di Dario Padoan (dalla bacheca FB di Franco Senia)
Trovo interessante questo (un po’ lungo) articolo, perché tiene ancora aperta l’ipotesi di non ridurci a sudditi passivi di fronte ad uno Stato in crisi (e non solo per l’epidemia di coronavirus). Padoan pone il problema della ricerca di una risposta (“autonoma”, “civile”, “sociale”) «in grado di sfuggire al contagio e contemporaneamente ai diktat normalizzanti del potere della merce». E tuttavia non riesce ad andare al di là di alcune petizioni di principio (come Zizek, da lui citato). Sì, «l’azione collettiva, anche nel caso di epidemie come la presente, è [direi:potrebbe essere] l’antidoto all’individualismo della paura, che delega esclusivamente ad apparati e dispositivi tecnici e burocratici la propria sicurezza», ma in cosa (slogan, azione)oggi potrebbe prendere corpo? Al momento – diciamocelo – l’unica «interazione tra misure sovrane e comportamenti collettivi a protezione della propria incolumità personale»è quella che ci ha indotto e convinti a restare chiusi in casa, cioè ad applicare alla lettera- mugugnando o solerti – il Diktat del governo. Non abbiamo purtroppo altra autorità (politica o scientifica) che delinei una risposta diversa, che sia cioè capace di difenderci sia dal rischio mortale coronavirus che dall’intrusione capillare dello Stato (altrettanto mortale da un punto di vista coerentemente democratico). Rilievi secondari farei alla definizione (secondo me forzata) di «maccartismo del corpo»riferita alle «ansie diffuse relative alla protezione dei confini del corpo da invasioni e dissipazioni»; e all’affermazione che «questa epidemia è più democratica di ogni altra catastrofe». Dubito, infine,sulla validità di una pedagogia, come quella dei “Friday for future”, fondata sulla paura.[E. A.]
Stralci:
1.
Possiamo notare che l’emergenza sanitaria che stiamo affrontando sta portando in superficie paure del contagio tipiche dell’individuo che si sente minacciato nel suo spazio corporale. Il timore del contagio e della contaminazione è in grado di razionalizzare, come aveva notato Goffman, sia i rituali sociali di separazione e di presa di distanza, sia l’ordine dei corpi nello spazio pubblico, o meglio la loro sottrazione o assenza. In termini generali, si può dire che il virus dell’attuale pandemia rappresenta una potenziale violazione del nostro intimo spazio corporeo in grado di generare un esteso “panico dei corpi”. Queste ansie diffuse relative alla protezione dei confini del corpo da invasioni e dissipazioni sono stati intelligentemente definiti come “maccartismo del corpo”, un modo molto statunitense per sottolineare l’utopia dell’assoluta purezza degli scambi del corpo con l’ambiente, quasi si trattasse di una nuova “politica immunologica”. In questa nuova politica, gli standard igienici da seguire indicano non solo l’aderenza alle regole collettive codificate dai decreti governativi, ma anche un modo per differenziare, dove possibile, sé stessi dall’altro. Il pericolo che l’“altro” generico diventi la vivente minaccia di contaminazione e degradazione della purezza del sé individuale, è sempre dietro la porta. Si tratta di capire se tale disponibilità a seguire le disposizioni burocratiche allo scopo di garantire la propria incolumità e sicurezza a scapito della propria libertà, sia una caratteristica tipica della società individualizzata della merce o se essa sia propria di altre epoche. A dire il vero, la storia delle epidemie e delle endemie catastrofiche che hanno segnato la storia umana, come visto prima, mostrano una costante ma mutevole interazione tra misure sovrane e comportamenti collettivi a protezione della propria incolumità personale. In sostanza, il capitalismo cambia fino a un certo punto le reazioni sociali alle minacce improvvise ed estese. In questo caso, ci sembra di capire che la distanza fisica tra i corpi stia generando un’accidentale identità collettiva, che nel peggiore dei casi potrebbe trovare sintesi in una rinnovata entità etno-nazionale.
2.
Le certezze di tutti i giorni e la salda sicurezza ontologica che ancora possediamo sono scosse, come nel caso del Covid-19, dall’ esperienza pratica che le cose non vadano per la loro strada, che minacce insondabili si manifestano improvvisamente, pronte a colpirci in qualunque momento. Per quanto sia solida, la sicurezza ontologica è turbata da eventi imprevedibili, da repentine manifestazioni di disagio, da gravi e impreviste epidemie, da incidenti tanto inattesi quanto dolorosi, da improvvisi ridimensionamenti dei nostri progetti di vita. Tali fenomeni, non possono essere confinati nella nostra sfera personale, e potrebbero costituire una “sana” pedagogia della paura, una bandiera che viene issata per dire “ho paura di…”, come nel caso dei “Friday for future” [1]. Queste paure sono inevitabili, sebbene vengano messi in atto dei comportamenti di elusione e auto-isolamento capaci di erigere barriere sempre più robuste fra sé e gli altri, con la conseguenza che aumenta inevitabilmente la distanza sociale. In una società dove vige il principio della “libertà da…” il desiderio degli attori è di proteggere il loro spazio vitale, che normalmente viene pensato come permanentemente posseduto, una dimensione ontologica ed egocentrica data per scontata e la cui violazione provoca ansie e frustrazioni. E tuttavia queste difese sono inutili e infruttuose, poiché tale spazio è contingente, temporaneo, destinato a mutare sotto i colpi di eventi esterni in grado di rompere le difese erette individualmente. L’azione collettiva, anche nel caso di epidemie come la presente, è l’antidoto all’individualismo della paura, che delega esclusivamente ad apparati e dispositivi tecnici e burocratici la propria sicurezza. L’instabilità del mondo moderno può trovare in un mix di azione/inazione collettiva una concreta alternativa. L’accento sul collettivo, che si forma nell’esperienza della crisi, può costituire il rimedio possibile a una società prona alla paura individualizzata. Qui la potenziale “comunità della paura” si trasforma in azione collettiva di ricostruzione e transizione.
3.
Si tratta quindi di un’anticipazione di quello che potrà succedere, e per certi versi anche di un’esercitazione collettiva in vista di più drammatiche emergenze dovute ai cambiamenti climatici. Qui abbiamo due prospettive: da un lato vi è un potere statale nazionale che prova per la prima volta ad affrontare crisi così ampie cercando di conseguenza di distillare procedure, conoscenze, tattiche, strategie, capacità pratiche per mobilitare e potenziare (dopo averle accuratamente depotenziate) organizzazioni come quella sanitaria o contenere milioni di persone in preda al panico. Dall’altro vi sono i corpi dei membri socializzati che devono imparare, al di là delle imposizioni, a vivere in modi in grado di sfuggire al contagio e contemporaneamente ai diktat normalizzanti del potere della merce.
4.
Il capitalismo è preoccupato da questo virus, anche se alcune sezioni del capitale globale lo minimizzano, lo ignorano, o pensano di piegarlo nella direzione di un darwinismo socio-biologico che sembrava scomparso. In ogni caso, questo virus è qualcosa che gli sfugge, che non aveva previsto, così come il cambiamento climatico. Alcuni settori del capitale globale provano a fare profitti con le probabilità di catastrofe generate dall’attuale società del rischio. I catastrophice pandemic bondsscommettono proprio sulle probabilità che una catastrofe, un’emergenza, una crisi, una pandemia, un terremoto, un ciclone, si possa verificare o non verificare producendo gravi conseguenze.
5.
Ha ragione Zizek, «l’epidemia di coronavirus è una sorta di attacco con la tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita al sistema capitalistico globale – un segnale che ci dice che non possiamo andare avanti come abbiamo fatto finora, è necessario un cambiamento radicale». Il cambiamento climatico avrà conseguenze ancor più radicali, al punto da mettere a rischio l’esistenza sociale, se non addirittura quella biologica
6.
l coronavirus può contribuire a riscrivere gli scenari geo-politici, ma non si sa in quale direzione. Possono esserci rimaneggiamenti o metamorfosi dei rapporti di potere globali così come si sono scolpiti nelle fasi convulse della globalizzazione.
7.
Ma una trasfigurazione di tali relazioni era già presente prima del Covid-19, costituita da una veloce compressione dei movimenti della globalizzazione, da una riduzione dei suoi traffici commerciali che stava già provocando spasmodiche reazioni in tutti i continenti testimoniati da insurrezioni, crisi politiche, guerre civili. La crisi da virus può accelerare il caos sistemico, mettendo in crisi la quasi totalità delle economie avanzate ed emergenti che dipendono da complesse dinamiche di esportazione e importazione di energia, materie prime, manufatti.
8.
Forse si consoliderà l’egemonia sovranista, portando nel breve periodo a una riduzione drastica dei flussi di materia, energia, denaro e umanità tra continenti e paesi. Tale contrazione farà tuttavia i conti con l’impossibile autosufficienza dal lato delle risorse dei paesi sviluppati. In breve, se verranno meno le esportazioni di prosecco veneto verso la Cina, ciò potrà avere gravi conseguenze dal lato dell’approvvigionamento di energia e materie prime per la produzione, i consumi e i servizi. Le auto non si muovono a prosecco ma a benzina.
9.
Il coronavirus pone il problema della conoscenza scientifica. Questo forse è il problema più sottile. Le nostre società si confrontano spesso con esperti, se non con una espertocrazia. Ora questi scienziati/esperti esercitano una certa influenza quando si tratta di prendere decisioni in situazioni impreviste ed incerte, e lo esercitano su più piani e su più orizzonti, dal politico, al sociale, all’economico, al biologico. Il caso coronavirus è un prodotto della scienza, come il cambiamento climatico. Senza climatologi, o senza virologi, non avremmo mai saputo che il clima stava cambiando e un virus ci stava infettando. Credo che tutti sappiano che i politici, ma anche i movimenti che si oppongono giustamente a molte scelte della cosiddetta politica, prendono decisioni tra diverse opzioni che sono spesso fornite da esperti e scienziati i quali si muovono con una certa disinvoltura tra simulazioni e scenari – in questo caso del coronavirus – e pressione politica.
10.
Nel caso in questione la politica al governo si è fatta trascinare in maniera riluttante verso drastiche scelte securitarie, che ora appaiono ai più come fondamentalmente legittime. Di sicuro il fatto di voler mettere in sicurezza la popolazione italiana dipende da una retorica della sicurezza e della paura che si è fatta largo negli ultimi anni. Ma finora essa aveva funzionato come ideologia di un sociale compattato da definizioni nazionaliste e razziali, come fuga da dilemmi reali, come quello di accogliere o lasciare morire nelle acque del Mediterraneo migliaia di esseri umani.
11.
Il virus cambia la prospettiva e pone all’ideologia securitaria un problema materiale: la riduzione delle libertà non solo individuali ma anche quelle più cruciali del mercato. Mai come in questa situazione la decisione bio-politica di assicurare le vite dei membri della popolazione biologica si scontra con la restrizione radicale delle libertà di movimento e riproduzione (mentre la produzione di merci deve continuare, ma non i servizi, il che indica come la produzione conti ancora più del terziario, per quanto esso sia avanzato) della popolazione sociale.
12.
Nella protezione della popolazione biologica contano i numeri, e qui l’astrazione riduce ogni vittima del contagio a numero astratto e a denaro sottratto al circuito dell’auto-valorizzazione del capitale; i costi della cura e della sicurezza sono costi direttamente improduttivi. Qui la bio-politica dovrebbe riafferrare il suo originario significato foucaultiano: la bio-politica e il bio-potere si occupano della protezione o miglioramento delle condizioni biologiche della popolazione. Vi è chi vorrebbe reinserire in questa messa in sicurezza del corpo biologico della popolazione fratture razziali, quindi decidendo a priori “chi far vivere e chi lasciar morire”, come nel caso delle migliaia di morti delle traversate del Mediterraneo.
Nota
[1]
Venerdì
per il futuro
noto anche come sciopero
scolastico per il clima (in svedese: Skolstrejk
för klimatet)
o anche in varie nazioni come Fridays
for Future[2], Youth
for Climate[3] o School
Strike 4 Climate[4],
è un movimento internazionale di protesta, composto da alunni e
studenti che decidono di non frequentare le lezioni scolastiche per
partecipare a manifestazioni in cui chiedono e rivendicano azioni
atte a prevenire il riscaldamento
globale e
il cambiamento
climatico.[5]
Ne ho letto una parte. Forse tornerò per rileggerlo tutto. Ma intanto manifesto il senso di repulsione che provo, di fastidio, di incazzatura. Non per il contenuto, che forse condivido (non lo so ancora, dovrei leggere e rileggere più volte), ma per il linguaggio gergale, assurdo, maniacale, da accademismo patologico, che rende difficile e sgradevole leggere (non solo capire, ma anche semplicemente leggere) il testo anche là dove dice cose che, dette meglio con un linguaggio più comune e amichevole, sarebbero chiarissime.
Leggo, per fare un solo esempio: «Dall’altro vi sono i corpi dei membri socializzati che devono imparare, al di là delle imposizioni, a vivere in modi in grado di sfuggire al contagio e contemporaneamente ai diktat normalizzanti del potere della merce».
Ma questi «corpi dei membri socializzati» non sono persone? individua? cittadini? Io non mi sono mai accorto che il mio corpo, distinto da me come membro socializzato, dovesse imparare qualcosa per suo conto. Che i corpi e i membri socializzati rispondessero a così cavillosi distinguo filosofici espressi in linguaggio ancora più cavilloso.
A confronto, leggere Hegel e Marx è come leggere Topolino.
Ammiro Ennio Abate che ce la fa a stare dietro a questo fiume di cose concrete trasformate in astratte divagazioni linguistiche.
Se applichiamo l’Indice di leggibilità Gulpease al brano citato vien fuori una leggibilità molto bassa, affrontabile da chi ha un diploma di scuola media superiore o una laurea tenuti in costante aggiornamento nel campo. Perché, in mancanza di aggiornamento o di interesse per l’argomento, gli studi linguistici dicono che il livello di cultura si abbassa di circa cinque anni rispetto al titolo di studio.
@ Luciano [Aguzzi]
Sì, io pure mastico fiele nel districarmi da questo linguaggio “intellettualoide” ma, per alleviare la fartica a quanti seguono Poliscritture, ho selezionato e numerato almeno i brani più significativi.
Questo passa il convento, purtroppo.
C’è ancora l’Inferno? C’è ancora la classe operaia?….
SEGNALAZIONE
Virus – La classe operaia all’inferno
20-03-2020 – di: Marco Revelli
https://volerelaluna.it/controcanto/2020/03/20/coronavirus-la-classe-operaia-allinferno/?fbclid=IwAR2PCV7qMeK2Mia-sl28fkJ5FAjWZ2yJQ35FYdw5Yjvj2gpVRnBo8g7FZ7U
Stralcio:
Ora, nella gran massa di cose che il coronavirus ha spazzato via in pochi giorni c’è anche quella falsa credenza, vero e proprio luogo comune delle retoriche neoliberiste, secondo cui il lavoro manuale sarebbe un residuo solido del passato. Marginale e poco rilevante. E che le nostre società “avanzate” vanno avanti nella marcia veloce in ben altri luoghi, su ben altri circuiti, dai reparti, dalle officine e dalle strade: nelle towers della banca e dell’alta finanza, nelle ZTL della comunicazione e della creatività, dell’intrattenimento e della produzione di denaro per mezzo di denaro.
Ora, con la brutalità di una natura feroce, il virus ci dice che non è così. Che tutto quello che avevamo posto al vertice della piramide sociale è in realtà “accessorio”. E che il “bene del paese” è affidato a quell’esercito di paria, che tutti i giorni sono costretti a esporre il proprio corpo – nei vagoni stipati della metropolitana, su bus contingentati ma pieni nelle ore di ingresso e uscita dalle fabbriche, sui furgoni della rete logistica che credevamo consistesse in un algoritmo ma che in realtà funziona a sudore, nei reparti delle fabbriche ad avvitare bulloni o produrre mascherine o anche solo a mantenere in vita le filiere della committenza internazionale -: costretti a esporre il proprio corpo perché, appunto, lavorano col corpo. Lo mostrano i lividi sulla faccia delle infermiere della rianimazione costrette a vegliare 18 ore al giorno, le mani escoriate dai guanti dei rianimatori h24, gli sguardi spenti degli autisti delle ambulanze che fanno la spola senza requie. Donne e uomini in carne ed ossa che nella generale immobilizzazione della popolazione, vengono chiamati invece a una “mobilitazione totale” perché altrimenti “saremmo perduti”.
E’ tutta una gerarchia sociale che si rovescia, se volessimo ascoltare la parola del virus, nel momento in cui coloro che avevamo messo sulla cuspide, i divi del calcio, i campioni del gol e dell’intrattenimento, cui eravamo disposti a riconoscere paghe milionarie, fuggono come topi dalla nave su aerei privati, e loro, cui erano state riservate le briciole, posti precari e salari da fame, stanno invece lì, al centro del campo, inchiodati come servi della gleba ai loro “mezzi di produzione”.