Appunti sulle deità di Franco Fortini

di Roberto Bugliani

“Agli dèi della mattinata” continua a sollecitare riflessioni e approfondimenti. Si vede che la poesia di Fortini è una “buona rovina”, no? Ecco, su questo testo, posto a confronto con le “Canzonette” di vent’anni successive, il meditato saggio di Roberto Bugliani già annunciato in un suo commento (qui). [E.A.]

Com’è noto, i due principali ingredienti dell’impasto retorico-stilistico che ha dato forma alle fortiniane Sette canzonette del Golfo comprese nella raccolta einaudiana Composita solvantur (1994) sono il sentire elegiaco e l’ironia. “Ironia lacrimante”, l’ha definita a posteriori lo stesso Fortini nella poesia Considero errore… appartenente all’Appendice di light verses e imitazioni, che strategicamente fa seguito a quella emendatio, anche stilistica, delle Canzonette, che è Ancora sul Golfo.

Fortini giudica errore l’essere ricorso a “versi comici” e a “temi comici o ridicoli” per “parlare o tacere” di “questo ’91”, ossia delle tragedie e degli orrori della prima guerra del Golfo. In siffatta correctio dagli accenti spiccatamente autocritici, Fortini parla col senno di poi, che è il senno della riflessione etico-politica, allo scopo di “redresser la barre”, come dicono i francesi, per sottrarsi a quella deriva che lo ha portato a modulare “un orrore posto oltre la parola”, in forme anomale come la ballata infantile o la finta elegia1.

Ma se interroghiamo il senno in fieri della fase Canzonette, l'”ironia lacrimante” da cui il poeta prenderà le distanze è definita, con ossimorica precisione, mesta: “Cessiamo la mesta ironia” (Lontano lontano…, v. 13). Ed è per l’appunto il lessema “mesta” a connotare in modo più pertinente (perché a lavori in corso) il senso della complessiva operazione fortiniana, insieme poetica ed esistenziale, politica e biografica. Lessema che richiama, sia per consapevolezza compositiva, sia in modalità intertestuale, quel “meste” riferito alla tempie (“meste di frasche le tempie”; v. 8) degli “dèi inesistenti” in Agli dèi della mattinata (compresa nella raccolta Questo muro, 1973).

L’occasione per il componimento risalente ai primi anni Settanta è offerta al poeta da una mattinata temporalesca trascorsa nella sua casa di vacanza di Bavognano d’Ameglia. C’è un fuori perturbato: “Il vento scuote allori e pini. Ai vetri, giù acqua. / Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla”(vv. 1-2), da cui lo sguardo lirico si ritrae defluendo nel dentro tranquillo (“la mattinata si affina nella stanza tranquilla”; v. 3), dove l’ascolto discreto e gradito della radio (“Un filo di musica rock”) e la presenza familiare di strumenti del lavoro intellettuale (“le matite, le carte”; v. 4) propiziano nell’io poetante un sentimento di piacevolezza e d’abbandono: “sono felice della pioggia” (v. 5). In questa situazione di jouissance il poeta invoca gli “dèi della mattinata” pregandoli di proteggere l’idillio, ma ben singolare è questa invocazione a dèi apostrofati “inesistenti” nel momento stesso in cui vengono evocati. Perché, dunque, questa contraddizione?2

Innanzitutto è la raffigurazione di questi dèi a contraddire il loro status. Non sono dèi dal capo cinto dell’elmo guerriero o adorno del tradizionale ramo d’alloro, come i topoi della mitologia greco-romana ci hanno fatto conoscere, bensì sono dèi dimessi, dalle “tempie meste di frasche” (v. 8; c.n.) e, per sineddoche, mesti essi stessi. Sono dèi inesistenti nel loro splendore, dèi privi della loro possanza, che nulla possono (“e che altro potete / o dèi dell’autunno indulgenti dormenti”, vv. 6-7) se non proteggere un idillio di fattura modesta, un idillio piccolo-borghese. Sarà pertanto il sarcasmo, non già l’ironia, a dipingere i loro tratti presuntamente divini, a schernirne la deità riducendoli a dèi da poesia, per dire con L’incendiario (1910) di Palazzeschi3.

Vent’anni dopo, Fortini s’è trovato a fare nuovamente i conti con i “suoi” dèi. Ma nelle Canzonette (e, per osmosi, in Composita) l’io lirico non è più quello sarcastico e beffardo che, giovandosi d’un corredo retorico d’interrogative ed esclamative a effetto illocutorio adeguato si poteva permettere di mettere in tela di braghe le divinità; semmai è quello segnato dagli anni trascorsi, avente il suo alter ego nel “vecchietto” che occupa la scena “domestica” fin dal primo testo, Ah letizia… (v. 9). Un “vecchietto” che in giardino si gode l’aria tersa della mattinata domenicale splendente di sole, ma che non può sfuggire alla fragilità della condizione fisica dovuta all’età e deve perciò riguardarsi (anche nel senso di ri-considerare se stesso): “Mettiamo una maglia, che il sole va via” (Lontano lontano…, v. 14)4. Un “vecchietto” caratterizzato dall’egoismo proprio della persona anziana che, protetto dalla sua condizione d’uomo europeo privilegiato, considera con ipocrita commiserazione i lutti e le distruzioni inferti dalla guerra a “popoli estrani” fino a spingersi a comparare l’effimera sua ferita al dito provocata da uno spino di rosa coi disiecta membra delle vittime di quei lontani eventi bellici: “Lontano lontano si fanno la guerra. / Il sangue degli altri si sparge per terra. // Io questa mattina mi sono ferito / a un gambo di rosa, pungendomi un dito. // Succhiandomi quel dito, pensavo alla guerra. / Oh povera gente, che triste è la terra!” (Lontano lontano…, vv. 1-6)5. Un “vecchietto” spasmodicamente attaccato al possesso di cose di poco conto, a irrisori oggetti d’uso quotidiano, cui destina i propri affetti senili (o la sua libido, direbbe Freud, traboccante dall’Io sugli oggetti esterni e deviata da ciò che un tempo ne era l’imperioso richiamo: il corpo femminile “che acre un dì mi fu diletto”; Aprile torna…, v. 11): “Se la tazza mi darai / che mi piace, la mia tazza / con il manico marrone, / gentilissima ragazza, / tu felice mi farai” (Se la tazza…, vv. 1-5).

Le Canzonette rendono palese la separazione in atto tra l’agire minimale del “vecchietto”, in cui i processi fisiologici, meccanici, ne segnano l’Erlebnis (scaldarsi al sole, fare colazione con la propria tazza preferita, gustarsi il sonno d’aprile: “Sì, d’aprile il dormire è cosa bella”; Aprile torna…, v. 14) e il “progetto in divenire di cui essere parte” (per usare la stessa espressione da Fortini usata a proposito del sereniano Un posto di vacanza), che in questa sua nuova condizione esistenziale l’io lirico lascia a un imprecisato “voi” riguardante senza dubbio la generazione futura (“Voi tutto dovrete inventare”; Considero errore…, v. 14), ma evocato senza conferire a tale entità alcuna specifica caratterizzazione; un “voi” che ha più del “dover-essere” d’etico conio (situandosi tra l’ingiunzione e la profezia, ed è questo uno dei versi dove la voce dell’uomo Fortini si percepisce senza mediazioni) che dell’essere temporalmente in divenire, ma già prefigurato per quanto attiene alla sua identità politica e culturale.

Ora, questa lacerazione insanabile tra destini generali (il “noi” collettivo d’un tempo storico tramontato) e condizione individuale (l'”io-noi” minimalista del “vecchietto” nel tempo presente) è dalle Canzonette notificata con mesta ironia, stato d’animo proprio di chi ha consapevolezza della sconfitta intesa in senso generazionale, con conseguente ripiegamento dell’io nei piccoli piaceri dell’esistenza e, maxime, nel risarcimento narcisistico dei “chiusi inchiostri”, le forme chiuse a cui sono consegnate non solo le Canzonette, ma l’insieme dei testi di Composita: “Noi bea, lieti di poco, un breve riso, / un’aperta veduta e i chiusi inchiostri / che gloria certa serbano ai poeti” (“Gli imperatori…”, vv. 12-14).

Se altra è la stagione storico-politica ed esistenziale che ha presieduto alla composizione delle Canzonette, stagione peraltro appartenente al tempo storico “incomprensibile e senza nome”6 di Composita -, anche a livello metereologico la differenza è netta. Infatti, dalla giornata temporalesca e autunnale di “Agli dèi” si passa al periodo d’inizio primavera (“è domenica, è marzo”; “aprile torna”), e a rallegrare il “vecchietto” infondendo nel suo animo un sentimento di felicità è adesso il sole (“il sole viene”; “quanto sole è sul muretto!”), contrariamente a quanto avveniva in “Agli dèi”, dov’era la pioggia a propiziare la felicità domestica. In questa pace dell'”ora linda” la guerra è un evento sempre più “lontano lontano”; l’inverno è oramai alle spalle e i suoi “clamori terribili” risulteranno “vani”: “Come presto è passato l’inverno / tra clamori terribili e vani! / Le battaglie di popoli estrani / che mai sono in confronto all’eterno, / all’eterno degli ippocastani / che dai ceppi s’industriano lento / a sperare germogli lassù?” (Come presto…, vv. 1-7). La rima 3vani : (4estrani) : 6ippocastani conferisce valore d’ironico sentire al componimento, e a siffatta ironia fonica si sovrappone un sapore d’amara ironia nella contrapposizione tra i terribili ma fugaci e inani clamori bellici e la perennità della Natura sub specie ippocastani che ciclicamente, a ogni primavera, s’incarica di rinnovare la speranza di nuova vita.

Oltre agli agenti del regno vegetale, a rimarcare il mutamento radicale di prospettiva intervengono anche agenti del regno animale come le formiche, non casualmente fatte entrare in scena nella prima delle sette canzonette, le quali non sono più, come in Agli dèi, figure antropomorfizzate d’alta derivazione poetica (le Georgiche di Virgilio), ma semplici insetti che in fila vanno a far danno alle pere già mature7.

La notazione di siffatti tratti distintivi “preliminari” intende valere come introduzione a una riflessione sulla correlazione in negativo esistente tra i testi delle Canzonette e quello di Agli dèi, ovvero, per dire altrimenti, sulle due fasi del ventennale processo di ri-elaborazione dell’immagine della deità in Fortini. La sostanziale differenza tra i due materiali poetici consiste nella metamorfosi degli “dèi inesistenti” di Agli dèi della mattinata negli “dèi crudeli e ignoti” delle Canzonette, i possenti dèi della guerra8. E a questo proposito ci pare molto indicativo che nelle Canzonette gli dèi siano evocati in due delle composizioni poetiche di più vivida raffigurazione drammatica dell’intera sezione e di tutta la raccolta (Gli imperatori… e Se mai laida…); drammaticità d’intensità pari forse a quella della emendatio figurativa e stilistica che, abbiamo visto, è Ancora sul Golfo9.

“A noi gli dèi porsero pace. Ai nostri / giorni occidui si avvivano vigneti / e i seminati e di fortuna un riso” (Gli imperatori…, vv.9-11).

Sono dèi credibili questi, vuoi dal punto di vista storico, perché gli dèi che hanno portato “pace” ai “nostri giorni occidui”, i giorni occidentali e nel contempo al tramonto (qui l’io biografico, il “vecchietto”, s’identifica col “noi” della generazione sconfitta di cui s’è detto sopra) hanno nome ben preciso e concreto, sono gli dèi N.A.T.O., l’alleanza atlantica istituita a Washington nel 1949 a seguito della spartizione del mondo in due blocchi contrapposti decisa dai capi di Stato del Regno Unito, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti d’America nel corso della Conferenza di Yalta (1945), la quale ha assicurato la pace in Europa scaricando altrove, in quello che veniva definito “Terzo Mondo”, i conflitti armati (il periodo della “Guerra fredda”, durante il quale “gli imperatori” dei due blocchi politico militari si sono fatti guerra per interposti Stati)10. Vuoi, dicevamo, dal punto di vista figurativo, perché per rendere verosimili questi “dèi” Fortini conferisce loro le fattezze umane degli imperatori d’Occidente11. Insomma, siamo qui in presenza d’un procedimento allegorico à rebours12, in cui gli dèi, da indulgenti e dormenti, sono divenuti “crudeli e ignoti”. E, a differenza di quelli dell’idillio, questi dèi esistono, e gli “imperatori” sono la loro espressione più terrificante.

Le Sette canzonette del Golfo sono il referto della sconfitta. Sconfitta esistenziale, da un lato, dell’io poetico che, dopo aver apostrofato con sarcasmo gli dèi della mattinata ed essere uscito rafforzato dal confronto con quegli dèi mesti e inetti, da poesia, si ritrova a misurarsi con un’altra tipologia di dèi, quelli della guerra, contro la cui possanza è costretto a riconoscere la propria impotenza (testualmente il percorso va da: “e che altro potete” rivolto agli dèi della mattinata, a: “Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare”; Lontano lontano..., vv. 7-8) e, sub specie “vecchietto”, si rifugia nell’egoismo senile dei piccoli piaceri climatici e fisiologici destinando i propri affetti tardivi a oggetti d’uso quotidiano. Sconfitta politica, dall’altro, del “noi” generazionale che, con mesta ironia, si riduce a dar conto della prassi minimale, quotidiana, dei “giorni occidui”, incapace d’opporvi alcunché di progettuale. Restano i “chiusi inchiostri / che gloria certa serbano ai poeti”, sentenzia l’io poetico fortiniano con atto d’accusa anche contro se stesso, che della lingua mortua ha fatto misura espressiva del suo verso13.

Note

1 Luca Lenzini, “Giacimenti di futuro. Composita solvantur”, in Allegoria n. 18, N. S. anno VIII, 1994, p. 149.

2 Interessante è la lettura della poesia fatta da Rita Simonitto in questo stesso blog, in particolare per il suo singolare percorso interpretativo à rebours che muove dall’ultimo verso: “Quante ansiose formiche nell’ombra!” in cui ravvisa un “vago sapore faustiano” che presiede alla valorizzazione dei concetti di “operosità” e “creatività” come “potenziali di trasformazione” espressi dal testo. Su questo aspetto mi trovo d’accordo: anche a mio parere il componimento detiene un alto tasso di positività. Ciò su cui dissento è la sostituzione del termine “contraddizione” con “conflitto”, in quanto quest’ultimo sarebbe “foriero di vita, perché è dinamico, a differenza della contraddizione che è statica” (Simonitto). A mio avviso, Agli dèi è una poesia che ha nell’opposizione e nel contrasto i propri vettori fondanti, e resta una contraddizione aperta, malgrado il tentativo finale di superamento rappresentato dall’esclamazione rivolta a quelli stessi dèi inesistenti: “Come maestosi quei vostri / luminosi cumuli!”.

3 “Sono un poeta che ti rende omaggio, / da povero incendiario mancato, / incendiario da poesia”, confesserà il personaggio-poeta all’incendiario rinchiuso in una gabbia; e ancora: “incendio non vero / è quello ch’io scrivo, / non vero seppure è per dolo”. Singolare è la consonanza di questi ultimi versi palazzeschiani con la chiusa della poesia Considero errore…, componimento emblematico sotto molti aspetti, di Composita: “Nulla era vero”.

4 A questo riguardo, l’atto d’indossare la maglia compiuto dal “vecchietto” non mi pare quel gesto a forte valenza simbolica ravvisato da Roberto Talamo: “bisogna indossare una «maglia» (v. 14) per affrontare l’inverno del conflitto” (“Per una lettura delle ‘Sette canzonette del Golfo di Franco Fortini”; http://win.ospiteingrato.org/Fortiniana/Canzonette_del_Golfo.html). A mio avviso, le Canzonette vanno prese alla lettera più di quanto si possa pensare quando l’autore è Franco Fortini. Certo, permane in esse l’impianto allegorico dell’insieme, ma si abbassa notevolmente il loro tasso di allegorismo. Qui “una maglia” è una maglia, come, nel componimento precedente, le formiche sono le formiche.

5 Notiamo per inciso che la partizione strofica del testo in distici accentua l’impostazione ironica della contrapposizione lontano VS vicino, richiamando anche tecnicamente modelli stilistici di tipo elegiaco ed eroico.

6 “Chi mai potrà capire che tempo fu quello?”; Considero errore…, v. 9).

7 A questo proposito, mi pare utile considerare alcuni dettagli temporali delle Canzonette in rapporto al loro “tema”: la prima guerra del Golfo. L’inizio formale di tale guerra è datato 2 agosto 1990 e la sua fine 28 febbraio 1991. Tale datazione comprende un arco di tempo che va dall’invasione irachena al Kuwait (2 agosto 1990) alla sconfitta dell’esercito iracheno da parte della coalizione militare internazionale dei 36 Stati e al ritiro definitivo delle truppe irachene dal Kuwait (26 febbraio 1991). Ma il conflitto bellico, quello condotto nei “campi cruenti” coi suoi “clamori terribili” e il sangue sparso “per terra”, quello che “ode” da lontano il “vecchietto”, si svolge sostanzialmente negli ultimi 45 giorni, e va dall’ultimatum ONU all’Iraq perché ritiri le sue truppe dal suolo kuwaitiano (fissato alla mezzanotte del 15 gennaio 1991) al 28 febbraio. Dunque “le pere già mature” della prima Canzonetta obiettivo delle formiche appartengono al periodo di fine estate, quando la guerra guerreggiata non era ancora iniziata e nulla faceva supporre essere certa. E così dicasi per il gambo di rosa il cui spino ferisce al dito l’io poetante, in quanto le rose sono presenti nei giardini a fine estate, ma non in inverno, stagione in cui è stata combattuta la prima guerra del Golfo.

8 “Lento a dèi crudeli e ignoti / va il mio bruno ultimo fiele” (Se mai laida…, vv. 111-12). Lasciamo qui volutamente in sospeso la peculiare interpretazione di questi versi, ovvero se essi appartengano al canto agonizzante d’una limaccia che ha ingerito “grigi grani” d’un prodotto chimico velenoso chiamato metaldèide (tra l’altro si noti il rapporto di simmetria tematica che instaura tale testo con Stanotte, che chiude la prima sezione, L’animale, di Composita, in cui si parla d’un animale notturno sconosciuto che ha ucciso una “bestiola” sotto casa del poeta e se n’è cibato senza scartare il veleno – “ha morso nel veleno” -, e ora, “cieco di luce”, agonizza nella sua tana), oppure se l’allegorica “lumaca morente che rimette ‘plasma e anima’ (v. 8), rilascerà un veleno scuro e definitivo che lento si insinuerà nel potere degli ‘dèi’ della guerra”, come scrive Roberto Talamo in Per una lettura delle ‘Sette canzonette del Golfo’ di Franco Fortini, cit.

9 Mentre gli dèi della palinodia Considero errore…, i “piccoli dèi” (v. 2), sono portati in scena solo per una “comparsata”, e la mancanza d’ulteriori connotazioni ne rende criptica la presenza. Più che dèi paiono folletti maligni censuranti il dire del poeta sulla guerra.

10 Tant’è che oggi, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica e il superamento del bipolarismo a livello mondiale, quindi con l’instaurazione d’un regime globale monopolare a direzione statunitense, la guerra ha rifatto la sua comparsa in Europa (mi riferisco alle guerre scoppiate nei paesi dell’ex-Jugoslavia a partire dal 1996 e alla guerra Nato contro la Serbia cui partecipò anche l’Italia del 1999) o s’è attestata alle porte dell’Europa (oltre alle Guerre del Golfo, le recenti guerre in Libia e Siria).

11 In questo senso, il riscontro forse più pertinente della catena lessematica “lampi-lumi-fumi” d’un testo-chiave fortemente icastico come Gli imperatori… (vv. 3 e 5) potrebbe per l’appunto essere dato dai lessemi “fumi” e “luci” (v. 2) di Agli dèi, tenendo in conto la metamorfosi d’una giornata temporalesca autunnale nella tregenda bellica invernale di congegni di morte e arsi grumi umani.

12 A questa sorta d’allegoria rovesciata di Gli imperatori… si affianca la complessiva “decrescita” del tasso allegorico delle Canzonette in cui la natura è natura, e, come prima s’è detto, le formiche sono formiche e si comportano da formiche, senza subire alcuna antropomorfizzazione.

13 “Più morta d’un inno sacro / la sublima lingua borghese è la mia lingua”, ha scritto Fortini nella sua polemica con Pier Paolo Pasolini (in Versi scelti 1938-73, Mondadori 1974, p. 116 ).

2 pensieri su “Appunti sulle deità di Franco Fortini

  1. Risposta a R. Bugliani

    Mi permetto di riportare per intero questi stralci dell’intervento di R. Bugliani perché sono da leggere, rileggere e meditare.

    “Sono dèi credibili questi, vuoi dal punto di vista storico, perché gli dèi che hanno portato “pace” ai “nostri giorni occidui”, i giorni occidentali e nel contempo al tramonto (qui l’io biografico, il “vecchietto”, s’identifica col “noi” della generazione sconfitta di cui s’è detto sopra) hanno nome ben preciso e concreto, sono gli dèi N.A.T.O., l’alleanza atlantica istituita a Washington nel 1949 a seguito della spartizione del mondo in due blocchi contrapposti decisa dai capi di Stato del Regno Unito, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti d’America nel corso della Conferenza di Yalta (1945), la quale ha assicurato la pace in Europa scaricando altrove, in quello che veniva definito “Terzo Mondo”, i conflitti armati (il periodo della “Guerra fredda”, durante il quale “gli imperatori” dei due blocchi politico militari si sono fatti guerra per interposti Stati)10. Vuoi, dicevamo, dal punto di vista figurativo, perché per rendere verosimili questi “dèi” Fortini conferisce loro le fattezze umane degli imperatori d’Occidente11. Insomma, siamo qui in presenza d’un procedimento allegorico à rebours12, in cui gli dèi, da indulgenti e dormenti, sono divenuti “crudeli e ignoti”. E, a differenza di quelli dell’idillio, questi dèi esistono, e gli “imperatori” sono la loro espressione più terrificante.

    Le Sette canzonette del Golfo sono il referto della sconfitta. Sconfitta esistenziale, da un lato, dell’io poetico che, dopo aver apostrofato con sarcasmo gli dèi della mattinata ed essere uscito rafforzato dal confronto con quegli dèi mesti e inetti, da poesia, si ritrova a misurarsi con un’altra tipologia di dèi, quelli della guerra, contro la cui possanza è costretto a riconoscere la propria impotenza (testualmente il percorso va da: “e che altro potete” rivolto agli dèi della mattinata, a: “Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare”; Lontano lontano…, vv. 7-8) e, sub specie “vecchietto”, si rifugia nell’egoismo senile dei piccoli piaceri climatici e fisiologici destinando i propri affetti tardivi a oggetti d’uso quotidiano. Sconfitta politica, dall’altro, del “noi” generazionale che, con mesta ironia, si riduce a dar conto della prassi minimale, quotidiana, dei “giorni occidui”, incapace d’opporvi alcunché di progettuale. Restano i “chiusi inchiostri / che gloria certa serbano ai poeti”, sentenzia l’io poetico fortiniano con atto d’accusa anche contro se stesso, che della lingua mortua ha fatto misura espressiva del suo verso13.”

    Quindi non si tratta soltanto di approfondimenti belli e interessanti ma anche utili in quanto permettono non solo di dipanare la lirica “Agli dèi della mattinata” nelle sue sfaccettature poetiche/personali ma anche storiche/personali, aprendo così un ventaglio interpretativo nel confronto con altri lavori fortiniani, in particolare le Sette Canzonette del Golfo.
    Anche in questo caso la ricchezza conoscitiva emerge da un lavoro à rebours che lo stesso Bugliani fa, tessendo la tela avanti e indietro, nel tentativo di dare un senso agli e-venti, integrandoli con ulteriori significati a partire dalla storia passata e vissuta. E mi sento di affermare anche questo – anche se mi rendo conto che è un po’ una forzatura -: ci sono dei testi poetici, così come “Agli dèi della mattinata”, in cui c’è già tutto. Perché certe espressioni artistiche sono come un sogno in cui – seguendo le ipotesi interpretative freudiane di ‘condensazione’ e di ‘spostamento’ -, le coordinate temporo-spaziali si confondono e si sovrappongono.

    Nell’indagine di Bugliani, ho trovato illuminante la sua notazione sul cambiamento all’interno di quella che dovrebbe essere l’evoluzione ‘normale’ del pensiero o, per dirla con Freud, il passaggio “dal pensiero ‘concreto’ al pensiero ‘astratto’. Il procedere dalla concretezza della realtà alle sue possibili rappresentazioni metaforiche, viene oggi drammaticamente invertito (vedi le liriche delle Canzonette del Golfo), regredendo dalla finzione metaforica alla realtà stessa. “(testualmente il percorso va da: “e che altro potete” rivolto agli dèi della mattinata, a: “Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare”; Lontano lontano…, vv. 7-8), e dove certamente gli dèi della mattinata nulla possono in quanto nostre rappresentazioni, mentre il limite imposto dalla realtà è concreto e tangibile.
    Così come gli imperatori non sono più ‘rappresentazioni’, plasmabili figure narrative passibili di molteplici significati. Ma sono ‘drammaticamente veri’, sganciano ‘vere bombe’ per quanto contrabbandate come ‘bombe intelligenti’, (“sono divenuti “crudeli e ignoti”. E, a differenza di quelli dell’idillio, questi dèi esistono, e gli “imperatori” sono la loro espressione più terrificante”).
    Per questo c’è un sentore di tragico in quei minimalia: “vecchietto” spasmodicamente attaccato al possesso di cose di poco conto, a irrisori oggetti d’uso quotidiano, cui destina i propri affetti senili”, perché lì c’è il sentore della sconfitta non solo personale ma anche di una generazione. Non si tratta quindi di una modalità di ‘egoismo senile che si appoggia ai piccoli piaceri quotidiani’ ma un tentativo di sopravvivere alla disfatta: come colui che, dopo una perdita, sente il bisogno di ‘toccare’ le cose per garantirsi che nonostante tutto lui è ancora in vita.

    Allora anche la poesia, motivata dal “Non posso giovare, non posso parlare” rischia di precipitare nella realtà e si perde in essa. Vedi anche i versi di Quasimodo “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore”. E’ assimilabile alla fine di Cassandra che prevede anzitempo ma non è creduta; allora non ‘predice’ più, ma essa stessa ‘diventa’ la realtà della sua predizione. E così viene uccisa.

    p.s.
    a Bugliani

    Ringrazio dell’attenzione data al mio lavoro. Sono in un certo senso d’accordo con quanto da lei espresso nella sua nota 2. Cercherò di spiegarmi meglio: la mia lettura del testo fortiniano (e l’aggancio con il Faust) è sollecitata da una matrice psicoanalitica a cui ho aggiunto ulteriori considerazioni di cui Ennio è in possesso e che le può girare.
    La sua precisazione :“Ciò su cui dissento è la sostituzione del termine “contraddizione” con “conflitto”, in quanto quest’ultimo sarebbe “foriero di vita, perché è dinamico, a differenza della contraddizione che è statica” (Simonitto). A mio avviso, Agli dèi è una poesia che ha nell’opposizione e nel contrasto i propri vettori fondanti, e resta una contraddizione aperta, malgrado il tentativo finale di superamento rappresentato dall’esclamazione rivolta a quelli stessi dèi inesistenti: “Come maestosi quei vostri / luminosi cumuli!”, è perfettamente adeguata al testo che lei prende in analisi, ma poco idonea a sostenere la funzionalità di quella che lei chiama “contraddizione aperta”, un ossimoro in quanto la modalità del o / o è stringente al punto tale da non prevedere aperture se non passando ad un’altra prospettiva sacrificando la ipostatizzazione della prima ad un e / e.

  2. @ Rita Simonitto,
    la ringrazio per avermi fatto partecipe delle sue considerazioni. Le trovo molto interessanti, anche se mi portano su un piano diverso dalla mia lettura, quello del rapporto del testo di Fortini con il Faust e a sua volta il loro rapporto con la psicoanalisi, su cui più che da dire ho molto da ascoltare.
    E questo suo passo potrebbe essere un primo punto di analisi in comune:
    ” Il procedere dalla concretezza della realtà alle sue possibili rappresentazioni metaforiche, viene oggi drammaticamente invertito (vedi le liriche delle Canzonette del Golfo), regredendo dalla finzione metaforica alla realtà stessa. “(testualmente il percorso va da: “e che altro potete” rivolto agli dèi della mattinata, a: “Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare”; Lontano lontano…, vv. 7-8), e dove certamente gli dèi della mattinata nulla possono in quanto nostre rappresentazioni, mentre il limite imposto dalla realtà è concreto e tangibile.
    Così come gli imperatori non sono più ‘rappresentazioni’, plasmabili figure narrative passibili di molteplici significati. Ma sono ‘drammaticamente veri’, sganciano ‘vere bombe’ per quanto contrabbandate come ‘bombe intelligenti’, (“sono divenuti “crudeli e ignoti”. E, a differenza di quelli dell’idillio, questi dèi esistono, e gli “imperatori” sono la loro espressione più terrificante”)”.

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