di Giulio Toffoli
Tonteggiando 6
Non andate avanti, signore, per niente al mondo!
Non andate avanti. Qui comincia il regno degli spiriti maligni.
LA SCHEDA
Titolo originale | Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu, una sinfonia dell’orrore) |
Lingua originale | Tedesco |
Paese di produzione | Germania |
Anno di produzione | 1922 |
Durata | 84’ |
Dati tecnici | B/N – Rapporto 1,33: 1 – film muto |
Genere | Orrore |
Regia | F. W. Murnau |
Sceneggiatura | Dal romanzo di B. Stoker, Dracula, adattamento Henrik Galeen |
Casa di produzione | Pruna-Film |
Attori principali | Gustav von Wangenheim: Thomas Hutter, Max Schreck: Conte Orlok, Greta Schröder: Hellen Hutter |
LA TRAMA
La vicenda si svolge nel 1823 a Brema. Il direttore di una agenzia immobiliare riceve da un certo conte Orlok, che gli scrive dalla lontana Transilvania, una richiesta di acquisto di un immobile. Per perfezionare l’affare Knock, ambigua figura di mediatore, decide di inviare nella zona un suo giovane dipendente: Thomas Hutter. Il giovane parte pieno di entusiasmo, nonostante i cattivi presentimenti della moglie Nina. Il viaggio, all’inizio facile, si fa sempre più arduo, tanto che i conducenti della carrozza decidono di tornare indietro. Nonostante le parole dei cocchieri: “Non andate avanti, signore, per niente al mondo! Non andate avanti. Qui comincia il regno degli spiriti maligni”, il giovane non si ferma e giunge alla fine al castello del conte Orlok, che fin dal primo incontro rivela una personalità quantomeno strana.
Il giorno seguente Thomas girando per il castello scopre che è disabitato; la sera stessa conclude l’affare con il conte che, vedendo casualmente una fotografia di Ellen che lo sposo portava con sé, commenta che la donna ha davvero un bellissimo collo.
Sempre più preoccupato, dato che si è convinto che Orlok e Nosferatu siano la stessa persona, e che ha letto in un libro sui vampiri che Nosferatu ha bisogno per vivere di bere il sangue delle sue vittime, Thomas si barrica nella stanza, ma Nosferatu non incontra nessuna difficoltà a superare la porta. Mentre si avvicina al giovane per berne il sangue, viene interrotto da Ellen che nella lontana Brema ha una premonizione di quello che sta accadendo al suo sposo.
Da questo momento Thomas non ha che un disegno, quello di scappare al più presto dal castello. Quando riesce a uscire scopre che anche Nosferatu ha abbandonato il castello assieme a un carico di bare.
La seconda parte del film (dal 38’ In poi circa) è dedicata alla descrizione del viaggio che Nosferatu e Hutter compiono per giungere a Brema, mentre Ellen attende con ansia il ritorno dello sposo.
Hutter, sempre più debole, è costretto a passare un certo periodo in un ospedale prima di poter compiere l’ultimo tratto e giungere a casa ripercorrendo il tragitto fatto in andata.
Quanto a Nosferatu, il suo percorso è ben più tragico. Trasferite le bare su una nave, Nosferatu non solo uccide l’uno dopo l’altro tutti i membri dell’equipaggio, ma porta con sé a Brema un carico di topi.
Quando la nave, ormai senza guida, attracca al molo della città, i topi scendono dal battello e diffondono la pestilenza. Anche Nosferatu scende dalla nave e si avvia verso la casa che ha acquistato e che è posizionata proprio di fronte alla residenza di Thomas e Nina.
Brema è nel panico e Nina, trasgredendo al divieto del marito, inizia a leggere il libro sui vampiri che era nel bagaglio di Thomas. Scopre allora che l’unico modo per salvare il marito e anche la città è donarsi al vampiro facendo in modo che il loro abbraccio si prolunghi fino al sorgere del sole.
Così una sera Ellen apre la porta a Nosferatu e lo tiene accanto a sé fino al sorgere del sole. Il vampiro non si rende conto del disegno della giovane e quando sente il canto del gallo è ormai troppo tardi.
Dalla finestra della stanza penetra un raggio di sole che lo annienta.
Ellen muore fra le braccia del suo sposo, avendolo così liberato dalla maledizione di Nosferatu e avendo anche sciolto la città dalla pestilenza.
L’ultima scena vede il castello del conte Orlok/Nosferatu in stato di abbandono, nulla più che una rovina.
PERCHE’ RIVEDERLO OGGI?
Chi guarda oggi Nosferatu il vampiro di Murnau e non si ponga da un punto di vista della critica accademica non può che scontare l’idea che il tema del vampiro è stato riciclato in una serie quasi infinita di pellicole che hanno di volta in volta riletto il libro di Stoker con un crescendo tale di innovazioni nella tecnica della ripresa e nella manipolazione della pellicola da rendere davvero questo film una specie di reperto archeologico. Guardandolo infatti non si può che provare un poco di stupore e se già nel 1928 si parlava, per chi lo vedeva, di una qualche senso del “ridicolo”, è evidente che il nostro sentire non può che provare una forma di disagio di fronte a un film che quando venne posto in programmazione aveva generato nel pubblico un acuto senso di orrore e paura.
Fra tutti i diversi film del cinema tedesco muto questo è quello per cui ho avvertito una maggiore distanza fra le attese e il risultato della visione. Non solo non è riuscito a convincermi ma neanche ad avvincermi.
Per questo motivo mi sembra ragionevole cercare di riportare le interpretazioni che hanno ottenuto maggiori consensi lasciando poi a chi guarda il film la libertà di individuare quella che gli pare, fra le varie, l’interpretazione più convincente.
Sono quattro le letture critiche più accreditate oltre a quella iper-politica di Kracauer, che vedremo poi in specifico.
La prima si richiama al romanticismo. L’ambientazione e gran parte della struttura del film fa pensare ad una fuga verso il passato. Non solo la scenografia richiama i primi decenni del XIX secolo ma molte scene, soprattutto quelle che hanno come protagonista Ellen, rievocano i dipinti di C. D. Friedrich. Non manca infine i richiamo alla forza ineluttabile del fato, del destino tema caratteristico della poetica romantica.
Una seconda interpretazione pone l’accento sulla sessualità come elemento centrale della narrazione filmica. C’è chi ha perfino parlato di una “compensazione traumatica della sessualità animale vietata nella società civile”. Ed ancora una volta l’attenzione è stata fermata sulle figure dei protagonisti. Di fronte alla fragilità di Hutter, debole e incapace di affrontare a viso aperto le contraddizioni dell’esistere, sta soprattutto Ellen. Infatti nella figura femminile è possibile vedere una pluralità di aspetti che rendono particolarmente complessa la sua decifrazione, quello della donna innocente che grazie alla sua purezza diventa elemento di salvazione, oppure la donna che si ribella alla frustrazione del rapporto matrimoniale fino ad accettare di cadere nelle braccia di Nosferatu, come forma estrema di godimento.
Altri hanno posto l’attenzione sulla presenza soprattutto nelle prime scene di numerosi elementi di tipo simbolico-esoterico. Il vampiro, il non-morto, è già in sé una figura magica che ha accesso a un mondo misterioso di cui abbiamo sentore nei vai momenti del film. La critica ha fermato l’attenzione, ad esempio, sulla lettera che il conte Orlok invia a Brema a Knock, il mediatore immobiliare. Nelle inquadrature che riprendono questa lettera si vedono con chiarezza dei simboli cabalistici, delle lettere dell’alfabeto ebraico, dei simboli astrologici e infine dei disegni decorativi, un teschio, un serpente e un drago. Tutti elementi che possono far pensare alla volontà del regista di segnalare l’importanza di questa componente magica.
Infine segnaliamo un’ultima lettura che potremmo definire “esistenzialistico-heideggeriana” secondo la quale: “l’asse tematico è rappresentato dal viaggio, itinerario iniziatico destinato a concludersi nella conoscenza del sé, nella accettazione della solitudine come categoria fondamentale dell’esistere … L’analisi di Murnau si interiorizza … sperimenta in termini radicali la sfera del privato, le possibili soluzioni fornite dall’avventura individuale e le implicazioni dell’autoanalisi … La trama si sviluppa in modo rigoroso come viaggio negli arcani dell’inconscio alla ricerca dell’alterità sepolta. Hutter, predestinato alla scoperta del suo doppio demoniaco, della sua aggressività non esita minimamente a mettersi in viaggio …”.
L’autore conclude la sua indagine affermando: “Nell’orizzonte della desolazione borghese, nell’universo negativo di Weimar, a che può servire l’arte? Esclusa l’eventualità di un intervento costruttivo … Murnau in Nosferatu la intende in termini di esercitazione orfico-narcisista: arte come riflessione specifica sulle proprie peculiarità semiotiche, confinata nel ghetto della ricerca teorico formale … Insistendo sulla tematica dell’angoscia che conduce l’uomo alla presenza della morte e ripercorrendo la vicenda paradigmatica dell’individuo costretto a subire fino in fondo l’esperienza della finitudine, Nosferatu diventa il luogo che permette di scoprire gli elementi di poetica presenti nella trama esoterica da cui è sotteso il testo filmico” (Pier Giorgio Tone, Murnau, Il castoro cinema, 1977, pag. 38-50).
L’INTERPRETAZIONE DI KRACAUER
Kracauer dedica a Nosferatu una rapida sintesi della trama e alcune semplici notazioni. La premessa è che Nosferatu si iscrive in quella serie di pellicole specializzate: “nel rappresentare i tiranni. Sono opere in cui i tedeschi di allora – popolo non ancora in equilibrio, libero ancora di scegliersi un regime – non esprimevano illusioni sulle possibili conseguenze della tirannide; si dilungavano al contrario a descrivere i delitti e le sofferenze che infliggeva. Forse la loro fantasia era sollecitata dal timore del bolscevismo o ricorrevano a queste spaventose visioni per esorcizzare brame che intuivano in se stessi e che ora minacciavano di dominarli?”
Più concretamente nota che lo sceneggiatore Henrik Galeen, partendo dal soggetto del libro di Stoker Dracula, “riuscì a immettervi invenzioni originali”. Quali?
La prima si riferisce alla capacità di Ellen di salvare il marito dalle mani di Nosferatu, cioè al “proposito di Galeen di dimostrare attraverso questo fenomeno di telepatia la potenza soprannaturale dell’amore”.
La seconda riguarda proprio il finale quando Galeen fa passare il messaggio che: “i mali mortali che Nosferatu rappresenta non possono colpire chi li affronta senza timore”, ancora una volta Ellen che per salvare il marito accetta di finire volontariamente nelle mani del vampiro.
Ma soprattutto Kracauer pone l’accento sulla inimitabile capacità del regista, F. W. Murnau, di: “abolire i limiti fra il reale e l’irreale. Nei suoi film la realtà è circondata da un alone di sogni e presentimenti, e una persona tangibile può sembrare al pubblico una semplice apparizione”.
Kracauer ricorda che Béla Balázs ha scritto nel 1924 che “una gelida corrente da giorno del giudizio” aleggia nelle scene di Nosferatu. Per raggiungere questo esito Murnau e l’operatore Arno Wagner: “si valsero di ogni sorta di trucchi. Tratti di pellicola negativa trasformarono i boschi dei Carpazi in un intrico di bianchi alberi spettrali…” e altri interventi del genere percorrono in diversi momenti la pellicola.
Vengono poi fatte due importanti puntualizzazioni.
La prima: “è notevole che tanto senso cinematografico e tanta ingegnosità tecnica servissero all’unico scopo di rappresentare l’orrore”.
La seconda che: “effetti cinematografici del genere hanno vita breve; alla fine del 1928 la Film Society di Londra riesumò il film osservando che «vi si mescolano il ridicolo e l’orrido»”.
“Gli orrori descritti da Nosferatu – conclude l’autore – sono provocati da un vampiro che si identifica con la pestilenza … Come Attila, Nosferatu è un «flagello di Dio» e soltanto in quanto tale identificabile con la pestilenza. E’ una figura di tiranno assetato di sangue e succhia sangue, vagante in quelle sfere dove miti e fiabe si incontrano” (Kracauer, Il cinema tedesco, Mondadori, 1977, pag.79-81).
Il prossimo film di cui vi suggerisco la visione, la cui scheda uscirà il 2 dicembre, è:
Il Golem (1920) di Carl Boese e Paul Wegener.
Come si diceva una volta:
“Buona visione”.
“Chi guarda oggi Nosferatu il vampiro di Murnau e non si ponga da un punto di vista della critica accademica non può che scontare l’idea che il tema del vampiro è stato riciclato in una serie quasi infinita di pellicole che hanno di volta in volta riletto il libro di Stoker con un crescendo tale di innovazioni nella tecnica della ripresa e nella manipolazione della pellicola da rendere davvero questo film una specie di reperto archeologico” ( Toffoli)
Sul sito de “L’ospite ingrato” mi sono imbattuto in un saggio molto complesso di Carlo Serra su un libro, “Miti a bassa intensità”, di Peppino Ortoleva (che non ho letto) dove in due capitoli si parla del vampiro. Li riporto qui sotto. Ma prima accenno e riassumo, per come le ho capite, le tesi generali sviluppate nel saggio. Secondo Serra, in questo libro Ortoleva sostiene che le storie, quando vengono narrate, entrano in determinati «contenitori (poema epico, tragedia, romanzo, film, serie televisiva» che modellano la narrazione stessa, ma fino ad un certo punto. Perché rispettano o finiscono per rispettare «una identità della trascendenza dell’immaginativo, che si modifica, si altera, ma non si cancella, pena la perdita del senso della narrazione». E’ come se ci fossero dei « recinti che proteggono tempo e spazio mitico» o «i nuclei mitologici», anche se essi nella narrazione subiscono delle «interferenze». Giudicate positivamente, perché «ciò che prima era posto aldilà dell’umano torna a incarnarsi nell’umano in un’altra forma, il mistero diventa il giallo, l’utopia dell’altrove tocca rivoluzioni, forme sentimentali, abbassando apparentemente soglie e finestre temporali, in nome di una fruibilità in cui il valore mitologico continua a brillare».
Ecco i due capitoli:
III. Il vampiro e l’ibridazione mitologica
Il movimento di dislivello e tensione si incarna in un Bram Stoker che rivendica una etnografia dell’immaginario, narrando di aver fatto ricerche accurate sul folklore slavo e rumeno, per radicare un personaggio mitologico in un modo esotico, oscuro, irriducibile, certo non immediatamente eurocentrico.
Conte in un mondo quasi estinto, dunque solo e testimone di un tramonto, Dracula è traccia pallida e potente di un mondo perduto, e quindi carattere, nel senso più propriamente aristotelico, aspetto che Stoker enfatizza genialmente, facendolo cozzare sapientemente con indizi del piano tecnologici che parlano del moderno, e che ne circondano arrivo ed evocazione. Viaggio, telegrafo, industria immobiliare e altri elementi ancora, diventano snodi narrativi capaci di sospenderne la figura del vampiro fra due dimensioni.
Nasce così una lacerazione fra livelli ed indizi, che enfatizza la trasposizione mitologica nel moderno. Fuori dal tempo, ma ritornante, arcano più che arcaico, protetto da Castello e Bara come un paguro, e quindi ostaggio che rivive in un narrativo deformato da cinema e letteratura, il vampiro è respinto al confine dell’umano, e principe e prigioniero del regime rovesciato in cui vive.
Ibrido come il pipistrello, finestra tra specie, il vampiro sembra destinato ad essere protagonista di miti ad alta intensità, ma proprio qui emergono la funzione del racconto prima, e del medium poi, sempre che sia ancora possibile distinguerli in modo sicuro.
Per esistere, si osserva, il vampiro deve ibridarsi all’umano nel racconto, passare dal passato arcano al passato prossimo, come accade per i tempi della festa popolare, con un percorso caratteristico. In altri termini, chi lo fa entrare, siamo noi, siamo noi intesi come incontri fatali, o come personaggi che tragittano nel suo mondo, per tirarlo fuori. Ma lo snodo ineludibile è il suo annunciarsi nella nostra dimensione, nel passaggio dal buio dei Carpazi alla luce elettrica della città moderna, comunque flebile, ma capace di individuarlo come Principe delle Tenebre, essenza del demoniaco, e scheggia temporale, innervata di sinistra trascendenza, che rovescia il senso ordinario delle azioni: come la nave dell’Olandese volante, il porto, la nostra vita cambiano di colpo, e, con noi, la sua fino ai topi alla peste, alle tempeste che Nosferatu trascina, assieme alla sua passione per l’umano.
La nozione di ambiente, togliendo neutralità a spazio e tempo, opera anche sulla decontestualizzazione del vampiro, sua unica possibilità di vita. Ed è su questo reciproco spaesamento che si muovono le strutture immaginative della pietà, della compartecipazione, della comprensione.
Ora, nel passaggio, il livello si è alzato o si è abbassato? Cosa significa davvero bassa intensità, se il movimento esiste solo con una uscita dall’assoluto, dal Sacro, anche come lo intende un autore come Otto? Come le forme argomentative eraclitee, il vampiro tocca i due livelli e li congiunge, in un deflagrare di intensità, in una infiltrazione fra livelli, che apre una sezione temporale a sé, anch’essa appartenente a due mondi separati, mossi narrativamente per congiungersi. Separazione e tensione alla fusione sono tendenze estreme in un circolo che sigilla nella figura quanto è comune alle due dimensioni, attraverso la ripetizione, che attenua il carattere dialettico e rafforza l’idea di armonia fra opposti, molto più inquietante: è difficile non pensare subito ad Antigone, che appartiene al mondo dei morti, prima ancora che a quello della giustizia, e che esiste così solo nel medium letto da alta voce della Tragedia. Ma cosa accade nella transizione di un contenuto fra media che ne vengono modificati?
IV. Morsi e travasi temporali
Abbiamo detto che il vampiro, anche il residuo etno-immaginativo di Stoker, muta di consistenza nella tensione vettoriale fra i due regni, che precipitano uno nell’altro, ma deve resistere come figura, e come mediazione col Sacro, proprio perché l’evento, i due passaggi incrociati, assume forza nelle transizioni di intensità. È questo, come abbiamo detto, un convergere eracliteo dove morte, attesa e ripetizione si annullano reciprocamente, proprio perché incombenti una sull’altra, senza potersi toccare: forme di intensità coesistente e incompatibile, secondo una formula che nel libro trova moltissime figurazioni.
Dialogano due mondi, e come sappiamo, due forme temporali, una immanente e l’altra trascendente: esse passano attraverso uno sfondamento che preserva e trasporta. Potremo allora guardare a quel risucchio dell’umano nella soglia del vampiresco che è il morso, e alla propedeutica alla morte: le due cose sono liminari, partecipando in forma diversa al grande tema dell’elaborazione del lutto, come accade nella sincronicità di The Others di Amenabar (2001) [Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/The_Others_(film_2001)%5D, giustamente citato nel libro, come forma di parallelismo. Ma questo accade anche dove vi sia un contatto diretto.qui
Vorremmo concentrarci sulle comunanze che il morso, l’irrompere di un discreto che rompe una continuità, e altera il senso di un intero, ha nel mondo del musicale, dove l’espressione ictus indica l’irrompere di una forma di scansione, di articolazione formale, attraverso quella sublimazione del colpo che chiamiamo accento.
L’ictus segna l’irrompere dell’accento, dell’alterazione ritmica, sul mondo del sillabico: il riferimento linguistico corre verso il morso, la lacerazione, verso, l’accensus, febbre, indicando l’animarsi dell’immenso tempo ordinario, statico in cui siamo immersi che, grazie alle metriche del musicale, viene finalmente percepito.
Come nella transizione dal tempo mitico a quello dell’esperienza, il morso connota l’immagine del prender forma di un tempo dapprima inerte, non avvertito, votato alla autoconsunzione, in linea di principio, eterno, che ora si connette e si modifica nell’ascolto musicale, nella sua valorizzazione in durate che, mentre cantiamo o balliamo, diventano percepibili, fruibili, narrabili. Si apre un’altra irruzione, e un nuovo dislivello temporale e qualitativo, che va a toccare un fattore costitutivo dell’esperienza, il fatto che il tempo musicale esista solo nei regimi immaginosi della narrazione ritmica, nel rapporto che rende il racconto, o la forma musicale, intellegibili.5
E non poteva che accadere questo, che come il ritmo laicizza o ritualizza il tempo, nel divino o nell’umano, così il vampiro, fuori di dimensione, e attratto dai regimi discordanti di alto e basso, si trasformi da alieno a figura della soglia, come le Sirene, come Caronte, essendo soglia egli stesso. E se le Sirene cantavano, immerse nell’ambiente letale dell’isola, e rimanevano alta intensità finché non mediate uditivamente da un ascoltatore eccezionale, Ulisse, il cui tendersi del corpo straziato nell’ascolto è l’immagine di una ritmicità vincolante e protettiva, così il nuovo vampiro si avvicina agli spettatori, si assimila al nostro tempo spazio, tramite la mediazione di un altro mito dialettico, l’amore.
Su questo punto la lettura di Ortoleva è illuminante, proprio nel suo voluto distacco da un piano sociologico: non importa molto che l’Ulisse scosso dal canto delle sirene sia un paradigma culturale altissimo, e il vampiro attratto dall’amore una figura della narratologia mediatica. Quanto rimane non è un parallelismo fra valori, ma l’andamento turbinoso di un sistema narrativo che investe personaggio e narrazione. Tutto questo ha conseguenza forti: nel modificarsi del vampiro Ortoleva evoca, non a caso, il romanzo di formazione, quanto cioè non potevano esperire né Senta, né L’Olandese Volante. In altre parole, nella prospettiva osmotica del passaggio da alta a bassa intensità, i vampiri vengono vampirizzati, divengono una aggiunta dell’umano, ma anche differenza da difendere, qualcosa che resta non omologabile, come un espianto mai concluso: ora sono loro a tendere verso, senza potersi lasciare riassorbire neppure dal medium.
Come le Sirene, che nel mondo greco riemergono quasi con empatia, nella elaborazione dei lutti attraverso le forme trenodiche, dando ripetitivamente consolazione nella dimensione tragicamente incompleta, ripetitiva, del lutto, capace di insegnare il dolore sempre rinascente della morte, che il canto deve temperare, così il vampiro ci viene incontro, ad esempio, nello smarrirsi del sentimento amoroso.
Sappiamo che i vampiri non si fanno assorbire, corrono verso, ma non precipitano: la resistenza è una potenza strutturale dell’immaginario a bassa intensità, che molto rivela, a mio modo di vedere, dei lati nascosti dell’umano, più che del magico. La magia sinistra non si lascia omologare, nessun happy ending cancellerà una trascendenza, che non si decompone, né si fonde completamente nell’incontro col mondo terrestre che ne ha modificato il senso: quanto a dire che la sapidità narrativa si nutre del dislivello.
Nella resistenza, nella irriducibilità del mitologico, emerge così l’attrito relazionale proprio della narrazione a bassa intensità: quando l’autore, a chiusura capitolo, cita il celebre passo aristotelico per cui si prova pietà per l’innocente e terrore per chi ci somiglia, smaschera il gioco dei vettori immaginativi, con uno specchio che non propone una visione riduttiva dell’umano, enfatizzato o trasfigurato, ma un lato del mitologico che la bassa intensità lascia esplodere nel campo di costituzione di differenze formali. Questo precipitato, che Ortoleva coglie con grande sensibilità, ci riconcilia con un’immagine dell’antropologico molto meno linguistica, molto più sfumata, vorrei dire con Wittgenstein, molto più cerimoniale del modo di essere dell’uomo, un’immagine, che emerge senza mai svelarsi completamente e che risulta carica di pietas, secondo una linea che emerge già in alcuni tratti del giovanile saggio sul cinema di Morin, e che qui prende il colore del piacere del tragico aristotelico.
( da http://www.ospiteingrato.unisi.it/mito-ed-interferenzastrutture-spazio-temporaliin-miti-a-bassa-intensitadi-peppino-ortolevacarlo-serra/ )