Riordinadiario
Con qualche esitazione per i rischi di narcisismo che potrebbero esserci in queste pagine, pubblico il pezzo del mio Riordinadiario riferito ad alcuni mesi cruciali di un anno, che – sia sul piano personale che politico – ha segnato un taglio traumatico delle speranze di maturità inseguite nel decennio precedente. Il corpo che s’ammala è – che coincidenza! – il mio e quello sociale e politico della “nuova sinistra”, nella quale mi ero fino ad allora riconosciuto. Le note registrano il brancolamento di un io estratto di colpo dalla vita quotidiana, non certo facile ma in apparenza più rassicurante di quella ospedalizzata. Contro la minaccia di cecità da intendere sia sul piano fisico e materiale, sia su quello politico e sociale (in entrambi i casi i segnali sembrano non poter più arrivare come prima) ma forse anche – ahi, Saramago! – su quello simbolico, l’io riconosce la sua fragilità e tenta di reagire come può. [E. A.]
24.3.77
Milano. Terzo giorno di ricovero qui alla Clinica oftalmica dell’Università. Giro osservando più o meno velocemente gli altri malati, i medici, le suore e le infermiere. La mia malattia è “cosa da non scherzare”. Così m’ha detto un medico, mobilitando la mia apprensione. Dal suo discorso mi faccio un’idea molto approssimativa del mio male. Parlano di un “processo degenerativo” ancora iniziale all’occhio destro. Una ciste? La parola mi è più familiare, ma il fenomeno che indica lo ignoro. Mi viene in mente soltanto la ciste sul collo di un giovane che avevo conosciuto al campeggio dell’Azione Cattolica di Camigliatello silano nel 1963. Di lui ricordo anche che somigliava al comico Renato Rascel, ancora in voga a quei tempi e che in seguito studiò medicina. All’occhio sinistro poi il medesimo processo degenerativo avrebbe già compiuto il suo sotterraneo lavoro. Il distacco di retina ne è il risultato.
Provo ad immaginarmi – come sono irrecuperabili le vaghe nozioni di biologia che studiai al liceo! – cosa è accaduto o sta accadendo dentro questa cosa misteriosa che sono i miei occhi, ai quali fino a pochi giorni fa non pensavo per nulla. Distacco di retina? Mi vengono in mente le carte da parati di certe stanze di Baronissi o di Salerno! Si usavano ancora quand’ero ragazzo. A volte in alcune zone della parete cominciavano ad inumidirsi, lievitavano leggermente, in alcuni punti si gonfiavano in strane forme. Qualcosa del genere sta avvenendo o è avvenuto nella stanza del mio occhio sinistro e rischia di avvenire anche nel destro.
E pensare che mi sono sempre vantato della mia vista! Ricordavo con orgoglio di aver superato lo strabismo che a tre o quattro anni mi aveva costretto a portare gli occhiali per un certo tempo. E quella volta che giocavo con gli altri ragazzi a preparare un rifugio scavando il terreno della collinetta davanti alla nostra casa di Via Sichelgaita? Io scavavo più in basso. Altri più in alto. Alzo la testa e una manciata di terra polverosa mi colpisce in pieno volto. Non ci vedo. Pianto. Intervento delle mamme. Sciacquo. Terrore di mia madre.
Avevano un bello sfottere i miei amici, che mi chiamavano stuzzicandenti tanto ero magro e ossuto. Quando capitava, ripescavo quei ricordi nei colloqui con gli amici come fossero la prova della forza e resistenza del mio corpo.
Ora, invece, ho di fronte il sapere dei medici. E devo decidere se fare o meno l’operazione che i dottori senza esitazione mi suggeriscono. All’occhio sinistro restano quattro decimi di vista. Soltanto con l’intervento chirurgico c’è la possibilità di salvarlo.
Ho subito notato con fastidio di essere un caso clinicamente interessante per diversi studenti specializzandi. Mi vengono in mente i saggi che ho leggiucchiato in questi anni sull’oggettivazione del malato (Jervis, Maccacaro), ma come faccio a parlarne con costoro? Per il momento il fastidio non l’esprimo. Se tirassi fuori certi discorsi – lo sento – verrebbero stritolati o scherniti. Passerei per sprovveduto. Appellarmi alla razionalità dei medici? Puntare sul fatto che – anch’io! – sono un intellettuale, un laureato? Solleticare una complicità di categoria? Sospetto la loro ostilità ad ogni critica al loro sapere. Prevedendo l’attrito, mi vedo subito spinto – per reazione – ad estremizzare la mia critica. Fino a negare il valore della Scienza dell’Istituzione. Angoscia. Lo farei nei modi della vittima disperata. Mi blocco. Mi controllo.
Ripenso al ritardo con cui mi sono accorto della malattia dei miei occhi. In tanti anni mai sono ricorso ad un oculista. La malattia ha convissuto con me forse addirittura dalla prima infanzia. Mi rimprovero. Per la vita che ho condotto finora non ho mai avuto modo di costruirmi una mentalità scientifica e conquistare una conoscenza non terrorizzata di fronte ai primi sintomi di malattia del mio corpo. Temo di scivolare nel fatalismo e nella metafisica. Aria di palude! Morte e basta! Pensieri che puzzano di cadavere! Adesso rabbrividisco, fra il rassegnato e il terrorizzato, al pensiero di cosa potrà capitarmi.
M’immagino cieco. Verrebbero spezzate tutte le abitudini che ho imparato a sistemare sentendomi padrone delle mie percezioni. Dovrei comunque pesare su altri. Fosse anche solo R. Come diventerebbe rigido il nostro rapporto. No. Meglio restare solo o con estranei. Non potrei più disegnare o scrivere. Crollerebbe anche la possibilità di sistemare quel cumulo di scritti che ho raccolto in tanti anni disordinatamente e in forma così poco decifrabile dagli altri. (Tutti stentano a capire la mia grafia!)
Faccio anche l’ipotesi di rifiutare l’operazione. Sarebbe assurdo. Ma in questo momento sento la mia debolezza ed esclusione dagli altri e vivo il mio rifiuto come una di vendetta verso il mondo. Vorrei far qualcosa contro la bontà, l’oggettività, la ragionevolezza della soluzione che mi propongono. So che la mia resistenza non durerà. Ma è in questi momenti che mi accorgo della violenza che il mondo esterno m’impone. Certo – penso tra me – mi opererete, signori! Non potrò sottrarmi. Ma non credo alla vostra Scienza. Non vi ringrazierò mai. Non ditemi che lo fate per il mio bene! No. Non sono mai stato messo in condizioni di scegliere una cosa per il mio bene. Usatemi, ma non sporcatemi con la cacca delle vostre spiegazioni scientifiche.
La condizione di malato squarcia i veli. Ho rabbia verso gli altri ma anche verso me stesso. Anch’io da sano ho giocherellato con questi veli che ora mi sembrano cadere. Malgrado l’empatia e l’attenzione che ho sempre mostrato per i malati – quanti malati nella mia infanzia! -, mi sono posto sempre in atteggiamento scettico o correttivo verso di loro. C’era sempre dell’«altro» che andava oltre la malattia. Mi pareva di cogliere sempre qualcosa di “falso” nei malati. Mi pareva che s’avvantaggiassero della rottura che la loro malattia produceva nella routine dei “normali” ( non malati). E adesso la parte di me ancora sana si mette a proteggere e a dirigere la parte di me malata. Dai, accetta di operarti. Cerca di capire la tua malattia. E’ una buona occasione per scrollarti la soggezione superstiziosa che hai verso la medicina.
Chiederò ai medici il permesso di trascrivere innanzitutto i dati dei miei esami clinici. Faccio appello alle mie capacità di indagatore dilettante ma tenace. Mi affido soprattutto al fatto di essere parte in causa e di non avere, in effetti, un’altra via d’uscita risolutiva. Anche se rifiutassi l’operazione, non me la sento di dire che l’irreversibilità del “processo degenerativo” sia una balla. La mia diffidenza verso la Medicina si circoscrive. Non posso negare i dati che il medico mi fornisce. Non sono più nella condizione del selvaggio che ha una sua convinzione completamente in rotta con la cultura medica (occidentale). lo contesto la condizione di passività a cui mi spingono. Ma sono pieno di rancore anche con me stesso per essere rimasto così a lungo estraneo e dissociato dal mio corpo, che ora mi ritrovo a fronteggiare come cosa del tutto oscura.
Provo la stessa angoscia che mi ha preso ogni volta che tra capo e collo mi è capitato un guasto all’auto. Tu convivi (sei tu addirittura nel caso del corpo!) con un “qualcosa” di cui ti giovi sistematicamente, ma che trascuri e ignori sistematicamente. E d’un tratto questo “qualcosa” ti si impone in tutta la sua oscurità e ti rivela cosi la tua impotenza, impreparazione, stupidità, alienazione. Ti dici che dopotutto questo è “normale”. Non si può essere esperti in tutto. Non si può badare a tutto. C’è la divisione del lavoro. Per certe cose ricorri al medico. Per altre al meccanico. Ma nei momenti del bisogno, misuri immediatamente l’abisso sul quale sei rimasto adagiato nel frattempo.
Lui (il medico, il meccanico) ha gli strumenti, le conoscenze di cui tu sei (stato?) privato. E l’aspetto economico del loro potere è quello che meno m’indigna. Mi scuote quasi di più che quel potere crescerà grazie alla tua malattia e che tu – ora che lo intendi in tutta la sua portata – sarai nel corso di tutta l’operazione chirurgica soltanto oggetto; e che, alla fine, verrai reimmesso nella routine del quotidiano (se ti andrà bene!) e racconterai – in modo che il mito allo stesso tempo terrorizzante e consolatorio della Medicina si riproduca – a parenti e conoscenti spezzoni della tua esperienza di malato.
Immagina per un attimo – assurdo, lo so – di poter strappare prometeicamente la Scienza ai medici. Ma si può mai iniziarla da malato? O iscrivendosi alle facoltà di Medicina?
‘Malato’: dal latino ‘male habutu(m)’, ‘che si trova in cattivo stato’. Ma questa è la nostra condizione “normale”, anche se non riconosciuta. Malati sarebbero forse soltanto i reclusi negli ospedali? O quelli “in formazione” individuati attraverso le cartelle cliniche? Forse è una superstizione non riconoscere la malattia come dato normale della società. E la superstizione è già malattia. Una delle tante. Non si capisce bene dove vuoi arrivare – dirà qualcuno. Non è mettendo l’aggettivo “malata” a questa società che la comprendi più a fondo o trovi vie più valide per cambiarla o migliorarla.
Il medico è per me uno dei gestori sociali della morte. Meglio: della malattia, la condizione che più direttamente la evoca o vi si accosta. Il medico resta il mago che può fare miracoli. Si va a caccia di quello ha fama di farne più di altri. L’altra sera, durante la pausa morbida e noiosa che precede il sonno, passeggiavo nell’atrio del reparto d’oculistica luccicante di neon. Aspettavo che si liberasse il telefono a gettoni per chiamare R. Sulla panchina in vestaglia rosa una signora dall’aria vissuta. Sguardo scettico. Voce ansiosa. “E’ qui pure lei per esami”, mi dice. Non afferro bene quale diagnosi le hanno fatto. Ascolto con sufficienza, forse. O non sono più abituato ad ascoltare la gente che parla dei suoi malanni? Credo piuttosto che ognuno di noi qui si parli soprattutto dentro, anche quando si racconta agli altri. C’è una gestione comunque individualistica della propria malattia. I suoi compagni di corsia (e di sventura) sono temporanei. Appena uno viene dimesso, gli altri non ne parlano più. E’ difficile che possano nascere qui vere amicizie, anche se i rapporti possono essere cordiali e si è portati alla solidarietà spicciola (piccoli prestiti, consigli, ecc.).
La signora deve aver bazzicato parecchio negli ambienti medici. Mi parla dei miracolosi interventi che si fanno alla Clinica oftalmica di Barcellona, denigrando le “mezze calzette” che operano in Italia. Non ne so niente. Mi trincero dietro un ascolto attento ed evito i commenti. Non mi sento di appassionarmi alla sua caccia al chirurgo più bravo. Non nutro illusioni. A certe esperienze d’élite – fosse pure da malato – non mi sento neppure pensarci.
Mi accuso di pensare alla mia malattia solo politicamente. Ma è un male? L’operazione chirurgica è una delega immensa che diamo ai medici. I vari controlli clinici cui siamo sottoposti mi appaiono piccole avventure incomprensibili e indescrivibili con gli strumenti di conoscenza che come malato (proletarizzato) posseggo. Certo, la signora con cui ho parlato ieri sera è più addentro di me alle istituzioni mediche. Forse è anche in grado di cogliere in castagna qualche medico o di controllarne di più l’operato. Forse io me la piglio (dentro di me e genericamente) coi baroni e il loro seguito, perché solo questo so fare. Ma quali costi economici e psicologici ha per lei mantenere quel suo atteggiamento accanitamente giudicante? Il mio sforzo di riflessione mi appare, invece, improvvisato e velleitario. Sono un semplice malato, dopotutto. E forse nella condizione più sfavorevole per indagare e capire. La malattia acutizza la sensibilità. Ma esprimere in parole questa sensibilità è complicato. Di fronte ad essa posso usare gli strumenti che avevo prima di riconoscerla e che usavo per capire gli ambienti in cui mi muovevo (scuola, periferia, l’area della militanza attorno ad AO), ma la malattia non è che me ne dà di nuovi. Anzi. Mi viene in mente Leopardi. Senza i suoi precedenti studi filologici e letterari anche lui se la faceva fritta la sua malattia! Che resta comunque regressione, male, ostacolo. Non è che sia sempre produttiva, come la retorica vuol farci credere. E’ illusorio presentarla come un’occasione per mutare in oro poetico o letterario l’esperienza che ne facciamo.
Torno al mio caso personale. Porrò al medico giovane che segue il mio caso queste domande: 1. La caduta(totale) della retina dell’occhio sinistro (OS) è inevitabile? Avverrà in tempi brevi? 2. E’ possibile che naturalmente o ricorrendo ad interventi terapeutici più ordinari (in pratica evitando quello chirurgico) il distacco si arresti? 3. Operando l’OS non si avranno ripercussioni sull’OD? (Visto che viene diagnosticata una medesima causa per entrambi i processi – avanzato l’uno, iniziale l’altro ). 4. Questo processo degenerativo è di fatto un cancro? 5. Esso non continuerà ad avanzare anche se viene riattaccata la retina? Che vantaggi deriverò dall’operazione? 6. La visione ondulata – quando leggo, le lettere di una riga ad un certo punto mi compaiono deformate, come schiacciate verso il basso per poi risalire: come una riga dritta che per un attimo forma una V – sarà corretta? 7. Dopo l’intervento chirurgico dovrò portare gli occhiali?
Chiedo ad R di portarmi alcuni libri sul marxismo. Sono le letture che stavo facendo nei giorni precedenti il ricovero. Agisco come un carcerato che tenta di mantenere il rapporto con la realtà esterna. Mi accorgo di quanta importanza hanno per me i libri come strumenti per mantenere questo rapporto in assenza di altri tipi di rapporto più diretti che m’illudo altri, più fortunati di me, abbiano. Poi mi chiedo: se già prima del ricovero in ospedale ero costretto – come attività prevalente – ad uno studio solitario, ora che il ricovero in ospedale interrompe o ostacola tale attività, cosa di nuovo entrerà nella mia vita? Cosa mi toglierà o mi darà di diverso la malattia?
Letture. Roberta Tomassini, Nuova sinistra e autonomia del bisogno proletario in Bisogni e teoria marxista, Mazzotta 1976. Nuoto in mari confusi. Non è che afferro tutto di questo filosofare spesso per me troppo raffinato, anche se cerco così di distanziarmi dalla palude dell’esperienza AO-DP. Brecht, Poesie di Svendborg, Einaudi 1976 . Mi paiono invecchiate. Una semplicità che mi lascia insoddisfatto.
Il mio compagno di stanza è R. Si è ferito all’occhio mentre col nipotino stava sistemando dei bagagli sulla capote dell’auto. Il gancio d’acciaio del grosso elastico che doveva serrare i bagagli è schizzato via e l’ha colpito in pieno nell’occhio sinistro. È molto apprensivo. La moglie G. e il cognato (un insegnante delle 150 ore) l’assistono. Entrato in confidenza con lui e visto che di tempo ne abbiamo tanto, l’ho convinto a narrarmi alcune sue memorie e le trascrivo.
A sette anni sono andato a scuola a Casignano, il paese dove sono nato nel 1938. Mi trovavo bene a scuola ed ero contento di andarci. La mia maestra mi voleva molto bene. Diceva che promettevo. E lei era contenta che io studiassi. Ma nei paesi, si sa come sono le cose. I tempi erano duri. Pur andando a scuola, dopo andavo a insegnarmi il mestiere del barbiere. Quando avevo qualche minuto libero, andavo a giocare a pallone. La mia maestra era una brava signorina. Mi piaceva come dipingeva. Io le portavo dei biancospini e lei ha fatto un quadro a olio. Era una donna religiosa. Ci faceva il catechismo. Ogni tanto veniva anche il parroco del paese. Siccome ero così bravo che sono arrivato alla quinta, lei pensava che io continuassi a studiare. Ma io non ho continuato, e lei s’è dispiaciuta molto. Così ha preso l’anno dopo mio fratello, che non era ancora nell’età di andare a scuola. L’ha preso a 5 anni proprio perché voleva molto bene a me. Della guerra io mi ricordo che tutta la gente gridava perché arrivavano gli aerei a bombardare. Mia madre e un’altra mia zia mi prendevano a me e a mio fratello e sorella e ci portavano lontano dal paese dove c’erano gli alberi e così ci riparavano lì. Gli aerei però passarono senza bombardare. Il paese era senz’acqua. Andavano tutti alla fonte sorgiva con le brocche. Tutte le donne andavano e le portavano in testa. A volte andavo anch’io e mi divertivo a prendere l’acqua giocando. Qualche volta ho rotto anche la brocca (di terracotta), perché lasciavamo la brocca per terra e andavamo a prendere i nidi coi miei amici. Le case erano malandate. Certe case erano fatte di canneto per le pareti interne. Di fuori erano fabbricate di pietra e terra, senza cemento. Cessi non c’erano e allora si andava tutti fuori, lontano dal paese, in mezzo agli alberi. La gente [che conoscevo] erano contadini, che vivevano con un pezzetto di terra; seminavano il grano e altri cereali (ceci, fagioli, fave, ecc.) e si viveva così, con quella miseria. Sentivo dire che c’era in giro la febbre maltese, chiamata oggi militenza.[1] Quasi la metà dei pastori erano con quella febbre, che dicevano che la portavano i latticini. Qualche febbre pure di malaria si sentiva in quei tempi, perché le strade erano senza cemento, senza asfalto e per le strade si vedevano camminare anche i porci. Ecco perché penso che si prendevano delle malattie. Adesso che il paese è un po’ sviluppato hanno fatto le fognature, le strade a cemento; così ognuno di noi abbiamo il cesso e così non si va più fuori come prima. Nell’alluvione del 1951 è uscito un decreto o una legge, che davano dei mutui o contributi per costruire le case malandate e distrutte. Così s’iniziò a fabbricare con cemento e calce. E si vide che il paese è cambiato di volto. Aggiungiamo: la gente era contadini e pastori. La gente aveva un pezzetto di terra che non era di sua proprietà. Dovevano chiederla al fattore del principe Caraffa che l’aveva in affitto. La gente andava da lui per chiedergli se gli dava un pezzo di terra per poter seminare. Lui delle volte a quelli che gli piacevano, a quelli che erano dalla sua parte, gli dava la terra. A quegli altri diceva che se l’hanno presa tutta. Se vogliono qualcosa, un po’ di terra, “che la prendano e se la mettano in tasca”. Così la gente se ne andava malcontenta. Per la verità questo succedeva prima che io nascessi e l’ho saputo dai contadini e dai pastori oppure ho letto qualche libro: I fatti di Casignano. Mi pare che l’ha scritto un certo La Cava di Bovalino, un paese vicino, che mi sembra ancora vivo ed è uno scrittore. E’ successo nel 1922. Questi contadini volevano difendere la terra, perché cercavano di quotizzarla; e allora un giorno hanno invitato il sindaco e tutta la Giunta per andare in campagna per dividere questa terra. Senonché don Luigi [X] ha fatto intervenire carabinieri e soldati. E’successo un macello. Hanno ammazzato il vice sindaco e altri contadini. Poi non so se le terre le hanno riacquistate oppure no. Ritorniamo indietro nei tempi, quando sono andato a insegnarmi il mestiere di muratore. Avevo 14 anni. Sono andato da un capomastro del paese. Così ho preso a lavorare col secchio sulle spalle. Portavo calce e cemento ai muratori. Costruivamo case. Erano lavori di contributi (legge del 51). Venivano poi dei funzionari del Genio Civile a collaudare i lavori ultimati. Le ore che lavoravo non si sa: 8-10 ore. Al primo tempo che sono andato mi davano 300-400 lire al giorno. C’erano altri ragazzi come me. Cosi un giorno ho pensato che non voglio essere pagato e cosi non portavo calce ai muratori e non ero pagato. Ho pensato di comprarmi tutti gli arnesi di lavoro e lavoravo senza essere pagato. Però quando ho incominciato a lavorare un pochettino bene, mi davano 700 lire al giorno. Passando del tempo( 2-3 anni) son partito e sono andato a Genova a lavorare. A Genova avevo degli amici e parenti. Sono andato dal ’61 al ’64. Non appena sono arrivato a Genova noi altri meridionali che non siamo mai usciti di casa si sa com’è… un poco per la lingua, che dalle nostre parti si parla sempre in dialetto. Così mi trovavo spaesato come un uccellino chiuso in gabbia. Piano piano ho fatto conoscenze e mi son trovato un pochino meglio.
1- Non ti viene mai la voglia di lasciare Colognom? 2 – Difficile. Dove vuoi andare? Hai un lavoro fisso. La famiglia. Appena adesso ti sganci dal partito. E ci stai male, per giunta! 1 – Ma oggi cos’é questa città per te? 2 – Quasi niente. Ci dormo, passeggio, chiacchiero alla buona con qualche conoscente. Sono un isolato. L’idea che questa città potesse contare per me si é dissolta. Per alcuni anni è stata un pezzo di un progetto politico collettivo che costruivo e curavo assieme ad altri. Eravamo una sezione, un segmento, la parte di un tutto. Ero quasi convinto di avervi messo radici. Mi pareva un compito soddisfacente anche fare la spola fra Mi e qui, fra il centro e la periferia per portare informazioni, dati di prima mano. 1 – Sì, ma ti sei anche illuso. Pensavi di cavare da qui chissà cosa. 2 – È andata male. Abbiamo fatto i marxisti rassegnati e i militanti colonizzati!
In attesa dell’operazione cerco di aggredire la vita d’ospedale come posso. Scambio qualche chiacchiera con altri malati. Attacco bottone con le infermiere. Ma da parte loro sento resistenza. (“Senti, bell’uomo, tu sei un malato. Qui starai qualche mese. lo qui a menar l’anima tutti i giorni. Non ho nessuna voglia di riconoscerti. Sono dentro la gabbia della mia professione, capito? E’ inutile che mi guardi le gambe. Certe cose accadono solo nei film”).
I medici, dopo aver mostrato per qualche giorno un certo interessamento al mio caso, hanno rimandato l’intervento. Oggi e domani saranno via. Fine settimana da ceto medio. Inimmaginabile per me. Queste pareti grigie. Questi crocifissi. Questa penombra penitenziale! Non ha gambe neppure il mio tentativo di capire con precisione la mia malattia. Alle mie domande (imprecise?) i medici rispondonosempre telegraficamente. Parleranno del mio caso tra di loro? Non mi resta che afferrare qualche accenno durante gli esami all’oftalmoscopio?
La suora che dirige il reparto è una stronza di suora. Le ho chiesto di poter guardare la mia cartella medica. Si é scandalizzata. La figa rinsecchita! Mi ha detto: “Ma pensi! Se uno avesse un tumore “. Alle mie rimostranze (” Che faccio qui altri quattro giorni…”) mi ha ammonito. Se uscissi, sarà difficile che al ritorno trovi un posto libero. Allora, per ripicca, me ne sono andato di soppiatto a passeggio per i viali del Policlinico e poi mi sono diretto verso l’uscita, in strada. In pigiama. Sole forte. Bella giornata. All’edicola prossima al parco, dietro alla Statale, ho fatto incetta di giornali. Almeno mi rifaccio per la quiete forzata. Sui muri degli edifici del Policlinico ci sono manifesti economicisti e truculenti degli anarchici o degli autonomi. Ma sono i soli.
In qualche momento sogno ad occhi aperti – aperti? Nel mio caso: brr! – una improbabile assemblea di malati. Ci riuniamo. Elenchiamo le cose che non vanno. Poniamo rivendicazioni. Che bella cosa sarebbe parlare mettendo insieme la sofferenza che a ciascuno procura la propria malattia. Non portarsela ognuno chiusa nel proprio corpo e nel proprio cervello, circondati dalla solidarietà tremula dei parenti e di qualche amico.
Ieri sono arrivate a farmi visita due colleghe del mio ITIS (E. B. e e C. V.).Un po’ sconcertate, un po’ distratte e vaghe come tutte le persone “sane” che arrivano in queste corsie. Insisto anche a fare le mie telefonate. Al mattino e alla sera. Ma non esagero. Scambio qualche battuta con i bambini e con R. Il telefono è una macchina infame. Riescono a passarvi soltanto le informazioni spicciole. Il resto rimane (dentro?). Provo a scriverlo a volte o a dirlo durante i colloqui. Anche sul telefono ho costruito un sogno. Mi vedo a far telefonate ad amici e compagni centralizzando e diffondendo informazioni che ho rielaborato da solo, come se potessi proseguire i miei precedenti impegni anche da malato.
Nella corsia accanto alla nostra, in una penombra da catacombe, giacciono immobili i malati già operati. I più vecchi sono silenziosi. Alcuni continuano dei colloqui intensi tra loro. A volte ci sono lamenti. C’è un operaio operato per la terza volta di cataratta. Dopo l’intervento non è riuscito ancora ad urinare. Sembra che sia un cattivo segno. E stanotte ho sentito l’infermiera brontolare con lui.
La distribuzione del cibo è un momento straccia-noia. Viene fatta in silenzio. Tintinnio delle posate. Il carrello che avanza lentamente fino al tuo letto. “Si mangia bene”. Cosi abbiamo un po’ generosamente concordato. Le portate non sono molto varie. Al mattino t’arriva un bicchiere d’orzo e una specie di caffellatte, al quale aggiungiamo qualche zolletta di zucchero pagando di tasca nostra. (Ahi, che brutti ricordi! Visite a parenti ammalati! Bisognava – così diceva mia madre – portare il regalo. Zucchero in zollette!). A mezzogiorno, per primo, pastina o pastasciutta, per secondo arrosto e verdure varie. Di sera, primo pastina o minestrone, secondo mortadella, prosciutto, formaggio. La frutta viene distribuita soltanto al giovedì.
Il cesso è l’altro diversivo alla noia. Nell’atrio trovo quasi sempre gli stessi malati che fumano e chiacchierano. La porta cigolante avverte che sta per entrare qualcuno. La doccia bisogna chiederla espressamente. Manca la carta igienica. Altra spesa a nostro carico.
Letture. Intervista ad Eric Hobsbawm sull’eurocomunismo, Rinascita 25.3. 77. ( Accuse di trascuratezza verso la situazione mondiale. Spunti critici contro Althusser). Prestipino, Contro la scienza e per lo spreco, idem. (Difesa d’ufficio da parte di un docente universitario degli studi seri, quelli d’élite. Polemizza contro l’etica dell’evasione dei nuovi anabattisti. Propone di sfondare il muro dello studio-lavoro. Sospetto che voglia salvaguardare soltanto l’avanzamento tecnologico contro il comunismo primitivo degli autonomi.
Parlando con R, il mio compagno di stanza. Dobbiamo avviarci a considerazioni filosofiche sulla malattia o sulla disgrazia che ci ha colpiti? Valorizzare cattolicamente il dolore, un bel correttivo alla (supposta) indifferenza (nostra?) ai malanni del mondo? Restare nel guscio melmoso della angoscia individualistico-esistenziale? (” Ma perché, porco dio, proprio a me!”; “E se va male l’intervento?”). E’ il dialogo con R che risveglia in me i pezzi cattolico-esistenziali della mia esperienza? E tutto l’armamentario ospedaliero?
Combattere la malattia. Ma quando la riconducessi al contesto sociale la combatterei meglio? E quando, invece, la considerassi – come dall’alto dei secoli – un momento inevitabile (come la vecchiaia) e mi attaccassi ( ma come?) a tutto il resto che attorno e fuori di me e di quest’ospedale continua a scorrere? Sì, bisogna combatterla. Nel proprio corpo, in quello degli altri. Non puoi continuare come prima, come se niente fosse, sottovalutando il danno che porta. Anche se trovo retorico un atteggiamento da stoico. La malattia non puoi saltarla. È spazio di riflessione, innanzitutto. Serve per avere una pausa, per riposarsi? Certo. Anche. Non voglio diventare malato immaginario. Ma la parte di menomazione accertabile, individuale e collettiva, va tenuta in conto.
Letture e riflessioni. (Negli anni di militanza in AO ci siamo occupati di problemi enormi ma con una frettolosità sospetta e dolorosa. Da emarginati. Da gente tenuta a lungo culturalmente e politicamente a digiuno. La nostra attuale autocritica è un bene, se continua!). Amos Cecchi, Intellettuali e lavoro produttivo, Rinascita 25.3.77 Analizza il libro La divisione del lavoro intellettuale“(Il Mulino). Dopo i soliti ossequi intelligenti alla specificità, alla potenzialità di trasformazione della crisi italiana e ai sacri obbiettivi finali (allargamento e riconversione della base produttiva, industriale e agricola), ripiega su un processo tendente a far entrare nel luogo di produzione la f-l intellettuale, scontando per un periodo iniziale [!],più o meno lungo, una sua sottoutilizzazione. E finisce per accettare il preavviamento [di Andreotti]. Annaratone, Il sociologo Alberoni e i giovani d’oggi, Quotidiano dei lavoratori 26.3.77 . Mi pare una polemica subordinatissima. Ribadisce che il marxismo-leninismo è una scienza e consiglia all’intellettuale borghese (ad Alberoni!) la partecipazione ad un fatto esemplare (una bella occupazione di case, ad esempio!). Così scenderebbe dalle nuvole! E’ come se dicesse ad un adulto incarognito: – Caro mio, perché non vieni a giocare con il triciclo! Cerroni, Questa nostra università – Rinascita 25.3.77. Una difesa imbecille della vocazione alla conoscenza, imperitura e astorica. Che eleganti le nostalgie dei reazionari! La gallina non è così stupida come si pensa” (Corsera 26.3.77, pag. 5). A proposito di un’immagine-simbolo nel mio periodo salernitano: Robert Squibb [è] uno specialista in ricerche sulla nutrizione […]uno degli esperimenti di Squibb consiste nel mettere una gallina in un congegno a forma di scatola. Il pennuto deve spingere 3 pulsanti secondo un determinato ordine per provocare la fuoruscita del mangime da un dispositivo a botola”
Colloqui con i malati del reparto oculistica. Con la signora bionda e paffutella. Il medico le ha dato le gocce sbagliate. Adesso è qui a rimediare. Con l’ operaio di una fonderia. Otto anni fa uno schizzo incandescente l’ha colpito in un occhio. Postumi. Ha una rendita Inail, una miseria continuamente sottoposta a controlli (per strappargliela).
Letture. Emma Castelnuovo, Servono davvero questi teoremi, L’Unità 27.3.77. Alessandro Dal Lago, Sorvegliare e punire nella logica della produzione (Michel Foucault, Sorvegliare e punire), Manif 27.3.77. Rufo, Domando la parola al Soviet supremo, Manif 27.3.77. Resoconti vari sul congresso in corso di AO. Sono ormai distanziato e senza emozioni verso questa vicenda.
Incerto sul mettermi a narrare o no la vicenda ospedaliera in cui mi ritrovo in questi giorni. Da quando ho perduto il gusto della narrazione? Annoto quasi facendomi forza, senza un obiettivo preciso.
Stamattina ho creato scandalo e rotto il tran tran della vita di clinica. Sono uscito nuovamente per andare ad acquistare i giornali all’edicola in strada. Come ho già fatto nei giorni precedenti. Ma oggi c’era meno gente in giro e il guardiano all’ingresso è più carogna. Mi ha subito bloccato con l’aria da mastino. Ho fatto lo strafottente. Prima ha cercato grottescamente di farmi tornare indietro piantandosi dinanzi a me e agitando come un burattino le braccia, poi si è arreso e si è messo a borbottare coi presenti alla scena: – Che delinquenti questi italiani! Sono rientrato quasi subito. Ma il guardiano era andato a riferire alla suora- Ho dovuto fronteggiare - ero pronto – la seconda sfuriata. La suora ha tirato in ballo il regolamento. lo le ho chiesto provocatoriamente di mostrarmelo. L’ho pure invitata bruscamente a non trattare i malati da bambini stupidi. Più tardi mi sono visto arrivare in camera il primario (B.?). Con voce gelida mi ha detto: - Lei è qui, non può uscire. E’ come un prigioniero volontario. Ho sorriso ironicamente, ma non ho tirato troppo la corda, perché nel frattempo avevo saputo che il mio intervento è stato fissato per martedì e domani (lunedì) i giornali che leggo non escono.
Visite. Arrivano mio suocero e B. della De Angeli, che è in cassa integrazione e ora frequenta le 150 ore. Ho parato la loro preoccupazione di “sani”: una leggera angoscia dei volti quando ti guardano e sentono una vaga minaccia incombente anche su di loro. Invece di rimanere in camera o nel corridoio li ho invitati all’aperto. Siamo andati a passeggiare per i viali interni del Policlinico. Abbiamo fumato e accennato al congresso di AO, alle dichiarazioni di Cossiga, che utilizza contro gli autonomi le tesi del PCI, alla festa delle donne a Cologno, a G.G., che si è, malgrado le nostre distanze politiche, informato sulla mia sorte. E poi li ho spediti via. In anticipo. Per me le visite ai malati devono essere brevi. Perché penso al mio fastidio di “sano” quando visitavo qualcuno in ospedale. E’ vero che, se nessun volto noto appare quando all’ora fissata scatta il rituale della visita, rimango deluso. Ma la visita è un surrogato. M’impaccia. La distanza malato-sano è troppo istituzionalizzata. Non mi pare aggirabile. Quasi mai si riesce a parlare, né della malattia né di quanto accade “fuori”.
Mi hanno ospedalizzato per delle analisi che avrebbero potuto benissimo fare fissandomi degli appuntamenti. Il peggio è che i risultati di tali analisi mi restano ignoti. E poi parenti e amici sono per principio esclusi dalla vita della clinica. Che a me mare troppo rigida. Il suo ritmo è stabilito dagli impegni (economici!) dei medici; e, per gli aspetti più segmentati della routine, dai “capricci”delle suore e delle infermiere. (O da impegni anche veri, da cui però i “capricci” da privilegio sono indistinguibili). Perché deve essere cancellata la connotazione sociale e personale svelata dagli abiti che indossavamo quando siamo entrati e dobbiamo essere costretti giorno e notte al pigiama-uniforme? C’è un regolamento che non considera né la psicologia dei sofferenti né il bisogno di quiete dei malati, dei convalescenti o dei parenti che attendono preoccupati e costretti ad un ozio forzato.
Devo sperare che la mia permanenza qui sia breve e ridotta allo stretto indispensabile. Ma finora non è stato così. Ho riempito la settimana leggendo. Ed essendo prevenuto a sufficienza contro la vita d’ospedale, ho cercato di preservarmi dal suo meccanismo alienante. Ma chi sono qua dentro? Sono un distacco di retina. Per difendere quello che ero prima e sono ancora devo restare continuamente in guardia. E gli altri ricoverati? Vivono come me questo meccanismo?
Letture. Fortini, Il nuovo medioevo elettronico (Su “Dalla periferia dell’impero” di Eco), Corsera 27.3.77. Formidabile presa per il culo di un intellettuale troppo aggiornato e troppo brillante. Lidia Menapace, Contro l’etica del lavoro , Transizione n. 2. Spunti utopistici e osservazioni acute estratte col metodo del personale-poItico contrapposto alle statistiche.
Dopo il rito della dilatazione della pupilla – quotidiano, ossessivo – il dottor B. e il suo seguito si sono affaccendati addosso a me per fotografare con un apparecchio nuovissimo (lo dicevano gongolanti) la mia retinoschisi. Prima delle manovre – utili alla loro ricerca scientifica? alla mia guarigione? al loro esibizionismo di ricercatori? – ho scambiato qualche opinioni con l’altro dottore, A.. E’ un assistente, se non sbaglio a cogliere le gerarchie della corporazione. Dalla strada arrivavano gli slogan delle femministe che sono arrivate in corteo davanti alla vicina clinica Mangiagalli per protestare. E’ morta in questi giorni una donna a cui era stato rifiutato l’aborto terapeutico. A. se l’è cavata dicendomi: – Non mi piace l’estremismo, ma sono per l’aborto nei casi necessari. L’ho classificato come un democratico. Con riserve. In realtà, i concetti politici, che uso per selezionare quelli che incontro, si stanno sbriciolando. Per giunta nella mia condizione di paziente isolato il senso di una perdita di potere (anche quello semplice del giudicare) è ancora più doloroso. Sopporto malamente ma in silenzio il tormento delle foto che fanno ai miei occhi. La stanza è buia. Mi arrivano informaIi ordini: Guardi in alto! Più in basso! Poi, dopo una pausa, confabulano fra di loro. È come se io non ci fossi. Sono soltanto un interessante oggetto da scandagliare. Li sento passarsi la voce: Venite a vedere! C’è un alone attorno. Sembra come se fosse stato trattato con il laser. E vedete la rosetta. Una forma congenita. Eccetera. Alla fine torna la luce nella stanza. Gli occhi strapazzati mi lacrimano. Non riesco neppure a vedere i medici nei loro camici bianchi a causa delle pupille dilatate. Me ne vado verso il mio letto come bastonato.
Vengono ricoverati altri malati. Hanno l’aria incerta e si guardano intorno smarriti. So che la loro mente è impegnata in operazioni di calcolo e di intuizione. E penso a quando, al liceo, dopo che il prof ci aveva dettato la traccia (di matematica o della versione di greco e latino), cominciavamo quel lavorio ansioso per orientarci. Così i nuovi arrivati. Dove sono? Cosa riconosco di questo luogo che fino a ieri neppure immaginavo? Ah ecco, lì c’è il cesso. Quello è un vecchio malridotto. Quelli sono i suoi parenti, sì. E tutto questo sforzo avviene mentre si è immersi in quella sostanza, viscida e inafferrabile, che è l’angoscia per la propria malattia non ancora individuata.
Cerco di far parlare G., un giovane subnormale ricoverato già prima del mio arrivo. Lo sollecito facendogli domande sulla musica che proviene dalla sua radiolina. Mi dice che gli piace soltanto stare nei cimiteri. Tutto il resto non gli interessa. Riesco a strappargli poche notizie: vive a Como, con la famiglia, non ha animali in casa, ascolta tutto il giorno la radio. Poi desisto, stanco. Come se avessi parlato per ore e ore.
All’ora di pranzo io e R mangiamo furtivamente due quaglie che sua moglie ci ha cucinato e portato. Mi ricordo ancora una volta dei regali mangerecci che si portavano ai parenti a SA quando finivano in ospedale: zollette di zucchero, grissini Buitoni, caffé tostato, vermhut.
Oggi pomeriggio, mentre io e R siamo appisolati sui lettini, irrompono nella stanza Vera e Luciana, due delle infermiere del reparto. Sono le più socievoli. Ci scambiamo battute. Luciana fa allusioni sessuali e parla di numerosi ragazzi, che cambierebbe ogni giorno. Vera è fidanzata con un camionista. Si lamenta di essere trascurata. Le preferisce il bar. Sembra rassegnata. Luciana dice di non essere femminista e tronca sull’argomento. E’ a caccia dell’uomo giusto o interessante. Ed esibisce come sua carta d’identità sessuale i numerosi compIimenti che le piovono da tutte le parti. In effetti ha un bel corpo. Dice di essere iscritta ai corsi serali di chimica. Hanno entrambe 24 anni e abitano a Milano da cinque o sei. Luciana è di Cremona. Vera viene dalla Sardegna.
Letture. Forti, Ruotolo, I circoli giovanili,Transizione 2: La nuova sinistra […] è insomma diventata una nuova istituzione. E come tale viene contestata. La coppia è in crisi, Transizione 2. Note interessanti sui trentenni del 68 che rischiano di essere fregati su tutta la linea.
29. 3 1977
Ultimi controlli con l’oftalmoscopio. Cena leggera (pastina, formaggino). Iniezione di antibiotico (preventiva, mi dicono). Taglio delle ciglia dell’OS e atropina, clistere. E adesso l’attesa. Paura? Angoscia. Senso di inadeguatezza, di essere eterodiretto, di impotenza. Vaga esagerazione(fantastica? delirante?) del clima che vivo. Ricordi acuti e improvvisi di violenze subite da ragazzo si mescolano a immagini di violenza e di morte raccolte in questi anni nelle strade e dai giornali. Cade il baluardo delle attività normali che ho tentato di proseguire anche in ospedale: lettura, colloqui, andare in giro. Adesso sono un malato più nudo e in allarme. Ho del rancore per i medici e gli infermieri che non mi danno nessun aiuto psicologico. Pretenderei (quale pretesa!) una visita preliminare alla sala operatoria, un’illustrazione approssimativa degli strumenti e delle varie fasi dell’operazione che sto per subire. Invece mi devo accasciare, rattrappire nella mia solitudine e qui, rintanato come in un guscio (sempre quello, quello “naturale” che mi protegge forse dall’infanzia), trovare la via per resistere a questa cosa indefinibile che é l’angoscia. Aggrapparmi alla fantasia? Ai rimproveri? Agli autorimproveri? Al sogno? Alle immagini care?
31.3.77
(Operato. Gli appunti che seguono sono stati scritti con gli occhi bendati in maiuscolo su un quaderno)
E' STATO OPERATO ANCHE R [il compagno di stanza] E' ENTRATO IN SALA VERSO LE 12. SI LAMENTAVA LA STANZA [mi dicono?] E' BUIA. IN QUESTI MOMENTI ANALIZZIAMO IL NOSTRO CORPO. DIVENTANO PROBLEMI GROSSI URINARE, MANGIARE, CAGARE. SCOPRO ANNI DI CENSURA DI QUESTE FUNZIONI. MI RITROVO AD AVER VERGOGNA A FARLE IN CONDIZIONI COSI' POCO PRIVATE. HO SAPUTO DA R.[mia moglie allora] CHE QUANDO SONO USCITO DALLA SALA OPERATORIA ERO VIOLACEO IN VOLTO E IRRICONOSCIBILE E TREMAVO IN TUTTO IL CORPO. SONO PARTICOLARI PREZIOSI, MI DICO. IERI BONAVIA MI HA TOLTO LA BENDA PER LA MEDICAZIONE. HA DETTO CHE VA BENE. HO UN TIMORE ECCESSIVO AD APRIRE GLI OCCHI STANDO CON GLI OCCHI BENDATI, AL BUIO I RUMORI DIVENTANO MINACCE. HO VISTO UN ATTIMO UN ALTRO MALATO: HA LE DUE MANI ARTIFICIALI. HO ASCOLTATO DUE NOTIZIE: QUELLA DEL SINDACATO CHE HA ACCETTATO IL RICATTO DI ANDREOTTI E DEL FMI E QUELLA DELLA COMPAGNA DI ROMA SEQUESTRATA E VIOLENTATA PER LA SECONDA VOLTA. LE OPINIONI A RADIO POP OSCILLANO TRA LA VOGLIA DI RITORSIONE IMMEDIATA E UN PROGETTO DAI VAGHI CONTORNI DI EDUCAZIONE GENERALE. IL TASSO DI VIOLENZA GENERALE VA AUMENTANDO: LE DUE NOTIZIE HANNO LO STESSO SEGNO.
- 4. 77
1. MI MERAVIGLIA LA FACILITA’ CON CUI ALCUNI PARLANO . SENZA IMBARAZZO O ANSIA ALLA RADIO. MENTRE PER ME SCRIVERE E'STATO ED E' ANCORA UNA IMPRESA QUASI CLANDESTINA DA RITAGLIARE FRA COSE NECESSARIE O IMPOSTE. E LO FACCIO PERCIO’ ANCORA CON SCRUPOLI E ABBREVIANDO. 2. E. E A.SI PRECI PI TANO DA ROMA PER FARMI VISITA IN OSPEDALE. ANNI CHE NON CI SENTIVAMO 3. MIO FIGLIO FABIO E LA SUA CLASSE FANNO UN VOLANTINO SUI RISCHI DEI COLORANTI NEI DOLCI. 4. LE FEMMINISTE E LA SESSUALITA' (AMORE NON VIOLENTO COME OBIETTIVO)
3/4/77
Arrivano in visita in successione e mi danno notizie da fuori: A. ed E: sciopero dei grafici. B. e G. : la sezione sindacale dell’ITIS si è opposta al timido tentativo fatto dai compagni di discutere sul problema dell’aggressione alla ragazza di Roma. N. e L. C. (Sono stata in sintonia con te durante l’operazione). Mi hanno procurato il nome di una dottoressa di fiducia a cui raccomadarmi, visti gli ospedali d’oggi. (Solo d’oggi?). G. : crisi sua e di M. rispetto ad AO. Costi che comporta. A 40 anni che lavoro troverà M., che finora ha fatto il funzionario politico? Pensano di trasferirsi da Milano e andare a B.
6.4. 1977
1. Fra poche facciè na pazzie, m’aize 'ncuolle e me ne vache ' co ' fagotto cunm'o viecchie 2. Ué madonne de piede muntagna cademe ncuolle cha voglie murì (nenia cantata da mio padre) 3. Troppo appresi a ridermi addosso. Come se imminente fosse un processo su quando avessi combinato con le donne dalla nascita a un punto morto della mia esistenza.
7.4.77
Giornata con inizio triste. Cielo nuvoloso. Ho un’aria ancora più ombrosa per gli occhiali scuri da sole che sono costretto a portare. Nel reparto siamo rimasti in pochi. C’è silenzio. Le infermiere stanno facendo le pulizie in grande prima di andarsene per alcuni giorni in ferie. Posso solo ascoltare la radio. Cambio stazione di continuo. (D’improvviso mi ricordo di Lucia, la vecchietta cieca forse dalla nascita che viveva in casa di zia Adelina a SA. Armeggiava le manopole di una grossa radio e la domenica aspettava con ansia di seguire la messa. Quando morì scrissi una poesia. Ricordo soltanto che l’avevo paragonata a una candela che si spegneva.
Radio. Canale 96. Moro accenna ad aperture governative a forze nuove (al PCI). Parla di un governo d’emergenza. Hanno sotto gli occhi una situazione sfuggente (rapimento De Martino, assemblea di delegati operai dissidenti) e cercano di farla sbollire con prudenza, puntellandosi sul PCI.
Antiautoritarismo miope e di maniera il nostro. Non abbiamo avuto il senso della distanza fra noi e il potere (compresi i gruppi dirigenti del m.o.). Ripieghiamoci. Disprezzare la cronaca perché manipolata? Eppure è il punto di contatto più “palpitante” fra noi e il mondo.
Ricordi dei parenti venuti dalla Calabria a visitare R dopo l’operazione. Parlano della vita di parrocchia al paese come di un divertimento, come altri parlerebbero del cinema: Si andava nella settimana santa a passare il tempo in chiesa, si portavano arance e lupini e si mangiava, mentre il prete stava a predicare. C’era la maestra che ci sgridava, ma noi si continuava. Ricordi miei (sollecitati dai loro): – le bacchettate sulle mani alle elementari; – il gatto che graffiò (tanto) la bambina in fasce; – la paura degli “americani”; – bambini “selvatici”: ‘o zelluse.
8.4.77
R è stato dimesso. In camera sono solo. Dialogo col dottor B., quello alto, coi baffetti. (L’altro più basso si chiama R. e dev’essere meridionale). S’informa sulla mia professione, sulla scuola d’oggi e sugli studenti. Ha posizioni conservatrici. Propone il numero chiuso come primo passo indispensabile per uscire dal caos. (Mi cita come esempio valido la Grecia!). Lamenta l’impreparazione agli esami degli studenti e il fatto che in Italia arrivano da ogni parte del mondo (arabi, ecc,) proprio per la facilità degli studi. Gli ribatto: – Non potete mostrare il pane agli affamati e chiudergli subito il sacco sotto il naso!
Musatti sul Corriere della sera. Sostiene che nel rapporto sessuale è naturale e inevitabile un certo grado di violenza (la “penetrazione”). Beh, non c’è differenza fra sfondare una porta e farsela aprire? E l’inganno non è violenza?
Ancora sui 15-16 anni ignoravo molte cose sul sesso. Dall’anatomia alle tecniche di accoppiamento. Ero persino incerto sulla mia identità sessuale. Tra i pochi libri in casa trovai il codice penale conservato da mio padre, ex maresciallo dei carabinieri, dove lessi i paragrafi sulla violenza carnale. I libri di meditazione dell’Azione Cattolica ne parlavano per simboli. Scovai qualche passo erotico dell’Orlando furioso. Più tardi ancora esplorai qualche voce dell’enciclopedia alla Biblioteca di SA. Accolsi i timori sulle malattie che sarebbero derivate dalla masturbazione (forse da un libretto sulla sessualità di Cazzaniga). Quando mi andai ad allenare per fare i 3 o 5mila metri al campo sportivo mi allarmai per vari dolori all’inguine, derivati forse da sforzi. Il mio accostamento alla sessualità è rimasto da stordito che si muove con una fame inappagata di conoscenza e di esperienza. Per tutto il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza i miei rapporti sono stati quasi esclusivamente con coetanei maschi. Ricordo alcuni giochi infantili da bambini, i momenti in cui con i cugini o gli amici si pisciava o cagava insieme nei campi. Una certa gelosia nei confronti di alcuni amici più bravi e disinvolti, coi quali avevo incontri quotidiani per l’attività in parrocchia . E poi amicizie con preti e dirigenti sempre di Azione Cattolica. Un mondo maschile chiuso, fondato sulla rimozione della sessualità. Anche quando avevamo un contatto con le donne, erano in prevalenza madri o zitelle.
Perché la pausa che mi ha imposto la malattia (o la fase postoperatoria) mi riporta questi problemi? O é il femminismo che me li impone?
Radio 3 . Ascolto I Rusteghi di Goldoni. Bellissima la figura della donna che architetta ” la rivolta”.
10.4.77
Altri ricordi sulla mia faticosa esplorazione sessuale di adolescente. Le forme in cui si manifestò mi appaiono oggi ridicole. Ma era tutta colpa mia? I miei genitori, i parenti, gli amici erano tutti assenti. Possibile che nessuno si accorgesse che cercavo di sapere? La mia esplorazione fu per forza quella di un autodidatta pieno di paure e terrori di fronte al proprio corpo, a quelli degli altri (animali, donne, bambine, uomini). Mi rivolsi ai libri che maneggiavo con sicurezza. Ma quelli che mi sarebbero serviti non c’erano in casa mia. Al liceo ci facevano saltare persino le novelle più vivaci di Boccaccio. E alla fantasia. Ma i percorsi che feci davvero mi sono rimasti oscuri.
Per Pasqua hanno cercato di allietare la nostra degenza. La suora mi porta delle uova sode da decorare con un pennarello. Faccio degli schizzo ironici e provocatori: un omino con il pugno alzato, un palloncino con falce e martello; una colomba con l’ulivo e la scritta “Pace?”; un volto occhialuto con un fumetto augurale, ecc. Pranziamo tutti insieme. Siamo rimasti in 6 nel reparto: l’impiegato romano del ministero della difesa; un bracciante anziano di Cosenza; un rappresentante di commercio; l’ex operaio della Pirelli ora aiuto-dirigente in un’aziendina di famiglia; un impiegato della IBM; e io. Tutti sono silenziosi. Le mie domande non vengono riprese. Oggi per l’occasione ci danno antipasto, ravioli, agnello, una fetta di colomba e il caffè. Poi ci si separa e si va a letto. A riposare. Di pomeriggio sono venuti D. e P. Le loro due bambine sono state trattenute fuori dal portinaio. Poi R e i bambini. Mi cambio.
Radio 3. Un certo discorso: Sull’uso del nudo di donna al cinema. Afferro: “Vogliamo decidere noi quando spogliarci e se farlo (essere soggetto). Se non come oggetto nel cinema non c’é posto per noi donne. Per lei la libertà sessuale della donna era fare la puttana. Dicono che per essere emancipate bisogna mostrare le tette delle donne anche sul 2° programma della Tv”
13.4.77
Siamo in tante. La condizione della donna nelle canzoni popolari e femrniniste a cura di Yuki Maraini. Ci si sente un po’ “traditori” ad occuparsi di femminismo. Ma c’è anche un sottile piacere come per l’arrivo del giorno di una “vendetta” formatasi come tentazione in un lontano passato? Per la vicinanza della mia esperienza a quelle di emarginazione delle donne? Ma questa vicinanza e voglia di vendetta non l’ho pure sentita quando mi sono avvicinato alla condizione operaia? O a quella degli ospedali psichiatrici? I maschi “illuminati” sono delle quinte colonne?
14.4.77
Manifesto di rivolta femminista. Sputiamo su Hegel in Movimenti femministi in Italia, Savelli . Il femmismo va oltre il comunismo?
Il più stronzo di tutto a tavola é il rappresentante di commercio. Non apre mai la bocca se non per sibilare qualche “grazie” di convenienza. Non offre né il sale, né il vino. Sbuffa dal naso e guarda con un sorrisetto sospettoso e ebete. Porca troia devo averlo proprio vicino?
Mi viene a trovare in camera il bracciante calabrese. Gli altri lo mettono in soggezione. Con me parla. Ha lavorato tutta una vita – dall’età di 10 anni, adesso ne ha 63 – come bracciante. Ha un po’ di terra. Coltiva olive e pere. I figli sono emigrati. Ogni tanto esclama: – Eehh! Dio!
Nota
[1] brucellosi Nome comprensivo delle malattie dell’uomo e degli animali (caprini, ovini, bovini), determinate da batteri del genere Brucella. Le più note, per diffusione e gravità, sono la cosiddetta febbre di Malta (febbre melitense o ondulante o mediterranea o anche setticemica del Bruce) dell’uomo, sostenuta da Brucella melitensis, e l’aborto epizootico, che colpisce specialmente i bovini, provocato da Brucella abortus. (da Treccani)
Paure, ansie, dubbi, diffidenze, dolore, senso di estraneità del proprio corpo ridotto a strumento che non funziona più bene e che sarebbe da riparare, con tutte le difficoltà e incertezze del caso. Sentimenti tipici della vita e di ogni malato. Qualcuno – non ricordo chi – ha scritto: «Si usa il corpo per vivere, poi, con l’età, pian piano, si finisce per vivere in funzione del corpo, per usare il corpo». Insomma, il corpo richiede attenzione, di meno da giovani e sani, di più da anziani e da malati. E il corpo che richiede attenzione in qualche modo fa sempre ricorso a rimedi naturali, cioè forniti dalla natura ma non proprio abituali, e a rimedi artificiali, cioè forniti dalla scienza e dalla tecnologia. Dipendere dalla tecnologia è un passo ulteriore verso l’estraneità del corpo e l’attenzione che dobbiamo dedicare al corpo (attenzione vuol dire tempo, vuol dire subordinare tutto il resto alle esigenze del corpo, ecc.) finisce per renderci estraneo il pensiero stesso, ogni pensiero che non pensa al corpo. La perdita del corpo è la perdita di porzioni della vita, che si restringe in quantità e in qualità. Certe cose che prima si facevano, poi non si possono fare più.
Tutto questo fa parte della vita, malattia con la quale conviviamo fin dalla nascita. Siamo tutti malati, è vero, ma la malattia la sentiamo solo quando è in fase acuta e quando da acuta diventa cronica; e quando ci limita in ciò che vogliamo fare, che prima facevamo, che ora non siamo più in grado di fare o lo facciamo più lentamente e con più fatica e minori risultati.
Tutto questo è noto. La letteratura sulla malattia e sul corpo è sterminata.
Diverso è però l’atteggiamento che ogni persona assume. Il modo individuale di vivere la propria malattia. C’è chi si ribella, c’è chi si rassegna, c’è chi pensa comunque in positivo, chi si deprime ecc. ecc.
Ennio scrive a un certo punto del lungo “diario di ospedale”: «Pretenderei (quale pretesa!) una visita preliminare alla sala operatoria, un’illustrazione approssimativa degli strumenti e delle varie fasi dell’operazione che sto per subire. Invece mi devo accasciare, rattrappire nella mia solitudine». Questo è soggettivo, non è detto che sia la regola, purché si affronti la malattia con realismo. Io sono stato tre volte ospedalizzato, ho subito tre delicate operazioni, di cui due agli occhi (fin da ragazzo, sebbene robusto e prestante, ho però sempre avuto problemi di vista e in seguito di udito). Io ho cercato, prima delle operazioni, informazioni sui libri adatti, cioè sui testi di medicina, in qualche caso gli stessi che erano stati scritti da chi doveva operarmi per i propri allievi in clinica universitaria. Letture difficili? Certo, ma non tanto se li si legge solo per sapere che cosa accadrà, e che cosa potrebbe accadere, durante e dopo l’operazione. In questo modo si possono evitare paure inutili e concentrarsi su quelle “complicanze” effettivamente possibili, che la pratica clinica di solito quantifica in percentuale. Quando il successo di un’operazione è garantito al 98% si può stare tranquilli. Quando la percentuale scende sotto il 70% c’è da avere paura. Se scende sotto il 50% diventa un azzardo da affrontare solo se è assolutamente necessario e se l’alternativa è comunque peggiore. Queste mie sono osservazioni banali? Sì, certo, perché il realismo spesso fa proprio questa operazione: rendere banali, ma osservabili e comprensibili nel dettaglio, le cose complicate e confuse e non comprensibili nell’insieme.
Molte cose scritte da Ennio non riguardano il rapporto fra il malato e la sua malattia, e meno ancora quello con i chirurghi e l’organizzazione ospedaliera, ma piuttosto il rapporto di Ennio con se stesso, con la propria psicologia. Sembra, ma non è, la stessa cosa. Un rapporto diverso con se stessi porta ad affrontare in maniera diversa il rapporto con la malattia e con i medici.
Invece, il giudizio, di carattere politico o sindacale o anche solo organizzativo su come funzionano gli ospedali e sulla professione di medico, è un’altra cosa ancora. E vederlo dal punto di vista del malato fornisce sicuramente elementi in più. Io, come Ennio e come tutti quelli che hanno subito periodi di ospedalizzazione o di frequenti visite controlli ed esami, potrei dare molti consigli su come organizzare meglio il servizio sanitario. Ma poi dovrei chiedermi: i miei consigli sono compatibili con la realtà? con le risorse economiche e umane disponibili? E in più casi sarei costretto a rispondere di no. Se devo attendere tre mesi per una visita specialistica, come posso chiedere che la visita duri 30 minuti, con lo specialista che risponde a tutte le domande e spiega pazientemente, anziché 10 minuti? La lista non si allungherebbe a 9 o 12 mesi? E come soddisfare tutte le esigenze se la popolazione aumenta, se l’età media aumenta, se le necessità di cure mediche aumentano continuamente? Se i medici diminuiscono? Il problema è risolvibile o non risolvibile? L’organizzazione sanitaria attuale è fra le migliori possibili o è molto più giù? Ecco domande realistiche alle quali cercare risposte realistiche.
Ma nel rapporto fra la mente e il corpo ogni persona mette in gioco, soprattutto quando, con la malattia, il rapporto è in crisi e in conflitto, una propria strategia in cui ci entrano sia la psicologia sia la metafisica. Io riassumo tutto il groviglio complicato di pensieri, idee e sentimenti con tre parole: «informazione, speranza e rassegnazione», che naturalmente valgono per me, non per tutti. La mia strategia è informarmi per cercare di scegliere il meglio per me possibile, sperare che, nonostante tutto, mi vada bene o mi tocchi il male minore fra quelli probabili. E in terza istanza rassegnarmi a ciò che non posso evitare e usare ciò che mi resta imparando a fare a meno di ciò che perdo. In fondo, qualche decennio fa temevo di diventare cieco e sordo e invece, a 75 anni compiuti, ci vedo ancora abbastanza da leggere e scrivere e ci sento al 50%, che basta per una conversazione normale faccia a faccia, per seguire la televisione, una conferenza e cose simili. E se non sento quando mi sussurrano, o quando più persone parlano contemporaneamente, pazienza. Si può andare avanti lo stesso.
Durante i ricoveri ospedalieri ho letto molti libri, ho conosciuto persone, interessanti o meno che fossero, ho giocato a carte, a dama e a scacchi, ho raccontato e ascoltato barzellette, e così via. Insomma, ho passato il tempo al meglio possibile, e «anche questa è vita», per citare il titolo di un libro dell’amico Leandro Fossi, che ha subito 12 operazioni prima di morire di cancro, e che ho recensito qualche anno fa in questo blog.
Ovviamente, ho anche meditato sui massimi problemi dell’universo, come del resto faccio sempre, perché l’unica medicina possibile, olisticamente e non realisticamente possibile, è la previsione escatologica.
Tuttavia, leggere le esperienze di altri, come queste di Ennio, in cui la cronaca d’ospedale diventa anche cronaca politica, è sempre interessante e rivela risvolti, dettagli, inediti che arricchiscono la propria personale esperienza.
SEGNALAZIONE
Mi è stato fatto notare opportunamente che nel 2014 l’amica Rita Simonitto aveva affrontato il medesimo tema di questo mio “Diario del 1977”.
Das Ding. Rovesciamenti di prospettiva
https://www.poliscritture.it/2014/06/27/das-ding-rovesciamenti-di-prospettiva/
Buona rilettura.
E’ il1977, ora 2019 dopo aver letto questo tuo “diario” scritto come al solito magistralmente, voglio dirti che ci sei proprio tutto carissimo Ennio!
Oggi come ieri tu riesci sempre a rendere la realtà, così come è , senza sconti e orpelli. La politica che ti segue e ci segue ovunque resta a guardare e ad accompagnare ogni nostra condizione. Complimenti.
Davvero una bella lettura! Ciao
…molto interessante seguire i complessi discorsi sullo stato di malattia, esperienza che ci accomuna. La malattia quasi come “un mondo a parte” che può suggerire ogni sorta di reazione. Mi colpisce la reazione di Ennio Abate bambino ma anche adulto alla malattia degli altri e anche alla propria: di fastidio, quasi, di ipercritica, di fuga…La malattia viene a sospendere o a rallentare i ritmi della vita così detta normale, insieme alle responsabilità…allora può arrivare il timore che possa essere l’inizio dell’arresto totale: chi si ferma è perduto! Un nemico che ci tallona e dobbiamo giocare di intelligenza, di astuzia magari pur sapendo che lui (Lei) avrà l’ultima parola…L’approccio alla malattia è sociale e soggettivo, vi facciamo rientrare tutte le nostre convinzioni, emozioni, visioni del mondo, come dice Luciano Aguzzi…Quando ero bambina non mi dispiaceva di ammalarmi, ne ricavavo un briciolo di attenzione, la baraonda intorno a me si quietava un po’, potevo estraniarmi…Penso anche ai senzatetto che si riversano al pronto soccorso degli ospedali: una malattia sociale la loro. trascrivo una poesia scritta in questi giorni, quasi come una preghiera:
Tante le bandierine nemiche
sul corpo territorio…
Piccola mia parte resistente,
che ci sei,
schiacciata sotto al peso della resa,
ti invoco, ti incoraggio
ci sei!
Espandi la tua forza
il tuo profumo
lo possa respirare, il polmone
che mi manca,
a lente boccate di fiducia.
La canna del tempo non si piega,
appoggiati come vecchia
sulla memoria dei passati
a scalare pareti di paura
per arrivare a comprendere
l’ampio paesaggio
di un lungo,
comune cammino
e sulla cresta
la vista si aprirà
su altre valli…
Ultima mia considerazione, tratta dalla saggezza di mia nonna contadina, che tengo buona anche se la speranza di vita si è allungata: “Dopo i settanta sono tutti regalati”…se ricordo come lei era serena, con tutto quello che aveva visto!
AL VOLO/ RIORDINADIARIO 1982
“andava in estasi quando spiegava alle ragazze che la retina era suppergiù spessa e sottile come la carta per le sigarette, e inoltre si componeva di tre strati di cellule, le cellule sensoriali, le dipolari, le cellule gangliari, e che solo nel primo strato – spesso e sottile circa un terzo di di una carta per sigarette – c’erano circa sei milioni di coni e cento milioni di bastoncelli, distribuiti non uniformemente ma in maniera ineguale sulla superficie della retina. I loro occhi, predicava alle ragazze, erano un tesoro immenso, insostituibile; la retina era solo una dei quattordici strati dell’occhio e aveva complessivamente sette o otto strati, ciascuno diviso dall’altro”
(Heinrich Böll , Foto di gruppo con signora, pag. 41, Einaudi, Torino 1972)
AL VOLO/RIORDIANDIARIO 1982
“Vennero il professor Speciale Picciché che trent’anni prima con esito nullo, lo aveva operato per un distacco di retina traumatico all’occhio sinistro e il professor Lo Cascio di Napoli. Discussero a lungo, lo sottoposero a una sfilza di esami il cui risultato fu invariabilmente negativo, a estrazioni dentarie nell’ipotesi di un focus granulomatoso, a empirici salassi per cui dovette sopportare di sentirsi succhiare il sangue da un paio di mignatte. Tutto risultò inutile. L’unico dato certo era l’impossibilità di pronunciarsi sulle probabilità restanti di un barlume di vista poiché l’occhio era annegato in un siero rossastro e non potevano osservare lo stato del fondo oculare. [,,,]Fu il professor Bietti a emettere la diagnosi giusta, anche se al momento di prescrivergli la terapia che lentamente lo avrebbe riportato a una psedonormalità, ammise che era un po’ come sparare a pallini per fare centro. Si trattava, disse, di una corioretinite emorragica essudivante di carattere virale, probabile conseguenza della broncopolmonite virale trascurata. Il danno già subito era irreversibile, per evitare di aggravarlo ulteriormente e arginarlo, oltre al buio e all’immobilità, erano indispensabili antibiotici, antiemorragici, colliri e controlli. I giorni trascorsero lenti nell’attesa della visita oculistica.
(Faldini e Fofi, “Totò, l’uomo e la maschera, pag. 72, Feltrinelli, Milano 1977)
AL VOLO/RIORDINADIARIO 1982
“Quando uno stimolo luminoso cade sui fotorecettori della retina, inizia una complicata sequela di eventi biochimici ed elettrici che portano alla percezione dell’immagine. Il processo della visione è un processo di rielaborazione dell’informazione visiva e non ne costituisce assolutamente una riproduzione fedele, punto per punto. Il sistema visivo estrae, schematizza, decodifica, diminuisce la ridondanza dei segnali d’entrata, elimina molti particolari non necessari a riconoscere una forma mentre altri ne amplifica,riduce l’immagine a pochi tratti essenziali, trasforma le coordinate dello spazio fisico e geometrico in cui lìillagine stessa è situata in uno spazio mentale non euclideo.
Tenendo conto di questi e altri spunti della fisiologia percettiva, il neurofisiologo Ruggero Pierantoni nel suo recente libro “L’occhio e l’idea: fisiologia e storia della visione ( Boringhieri 1982) si propone di seguire l’evoluzione delle raffigurazioni anatomiche come dei paradigmi conoscitivi che si sono susseguiti nella storia del pensiero nel caso del fenomeno “visione”.
( Enrico Alleva e Antonio Cattaneo, Un dialogo silenzioso tra immagin ie cervello, il manifesto, venerdì 20 agosto 1982)