«Questo virus ci fa capire cose che in tempi normali si fatica a far capire.» Giuseppe Remuzzi
di Donato Salzarulo
1.- La delega alla scienza che deve farla “da padrona”. La parola agli esperti.
Il 22 febbraio 2020, all’indomani della scoperta dei “focolai” di Codogno e di Vo’, Luigi Ripamonti, giornalista scientifico del Corriere della Sera, pubblica un editoriale pieno di buon senso. Tra l’altro, scrive: «È il momento in cui la scienza dev’essere “padrona”. Ed è il momento in cui l’informazione ufficiale, e non, dev’essere trasparente e seguire le regole fondamentali della comunicazione del rischio, la prima delle quali è di non negare, nascondere, o sminuire mai i pericoli, perché mentire è il modo più semplice per perdere la fiducia, e senza fiducia qualsiasi messaggio sarà poi ignorato o respinto, con grave danno per la sicurezza pubblica. E la seconda regola è ammettere limiti e incertezze del sapere disponibile, che è, certo, in continua evoluzione, ma che è anche l’unico patrimonio sul quale contare per agire in modo razionale.»
Finalmente!, verrebbe voglia di esclamare. Dopo anni di “dittatura dell’ignoranza”, di populismo demagogico, di complottismo, di battaglie contro i vaccini, è ora che la parola torni agli esperti che, si chiamano così, perché dovrebbero avere un’esperienza in questo o quel ramo del sapere, un’esperienza e una formazione. Non si diventa biologo o genetista molecolare perché si legge questa voce su Wikipedia, così come non si diventa medico, epidemiologo, infettivologo, ecc. ecc. “La scienza”, in generale, forse non esiste. Forse è un modo di ragionare, un metodo di pensiero, un modo di costruire, verificare e realizzare conoscenze. Poi esistono le scienze e gli scienziati…
Capire cosa fanno e cosa dicono gli scienziati, gli esperti; come dibattono tra di loro, come si confrontano, come formulano ipotesi, a quali regole si attengono, ecc. tutto ciò mi sembra fondamentale. È un modo per sottolineare non solo la necessità dello studio, la consapevolezza dell’importanza del dover passare ore su un manuale di biologia o di matematica, ma anche per ragionare su come lavora la scienza nell’epoca attuale in cui è diventata impresa e forza produttiva del capitale. Mai come in queste occasioni si coglie il rapporto tra scienza e miglioramento delle nostre condizioni di vita. Purtroppo, pure peggioramento: perché, grazie alla scienza, abbiamo prodotto droni che scaricano bombe sulla testa di questo o quello. Comunque, la nostra specie, che ha scoperto come combattere contro i batteri, è ancora indifesa nei confronti dei virus…
Ridare la parola agli esperti non significa dimenticare che
- La scienza è obiettiva, ma il suo uso non è neutro; soprattutto, non lo sono gli scienziati ai quali può capitare per ragioni varie di negare, nascondere, sminuire i pericoli. Mi risparmio gli esempi. La medicina del lavoro ne sa qualcosa.
- La scienza non è una religione e gli esperti non è detto che abbiano le stesse opinioni, soprattutto se il sapere disponibile su un virus nuovo è ancora in formazione, inevitabilmente caratterizzato, quindi, da limiti e incertezze. Anche quando è cristallizzata sulle pagine di un manuale, non è detto che la scienza parli sempre una lingua unica ed univoca. Essa è ricerca ed ha a che fare con problemi spesso scottanti.
Ciò detto, sono d’accordo con Ripamonti: è un patrimonio fondamentale sui cui contare per agire in modo razionale. Non è l’unico.
- Scienza e mondo dell’informazione mass-mediale seguono regole diverse. Così, quando, Maga, Gismondo, Burioni, Ricciardi, Lopalco, Capua…finiscono in televisione, interrogati da conduttori, che amano risposte binarie (sì o no…), probabilmente renderanno popolare la scienza, ma non è detto che le facciano un gran bene. Mi è capitato di sentire l’illustre virologa Capua interrogata come una studentessa liceale: cos’è un virus?…Cos’è una pandemia?…Quando sarà raggiunto il picco?…
2.-«Non c’è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia». «Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale».
Sempre il 22 febbraio il CNR pubblica una nota firmata da Giovanni Maga dell’Istituto di genetica molecolare. Un pensatore di professione come Giorgio Agamben la legge e sottolinea le seguenti proposizioni: «non c’è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia». Il quadro potrebbe cambiare, ma il nostro sistema sanitario è in allerta e, comunque, «l’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva.»
Assumendo questi dati e ritenendo le
misure del governo sproporzionate rispetto alla pericolosità del
virus, a questo punto, il filosofo pubblica un articolo su “Il
Manifesto” del 26 febbraio e giustamente si domanda: «Se questa è
la situazione reale, perché i media e le autorità si adoperano per
diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di
eccezione, con grave limitazione dei movimenti e una sospensione del
normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere
regioni?»
I
fattori che individua sono due:
- La tendenza degli stati odierni a trasformare sempre più lo stato d’eccezione in un paradigma normale, in ordinaria amministrazione (per così dire). Se non c’è il terrorismo da combattere, c’è qualche invisibile virus a limitare drasticamente le libertà personali dei cittadini.
- «L’altro fattore, non meno inquietante è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo.»
Ancora su “Il Manifesto”, il giorno prima (25 febbraio), Manlio Dinucci nella sua rubrica “L’arte della guerra”, premettendo che il Coronavirus non andava sottovalutato e che si dovevano seguire le 10 regole del Ministero della salute, denunciava il diffondersi del virus della paura.
«Esso viene sparso soprattutto dalla televisione, a partire dalla Rai che dedica i telegiornali quasi interamente al Coronavirus. Il virus della paura penetra così in ogni casa attraverso i canali televisivi. Mentre lanciano il massimo allarme per il Coronavirus, essi tacciono sul fatto che l’influenza stagionale, epidemia molto più mortale, ha provocato in Italia durante la 6° settimana del 2020 – secondo l’Istituto superiore della sanità – in media 217 decessi al giorno, dovuti anche a complicanze polmonari e cardiovascolari legate all’influenza».
Secondo Manlio Dinucci ci si trovava, quindi, di fronte ad una vera e propria campagna allarmistica dei media italiani che rischiava di essere quanto meno funzionale alle dichiarazioni del segretario USA al commercio Wilbur Ross, secondo cui «il Coronavirus contribuirà al ritorno di posti di lavoro dalla Cina negli Usa». A convalida che fosse una campagna allarmistica riportava le parole di Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze del laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano: «A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Guardate i numeri non è una pandemia.»
L’articolo, verso la fine, accennava anche all’ipotesi che «non si può escludere che il virus sia stato creato in laboratorio», ipotesi che sarebbe stata formulata da Global Research, il centro di ricerca sulla globalizzazione diretto dal prof. Michel Chossudovsky.
Si potrebbe dire: ma sono quelli che scrivono sul Manifesto che non leggono bene i dati e sottovalutano il pericolo. Allora, cambiamo giornale. Su “La Repubblica del 26 febbraio c’è un commento di Gianrico Carofiglio, intitolato «Se la paura diventa malattia». Dopo aver richiamato La Logica di Port-Royal dei due giansenisti francesi Antoine Arnauld e Pierre Nicole, si concentra sul tema «dell’asimmetria fra paure e pericoli. In particolare nel trattato i due autori si occupano della paura dei fulmini e della sproporzione fra tale paura, spesso vivissima, e il pericolo oggettivo, modestissimo, di essere effettivamente colpiti da una saetta.» Questo per dire che molti di noi hanno paure sproporzionate o più dipendenti dalle loro credenze che dai pericoli oggettivi. «Le influenze normali producono oltre seimila decessi all’anno per cause dirette e indirette. L’inquinamento dell’aria produce da cento a duecento decessi al giorno, eppure nessuno pare preoccuparsi di questo rischio, rispetto a quelli connessi all’attuale epidemia. La possibilità di entrare in contatto con un virus misterioso mette in moto una preoccupazione diversa e, per quanto possa apparire assurdo, maggiore rispetto a quella di respirare particelle cancerogene. Questo è uno dei tanti segni della nostra irrazionale relazione con il mondo e l’incertezza.»
Vero. Ma come la mettiamo se il virus è, in parte, “misterioso” anche per gli scienziati?… Come la mettiamo col fatto che, replicandosi di corpo in corpo, il virus modifica la sua virulenza?
«Il senso di questa riflessione, riportato alle vicende odierne, è che bisogna affrontare la vita accettandone l’ignoto e la complessità. Bisogna affrontare il rischio prendendo tutte le precauzioni sensate (quelle suggerite dai vari esperti), ma non quelle insensate, generate da un bisogno immaturo e pericoloso di governare l’ingovernabile, cioè l’incertezza.»
Leggendo queste autorevoli penne e, notando tra alcuni amici ed amiche, un atteggiamento allarmistico, uso queste argomentazioni in una chat. E il dibattito va avanti per diverse ore, finché non leggo l’articolo di Paolo Giordano sul Corriere della Sera del 26 febbraio: «La matematica del contagio che ci aiuta a ragionare», un articolo esemplare per la sua chiarezza, per la sua capacità di “stare sul pezzo” e di trarre le proprie opinioni e i propri ragionamenti dai fatti e dagli eventi. Al termine capisco qual è il pericolo reale: non è in discussione il tasso di mortalità del virus, ma la velocità del suo contagio, la sua crescita esponenziale che in poche settimane può mettere sotto stress il sistema sanitario nazionale, fino a ridurlo eventualmente al collasso. Rimango sconcertato: ma allora che senso hanno le dichiarazioni del CNR e della direttrice Maria Rita Gismondo?…Va bene, non allarmare le coscienze degli individui, non spaventarli inutilmente, ma se queste coscienze, alla data del 26 febbraio, sembrano non aver ancora capito bene qual è il pericolo reale, di chi è la responsabilità? Non credo che Agamben, Dinucci, Carofiglio avrebbero scritto articoli con un simile taglio, se gli esperti e i mass-media (a cominciare dalla TV) avessero comunicato con chiarezza la natura del pericolo. Di fronte a un virus che poteva in poco tempo generare un’epidemia, altro che “Milano non si ferma”, altro che tenere aperti il teatro, il cinema, gli stadi…
3.- «Curva Burioni».
In verità, sempre il 26 febbraio sul Corriere della Sera, Massimo Gramellini nella sua rubrica di prima pagina “Il caffè” rimprovera bonariamente il virologo Roberto Burioni per aver «irriso la direttrice del laboratorio milanese in prima linea contro il coronavirus, chiamandola “la signora del Sacco”», dando prova di «becero maschilismo». La star mass-mediologica della giusta battaglia a favore dei vaccini in un twitter successivo, per sdrammatizzare, ricorre a una battuta il cui effetto cumulativo costringe lo scrittore «a ricordargli che ci sono momenti nella storia in cui i competenti non possono permettersi il rischio di passare per macchiette.» Addirittura!…
Dopo averlo “pizzicato”, il giorno dopo Gramellini intervista a lungo il virologo. A parte le reciproche galanterie, i punti salienti mi sembrano questi:
- «La polemica con i No Vax mi ha proiettato in un mondo per il quale non avevo ancora preso il vaccino. Ci sono cose che non posso più permettermi»: l’ironia, ad esempio.
- «Per tranquillizzare le persone bisogna raccontare quello che accade con chiarezza e con calma. Se dici che è solo un raffreddore e poi però chiudi le scuole, generi panico.»
- «Questa è un’emergenza nazionale, perché non è limitata a una porzione di territorio come un terremoto. Perciò richiede un coordinamento.»
- «Sono cresciuto con il mito degli Stati Uniti d’Europa. Vedere che non riesce a gestire neanche questa emergenza…Il virus non è una questione divisiva come i migranti. Bastava fissare una linea comune – stesse regole a Parigi e a Milano – e ci si sarebbe tranquillizzati l’un l’altro. Non si possono chiudere frontiere che non ci sono più».
- «Di questo virus sappiamo pochissimo. Non sappiamo neppure se chi guarisce può infettarsi di nuovo. Ma non dobbiamo riempire i vuoti di conoscenze con le scemenze [come quella di un esperimento militare cinese che spopola sul web]. Il virus è passato dal pipistrello all’uomo, questo è sicuro.»
- «[La prima malata cinese] prima di guarire è stata ricoverata quasi un mese. A preoccuparmi è proprio la saturazione degli ospedali.»
- «La paura è un virus e il suo vaccino è l’informazione. Se un bambino teme che nella stanza ci sia un mostro, bisogna accendere la luce. Io sono il primo a dire che il coronavirus non è un raffreddore. Ma questo non significa che sia la peste.»
- «I virus sono maledetti perché per spostarsi usano quanto di più bello esista: i baci, gli abbracci, la vicinanza tra le persone. Dobbiamo fare uno sforzo culturale: trasmettere affetto al nostro prossimo rinunciando alla fisicità.»
- «Ho letto sul Corriere il bellissimo articolo dello scrittore e fisico Paolo Giordano sulla matematica dell’epidemia. Ha ragione, saremo fuori pericolo quando i potenziali “spanditori” del virus contageranno meno di una persona a testa».
I problemi accennati dal virologo sono molti: dal rapporto scienziati-mondo dei social e dei mass-media a quelle delle conoscenze effettivamente possedute in un determinato momento (“di questo virus sappiamo pochissimo”), dal panico generato dagli atteggiamenti contraddittori delle Autorità (amministrative, scientifiche e sanitarie: non puoi chiudere le scuole e dire che si tratta “un’infezione appena più seria di un’influenza”) all’esigenza di un coordinamento (Burioni lo vorrebbe europeo, in realtà si fa fatica a garantirlo anche a livello nazionale per l’accavallarsi di poteri locali, regionali, centrali…), dal ruolo dell’informazione in situazioni emergenziali alla necessità dell’isolamento per evitare la saturazione degli ospedali. Un fatto appare chiaro: gli esperti non possono trasformarsi in ricercatori di consenso, in persone un po’ simili ai politici del nostro tempo ammalati di “visibilità” e “sondaggite”. Hanno bisogno di raccontare e spiegare con chiarezza e calma.
4.-«È un dolore enorme»
A più di due settimane di distanza con l’epidemia che sta galoppando in Italia e l’OMS che l’undici marzo ha dichiarato lo stato di pandemia planetario, non si può fare a meno di notare quanto sia stata ampia e diffusa la sottovalutazione del pericolo. E non si può dire che gli esperti non siano stati in parte responsabili di questa sottovalutazione.
Sul Corriere della Sera del 13 marzo 2020, ho letto le drammatiche risposte di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche, “Mario Negri”, intervistato da Marco Imarisio. In sintesi:
- La virulenza o capacità di aggredire di un virus può modificarsi passando da un individuo all’altro. Questo lo sapevamo da un manuale di biologia. Dopo aver espresso il suo grande dolore per le tante persone che muoiono, Remuzzi ci dice che questo coronavirus è mutato in fretta ed è diventato particolarmente aggressivo. «Fatichiamo a trovare una risposta immune. Fatichiamo a curare. […] Questa non è una malattia benigna. Non è un’influenza. È una malattia di cui si muore. Non solo anziani, ma anche giovani. E ha colpito molte più persone di quante siamo in grado di trattare.»
- A Bergamo sta succedendo «qualcosa di enorme. Due martedì fa erano tre morti. Sette giorni dopo, 33. Oggi, 58. Avranno anche avuto altre malattie, ma senza virus sarebbero ancora qui. E le polmoniti di questa settimana sono più gravi di quelle della settimana scorsa [perché] la gente è terrorizzata di andare in ospedale. Resta a casa finché ce la fa, con tachipirina e antibiotico. Il 113 ci porta solo quei malati che proprio non ce la fanno a respirare.»
- «Come ormai tutti sanno, abbiamo due zone colpite: Nembro e Alzano. Già a dicembre i medici di base di quest’ultimo comune si sono trovati di fronte a polmoniti mai viste. Ma hanno pensato che fosse un’evoluzione del ceppo annuale dell’influenza. […] È difficile capire che sei di fronte a qualcosa di nuovo se non l’hai mai visto prima. Anche noi studiosi eravamo convinti che il virus non fosse così aggressivo.»
- Quanto agli articoli da romanzo giallo sul “paziente zero” sono serviti soltanto a riempire qualche pagina di giornale perché «da fine ottobre, quando il virus è comparso anche in Europa, fino a gennaio quando ce ne siamo accorti, c’è stato uno scambio continuo di milioni di persone. Con la Cina, con la Germania, con tutto il mondo.» (Avete letto bene!… Fine Ottobre). Alzano Lombardo e Nembro sono grandi focolai di contagio perché «Alzano Lombardo è una piccola capitale industriale. Contatti di ogni tipo. Vai e vieni da ogni parte del mondo. Nembro è una delle città più vive e frequentate della zona. Un posto da movida, a farla breve.»
- Occorreva fare «una zona rossa. Subito, come a Codogno.» Remuzzi non sa perché non è stata fatta. «Dico solo che l’assenza di una zona rossa ha peggiorato una situazione già grave. [Le testimonianze che arrivano dagli ospedali bergamaschi fanno paura.] Ormai sono tutte simili. Dicono che la gente muore. Che anche chi lavora negli ospedali si ammala. Che non c’è posto. Questo virus ci fa capire cose che in tempi normali si fatica a far capire. […] Nelle ultime due settimane abbiamo formato 1.500 infermieri e medici. Abbiamo un disperato bisogno di personale. Abbiamo oculisti e dermatologi che stanno imparando l’assistenza respiratoria.» Remuzzi ha detto e scritto spesso che i neolaureati in medicina dovrebbero entrare subito in corsia perché il mestiere lo si si impara meglio in ospedale. «Ma nessuno ha mai voluto ascoltare. Se l’avesse fatto, oggi avremmo un esercito di “riservisti” prezioso a dir poco.»
- «Come tutti, vivo con l’idea che possa capitare a me. [E se dovesse accadere]. Direi a chi mi assiste di intubare un ragazzo, e non me. Io ho settant’anni.»
Posto di fronte all’eventuale alternativa del farsi intubare lui o un giovane, Remuzzi risponde evocando la medicina o l’etica delle catastrofi. Si attiene, insomma, al documento pubblicato il 6 marzo dalla Società degli anestesisti e rianimatori: «Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili.»
«Non si tratta di compiere scelte meramente di valore – precisano – ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone».
Su questo «documento umanissimo e disumano insieme» richiama l’attenzione Marco Revelli su “Il Manifesto” dell’11 marzo.
«È l’applicazione di un’impietosa “razionalità strumentale” (quella che impone di massimizzare i risultati con le risorse disponibili) a una realtà che riduce la pietà a un lusso che non ci si può (più) permettere. Merita – voglio sottolinearlo – il massimo rispetto, per le caratteristiche di chi l’ha redatto e di coloro cui è diretto: le persone che per una professione operano in prima linea, quotidianamente, con rischio, sul fronte estremo della vita e della morte. Su di loro ogni giudizio critico sarebbe ingiusto.»
Lo “squilibrio tra necessità e risorse disponibili” non è, però, un dato di natura.
«Se i posti in rianimazione sono scarsi, è perché qualcuno (decisori pubblici, politici di governo, poteri economici nazionali e internazionali, opinion leaders, operatori dell’informazione) ha deciso così per anni. Se in Italia ne abbiamo 5.000 di contro ai 28.000 della Germania e agli oltre 20.000 della Francia, è in conseguenza di scelte: quelle che hanno portato in dieci anni a negare 35 miliardi dovuti alla Sanità e a tagliare 70.000 posti letto. Se i nostri rianimatori sono costretti ad affrontare “dilemmi mortali” è perché altri, sopra di loro, hanno determinato la scarsità che obbliga e rende feroce la selezione.»
5.- «Un po’ di autocritica possiamo già farla»
Lo scrittore e fisico Paolo Giordano torna a scrivere sul «Corriere della Sera» del 9 marzo. Titolo dell’articolo: «L’altrove siamo noi».
Mentre TV, giornali, social e comunicazioni varie stanno lì a baloccarsi su chi è dentro e chi è fuori dalla “zona rossa”, dopo che la sera di sabato 7 c’è stata la fuga verso il sud, lo scrittore sottolinea: «l’Italia non è divisa fra una parte rossa, in crisi, e un’altra che tutto sommato se la sta cavando. Come non lo sono l’Europa e il resto del mondo. Questa percezione è apparente e temporanea. Ci troviamo tutti in stadi diversi della stessa evoluzione.» Perché esiste una linea temporale dell’epidemia cominciata «in un momento imprecisato e in un luogo imprecisato, forse un mercato di Wuhan» e diffusa ormai in tutto il mondo. È solo «un pregiudizio infondato, il pregiudizio dell’altrove» che ci fa trascurare questa linea temporale.
«Guardare con lucidità chi ci precede è quindi lo strumento più efficace in nostro potere per attenuare l’urto della Covid-19, e non farci trovare scomposti al suo arrivo più massiccio. Roma, adesso, dovrebbe guardare a Milano, proprio come l’Italia e il resto del mondo avrebbero dovuto guardare più seriamente alla Cina due mesi fa. Ma non solo le metropoli e la terraferma, tutti, anche i paesini più remoti delle nostre isole.»
Siccome l’epidemia si sviluppa nel tempo, l’unico modo che si ha per fare prevenzione è chiedersi “quando” arriverà e “come”; se si saranno già assunte le necessarie misure di isolamento e distanziamento sociale, si potrà guadagnare tempo e smorzarne l’impatto sul sistema sanitario.
«Un po’ di autocritica possiamo già farla: finora il tempo è stato gestito male. Siamo sempre stati in ritardo, fin da quando abbiamo saputo del primo focolaio nell’Hubei. Nulla è precipitato inaspettatamente da allora e, se ci sembra così, si tratta solo di un’altra falsa percezione: siamo stati dentro l’evolversi consequenziale e prevedibile dell’epidemia. The Lancet ha definito le azioni dei governi “lente e insufficienti” […]
La propensione al ritardo è stata anche degli esperti, che avrebbero dovuto iniziare un’opera d’informazione chiara e di pressing istituzionale molto prima. La sfera di cristallo nelle loro mani era la curva epidemiologica cinese, ed era disponibile online. Evidentemente il pregiudizio dell’altrove è più radicato di quanto non si creda.»
L’articolo termina con un triplice appello: alle istituzioni (perché «attenuino la sensazione di un’Italia frammentata e di un’Italia più afflitta degli altri Paesi»), a tutti i cittadini perché adottino «le misure massime di prudenza» e ai media e agli esperti perché «invece di assecondare i cambi di tono repentini delle istituzioni, trovino una linea di continuità e compostezza. Decenni di comunicazione fondata sull’emotività ci hanno abituato male, abbiamo iniettato pathos ovunque, ma adesso basta. Serve una parsimonia di frasi, soprattutto di aggettivi e avverbi. […]
Chi ha capito qualcosa in più deve spiegarlo a chi non l’ha ancora capito. Anche questa è una catena di solidarietà nuova nella quale ognuno ha la sua parte.»
6.-Conclusione provvisoria
Ciò che leggi quasi sempre legge anche te. Gli stralci d’articoli e interviste riportate corrispondono abbastanza ai miei pensieri e stati d’animo. All’inizio Wuhan era l’altrove e l’Italietta politica era quella di sempre noiosa e rissosa. In seguito alla scoperta dei focolai lombardi e veneti e alle prime clamorose misure assunte dal Governo, leggendo i dati epidemiologici diffusi, ho creduto come Dinucci e Agamben che ci fosse una campagna allarmistica in atto e che le misure fossero sproporzionate. Soltanto Paolo Giordano mi ha aperto gli occhi. Da quel momento ho temuto ciò che sta dolorosamente accadendo. Se prima non avevo paura, ora ho paura. Se contagiato, siccome ho quasi 71 anni e tre bypass alle coronarie, ho paura di morire in isolamento e in un letto recuperato all’ultimo minuto. Ho negli occhi la lunga fila di bare nella chiesa del cimitero di Bergamo. Perciò me ne sto tappato in casa e faccio gli scongiuri. Ho paura, ma non sono malato di paura. Leggo, scrivo, passeggio per casa, telefono a parenti ed amici, chatto, partecipo al clima nazionale di resistenza che si è creato e alla voglia che abbiamo di sconfiggere il virus. I riti collettivi sono importanti. È bella la foto del neonato col disegno dell’arcobaleno sul pannolino e la scritta che “Andrà tutto bene”. Ma non so se andrà tutto bene, perché gli sciacalli continuano ad esistere e così il profitto e il dio denaro. Gli scienziati è meglio che si tengano lontani dalle telecamere e dai giornalisti e, se sentono l’esigenza di intervenire per informare correttamente i cittadini, è meglio che facciano dei patti del tipo: “devo poter parlare per un quarto d’ora senza interruzioni” oppure “preferisco scrivere un articolo al posto di un intervista telefonica”, ecc. La scienza lavora con pazienza e tempi lunghi, l’informazione è sempre a caccia di miracoli, di soluzioni sbalorditive, di padroni che mordono il cane…
«La scienza dev’essere “padrona”» scriveva Ripamonti nel suo editoriale del 22 febbraio. Zaia, il presidente del Veneto, se ne impipa: «Se la comunità scientifica mi dice che non servono, e io invece sono convinto che siano utili, ebbene continuo a farli.» E via, tamponi per tutti. (Corsera 17 marzo). Fontana, il presidente della Lombardia, ha deciso di trasformare alcuni padiglioni dell’ex Fiera di Milano in struttura ospedaliera, nomina Bertolaso e se ne va per la sua strada: «Giusto collaborare ma sull’ospedale vado avanti» (Corsera 16 marzo). Intanto leggo un appello di Riccardo Germani, un lavoratore dell’Ospedale di Legnano, portavoce di ADL Cobas Lombardia. L’appello è rivolto alle autorità regionali per far notare che «proprio a Legnano, a poca distanza dalla zona fiera, esiste il “vecchio monoblocco” e ben due padiglioni realizzati e predisposti 10 anni fa con tutte le attrezzature.» Perché non usare questo?…
Agamben è convinto che gli Stati odierni usano la paura dei cittadini per rendere sempre più ordinaria amministrazione lo “Stato d’eccezione” (con conseguenti limitazioni delle libertà personali e non solo). Tornerò a riflettere su questo punto. Al momento attuale, la prima domanda che mi viene in testa è questa: in Italia esiste, almeno nelle situazioni d’emergenza, uno Stato?… Se occorre assicurare i tamponi a tutti i Veneti, perché non assicurarli anche ai cittadini delle altre regioni?… Se Fontana può nominare il suo consulente e decidere di trasformare in pochi giorni i padiglioni di un’ex Fiera in struttura ospedaliera, che peccato hanno fatto i cittadini di altre regioni in cui, magari, questo non si può fare?…
Forse affidare la Sanità alle Regioni non è stato un buon provvedimento. Se l’Italia è una, dalle Alpi alla Sicilia, è ora di mandare in pensione questi cosiddetti “governatori” che scimmiottano uno Stato federale inesistente. Di mandarli in pensione almeno per certi diritti garantiti dalla Costituzione.
Ecco una “rassegna stampa” che tocca molti punti e problemi connessi e che non è possibile discutere in dettaglio per ragioni di spazio e di tempo. Ma su alcuni punti sono sollecitato.
1) Gli esperti, finché il problema non entra nel loro campo di esperienza con la necessaria documentazione, possono solo esprimere opinioni analoghe a quelle di qualsiasi altra persona ragionante. Per questo gli esperti cadono spesso in errori grossolani poi smentiti dai fatti. Quando un esperto parla di ciò che non conosce bene per esperienza diretta di laboratorio non ne parla da esperto.
2) La scienza deve e la fa da padrona in certe situazioni e su certi problemi, ma c’è tutto un contorno di decisioni che non appartengono alla scienza e in questa interconnessione fra scienza e politica si inseriscono variabili e alternative, che poi si moltiplicano quando lo stesso sapere scientifico è incerto. Inoltre non tutte le richieste della scienza sono possibili nel breve termine ed ecco, dunque, un altro campo di decisioni che solo la politica può prendere. L’errore più grave degli esperti è che spesso non aiutano a prevenire le situazioni che poi diventano di emergenza, ma interessati anche, e talvolta di più, alle proprie carriere e ai propri interessi, contribuiscono alle errate decisioni dei politici. Ad esempio in alcune regioni, fra cui le Marche, sono in corso l’attuazione di piani di ristrutturazione della rete ospedaliera che comporta la chiusura di decine di piccoli e medi ospedali, ridotti a pronto soccorso per gli interventi minori, concentrando la maggior parte di edifici, attrezzature e risorse in pochi centri, in pochi super-ospedali, dove – questa è una delle motivazioni – è possibile raggiungere livelli di eccellenza. Si è così enormemente impoverito il tessuto ospedaliero, si è creato disagio nella popolazione (ci sono zone con oltre 150mila abitanti senza un reparto di ostetricia o di ortopedia e per partorire o per farsi operare a una gamba rotta bisogna andare nel capoluogo regionale). E ora, nella situazione di emergenza, i difetti di questa riorganizzazione sanitaria emergono. Eppure l’aspra polemica politica su queste scelte non ha causato un’adeguata risposta degli “esperti”, divisi, come i politici, fra fautori e avversari di quelle decisioni.
3) In sostanza, per rispolverare una vecchia qualifica degli esperti secondo il linguaggio burocratico dei vari ministeri, essi sono “agenti tecnici”, pienamente responsabili quando agiscono come agenti tecnici nel campo della loro specializzazione, ma suscettibili di scelte sbagliate e criticabili appena ne sono fuori.
4) Fra le diverse opinione degli esperti, oscillanti fra la sottovalutazione e l’allarmismo spinto (posizioni entrambe non scientifiche, ma nel caso migliore solo opinioni suggerite dal proprio sapere scientifico), ne manca almeno una: quella di chi, come gli “esperti” di “Riza psicosomatica”, hanno considerato il Covid-19 una semplice influenza e hanno messo in guardia dall’allarmismo e dal panico che creerebbe una depressione immunitaria di origine psicosomatica e che aggraverebbe il pericolo. Insomma, la paura funzionerebbe come una specie di profezia che si autorealizza.
Cazzate enormi. Io mi fido della scienza che mi dà qualcosa di concreto e in modo dettagliato e provato; non mi fido dell’ideologia della scienza e tanto meno della scienza che fa politica.
5) Le emergenze accrescono il potere di controllo e diminuiscono gli spazi di democrazia. Che c’è di nuovo? È sempre stato così. Anche la storia antica ce lo dimostra. In quanto a quella più recente, basta leggere la Costituzione degli Stati Uniti e vedere poi come tutta una serie di emendamenti, i quali spesso coincidono proprio con situazioni di emergenze (in particolare guerre), hanno spostato via via il centro di potere dagli Stati federati allo Stato federale, cioè dalla periferia al centro. Anche il fascismo e il nazismo sono sorti dalla situazione di emergenza della guerra e del dopoguerra e anche il bolscevismo e l’Urss hanno usufruito della stessa circostanza “straordinaria” della guerra. Lo Stato Leviatano tende sempre a crescere e mai a dimagrire. Ciò che fino a ieri era abuso di potere illegittimo, in circostanze di emergenza diventa necessità che legittima l’abuso legalizzandolo. Così si sposta il confine fra potere legittimo e illegittimo, includendo nel legittimo sempre più decisioni che prima erano considerate illegittime. Finita l’emergenza qualche volta si torna indietro, ma mai del tutto. Il potere è una colla che resta attaccata a chi lo gestisce.
6) L’emergenza, per un naturale desiderio di sicurezza, favorisce la nascita spontanea nella collettività di un governo forte. L’emergenza favorisce la centralizzazione del potere e la dittatura.
Ne è una prova anche ciò che scrive Salzarulo: «Forse affidare la Sanità alle Regioni non è stato un buon provvedimento. Se l’Italia è una, dalle Alpi alla Sicilia, è ora di mandare in pensione questi cosiddetti “governatori” che scimmiottano uno Stato federale inesistente. Di mandarli in pensione almeno per certi diritti garantiti dalla Costituzione».
Mentre condivido il resto dell’articolo, dissento profondamente da questa personale conclusione dell’autore.
a) «Se l’Italia è una, dalle Alpi alla Sicilia». L’Italia non è mai stata “una”, se non nella finzione giuridica. Considerarla “una” porta ad errori madornali nelle strategie politiche ed economiche e a reprimere la spontanea spinta verso il riconoscimento e il rispetto delle differenze e all’adozione di politiche adeguate. Tutto il fallimento delle politiche meridionalistiche si può dire che nasca proprio dalla pretesa di considerare l’Italia “una” e quindi, anziché promuovere le diverse vocazioni economiche delle regioni storiche (e di quelle amministrative), si è cercato di trasformare il Sud in una specie di Nord (creando industrie fallimentari e parassitarie e cattedrali nel deserto) o di tenerlo buono con l’assistenzialismo che ha nutrito la malavita organizzata.
b) «questi cosiddetti “governatori” che scimmiottano uno Stato federale inesistente». Inesistente, perché il centralismo di un’Italia fatta “una” dalle manovre imperialistiche inglesi, francesi e tedesche e dalla politica criminale dei Savoia che hanno colonizzato il resto d’Italia col ferro e col fuoco, contro ogni ragione di diritto internazionale, pagando mafie e camorre per insediarsi a Palermo come a Napoli, ma anche a Perugia, Ancona ecc. Con l’opera di un astuto e cinico politico come Cavour, un avventuriero come Garibaldi, un fanatico “guru” come Mazzini.
La soluzione unitaria federale, che per i più era scontata nel 1848 e in parte ancora nel 1959, venne poi sempre negata da tutti i governi del Regno e della Repubblica. Mussolini, se volessimo usare la categoria del “precorrimento” storico, c’è già tutto nella politica dei Savoia e di Cavour (e questa è un’opinione che prendo in prestito da una vecchia lezione di Terracini).
E Alberto Mario, uno dei maggiori collaboratori e seguaci di Carlo Cattaneo, negli anni Settanta dell’Ottocento scriveva che i patrioti italiani avevano fatto una rivoluzione, ma che questa gli era stata scippata dai Savoia. E il giornalista e scrittore toscano Ferdinando Martini riteneva che i Savoia avessero seguito e realizzato il programma di Mazzini in versione monarchica.
Molti mali dell’Italia non avranno prospettiva di risoluzione finché non si arriverà ad un autentico federalismo che promuova, e non reprima, le diverse vocazione e le energie delle varie parti d’Italia, che non è “una” e non lo è mai stata, né nella realtà né nella immaginazione e psicologia dei diversi popoli italici.
c) «almeno per certi diritti garantiti dalla Costituzione». Nell’Italia “una” certi diritti garantiti dalla Costituzione non sono affatto garantiti, non per colpa delle ristrettissime autonomie regionali (lontane da quelle che dovrebbero avere se fossero parte di uno Stato federale), ma proprio perché lo Stato è complice delle regioni meno efficienti, ribadendone l’inefficienza in tanti modi, ed è contro le regioni più efficienti, ostacolandone l’efficienza con limiti di ogni tipo.
L’emergenza del Coronavirus lo ha dimostrato di nuovo. Alcune regioni, come le Marche, la Lombardia e l’Emilia-Romagna, si sono mosse prima dello Stato e hanno trovato nello Stato un burocrate nemico. Le Marche hanno ordinato per prime la chiusura delle scuole, e lo Stato ha fatto ricorso al Tar e ha sospeso l’ordinanza regionale. Questa è stata ripetuta e lo Stato ha di nuovo fatto ricorso al Tar, ma pochi giorni dopo lo Stato ha decretato la chiusura delle scuole in tutta Italia. Chissà mai perché! E gli esempi di ostacoli politici e burocratici frapposti dagli organi statali alle decisioni regionali in materia di contrasto al Coronavirus, di approvvigionamento delle mascherine ecc. sono molteplici e Salzarulo ne potrebbe fare un’istruttiva rassegna.
C’è poi l’assurdo (ridicolo, se non fosse tragico) del decreto per la sospensione del pagamento di certe tasse che arriva dopo la data di scadenza del pagamento stesso, lasciando per giorni e giorni aziende, operatori economici ecc. nell’incertezza completa.
d) «affidare la Sanità alle Regioni non è stato un buon provvedimento». Non lo è stato, se poi lo Stato conserva diritti di legislazione concorrente e non lascia alle regioni la libertà di provvedere come meglio credono; se lo Stato toglie alle regioni le risorse finanziarie che usa come altro mezzo di condizionamento; non lo è stato se tutto il capitolo dei rapporti fra Stato e Regioni è un colossale pasticcio giuridico perché lo Stato non vuole cedere potere a favore di una più ampia autonomia regionale.
Il problema non sono i “governatori”, bravi o non bravi che siano, ma lo Stato che si pone in concorrenza maligna o in complicità altrettanto maligna, secondo come fa comodo ai governi di turno. La soluzione non è più centralizzazione, ma più autonomia delle regioni e, aggiungo, delle province (abolite ma non abolite davvero) e dei comuni.
7) Sull’allarmismo. Qual è il giusto livello di allarme e di paura? Quello che porta a preparare le difese, a prevenire gli attacchi e, quando l’attacco è in corso, a predisporre al meglio il respingimento. Ciò richiederebbe una strategia, ma dove si parla a ruota libera è difficile mettere in campo una corretta strategia della comunicazione e dell’informazione. Questo dovrebbe essere un compito delle autorità politiche, amministrative, sanitarie. Non si può pretendere che lo sia del giornalismo e dei media in genere e tanto meno del bisbiglio di fondo dell’opinione pubblica nel suo insieme.
L’allarmismo è sproporzionato se non è razionale, non se il pericolo è apparentemente remoto. Se indosso un casco da cantiere anche quando passeggio in piazza Duomo per difendermi da eventuali meteoriti o da tegole volanti, non mi difendo in modo proporzionale e razionale. Ma se sono al comando di Forte Apache nel Texas del 1880 devo predisporre un servizio di sentinelle tutti i giorni e per 24 ore su 24, e devo avere risorse di uomini e armi adeguate, sebbene la probabilità di essere davvero attaccati è minima, non più di un giorno ogni qualche anno.
L'”esercito” sanitario, come qualunque altro esercito, dovrebbe essere sempre pronto ad affrontare l’emergenza. Nei giornali degli ultimi venti giorni sono ricorse spesso le parole “guerra” e “peste”. Eppure questa pandemia (e ci sono volute settimane e settimane prima che si ammettesse l’uso del termine pandemia) ci ha trovati impreparati allo stesso modo degli antichi ateniesi e dei popoli che in oltre duemila anni hanno affrontato epidemie di ogni tipo. Anzi, i Veneziani della Serenissima applicavano di solito lo strumento della quarantena in maniera più rapida ed efficace.
“Le emergenze accrescono il potere di controllo e diminuiscono gli spazi di democrazia. Che c’è di nuovo? È sempre stato così. Anche la storia antica ce lo dimostra.” (Aguzzi)
Secondo me la diminuzione degli spazi di democrazia è ALTRETTANTO SE NON PIU’ dannosa dell’epidemia di coronavirus. Se lo smantellamento e la privatizzazione del SSN avvenuta negli ultimi decenni (Cfr. denunce puntuali di Agnoletto) hanno indebolito le difese sanitarie, altrettanto indebolite sono oggi le difese politiche per lo smantellamento di tutta una cultura che avrebbe potuto almeno allertarci di più.
Non so cosa si può tentare di fare in una situazione precipitata così nel marasma. Ma constatare che è sempre stato così e che anche “la storia antica ce lo dimostra” equivale quasi a dire che non possiamo far nulla e che anche studiare la storia è inutile. Organizziamo allora un suicidio collettivo come fece la comunità ebraica di Masada (https://it.wikipedia.org/wiki/Masada) assediata dai Romani? Balliamo e ci ubriachiamo come i passeggeri del Titanic? O tentiamo di ragionare per vedere se qualche varco si riesce a trovare, a indicarlo anche agli altri e a riorganizzarci?
P.s.
1.
Sull’oscillazione tra allarmismo e “assicurazionismo” ho segnalato su POLISCRITTURE FB un buon articolo: https://www.facebook.com/ennio.abate.5/posts/2627660130782972
2.
Inviterei a intervenire su questo tema che è trattato un po’ ovunque per vedere il più possibile di costruire una rete RAGIONANTE. Andrebbero contrastate certe posizioni che a me paiono troppo accondiscendenti e miopi. Come questa di Sergio Benvenuto su LE PAROLE E LE COSE2 (http://www.leparoleelecose.it/?cat=14896).
DA POLISCRITTURE su Facebook
Samizdat
SEGNALAZIONE
Chi è socievole oggi non sta in società
di Sergio Benvenuto
http://www.leparoleelecose.it/?cat=14896
“la gigantesca prova di solidale maturità che sta dando il popolo italiano, pur con sbavature e limiti” ( da un commento di Paolo Ottaviani)
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E già, sono soltanto alcuni filosofi “molto illustri” (ma da strapazzo) a preoccuparsi di “una eventuale “degenerazione dei rapporti fra gli uomini” “ o a chiedersi gufando: ” Sarà un 8 settembre?”.
Quanta brutta retorica nazionalista sta tornando a galla! E con quanta disinvoltura si coprono superficialità, inadempienze, corruzione, cinismi e disorganizzazioni delle Istituzioni, sventolando persino la”massima evangelica “Ama il prossimo tuo come te stesso”!
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Ecco la cronaca di come in un luogo concreto ( Alzano Lombardo) di questa Italia, che gonfiando il petto canta l’inno di Mameli, è stato “amato” il “prossimo”:
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Coronavirus Anno Zero, quel 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo: così Bergamo è diventata il lazzaretto d’Italia
Di Francesca Nava
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Stralci:
1.
E c’è solo una domanda che mi gira in testa: perché Bergamo è diventata il lazzaretto d’Italia? Che cosa non ha funzionato? Osservando la mappa del contagio a livello provinciale ci si accorge che il focolaio lombardo (il secondo dopo quello di Codogno) è divampato da una zona ben precisa in Val Seriana, da un piccolo comune che dista meno di sei chilometri da Città Alta. Si chiama Alzano Lombardo e insieme a Nembro detiene il triste record della più alta incidenza di contagi da coronavirus di tutta Europa. Ma andiamo per ordine.
2.
Domenica 23 febbraio, nel pomeriggio, due giorni dopo lo scoppio del primo focolaio di Codogno, vengono accertati due casi positivi di Covid19 all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo, almeno uno di loro passa dal pronto soccorso, un luogo angusto e affollato. L’ospedale viene immediatamente “chiuso”, per poi riaprire – inspiegabilmente – alcune ore dopo, senza che ci sia stato “nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione nel pronto soccorso di triage differenziati né di percorsi alternativi”, come denunciano due operatori sanitari che chiedono l’anonimato.
3.
“Nei giorni successivi – si legge nella loro lettera pubblicata da Avvenire – si apprende che diversi operatori, sia medici che infermieri, risultano positivi ai tamponi per Covid19, molti di loro sono sintomatici”. Ma le disposizioni cambiano velocemente e pochi giorni dopo “tutti i contatti stretti delle persone accertate positive non vengono più sottoposti a tampone se asintomatici”. Come pensare quindi di delimitare il contagio, isolando i possibili vettori? Si chiedono i due operatori sanitari dipendenti della struttura ospedaliera. La domanda ce la poniamo anche noi.
4.
Soprattutto perché la maggior parte delle persone transitate nell’ospedale e nel pronto soccorso quella domenica di fine febbraio, una volta uscite – senza essere né diagnosticate, né isolate e ignare dei casi positivi riscontrati – sono tornate a casa dalle proprie famiglie, il giorno dopo sono andate in ufficio, in fabbrica, a fare la spesa, in palestra, al parco, al bar a fare l’aperitivo, si sono mosse liberamente per il comune, per la provincia e la regione, altre sono anche andate a sciare, magari a Valbondione (località sciistica in provincia di Bergamo) dove, guarda caso, si sono registrate impennate di contagi da coronavirus nei giorni successivi. Le scuole sono già chiuse da alcuni giorni in tutta la Lombardia, ma la gente continua a lavorare e soprattutto a uscire.
5.
Intanto nell’ospedale di Alzano Lombardo si ammalano un po’ tutti: dal primario, ai medici, dagli infermieri ai portantini. Ci sono addirittura pazienti che entrano con una frattura ed escono morti positivi a Covid19. E con l’aumento dei casi, aumenta anche la voglia di denunciare. Un’altra infermiera si sfoga con il quotidiano locale Valseriana News: “noi stasera siamo di guardia al pronto soccorso con un medico positivo al tampone – racconta la donna con voce concitata al telefono – e nessuno lo allontana, gli hanno dato ordine di rimanere qui fino a domani mattina, indossando la mascherina. Rischio il posto di lavoro a dire queste cose, ma sono stanca di essere presa per i fondelli, ci sono mille raccomandazioni e poi mi metti di guardia un medico che sai che è positivo!”.
Insomma, in barba al buon senso e a qualunque criterio logico di protezione, dall’ospedale di Alzano il contagio si allarga a macchia d’olio a tutta la provincia. “Anche noi siamo rimasti attoniti da quello che è successo quella domenica pomeriggio all’ospedale – mi dice il sindaco di Alzano Lombardo, Camillo Bertocchi – consideri che la mattina stavamo decidendo se festeggiare o no il carnevale e il pomeriggio ci sono stati i primi due casi”.
6.
Ma la gravità della situazione emerge chiaramente una settimana dopo, quando si inizia a vedere un aumento esponenziale dei contagi, soprattutto nel vicino comune di Nembro e sono in molti nella valle a chiedere una zona rossa come quella di Codogno. “Abbiamo capito da subito che la situazione era seria – continua il sindaco Bertocchi – e infatti insieme ad altri sindaci abbiamo emesso immediatamente delle ordinanze urgenti per stringere le maglie di quella ministeriale. Non so se si ricorda ma nella stessa città di Bergamo si invitava la gente a tornare nelle strade a sostenere le attività, a prendere i mezzi pubblici, mentre noi consapevoli della criticità avevamo preteso fermezza. È stato un momento non semplice, perché i nostri operatori e commercianti si chiedevano perché la gente a Bergamo potesse fare ciò che voleva, mentre il sindaco di Alzano li costringeva a chiudere a una determinata ora. Per il semplice motivo che noi avevamo inteso la gravità e il principio era: regole rigide subito per uscirne il prima possibile”.
E invece oggi Alzano Lombardo conta oltre 50 morti in tre settimane, sette volte la media. “Più che le fabbriche bisognava fermare tutto quello che succedeva intorno alle fabbriche, penso ai locali, ai ristoranti, la vita è continuata in maniera normale, supermercati pieni, assembramenti in piazza, questo tra il 23 febbraio e l’8 marzo. In Val Seriana la gente continuava a viver come prima.
7.
Quando è uscito il decreto ministeriale del primo marzo, nel quale si diceva che le società sportive potevano continuare a restare aperte – stigmatizza Bertocchi – noi lo abbiamo visto come una cosa folle, tant’è che abbiamo chiamato le società sportive e gli abbiamo detto: il decreto vi da la possibilità di restare aperte, ma noi vi invitiamo ad astenervi dal farlo. Qua giocano migliaia di ragazzi, abbiamo squadre di pallavolo, calcio, pallacanestro. La norma aveva introdotto una sorta di lassismo dicendo, va bene potete continuare a fare sport, e noi a ripetere: ma allora non avete capito la situazione! È grave, dal governo non ci date la possibilità di fare delle ordinanze e allora chiediamo un atto di responsabilità ai nostri cittadini”.
8.
I giorni antecedenti all’8 marzo – data di chiusura della Lombardia – sono stati tesissimi. “Abbiamo cercato risposte – mi spiega il sindaco di Alzano – e non le abbiamo avute: né dal governo, né dalla prefettura, non abbiamo capito perché si siano aspettati tutti quei giorni. In quei 4 giorni la gente era più interessata a capire se c’era o no la zona rossa e non era interessata a contenere i contagi. Non c’era la percezione del pericolo e questa incertezza non ha giovato alla nostra missione che era quella di contenere l’epidemia. Arriverà il momento in cui capiremo che cosa è successo”.
9.
E per capire davvero che cosa sia successo tra il 23 febbraio e l’8 marzo, per capire per quale motivo non si sia sigillata subito (come approvato anche dall’Istituto Superiore di Sanità) una zona infetta di soli 25 mila abitanti – evitando magari di chiuderne una da 11 milioni prima e da 60 milioni dopo – dovremmo considerare anche l’altro aspetto centrale di tutta questa storia, quello economico. Creare subito una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro avrebbe significato bloccare quasi quattromila lavoratori, 376 aziende, con un fatturato da 700 milioni l’anno.
10.
“Un danno incalcolabile per il nostro territorio, un enorme dramma per il nostro tessuto economico”, diceva il sindaco Bertocchi due settimane fa quando, invocando la zona rossa, chiedeva comunque ambiguamente di mantenere la circolazione delle merci. Il termometro della preoccupazione è rimasto altissimo per giorni in questa valle produttiva. Colossi come la Persico Group (nota per gli scafi di Luna Rossa per l’America’s Cup) o la Polini Motori si sono trincerate dietro un no comment.
11.
Eppure sono molti gli imprenditori che hanno palesato il timore che un isolamento forzato del loro territorio li avrebbe danneggiati irrimediabilmente. L’unica cosa che ci è data sapere oggi sono i numeri incontrovertibili di questa battaglia, messi lì a dimostrarci tutti i nostri errori. Quali siano lo capiremo, forse, a epidemia passata. Intanto la direzione sanitaria dell’ospedale di Alzano Lombardo mi ha comunicato di “non ritenere opportuno in questo momento rispondere” alle mie domande. Hanno altre emergenze da gestire e da una settimana lo fanno anche con l’ausilio dell’esercito.
(https://www.tpi.it/cronaca/coronavirus-caos-ospedale-alzano-lombardo-cosi-bergamo-epicentro-pandemia-20200317567879/?fbclid=IwAR0B8-TuHNV0FiqCKJOJaL79SY59XWW48HSvBgKTrR0hZzceaNQDQ8CyzC4 )
1) Caro Aguzzi, Comuni, Provincie e Regioni sono previste dalla Costituzione fin dal 1948. Col referendum costituzionale del 2001 le deleghe a favore delle Regioni furono ampliate enormemente. A questo processo di ampliamento ha contribuito molto la sinistra (e il centrosinistra). Lo fece per togliere argomenti alla Lega di allora, secessionista (nel peggiore dei casi) o federalista (nel migliore). Non fu una buona idea. La Lega ora è diventata nazionalista e sovranista. Questo tanto per ricordare quale sia la banda di oscillazione della “cultura istituzionale” del maggior partito italiano. Per quanto mi riguarda, credo che lo Stato italiano debba articolarsi in Regioni, Provincie e Comuni, come previsto dalla Costituzione. Ero contrario, infatti, all’abolizione delle Provincie. Alcuni diritti (come ad esempio, l’istruzione e la salute), credo che vadano garantiti centralmente.
Rimanderei ad altri momenti il dibattito su tutte le altre questioni che sollevi, dibattito che ha, per molti versi, un respiro storico che, a mio parere, non può essere tagliato con l’accetta. Mi riferisco: a) “il fallimento delle politiche meridionalistiche” ; b) “la politica criminale dei Savoia che hanno colonizzato il resto d’Italia col ferro e col fuoco, contro ogni ragione di diritto internazionale…”; c) la necessità di un autentico federalismo per risolvere i molti mali dell’Italia; d) il capitolo dei rapporti fra Stato e Regioni è un colossale pasticcio giuridico perché lo Stato non vuole cedere potere a favore di una più ampia autonomia regionale.
Converrai con me, infatti, che soltanto ad enunciarli questi temi viene in mente una bibliografia che, per ogni singolo problema, è sterminata. Diciamo, per farla breve, che su ognuno di queste questioni abbiamo idee diverse.
2) Su “La Repubblica” di oggi, si può leggere un intervento di Gianrico Carofiglio che sulla paura corregge le opinioni espresse nell’articolo del 26 febbraio (sopra ne ho fatto una sintesi), riconoscendo sinceramente il proprio errore. È una confessione che apprezzo molto, di grande umanità: «Poi c’è il tema dell’errore: la nostra difficoltà ad ammetterlo e la nostra difficoltà a convivere apertamente con esso. In molti – io per primo – abbiamo detto cose sbagliate, a volte stupide, dall’inizio della crisi. Le affermazioni sbagliate o anche stupide dipendono da molte ragioni. Nel caso specifico, fra l’altro, dalla difficoltà, per i non addetti ai lavori, a comprendere e maneggiare concetti non intuitivi come quello di crescita esponenziale. Esiste però un tema generale. Riguardo il nostro bisogno compulsivo di esprimerci su tutto, anche prima di avere gli elementi per farlo senza rischiare di dire o scrivere sciocchezze. Se guardo indietro, nel passato remoto, o in quello recente quando questa vicenda era già cominciata, i miei comportamenti più stupidi sono consistiti nell’esprimere un’opinione quando avrei fatto bene a non parlare o a non scrivere. Meglio ancora: quando avrei fatto bene a non avere nessuna opinione, in mancanza di conoscenze sufficienti. Quando avrei fatto bene a stare nell’incertezza consapevole e vigile, invece di praticare un’inconsapevole improntitudine. Credo che questo me lo ricorderò e credo che questo sarebbe bene ricordarlo tutti.»
La lingua batte dove il dente duole. Carofiglio non aveva capito – come molti non avevano capito – “la matematica del contagio”. Inoltre, non era riuscito a tenere a freno “il bisogno compulsivo di esprimerci su tutto”. In certi momenti, soprattutto quando di certi fenomeni se ne sa poco o quasi niente è meglio tacere o, al massimo, trasformarsi in studente e apprendere dall’esperienza in corso. Giusto.
SEGNALAZIONE
La quarantena del geo-capitalismo
– di Dario Padoan –
https://francosenia.blogspot.com/2020/03/il-panico-dei-corpi.html?spref=fb&fbclid=IwAR1OAI1PgMnF-XmJfMhzfrftQB7YgPfcs-ebwKd4ilmT_w5YkzU5ytIoTRg
Il coronavirus pone il problema della conoscenza scientifica. Questo forse è il problema più sottile. Le nostre società si confrontano spesso con esperti, se non con una espertocrazia. Ora questi scienziati/esperti esercitano una certa influenza quando si tratta di prendere decisioni in situazioni impreviste ed incerte, e lo esercitano su più piani e su più orizzonti, dal politico, al sociale, all’economico, al biologico. Il caso coronavirus è un prodotto della scienza, come il cambiamento climatico. Senza climatologi, o senza virologi, non avremmo mai saputo che il clima stava cambiando e un virus ci stava infettando. Credo che tutti sappiano che i politici, ma anche i movimenti che si oppongono giustamente a molte scelte della cosiddetta politica, prendono decisioni tra diverse opzioni che sono spesso fornite da esperti e scienziati i quali si muovono con una certa disinvoltura tra simulazioni e scenari – in questo caso del coronavirus – e pressione politica. Nel caso in questione la politica al governo si è fatta trascinare in maniera riluttante verso drastiche scelte securitarie, che ora appaiono ai più come fondamentalmente legittime. Di sicuro il fatto di voler mettere in sicurezza la popolazione italiana dipende da una retorica della sicurezza e della paura che si è fatta largo negli ultimi anni. Ma finora essa aveva funzionato come ideologia di un sociale compattato da definizioni nazionaliste e razziali, come fuga da dilemmi reali, come quello di accogliere o lasciare morire nelle acque del Mediterraneo migliaia di esseri umani. Il virus cambia la prospettiva e pone all’ideologia securitaria un problema materiale: la riduzione delle libertà non solo individuali ma anche quelle più cruciali del mercato. Mai come in questa situazione la decisione bio-politica di assicurare le vite dei membri della popolazione biologica si scontra con la restrizione radicale delle libertà di movimento e riproduzione (mentre la produzione di merci deve continuare, ma non i servizi, il che indica come la produzione conti ancora più del terziario, per quanto esso sia avanzato) della popolazione sociale. Nella protezione della popolazione biologica contano i numeri, e qui l’astrazione riduce ogni vittima del contagio a numero astratto e a denaro sottratto al circuito dell’auto-valorizzazione del capitale; i costi della cura e della sicurezza sono costi direttamente improduttivi. Qui la bio-politica dovrebbe riafferrare il suo originario significato foucaultiano: la bio-politica e il bio-potere si occupano della protezione o miglioramento delle condizioni biologiche della popolazione. Vi è chi vorrebbe reinserire in questa messa in sicurezza del corpo biologico della popolazione fratture razziali, quindi decidendo a priori “chi far vivere e chi lasciar morire”, come nel caso delle migliaia di morti delle traversate del Mediterraneo. Ma non è chiaro se tali spaccature razziali della popolazione potranno manifestarsi, giuridicamente e costituzionalmente non sarebbe possibile. Ma è possibile che si manifestino strategie di abbandono differenti da quella razziale ma sempre di natura biologica. Per esempio è possibile che alcune strategie di affrontamento dell’epidemia decidano di privilegiare cinicamente l’abbandono della popolazione anziana e già indebolita al suo destino, risolvendo in questo modo diversi problemi di natura sia organizzativa (sistema sanitario) sia economica.
6. – 10 – Ogni infettato costa molto. Il conto finora per l’Italia si aggira attorno ai 25 miliardi di euro per quasi ventimila contagiati. Un milione di euro per ogni vittima. Il conto si fa salato, e sebbene crolli il prezzo del petrolio, riducendo così la spesa energetica dei paesi consumatori, i costi di ogni società saranno molto alti, anche perché si tratta di spese improduttive dal punto di vista del capitale. Nemmeno il capitale finanziario resta immune dal coronavirus, sebbene mischiato con altre condizioni di instabilità come la fluttuazione violenta dei prezzi del petrolio: i 700 miliardi di capitalizzazione persi lunedì 9 marzo 2020, sono un indicatore di ulteriori possibili tracolli. Forse i futuri vaccini faranno guadagnare un bel po’ di profitti all’industria farmaceutica e di conseguenza al capitale globale ma rispetto alle perdite il conto è in rosso. E’ possibile che anche in questo caso ci si trovi di fronte a una shock economy, ossia alla possibilità che vari capitali guadagnino sulle conseguenze di tale emergenza, come già capita con i cat bond, o che si approfitti della crisi virale per trasformazioni radicali dell’organizzazione sociale, come è successo in altri numerosi casi. Ma questa epidemia è più democratica di ogni altra catastrofe. Come ogni epidemia, essa tocca marginalmente chi ha meno contatti sociali. Tuttavia, in situazioni marginali estreme come le carceri, la popolazione di tale istituzione totale potrebbe difficilmente sopportare un contagio (e l’indulto rimane l’unica misura di buon senso ora applicabile). La densità sociale delle relazioni è proporzionale al rischio di essere infettati, e queste relazioni si mantengono là dove vi sono risorse economiche personali. Il virus discrimina per lo più dal punto di vista delle diversità biologiche: età, difese immunitarie, patologie, genere. Ovviamente, le condizioni biologiche che amplificano l’impatto del virus hanno anch’esse una componente socio-ecologica. Vivere in salute, con poche patologie, mangiando cibo buono dipende da condizioni sociali che influenzano le debolezze biologiche del corpo umano. Nondimeno, i vincoli sociali di riproduzioni sono soggetti a una metamorfosi biologica che segnano in modo diverso i corpi individuali. Di conseguenza, è difficile poter speculare in modo efficace sulle differenze socio-biologiche come nel caso delle catastrofi ambientali. Rimane il fatto che chi non ha accesso ai servizi sanitari rimane in una condizione di estrema vulnerabilità, ed è qui che si aggiunge l’ulteriore discriminazione e selezione di coloro i quali, infettati dal virus, possono avere o meno accesso a posti in rianimazione, vista la loro scarsità. Qui si apre un ulteriore dilemma: da un lato vi sono coloro che, visto lo squilibrio tra necessità e risorse disponibili del sistema sanitario inorridiscono di fronte al fatto che alcuni saranno esclusi dalle cure e quindi sacrificati, normalmente i più anziani e quelli già segnati da patologie. Dall’altro vi sono coloro che per esempio ritengono che vi sia un eccesso di cura: come dice Esposito siamo “costretti a curarci”. Il virus non discrimina in modo razionale ma solo funzionale:
7.
– 11 – La risoluzione della “crisi virale” comporterà alti costi sociali. Un alto e spropositato onere è quello che stanno già affrontando i lavoratori del sanitario e di quei comparti della produzione e distribuzione che non possono essere interrotti. Qui si manifesta la profonda centralità della produzione e circolazione di merci per i processi di riproduzione sociale, così come del settore sanitario. Là dove alcuni settori del terziario ad alto valore aggiunto – come lo spettacolo, i servizi aziendali e in generale il comparto della cosiddetta economia della conoscenza – possono pure essere sospesi, il settore sanitario e quello della produzione di merci rimangono al centro delle operazioni del capitale, costringendo i dipendenti a sacrifici e rischi che il resto della popolazione può evitare. Il sanitario sta all’incrocio tra la riproduzione e conservazione della vita dei corpi e della loro capacità di lavoro, e l’accompagnamento e prolungamento del fine vita biologico della popolazione, come accade nella presente occasione. La produzione di merci deve proseguire, ma questo sta generando numerose proteste tra i lavoratori. Gli alti costi della “crisi virale” graveranno su un sostanziale aumento del debito pubblico, che si scaricherà probabilmente nel tempo breve su nuovi tagli ai servizi di protezione della popolazione biologica, per la quale si dovrà spendere sempre di più ad ogni epidemia e ad ogni catastrofe naturale. La popolazione dei consumatori – che non corrisponde alla popolazione biologica – invece non ha bisogno in linea di massima di protezione: i consumatori si proteggono da soli pagandosi i servizi di protezione come previsto dalle più semplici disposizioni neo-liberali, ovviamente chi se lo può permettere. In ogni caso questo debito accumulato peserà ancora sulle spalle degli oppressi in termini di licenziamenti, peggioramento dei servizi, riduzione della protezione biologica, privatizzazione. E’ possibile evitare questi costi? Sì, facendo finta che il virus non esista, come nel caso del cambiamento climatico. Ma era possibile ignorarlo, come capita nel caso del cambiamento climatico? Sembra di no. Una differenza fra i due tipi di crisi riguarda la temporalità: nel caso del Covid-19 si è convinti che la crisi sia di breve durata e che le misure prese per farvi fronte saranno temporanee e contingenti. Nel caso del cambiamento climatico le misure devono essere permanenti e perciò destinate a influenzare in modo perentorio e definitivo i modi di vita collettivi. In ogni caso, le analogie tra gli scenari sollevati dall’uno e dall’altro orizzonte degli eventi catastrofici sono molte e da non sottovalutare. Questa epidemia anticipa altre possibili pandemie ed endemie provenienti da mutazioni genetiche influenzate anche dal cambiamento climatico, come sostengono diversi studiosi di bio-climatologia.