di Donato Salzarulo
Occorre un’idea. Un’idea forte dell’Altro; un’idea originata da grande e viva curiosità, da una voglia incontenibile di esplorazione, dal desiderio di uscire dai confini del proprio corpo-mente, di vincere le resistenze dell’Io-pelle per trovare il singolare, l’unico e inventare il nuovo, l’originale. Vedere l’Altro, vedere la sua forma esteriore e interiore, intuirne l’essenza, farsi interrogare dal suo volto, dall’arcipelago della sua anima, dalle sue lacerazioni, dalle sue ferite.
Elefante porta l’arte del ritratto su frontiere inesplorate, rinnova le tecniche del bianco e del nero, dello sfumato, e sfrutta al massimo l’intelligenza e il caso. I colori o i non-colori dei «Sudari» sono il nero e il bianco. Il bianco è quello del panno con cui si asciuga il sudore di questi volti addolorati, smarriti, straniati, intristiti, malinconici. Bianco, a volte, è il lenzuolo funebre in cui si avvolge cristianamente il corpo di questi odierni martiri. Sotto questo profilo, il titolo di quest’insieme di opere sembra alludere ad una dimensione religiosa dello sguardo. Il nero è quello della loro pelle; ma è anche quello del catrame misto a terra che Elefante sparge su grandi tele bagnate con acqua e colla.
Il nero è quello del lutto, dell’anima in lutto; il bianco è quello della purezza che, a volte, sconfina nell’ignoranza, nell’incapacità di comprendere la luce del nero, il suo splendore e dolore. Sullo “splendore del nero” e sulle sue dialettiche ha richiamato recentemente l’attenzione il filosofo Alain Badiou. L’ha fatto in chiave autobiografica, ma anche attraverso interessanti annotazioni artistiche e scientifiche. In fisica, ad esempio, il nero è assenza di luce e tra bianco e nero non c’è opposizione, ma complicità, complementarietà. La stessa che si coglie in queste tele. Quanto agli artisti, il filosofo richiama l’opera di Pierre Soulages, il pittore svizzero che ha scelto il nero come colore prediletto, cifra stilistica; il nero e la luce. Anzi, l’«oltrenero», «un colore al di là del nero, trasmutato dal nero», un fluido che splende di luce. Pierre Soulages ha prodotto opere di grandi dimensioni e ha fatto spesso ricorso a tecniche poco convenzionali come l’uso del catrame per dipingere vetri rotti o bucce di noci.
Un po’ come Elefante, ma con idee e poetiche del tutto diverse. I «Sudari», infatti, affrontano uno dei problemi più drammatici del nostro tempo, quello delle migrazioni, dell’incontro-confronto con l’Altro, del suo volto, del suo modo di presentarsi e interrogarci. Non si rimane certamente tranquilli dopo aver visto queste tele, dopo aver provato l’impatto emotivo di questi ritratti sorprendenti, di questi visi percettivamente densi, sensibilmente ricchi e vivi. Sono bagliori, figure cristallizzate in un gioco drammatico di luci ed ombre.
Sono donne e uomini: ora più giovani, ora più maturi, ritratti di fronte, di profilo o in diagonale (da sinistra verso destra o all’incontrario), a volte come se fossero pronti per una foto-tessera, altre facendosi cogliere in un primo piano della fronte, naso ed occhi oppure occhi, naso e labbra, mostrando i vapori e gli umori di un’anima, l’umidità delle pupille, la timida carezza di una promessa. Fronti ampie, più piccole, rettangolari; nasi spesso grandi, piatti, schiacciati; labbra grandi, turgide, appuntate, raramente sorridenti. Sguardi addolorati, pensierosi, interroganti; sorpresi, perplessi, malinconici. Sono volti che non hanno nome. E, a guardarli e riguardarli, forse bisognerebbe dargliene uno. Fosse anche un epiteto come quello che Omero attribuiva ai suoi eroi. Allora, tanto per fare degli esempi, avremmo: “l’uomo col cappuccio in testa”, “il giovane col cespuglio di capelli in volo”, “la donna coi capelli lunghi e ricci”, quella “con le treccine”, “con l’orecchino a cerchio grande”, “con i tacchi a spillo”, “con gli occhi cerulei”, ecc.
Un viso è sempre singolare, è sempre ciò che si offre alla nostra vista di una persona. La sua vera natura, il suo segreto sta, come sostiene Emmanuel Lévinas, «altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia».
Coloro che oggi vedono nei volti così pieni di luce e di dolore, raffigurati in queste grandi tele, soltanto una minaccia e alimentano paure reali e/o immaginarie, dimenticano o rimuovono la richiesta d’aiuto che ci rivolgono. Chi, invece, si fa interrogare da questi sguardi, da questi occhi a volte celesti e risponde alle loro richieste, oltre a tanti volontari laici e non, credenti e non credenti, è certamente Papa Francesco. Non meraviglia quindi che il luogo migliore in cui questi «Sudari» potevano essere esposti è una Chiesa. Quella rupestre di Santa Maria della Valle a Matera è il posto ideale. Esposti tra le navate e le semicolonne di questa Chiesa abbandonata, imponente e straordinaria, questi grandi volti-anime, portatrici di storie spesso non dette, arricchiranno i nostri sguardi, il nostro essere e le nostre fragili verità.
Maggio 2019
Grazie Donato,un commento molto significativo sarebbe bello vedere dal vivo a Matera questi grandi quadri. Il commento rende l’idea della meraviglia che suscitano nello sguardo. “Vedere l’altro” dobbiamo imparare a farlo ogni giorno, perché spesso vediamo solo noi stessi. Grazie. Angela
…questi volti neri di Enzo Elefante, nei tratti come nello sguardo, a me non sembrano esprimere solo tristezza, disperazione…in alcuni appaiono, ma come tratti di natura contingente. Dal profondo questi volti comunicano una grande forza vitale, che forse è l’elemento a far(ci) davvero paura…Hanno assorbito molta e molta luce solare e sono centrali di luce nera