospetto, infatti, che i pensatori che hanno seguito Shmuel Eisenstadt su questo terreno hanno continuato a considerare la modernità occidentale come il fenomeno prototipico e le altre modernità come dei modelli per così dire derivati. Da questo punto di vista, io sposo invece una visione monista e avalutativa della modernità. «Moderne», come ho sostenuto sopra, sono quelle società che funzionano in una condizione di stabilizzazione dinamica. E questa logica la troviamo all’opera tanto in Cina, quanto in Brasile, o in Italia, Giappone, USA, ecc. Diciamo che qui incontriamo la struttura basilare, minimale, trasversale del fenomeno storico che siamo soliti definire «modernità». Poi, certo, esiste anche il «progetto» moderno, sia nel senso habermasiano del «progetto incompiuto», o in quello della dialettica tayloriana tra l’identità razionalista e quella romantica o della visione foucaultiana della società disciplinare che si tramuta in società del controllo biopolitico. Queste sono declinazioni culturalmente specifiche del prototipo universale.
2.2.
Quanto alla natura essenzialmente duale della modernità occidentale, anche questo aspetto lo interpreto in un’ottica strutturale. Come dicevo sopra, lo riconduco alla compresenza – a livello antropologico – di un’attitudine oggettivante, strumentale verso la realtà (resa possibile e cementata dalla cultura) e di un rapporto risonante con le sue varie facce. Anche questo è un elemento comune a tutte le civiltà e attualmente, al Max Weber Kolleg di Erfurt, stiamo proprio studiando in che modo le varie culture hanno dato vita, per esempio rispetto alla natura, sia ad assi di risonanza sia a strumenti di controllo giustificati dalla paura, dal bisogno, dal desiderio di comodità, ecc.
2.3.
In questo periodo storico è molto diffusa la sensazione che l’umanità si trovi di fronte a un bivio, che la crisi attuale – in particolare la crisi ecologica – rappresenti un punto di non ritorno della storia umana. Questo senso di un collasso imminente traspare anche dalla popolarità dell’idea secondo cui quella che stiamo vivendo sarebbe descrivibile addirittura come un’era geologica a sé stante: l’antropocene. Insomma molti oggi si sentono responsabili di un cambiamento potenzialmente disastroso in una scala temporale non storica, ma geologica. Condividi questa prospettiva o no?
Anche questa è una tematica complessa ed è importante non perdere di vista le sfumature. Da un lato in questi casi mi viene sempre spontaneo citare Gérard Raulet, secondo il quale essere moderni significa trovarsi in una condizione di crisi permanente. E in effetti dalla Rivoluzione francese in avanti l’Europa non ha fatto altro che passare da una crisi all’altra. Io, tuttavia, mi spingerei persino più in là e direi che questa regola vale per qualsiasi civiltà, non importa se moderna o premoderna. Nel Medio Evo, per dire, le persone vivevano con un senso dell’apocalissi imminente che oggi fatichiamo a immaginarci. Figuriamoci poi che cosa deve avere significato vivere negli ultimi secoli dell’Impero romano… Se non sbaglio, inoltre, molti studi antropologici ci restituiscono l’immagine di comunità su cui aleggia il sospetto che le cose non possano andare avanti così ancora per molto, che il collasso sia giusto dietro l’angolo e che la responsabilità di tale collasso sia della comunità stessa.
2.4.
La modernità, come ha sostenuto Taylor, incarna una sorta di dichiarazione di indipendenza spirituale dalla natura: «da oggi la natura smette di controllarci, saremo noi a controllare lei!». Così, però, si produce immediatamente un effetto rebound e la natura comincia ad apparire minacciosa: una formidabile antagonista che può da un momento all’altro schiacciarci e ridurci in polvere. A quel punto viene spontaneo indossare l’abito della vittima inerme con tutto il corredo di emozioni che caratterizza tale condizione di impotenza. È il tipo di dialettica che l’umanità ha sperimentato, ad esempio, con la scoperta della fissione nucleare e del suo enorme potere creativo-distruttivo. Da un lato c’era l’entusiasmo prometeico di chi è riuscito a penetrare nei recessi più profondi della materia e dei suoi misteri, dall’altro lo sgomento di chi si trova gettato in una condizione di vulnerabilità mai conosciuta prima dal genere umano.
2.5.
Ecco, la convinzione che sto maturando oggi è che abbiamo bisogno di figurarci una condizione di medio-passività o medio-attività per sfuggire alla coazione a concepirsi o come onnipotenti o come impotenti, come carnefici o come vittime. Noi non siamo né «padroni» né «schiavi» della natura. Siamo piuttosto in una relazione responsiva, cioè attivo-passiva, con la natura. Per farmi capire di solito ricorro all’esempio della transessualità, perché anche quando siamo posti di fronte a questo fenomeno tendiamo a oscillare tra i due poli della «scelta» arbitraria (è il soggetto l’unico titolato a decidere di che sesso è) e della semplice adesione passiva a ciò che la natura ha fatto di noi. Anche in questo caso io preferisco una visione più processuale, esplorativa, in cui l’individuo non si comporta né come un soggetto sovrano né come un suddito inerme, ma si mette alla ricerca del proprio asse di risonanza nella sfera sessuale ponendosi in una relazione non passiva di ascolto del proprio corpo, senza avere una risposta preconfezionata, già decisa in partenza. La relazione è trasformativa e autenticamente open-ended: non deve nemmeno andare necessariamente in una direzione o nell’altra. Può cioè mantenersi anche in una condizione di sospensione.
Nota
[*] forse collegabile all’intuizione di Arminio, riportata da Donato: «Abbiamo bisogno di una modernità plurale, di un uomo conviviale».
intanto grazie a donato per il viaggio con me ad avigliano e per il lungo resoconto di quello che è accaduto.
i commenti pongono tante questioni.
mi pare che il tono di abate, rispetto ad altre occasioni, sia più corretto. un dissenso esposto con pacatezza.
io penso che il mio tentativo sia rivoluzionario. nel mio approccio alla poesia c’è il tentativo di creare una comunità. si può anche pensare ai miei libri come a una serena obiezione al capitalismo. forse a certe battaglie ci si può associare, piuttosto che cercarne i limiti.
un abbraccio
A Franco Arminio
Sì, i commenti “pongono tante questioni”. Non pretendo certo risposte immediate. E, anche se una parte di me lo desidera, neppure che tu o altri rispondiate. Da tempo mi accontento che qualcuno/a rimugini i messaggi in bottiglia che qui su Poliscritture compaiono e decida, anche senza dirmelo, se in essi c’è qualche verità o contengono soltanto errori.
Non ho mai preteso, comunque, di stabilire quanto il lavoro di un poeta o uno scrittore sia rivoluzionario o meno. Nel tuo caso mi pare indiscutibile che nei tuoi libri quello che io ho chiamato *antimodernità” sia in fondo “anticapitalismo” o , come tu preferisci dire ” serena obiezione al capitalismo”. E mi assocerei volentieri alla tua/vostra battaglia se fosse chiaro che per ‘capitalismo’ intendiamo la stessa cosa; e se dopo l”anti’ ( il no) fosse chiaro e condiviso anche il ‘sì’: lo scopo a cui si mira. Problema oggi tragicamente incerto, dato il fallimento storico della Grande Causa del socialismo/comunismo. Ma se ne potrebbe parlare.