di Stefano Taccone
Da “Morfeologie” un nuovo racconto di Stefano Taccone, già qui portatore di una necessaria e intelligente ironia. [E. A.]
Sto attraversando Piazzale Loreto ed è il 25 aprile. Ma che ci faccio oggi e quest’anno a Piazzale Loreto? Lo scorso anno in una traversa di Piazzale Loreto c’era l’istituto nel quale insegnavo e quindi stavo sempre qui… Non so quante volte mi sono perso nei meandri di Piazzale Loreto, perché tutte le traverse mi pareva si assomigliassero… Passavo minuti e minuti prima di trovare la via dell’edificio scolastico e ogni mezzo secondo era un battito accelerato, ché a Milano sono più “fascisti” degli svizzeri con gli orari. Se arrivi tardi a un collegio dei docenti, a un consiglio di classe, a un consiglio di dipartimento o a un altro rompicapo simile che il preside tira fuori a raffica, quasi come dovesse organizzarci l’intrattenimento pomeridiano, ti mettono assente ingiustificato e parte la sanzione disciplinare. E arrivare tardi qui non significa un quarto d’ora, venti minuti… Ne bastano cinque per comminarti una pena di morte appendendoti a testa in giù…
Già, a testa in giù! Non è un caso che ho concepito questa immagine: sono a Piazzale Loreto ed è il 25 aprile e dunque la stranezza non è solo che mi trovo nei pressi di una scuola dove non insegno più, ma anche che il 25 aprile non si va a scuola. Anche se fioccano le proposte per abolirlo e sostituirlo. Ieri hanno sparato date alternative come se fossero numeri al lotto: 4 novembre, 18 aprile… Perché il 25 aprile è “divisivo”. Solo che pure le date che propongono quegli straordinari straparlatori che le hanno lanciate sono tutt’altro che “neutre” e quindi la presunta divisività uscirebbe dalla porta e rientrerebbe dalla finestra. È facile fare i non divisivi escludendo chi ti sta più antipatico… D’altra parte non è possibile che ci sia stata un’abolizione istantanea e io non abbia saputo niente. È vero che il muro di Berlino fu una sorpresa che i berlinesi trovarono la mattina dopo, ma non oso pensare che stanotte chi di dovere – chi??? – abbia deliberato l’abolizione-sostituzione della Festa della Liberazione!
Continuo a camminare con passo veloce ma con le idee non molto chiare sul dove dirigermi, con un passo convulsivo finalmente mi imbatto in uno schieramento da far rimpiangere il grigiore del peggior collegio dei docenti: un gruppo di neofascisti ha bloccato il passaggio brandendo uno striscione ove nero su bianco si legge: Onore a Benito Mussolini. Una mano regge lo striscione e un’altra è alzata per fare il saluto romano! Sono tanti – relativamente tanti –, intonano cori terrificanti, un brivido di timore mi attraversa il corpo, mi guardo intorno: sono circondato! A chi lo dico che tutto ciò è reato? Mi viene incontro un ragazzo poco più che ventenne – avrebbe potuto essere un mio studente quando insegnavo in Accademia di Belle Arti! Per l’età però, non per la tipologia, perché grande creatività in lui non la riconosco! –, sovrappeso di almeno venti chili – ma nelle loro canzoni nazi-rock non dicono che hanno un fisico asciutto perché fanno tanta palestra e non mangiano merendine e altre porcherie come i figli di papà “comunisti” viziati? –; fiero e impettito – per quello che gli permette la sua complessione – ok; virile non saprei; atletico non direi proprio e purista nemmeno! Scruto meglio e noto le comode bretelle e l’anfibio bene in mostra, ma grazie a Dio non sembra avere il coltello in tasca e quindi per ora non parte neanche la giostra.
Arriva al mio cospetto. Certo non mi è amico, ma neanche così ostile come mi sarei aspettato. Lo osservo meglio e ho come la sensazione di averlo già incontrato, ma dove? A un tratto il ricordo riemerge, ma ha dello sconvolgente: quel ragazzo solo qualche giorno fa era in un piccolo spazio autogestito – quattro gatti eravamo; Milano non è Napoli… – e rievocava il G8 e la repressione poliziesca, “fascista” alla Diaz con grande acrimonia. Possibile? Ma che roba è? Non può essere! Sarà un sosia! Ma mentre sono immerso in questi pensieri si occupa lui di infrangermi ogni titubanza: «Si, ci siamo già visti! È inutile che ti meravigli!».
Vorrei chiedergli spiegazioni ma un po’ per spiazzamento logico e un po’ per comprensibile paura mi mancano le parole. Del resto, prima ancora che io possa ipotizzare la sua identità di fascista infiltrato in certi ambienti ostili, è lui stesso a togliermi ogni “curiosità”: «Ti meravigli perché la tua mentalità è vecchia! Novecentesca. Tu pensi ancora in termini di derby fascisti-comunisti. Siamo nel XXI secolo! Essere fascisti va bene ma non basta! Bisogna essere anche antifascisti! Io cambio identità periodicamente e così tutti gli scamiciati che sono qui con me». «Scamiciati?», mi chiedo io.
Ma il capo degli scamiciati manco mi lascia riflettere che subito aggiunge: «Tutto ciò ti sembra strano perché hai il cervello anchilosato! Ma se vuoi continuare a vivere in questo mondo devi darti una scrollata. Guarda che lo dico per te!».
Non faccio in tempo a digerire tutti gli shock ripetuti che ho subìto, che l’“intermittente fascio-comunista” continua: «Ti sei accorto con chi stai parlando? Stai parlando con un fascista? Vedi che anche noi abbiamo una bocca, un naso, due occhi, due orecchie? Vedi che anche noi parliamo e respiriamo? Vedi che anche noi sappiamo mettere in fila le parole di un ragionamento? Ragionamenti che peraltro tu neanche capisci. Però hai paura e lo sai perché? Hai bisogno di pensare che abbiamo spranghe, lame e quant’altro per scappare di fronte a noi e non confrontarti. Perché in cuor tuo sai che se ti confrontassi con noi saresti costretto ad ammettere che non si può non essere fascisti e quindi coerentemente saresti costretto a diventare fascista. Solo che se diventassi fascista manco sapresti spiegare ai tuoi amichetti antifascisti perché si deve essere fascisti e così loro ti riempirebbero di botte. Chi sarebbe il fascista allora? Vedi che i veri fascisti sono gli antifascisti?».
Ammetto che sono frastornato, come dopo una sonora bastonata. Una bastonata verbale, ma comunque tale. Però in tutto questo ragionamento c’è qualcosa che non mi torna: questo tipo dice che è fascista, ma non basta oggi essere fascisti perché bisogna essere anche antifascisti; quindi dice che mi convincerebbe della necessità di essere fascista e allora io dovrei diventare fascista però poi mi picchierebbero i miei amici antifascisti che sono i veri fascisti. Allora gli domando seccamente, prendendo un po’ di coraggio: «Scusami ma io davvero non ho capito: tu sei fascista o no?».
Per tutta risposta si gira verso gli scamiciati e tutti insieme scoppiano in una sonora risata. Poi si volge ancora a me e sembra ricomporsi per rispondermi, ma a un tratto sembra rinunciarci e sussurra: «No vabbè dai, lasciamo stare, alla fine non è colpa tua, non ce la puoi fare. Lo capisco! Vedi come siamo comprensivi e persino dolci noi fascisti? Non ti stiamo accusando, non ti stiamo torturando, non ti stiamo bastonando, come invece farebbero i tuoi compagni. E sai perché? Perché noi non difendiamo la democrazia a parole come fate voi; noi la democrazia la pratichiamo realmente. Vedi che siamo noi i veri antifascisti?».
Tutto ciò mi lascia ancor più confuso di prima. Davvero non so che dire. Forse la paura sta passando, però stanno montando altre sensazioni. Ad esempio comincio a domandarmi come deve andare a finire la storia. Perché se questi fascisti sono così democratici non si scostano e mi lasciano passare, in maniera tale me ne vado per i fatti miei? Forse devo trovare le parole per chiederglielo cordialmente. E allora comincio ad accennare che andrebbe anche bene, avranno anche ragione, ma perché mi tengono ancora lì? Subito cominciano a rivoltarsi in un misto di ironia e disappunto: «Eh, ti piacerebbe che ti mandassimo via così!», esclama sorridente lo scamiciato col pancione, «ma non è certo così che funziona!», aggiunge. «Ora sei qui e non te ne vai certo come se niente fosse».
«No?», domando io, «e cosa dovrà succedere perché me ne possa andare?», nel frattempo mi sta salendo di nuovo l’ansia, eppure ho cercato di essere il più cortese possibile per andare al sodo ed evitare sberleffi, ma anche nervosismi.
A questo punto il mio interlocutore si fa più serio, quasi mansueto e amichevole e mi dice: «Tu sei comunista. Non ti sto a dire cosa ha fatto la tua gente a noi scamiciati. Ci avete torturati, perseguitati, sterminati. Vi siete comportati peggio dei nazisti. Il nazismo non è durato neanche vent’anni alla fine! Voi invece siete ancora qui! E sono passati settant’anni! Vi rendete conto! Tu sei comunista, è vero, però ti dobbiamo riconoscere una cosa: che almeno ti sei fermato a parlare con noi. Per questo pensiamo che non sei il peggiore dei comunisti e vogliamo stipulare con te un contratto. Un contratto per pacificare finalmente questo paese dopo settant’anni di guerra civile! Una guerra che peraltro voi avete voluto e continuate ad alimentare! Il contratto prevede che il 25 aprile cessi finalmente di essere divisivo e si trasformi in una festa a rotazione: un anno sarà ancora una festa antifascista, ma un anno dopo sarà una festa fascista e così via… Un anno gli uni e un anno gli altri. Non ti sembra la soluzione più democratica? Quella che finalmente ripristina la giustizia in questo paese? Anzi finalmente smetteremo di chiamarlo paese e tutti insieme non ci vergogneremo più di chiamarlo Patria! Qui sta il contratto, basta una tua firma!».
Mi porgono così una tavoletta di grigio piperno sulla quale peraltro non c’è scritto niente, né ho idea di come firmare. Con una penna? Con un pennarello? Con un punteruolo? Ma chi credono che io sia? Il presidente della Repubblica o chi per lui? Io potrei anche firmare, ma quale potere possiedo io per decidere cosa si debba fare in Italia del 25 aprile? Comincio a fargli notare questo piccolo particolare e loro non si inquietano, anzi da che mi buttavano sotto i piedi ora quasi mi elogiano.
«Ma cosa dici? Se compi questo gesto i comunisti ti seguiranno! Tu sei tenuto molto in considerazione da loro! Lo sai bene, dai! Non fare il modesto!». Questi i loro incoraggiamenti. «Un tuo gesto in questo momento può cambiare la storia, te ne rendi conto?», mi grida uno di loro. Pian piano intorno a me si alza un coro: «Firma! Firma! Antifascista!». Saltano, ballano, mi acclamano…
Ma non ero un povero stupido? Stanno facendo un tifo da stadio. A un tratto uno di loro mi porge un grosso pennarello nero, che a stento reggo. Mi avvicino alla tavoletta di piperno quasi convinto. Mi sento come un centroavanti che sta per tirare quel rigore a porta vuota che permetterà alla squadra di vincere la finale di Champions League. Ma quando sto per poggiare la punta del pennarellone sulla tavoletta gradi, sconvolgenti dubbi mi assalgono.
Che sto facendo? Sto legittimando un manipolo di ripugnanti fascisti? Tanto più ripugnanti dopo i discorsi che ho ascoltato! Ma quale mentalità del Novecento! Questi saranno bipolari e basta!
Mentre concepisco questi pensieri comincia ad assalirmi un bruciore sul retro del collo, come una puntura.
«La mia lama è piccola, anche se letale», odo sussurrare da una fonte non meglio identificabile. Qualche goccia di sangue cade sulla tavoletta che però ormai non è più piperno, ma è come rivestita da una coltre di ghiaccio. Io stesso mi accorgo che mi sto irrigidendo, quasi paralizzando. Non riesco più a muovere con scioltezza gli arti e neanche il busto e il collo. Guardo tutti gli scamiciati intorno a me e sono praticamente diventati delle statue iperrealiste: braccia alzate in segno di saluto romano e bocche spalancate in quanto còlte nell’attimo di gridare, ma ormai immobili, come senza più possibilità di moto sono io stesso. Cosa siamo diventati? Un nuovo gruppo statuario per Piazzale Loreto? E cosa celebrerebbe questo grottesco monumento? Ai posteri l’ardua sentenza!
…veramente di una tragica ironia questo scritto di Stefano Taccone…Descrive puntualmente il nuovo corso del fascismo salviniano: giovialone, bacioni a destra e a manca, paternalista, ma armato di una piccola e affilata arma “invisibile”, che ti uccide immobilizzandoti come le frecce al curaro…