di Angelo Australi
Il poeta ammette/di mettere/ nella sua poetica/ un po’ di etica/ ovviamente estetica, / un po’ di emotica/ ovviamente demotica, / un po’ di pratica/ ovviamente ieratica, / e tanta ispirazione. / Dimenticando il più: / La TRAspirazione.
Questa strofa è tratta da “Figure etimologiche e bisticci” una poesia di Daniele Barni che si trova nel libro Piccola antologia di anonimi contemporanei, pubblicato da Italic Pequod nel 2017. Un verso dissacrante il suo, e al tempo stesso divaricante per similitudini. Come Leopardi, tende a confrontarsi con il nulla, lì dove sta la poesia che scopre la vita, ma non si scopre. Daniele Barni è speculativo, quasi in modo fisico, nella sua disillusione generazionale trovo il bisogno di scoprire la forza di questa perdita in senso meno lirico e più da poeta “civile”.
Daniele Barni è nato il 9 settembre 1973 e vive a Sansepolcro. Si occupa di poesia, di storia dell’arte e critica letteraria. Per Edizioni Creativa ha pubblicato la raccolta poetica Finestre (2011); per Cartman Edizioni il saggio Lo sguardo della critica: I conoscitori d’arte in Italia tra XIX e XX secolo (2013).
Qui di seguito propongo alcune sue poesie inedite che trovo davvero molto fresche, ricorrenti in un ritmo congeniale a fissare l’immagine che si dilata sul presente, senza lasciare che i ricordi o il passato diventino un’astrazione.
Angelo Australi
AIDACRA’L IL FIUME Il fiume è partorito dalla terra: il suo pianto disegna prima un rigo, che si fa traccia e poi tragitto che erra, zigzaga, si raddrizza, nell’intrigo del suo andare, o discendere, o finire. Il fiume cade ma procede, sbanda ma prosegue, ora scivola giù a spire ma ci riprova, e senza far domanda: il desiderio suo è di passare. Il fiume ora cammina sopra lame di pietra, si riposa in pozze rare, trascina con la schiena ogni gravame; svuota l’eccesso, colma la mancanza e porta pure in braccio chi lo chiede. Verso la fine, poi, in silenzio avanza, lento corteo di vanità e di fede. LA FORMICHINA Il ruscelletto canta. La formichina intreccia i suoi tragitti sul suolo acceso, evaporante polvere. La guarda il sole, e guarda i due trafitti, forse vermi, che tira a sé. E l’assolve. Ma il cardellino, vorticoso, crolla su di lei: la deruba e la rapisce. La guarda il sole: guarda giù la folla dei suoi atti vani. E non s’intenerisce. Il ruscelletto incanta. LA BRINA E la brina vernicia di brillanti le vie, i giardini, i tetti in tutti i canti. E la narice fuma, l’occhio invetra ed ogni moto poi si fa di pietra. Il traffico più lento adesso cola sopra i catrami: pare alla moviola. E il ragno svela al cielo il suo intrigo, così il moscerino cambia rigo. Tutto è più lento e tutto è rivelato sotto alla colla gelida: in inverno, sembra che l’orologio sia tarato non all’ora che ha fretta, ma all’eterno. L’AQUILA E l’aquila decolla dal suo aguzzo aeroporto: poi vira e vira ancora; poi accende l’occhio radar: sul cocuzzolo, la martora non sa che ora è la sua ora. E l’aquila s’impenna, picchia, plana, romba, rimbomba e con l’artiglio arremba la martora, che, pur rapita e sghemba, non lascia a altri la sua, sua pantegana. E allora atterra l’aquila corriva col suo carico doppio nella stiva. EFFETTI IN MONTAGNA Il larice annuisce alle ventate: e anch’io dico sì, e lo dico ancora. Saltellano sul lago le sassate: così rimbalzo anch’io di ora in ora. L’aquila applaude lenta e verticale: e io con lei. Il cielo curva in giù la bocca setticolore: è triste? che? sta male? Il suo pianto, d’altronde, ancor dirocca! O magari, chissà, forse – penso io - sorride a mento in su, di sopra, a Dio. LA VIPERA Profumi gialli, blu e persino rossi invitano ogni naso al loro gala di maggio. Ed un ronzio liscio dai fossi levita sulle teste come un’ala. Il polline solletica le gole e le affama: panini e vino svitano le pance e l’allegria; e qui o là, aiuole di turisti germogliano di vita. Ma a un tratto l’urlo tutto ammutolisce: la vipera! Chi frulla, chi fibrilla, chi evita, chi si avvita e tramortisce. Il cielo guarda con aurea pupilla, guarda il groviglio di bimba tra i fiori che ha sulla fronte un bacio a due fori. IL TEMPO E I TEMPI DISSE L’ETERNITÀ Vorrei essere l’istante e tintinnare così di nostalgia, oppure d’attesa, persino di paura. E poi brillare, anche solo una volta, di sorpresa. Urtare nei cantucci della sera il profumo sereno del mistero; gradire sulla lingua il sarà e l’era, l’agrodolce del falso con il vero. E vorrei che il minuto, lentamente, mi carezzasse come chi ama e parte: rimarrei in equilibrio sul presente, tentando la vertigine a ogni parte; o cadrei dalla mia noia infinita nel breve batticuore della vita. RISPOSE L’ISTANTE Ed io vorrei, al contrario, tintinnare della gioia raggiunta senza attesa, paura o nostalgia. Quindi brillare della tranquillità senza sorpresa. E soffiare per gioco nella sera il profumo di pollini e mistero; confondere al palato il sarà e l’era, non l’aceto del falso e il dolce vero. Non vorrei che il minuto, lentamente, mi carezzasse come chi ama e parte, ma vorrei che l’abbraccio del presente mi circondasse eterno da ogni parte. Bacerei anche la tua noia infinita, perché per me sarebbe vita, vita! LA SIRENA DI SABBIA La sirena di sabbia sulla riva serpeggia fra i turisti in guizzi immobili. Regala sguardi azzurri da due globi di plastilina, simili ad evviva accesi in quel silenzio fisiognomico. Risponde in mille voci come in coro il bel tupè di canutiglie d’oro. Il vento la circonda degli aromi salsi e, intanto, pian piano polverizza ciò ch’era forma, ciò ch’era armonia. Il sole aiuta risucchiando via la colla d’acqua. Poi, la luna aizza, segreta, la marea a grattare il resto. Come quella sirena è questa vita: è polvere di tempo, scolorita gora di qualche inessenziale gesto, che morte gratta con unghia appuntita. ALL’EUROPA Europa, sei il più grande monumento all’inutilità del ricordo e persino della Storia: per te non nutrimento è tutto ciò ch’è stato, neppure avanzo, solamente scoria. Eppure il tempo gira la sua noria! Perché se fossero utili, coglieresti gli accenti del libro degli eventi, sul quale invece insegui righi muti. Provo a sperare, almeno, che sia il mio appello agli occhi tuoi baleno. Cerca di ricordare Cheronea, quando l’orso macedone, venuto per rubare tutto il miele fin dentro l’arnia achea (canterebbe l’aedo), solleticato e basta fu dal fiele dello sciame di Tebe e sue clientele. Il mucchio delle poleis da questo, ed a quel lato il muro di uno stato: giudica tu, alla fine, chi la mole di tanto guerreggiare sarebbe riuscito a sopportare! E non dimenticare quando il gallo di Francia volle entrare nel pollaio italiano: già Colombo aveva rotto il vallo che tra l’oceano e il mare aveva posto Eràcle, e per lo strombo dei suoi giorni era già disceso a piombo sia quel Lorenzo forte sia quel perfetto Piero. I nostri polli empierono di starnazzi palazzo, reggia o corte, rimanendo a vedere, divisi, chi li univa in suo potere. Cerca di ricordare infine il drago coloniale, dai denti d’acciaio congeniali a ogni menù, che si pappò, mai pago, i quattro continenti. A cavalcarlo, Europa, c’eri tu! O ciò che hai fatto non ricordi più? Le Compagnie delle Indie, facendoti da sgherro, barattarono il ferro con argento e oro; non contente, quindi, barattarono anche uomini: e il nome “schiavo” ritornò fra i nomi. Adesso l’orso russo ti minaccia, pure il drago cinese e, anziché il gallo, l’aquila d’America, e altri vengono in caccia; ma parti non coese mostri a chi mira a te insieme ai tuoi averi. C’è regola, però, quasi numerica: in politica, e in vita, fai il male o lo patisci. Perciò, se non ti unisci, così divisa finirai spartita, o finirai colonia, ahimè, di qualche dura egemonia. O Canzonetta mia, vai dall’Europa e dille che c’è causa che vale più di mille: salvare sé e, in sé, la democrazia1. I TRE SALVADANAI Ho qui il salvadanaio dei ricordi, d’oro e di ferro, lucidi e ovattati: li ascolto tintinnare contro i bordi: sono pesanti, ormai, se soppesati. Ne ho poi un altro, che spero non debordi, pieno di desideri a più carati, che tintinnano ormai con brevi accordi essendo in ogni modo costipati. E ne ho infine uno che è purtroppo vuoto, benché aggiunga ogni volta le emozioni dell’istante. Con queste tre monete compro tozzi di vita: una, vedete, scaduta; falsa l’altra; e dei tre conii solo l’ultimo in corso, e già remoto. 1 Propongo una breve riprova in quattro punti per cercare di individuare, se non che cosa sia la democrazia, almeno dove quest’Araba Fenice si trovi: 1) La democrazia è fra coloro che pensano combinando sempre e umilmente nei loro ragionamenti e argomentazioni la deduzione, l’induzione e l’ipotesi, senza fare a meno o dell’una o dell’altra. 2) La democrazia è poi fra coloro che affidano sempre e umilmente i loro pensieri alla comunità, sperando che tutti siano d’accordo, o almeno la maggior parte, senza però smettere di considerare chi non lo sia. 3) La democrazia, ancora, è fra coloro che non dimenticano, sempre e umilmente, che i loro pensieri non siano definitivi, ma in ogni momento superabili, migliorabili o, addirittura, sbagliati. 4) La democrazia, infine, è fra coloro che rispettano sempre e umilmente tutti e tre i punti precedenti, non tralasciandone mai alcuno. Senza il punto uno, la democrazia si trasformerebbe nel cosiddetto populismo dei demagoghi; senza il punto due in dittatura; senza il punto tre nella oligarchia delle élites; senza il punto quattro nella cosiddetta democratura.
Nel loro genere, belli questi versi che paiono a un primo sguardo “leggeri”, con ritmo di canzonette e filastrocche. Ma non so se in poesia ci siano mai stati dei versi leggeri. Quello che so è che da Palazzeschi in poi, per risalire d’un secolo la corrente poetica, non è (più) così. E questi versi mi echeggiano proprio Palazzeschi. Il Palazzeschi, per precisare, dell'”Incendiario”. Un secondo nome “illustre” che farei è Pascoli. A questi due “nomi” tra gli altri, naturalmente, mi paiono debitrici le poesie di Daniele Barni. Invece, a mio avviso, non risolta è la poesia “All’Europa”. L’autore ha voluto dire “troppo”, e ha finito col pasticciare il discorso poetico. Risultato: la sintesi tra Europa e democrazia ha voluto salvare capra e cavoli, e salvare capra e cavoli non è possibile.
POESIA A PIU’ LIVELLI DI LETTURA
Poesia che si presta a più livelli di lettura. Occorre scavarne il verso: scenderne al livello metaforico, fonico, semantico, iconico, isotopico, giù giù fino al fondo inconscio o del subconscio. E’ vero: solo apparentemente leggera e semplice. Interessante.
Mi rap / iscono un po’
…sì, poesia rap-natura che , come il ruscelletto, “canta” e “incanta”, sia nella veste della fiaba che della tragedia…