Su “Ogni vigilia è disarmata” di G. Mannacio
di Ezio Partesana
L’ultima raccolta di versi di Giorgio Mannacio ha un titolo meraviglioso: Ogni vigilia è disarmata – e non c’è nei testi, non c’è nelle rime. Qualcosa gli rassomiglia, è vero, e si dà per scontato sia quello. Eppure non c’è. Contro qualsiasi intuizione questa vigilia lascia tracce in chi la vive ma non in chi la guarda; a morire si è sempre soli e mai pronti. Hai un bel parlare – e Mannacio ha un parlare bellissimo – di ricordi, di eredità e persino delle cose comprese, dei fiumi che rendono memoria del bene fatto e cancellano gli errori, quell’ascesa è cosa che non impareremo mai a fare. E non perché ci manchi la fede o la speranza né la carità degli amici e degli amori; quelli sono lì ad aspettare che si compia il trapasso e di noi si possa finalmente piangere senza destare sospetto. Sono proprio e letteralmente le armi che mancano: andando si lasciano tutte indietro, e non ci si volta nemmeno. Ora io non so cosa si chiami a raccolta in punto di morte, non sono ancora morto e chi ho visto andare non me lo ha voluto confessare. Però una cosa è certa: dopo qualcosa manca che non torna.
E se le parole sono vendette in forma – non giudici né banditi – a chi le lasci quando te ne vai? A un signore che non conosci, alla cuoca forse, alla moglie piccolina, a quelli che ancora rimangono a lavorare, e in un’antologia tutta personale richiudi te stesso. Sarebbe questa la poesia? Sì sarebbe anche questa la poesia, un congedo da tutto quel che sarebbe dovuto essere diverso. Non importa molto la scrivano gli adolescenti nei diari o i professori nelle collane: se tutto fosse perfetto – e cioè compiuto, concluso, ma anche estinto – non avremmo versi. Perché quelle bestiole si fanno e arrivano per ingannare i sensi e la logica, far di un’ombra un reduce e rammentare, come impossibili bottiglie, a chi ci ha fatto del male che non lo abbiamo perdonato.
Giorgio Mannacio attende ai suoi doveri, ai suoi fantastici doveri, con il cipiglio del giudice e la renitenza dell’accusato allo stesso tempo. Capisce che non è più tempo per ascoltare altri testimoni e che la sentenza, o almeno il risultato, è inevitabile, così “conta a ritroso”, sperando che la somma sia zero, ma qualcosa non torna. Da tempo il più bravo a mettere insieme parole che di per loro non sarebbero più volute stare nemmeno nel medesimo dizionario, in questa ultima raccolta appare il saggio che, non potendo più assicurare la cura necessaria alle sue bestie, apre i cancelli e le lascia andare, perché è meglio muoiano ma almeno libere piuttosto che restare dietro le sbarre. È una scelta, però, non un dovere. Se il verbo non predica più niente puoi decidere per una delle due strade (neanche tanto aperte): far chiasso con la sintassi o riposare sulla copula, Mannacio sceglie la seconda. Cose che non avrebbe mai scritto tirano una riga tenera sopra battaglie che non gli interessano più: Non devi disturbare/In quest’aria che trema di sole e vento, o ancora: Non viene catturato/ nelle torce che si consumano,/tra i granelli della clessidra/che lo seppellirà, e così le rime, che prima servivano a far da scettro alle cattiverie, adesso sembrano animali domestici, gatti che per quanto infedeli fanno compagnia: Come il bambino infante/ che non sa pronunciare esattamente.
È uno dei più bei libri di poesie che io abbia lento da tanto tempo, e sono grato a Mannacio per averlo scritto. Solo mi rimane sul groppo una domanda alla quale, lo so, non vorrà rispondere: Conoscendo il nostro destino, perché gettare anche le armi? Anche quelle possono passare in eredità e per quanto sia lungo l’asse (ma tu non leggi forse i presocratici?) una speranza c’è, che cadano in buone mani.