di Donato Salzarulo
1.-Ecco un libro che forse non avrei mai letto se il coronavirus non fosse venuto a turbare e a rendere infausti i nostri giorni. La curiosità mi è sorta leggendo l’articolo di Paolo Giordano sulla “matematica del contagio che ci aiuta a ragionare” (Corriere della Sera del 26 febbraio), articolo – non mi stancherò di ripeterlo – benedetto, di cristallina chiarezza, che merita di essere diffuso dappertutto, in primo luogo nelle scuole; merita di essere diffuso perché di questo virus non ci libereremo facilmente e, comunque, altri virus sconosciuti sono o potrebbero essere in agguato per la nostra specie. Quindi, è decisivo far crescere la nostra consapevolezza razionale.
Lo scrittore (e fisico, non dimentichiamolo), dopo aver accennato alla nostra fatica di accettare qualcosa di radicalmente nuovo e complesso – fatica che conosco; a scuola suggerivo spesso agli insegnanti il libro «Attesi imprevisti» per interpretare il processo d’apprendimento, che è tale soltanto se è nuovo – ricorda che quanto ci sta succedendo in questi giorni non è davvero inedito. Il letterato, che un po’ è in me, avrebbe ovviamente subito pensato a Camus, Garcia Marquez, Saramago, Manzoni, Boccaccio, Tucidide…Giordano, che pure ha vinto il premio Strega con «La solitudine dei numeri primi», riporta un brano di David Quammen (chi è costui?…) in cui racconta come nel 2003 fu domata a Singapore l’epidemia della Sars. Poi scrive:
«Spillover, il libro di Quammen, meriterebbe un articolo a sé. Basti dire, qui, che è il modo migliore per comprendere le varie sfaccettature, la complessità per l’appunto, di questa epidemia. Per non viverla come una strana eccezione o un flagello divino. Per metterla in relazione ad altri disastri ecologici del nostro tempo, come la deforestazione, la cancellazione degli ecosistemi, la globalizzazione e il cambiamento climatico stesso. E per entrare, addirittura, nella mente del virus, decifrarne le strategie, intuire perché la specie umana sia diventata così golosa per ogni patogeno in circolazione. A volte Spillover fa paura, è vero, complice il pipistrello nero della copertina, e a volte fa addirittura sobbalzare, per esempio quando si domanda – era il 2012 se il Next Big One, la prossima grande epidemia attesa dagli esperti, sarà causata da un virus e se comparirà “in un mercato cittadino della Cina meridionale”: Preveggenza? No. Solo scienza. E un po’ di storia. Strano che Spillover non sia esaurito sugli scaffali, come i gel antisettici e le mascherine.»
2. Ora chi sia David Quammen lo so. È un giornalista scientifico, autore di numerosi libri e reportage (soprattutto per «National Geographic»); ha 72 anni e vive con la moglie Betsy a Bozeman, cittadina universitaria del Montana, una cittadina piena di verde.
Ha pubblicato Spillover nel 2012. Sottotitolo: «Animal Infections and the Next Human Pandemic». Nella traduzione italiana è diventato un più rassicurante e neutro «L’evoluzione delle pandemie» (Adelphi, 2014, traduzione. di Luigi Civalleri, pp. 608, Euro 14). Forse tradendo un po’ il pensiero dell’autore che era proprio quello di lanciare qualcosa di più di un grido d’allarme sulle infezioni animali trasmissibili all’uomo (tecnicamente: zoonosi). Tra l’altro, in esergo alle sue pagine, Quammen cita nientemeno che «Apocalisse», 6, 8 in cui appare un cavallo verde, cavalcato da Morte, seguito da Inferno; insieme si danno a compiere la loro opera sterminatrice «con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra».
Con questa citazione l’autore non intende aderire al partito degli “apocalittici”. Il suo spirito è quello laico di un pragmatico. Il cavallo verde su cui cavalca la Morte è quello del primo capitolo infettato dal virus Hendra. Tirare in ballo l’Apocalissi serve però ad amplificare il pericolo che l’umanità corre, un pericolo più volte ribadito, di cui occorre essere consapevoli.
«Non dico tutto ciò allo scopo di angosciarvi o deprimervi. Non ho scritto questo libro per spaventare il pubblico, ma per renderlo più consapevole. Ecco cosa distingue gli esseri umani per esempio dai bruchi: noi, al contrario di loro, possiamo fare mosse intelligenti.» (pag. 535)
I bruchi richiamati, voraci mangiafoglie, sono simili a piccole larve pelose. Nome latino: Malacosoma disstria. A giugno del 1993 invasero la cittadina dove Quammen abita e lasciarono spogli quasi tutti gli alberi molto prima che l’autunno arrivasse.
«Era uno spettacolo grandioso nella sua bruttezza. Non tutti gli alberi erano nudi, ma la maggior parte sì, specialmente quelli più grandi e antichi come gli olmi e i frassini che abbellivano le strade e le ombreggiavano con le loro folte chiome. Tutto avvenne con grande rapidità.» (pag. 510)
Spray, disinfestazioni, trattamenti con sostanze chimiche varie. Tutto inutile.
«I maledetti continuavano ad arrivare e facevano il bello e il cattivo tempo. Erano semplicemente troppi, e l’infestazione era inarrestabile. Li calpestavamo camminando sul marciapiede, li spazzavamo in massa dalle strade. Loro continuavano a mangiare, crescere, cambiare pelle e crescere ancora. Marciavano su e giù per i rami facendo piazza pulita del verde cittadino, quasi fosse un’appetitosa insalata.» (pag. 511)
A un certo punto si fermarono e, dopo un breve riposo metamorfico in bozzoli intessuti sulle foglie, si trasformarono in piccole falene brune.
«In ecologia un evento del genere ha un nome preciso: è un outbreak ovvero un’esplosione. […]
Il concetto si applica a ogni forte e improvviso aumento della popolazione di una data specie.» (pag. 511-512). Compresa la nostra che, dall’epoca della nostra origine, circa duecentomila anni fa, al 1804 è arrivata a un miliardo di abitanti. Negli ultimi due secoli, invece, ha preso il volo: dal 1804 al 1927 siamo aumentati fino a 2 miliardi; dal 1927 al 1960 siamo a 3 e da allora siamo cresciuti di un miliardo ogni 13 anni circa. Nel 2011 eravamo 7 miliardi ed oggi 7.7…Un picco davvero dolomitico.
«E le esplosioni, tanto di malattie quanto di popolazioni, hanno una cosa in comune: prima o poi finiscono. In alcuni casi dopo molti anni, in altri quasi subito. A volte gradualmente, a volte di colpo. In certi casi terminano, ricominciano e finiscono di nuovo, come se seguissero un programma regolare.» (pag. 514).
Quammen non richiama la nostra esplosiva crescita demografica per ricordarci che siamo destinati a far la fine dei bruchi ridotti al lumicino l’estate successiva. Noi siamo intelligenti, almeno così ci sembra, e possiamo fare mosse intelligenti grazie alla scienza.
Dopo essersi moltiplicati per due anni e aver resistito alle misure disinfestanti dei cittadini del Montana, come mai i bruchi scomparvero o si ridussero enormemente?
«Nel 1993, quando i bruchi invasero la mia cittadina presi a interessarmi all’argomento e feci qualche ricerca.» (pag. 514) Ecco la mossa intelligente del nostro autore, una mossa che dovremmo imparare a fare tutti, quanto mai doverosa nei luoghi istituzionalmente preposti al compito fondamentale dell’apprendimento/insegnamento.
La ricerca comincia con il contattare il locale servizio di informazione agricola. Quammen tempesta di domande un addetto. Questo non sa il perché e si limita a dire che «Succede e basta». Insoddisfatto, si mette a leggere la letteratura specializzata. Scopre che uno degli esperti sul campo, Judith M. Myers, sospetta che siano i nucleopoliedrovirus (NPV) a regolare i cicli di espansione e riduzione dei lepidotteri. Anni dopo, mentre sta raccogliendo il materiale preparatorio per il libro che sta scrivendo, partecipa ad un convegno sull’ecologia e l’evoluzione e delle malattie infettive ad Athens, in Georgia; ascolta la relazione di Greg Dwyer, specialista di ecologia matematica dell’Università di Chicago, proprio sulle esplosioni di popolazioni e le malattie degli insetti. Lo scienziato racconta gli effetti terribili dei nucleopoliedrovirus sulle popolazioni di lepidotteri in fase esplosiva. Eureka! «Nella prima pausa caffè lo bloccai in un angolo e gli chiesi di fare una chiacchierata sul destino delle falene e sul futuro delle pandemie umane. Certamente disse.» (pag. 516)
Si incontrano due anni dopo nello studio di Dwyer all’Università di Chicago. Il giornalista comprende bene il funzionamento di questo subdolo virus che scioglie dall’interno i bruchi di falene come pappe. Ma l’argomento che gli sta più a cuore non è soltanto questo. Nella mente continua a frullargli l’analogia fra la crescita dei bruchi e quella della popolazione umana.
«Secondo i dati di una settimana fa, dissi, siamo sette miliardi di persone sul pianeta. A quanto pare la nostra è una crescita esplosiva. E viviamo ammassati in spazi ristretti: pensiamo ad Hong Kong o a Mumbai. Siamo strettamente interconnessi. Voliamo per il mondo. I sette milioni di abitanti di Hong Hong sono a tre ore di viaggio dai dodici di Pechino. Nessun altro animale di grandi dimensioni è mai stato così numeroso. E abbiamo anche noi la nostra bella fetta di virus potenzialmente devastanti, alcuni forse spiacevoli come NPV. Allora, che cosa ci aspetta? Fino a che punto possiamo lasciarci guidare dall’analogia con le epidemie degli insetti? Dobbiamo aspettarci di collassare come una popolazione di bruchi?
Dwyer non aveva fretta di rispondere affermativamente. Nel suo sano empirismo, diffidava delle estrapolazioni avventate. Ci devo pensare, disse. E mentre rifletteva, ci trovammo a parlare d’influenza.» (pag. 519).
3.- L’influenza è una malattia molto importante. Sicuramente questo lo sa anche Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze del laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano diventata famosa per la sua dichiarazione anti-allarmistica nei primi giorni dell’arrivo di Covid-19 in Italia: «A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Guardate i numeri non è una pandemia.» Non lo era, ma di lì a poco lo sarebbe diventato. Il problema è che due persone che usano la stessa parola, in realtà non sempre intendono la stessa cosa. Nell’esperienza comune l’influenza è una malattia stagionale fastidiosa che si supera più o meno facilmente. Ma c’è influenza e influenza: quella spagnola tra il 1918 e il 1919 sterminò circa cinquanta milioni di persone. L’influenza, scrive Quammen, è «assai complicata da studiare e potenzialmente devastante, sotto forma di pandemia. Potrebbe essere benissimo il prossimo Big One» (pag.520).
Da qui parte per fornire al lettore le nozioni di base di questa malattia, indica i tre tipi di virus coinvolti (quello etichettato con la lettera A è il più preoccupante e diffuso) e ne delinea una sintetica storia. Impariamo così che Robert Gordon Webster, microbiologo neozelandese, è forse la maggiore autorità mondiale in materia; insieme a William Graeme Laver, biochimico australiano, ha scoperto la presenza di un virus influenzale, parente di quello umano, negli uccelli selvatici migratori e, infine, che questi virus, come tutti quelli a RNA, sono soggetti a un alto tasso di mutazioni. Siccome il secondo è morto, Quammen corre ad intervistare il primo che nel 2012 ha quasi ottant’anni, ma è ancora attivo ed arzillo.
«Ci sono sedici tipi di emoagglutinina – gli ricordò – e nove di neuraminidasi [non c’è da spaventarsi a pag. 520 è spiegato bene il significato di questi termini], il che significa centoquarantaquattro possibili combinazioni. I cambiamenti sono casuali e quasi sempre danno vita a cattive combinazioni per il virus, che diventa sempre più debole
[questo spera Ilaria Capua rispetto al nostro Covid-19; a Giuseppe
Remuzzi, invece, appare più aggressivo]
. Ma i cambiamenti casuali producono le variazioni, e le variazioni consentono di esplorare le possibilità. Sono la materia prima della selezione naturale, dell’adattamento e dell’evoluzione. Ecco perché il virus dell’influenza è un patogeno così proteiforme, sempre pieno di sorprese, novità, minacce: per via di tutte quelle mutazioni e riassortimenti. […]
Ed ecco perché c’è bisogno di un vaccino nuovo ad ogni autunno.» (pag.523)
Comunque, con l’influenza non si scherza. Mediamente fa circa 250.000 decessi in tutto il mondo.
4.- Da quanto detto sopra, il “metodo di ricerca” di Quammen è facilmente intuibile e riassumibile: studio accurato della letteratura specializzata (la bibliografia in fondo al libro comprende un ampio e nutrito numero di titoli da pag. 547 a pag.575), incontro-interviste-chiacchierate con moltissimi esperti (alcuni, illustri premi Nobel; inutile dire che mi erano quasi del tutto ignoti), partecipazione a convegni, visite a laboratori, viaggi ed esplorazioni sul terreno, spesso abbastanza avventurose, in quasi tutti i continenti del pianeta…
«L’idea di questo libro – scrive l’autore nei Ringraziamenti – nacque attorno a un fuoco in una foresta centroafricana, nel luglio 2000, mentre due uomini gabonesi raccontavano dell’epidemia di Ebola che aveva colpito il loro villaggio, Mayibout 2, e dei tredici gorilla morti visti nelle vicinanze, comparsi proprio nei giorni in cui i loro amici e parenti morivano per il virus.» (pag. 577). Dall’idea alla pubblicazione trascorrono dodici anni e, grazie alla pratica del suo metodo, l’autore può acquisire un’esperienza profonda e ammirevole che il lettore avverte chiaramente nelle sue pagine e nel modo di affrontare l’argomento generale (lo Spillover) e la storia delle malattie emergenti. Ne viene fuori un lodevole saggio narrativo, un ottimo libro di divulgazione scientifica sui virus (che cosa sono, quali sono le loro proprietà, come si diffondono), sulle malattie emergenti di origine zoonotica con le loro ricostruzioni storiche, ma anche un racconto avvincente di esperienze con quadri indimenticabili di vita sociale (modi di alimentarsi, riti più o meno religiosi, costumi, bisogni primari non soddisfatti in molte zone del mondo, ecc.). Insomma, un libro che ha appagato molte mie curiosità, che mi ha aiutato a comprendere bene il lessico prevalente in questi nostri giorni di pandemia e che ha allargato abbastanza i miei orizzonti culturali.
Lessico prevalente: ho capito cos’è un “salto di specie” (Spillover), cosa vuol dire “isolare” un virus, la differenza tra un virus DNA e uno RNA, come si valuta il tasso di velocità di un eventuale contagio (modello SIR) e, soprattutto ho cominciato a mettermi bene in testa le nostre “malattie del futuro”, malattie che si chiamano: Machupo, Marburg (1967), Lassa (1969), Ebola (1976), HIV-1 (riconosciuto indirettamente nel 1981, isolato nel 1983), HIV-2 (1986), Sin Nombre (1993), Hendra (1994), influenza aviaria (1997), Nipah (1998), febbre del Nilo occidentale (1999), SARS (2003), influenza suina (2009). A queste malattie Quammen dedica i nove capitoli del libro.
Apprendimento della massima importanza: ho capito che queste malattie non sono delle “calamità naturali” o dei dolorosi accidenti. Sono conseguenze non volute di nostre azioni. Per nostre intendo del genere umano, diventato sempre meno “sapiens” e sempre più “homo oeconomicus”. Queste malattie «sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica e una sanitaria. Sommandosi, le loro conseguenze si mostrano sotto forma di una sequenza di malattie nuove, strane e terribili, che emergono da ospiti inaspettati e che creano serissime preoccupazioni e timori per il futuro negli scienziati che le studiano.» (pag. 42). Dovrebbero preoccupare anche noi che, a questo punto, abbiamo il dovere di metterle al centro della nostra azione sociale, politica e culturale.
5.- Lo sguardo di Quammen è guidato da due grandi corpi di conoscenze: da un lato la teoria darwiniana dell’evoluzione (selezione, strategie di adattamento, ecc.), dall’altro l’ecologia. Quando la teoria patogenetica della malattia incontra l’uno e l’altro paradigma scientifico si fa «ecologia e biologia evolutiva delle zoonosi», un sapere che porta con sé questo fondamentale messaggio: siamo parte della natura, siamo degli animali come altri, siamo dei primati da poco tempo sulla scena planetaria. Tutte le malattie infettive sono in ultima analisi delle zoonosi. La loro esistenza dimostra il legame, la connessione tra la nostra specie e quella degli ospiti dai quali i virus effettuano lo spillover. «La stessa idea di un mondo naturale distinto da noi è sbagliata e artificiale. C’è un mondo solo, di cui l’umanità fa parte, così come l’HIV, i virus di Ebola e dell’influenza, Nipah, Hendra e la SARS, gli scimpanzé, i pipistrelli, gli zibetti e le oche indiane. E ne fa parte anche il prossimo virus killer che ci colpirà, quello che ancora non abbiamo scoperto.»
Il virus chiede di vivere. Noi non vogliamo che distrugga i nostri polmoni, la nostra casa del respiro. È una lotta che va condotta potenziando i nostri centri di intelligenza individuale e collettiva. Si chiamano laboratori, istituti di ricerca, scuole, ospedali…Intelligenza individuale e collettiva è anche consapevolezza che il pianeta terra è uno solo ed uno è il genere umano; è anche cambiamento dei nostri sistemi economici e sociali, contenimento della crescita demografica, rispetto dell’ambiente e degli ecosistemi, scelta di mutare la nostra alimentazione, diminuendo, ad esempio, il nostro consumo di carne, ecc. ecc. C’è un grande lavoro da fare. Questo si capisce leggendo il bel libro di Quammen. C’è un grande lavoro da fare per regalarci intelligenza, salute e futuro.
24 marzo 2020
Di David Quammen ne conoscevo soltanto nome e cognome e non ricordo nemmeno chi me ne parlò per primo una quindicina di anni fa. Poi il mio dimenticatoio – immenso! – ha fatto il resto. Adesso sono grato al blog Poliscritture, a Ennio Abate che di questo autore (un po’ meno anziano di me e fuoriuscito da una sorta di esilio e non so di dove prima, e ora lo so) ci dà contezza. Ringrazio il simpatico e capace Paolo Giordano di cui apprezzai i suoi “numeri primi”, e ringrazio pure Donato Salzarulo che ci dà notizie sommarie e spero più specifiche appresso.———. Sono bloccato a Brindisi da oltre un mese, e qui questo libro è vano trovarlo, quindi dovrò attendere il mio ritorno a Roma per leggerlo.
E a proposito di virus, di morbi vari e ratti e pipistrelli…
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Aphanes
Maschera, succhiami la morte!
Cremato è colui che si lamenta:
stilla odio dalla coppa equina.
Chi si rallegra in una bara di legno
se alle Grazie né musica, né canto sono dati?
La mano destra genera fabbri e magie,
la sinistra l’offesa di Orfei ferrosi.
Nel cerchio della cera perduta
la maschera guida il compasso.
Fuoco, dai denti d’argilla!
Divora il toro il ramo d’ulivo.
Abbaia Canace, la suicida,
sulla cieca tomba del fratello.
Il miele di un morto Aphanes
cola sui ratti.
La risata di bronzo dei frassini
è sogghigno di cervi.
Sulla civetta
vischio di bambole sardoniche.
Pou? Pou? Dove? Dove?
Recisa è la lingua: no-ci! no-ci!
I tuoi occhi d’ambra, bovini!
Leirion! Leirion!
S’impicca al gelo di un tasso: Itu, Itu!
Lo specchio di un coltello è bianca voce,
danza d’amore la zoppa pernice.
Il melo trionfa sulla Collina della Neve,
nel caos dei solstizi di rame.
Maschera, succhiami la Vita!
Madonne turchine dal culo asinino
sposano ratti, pipistrelli…
ma la moneta di un’ombra è sotto la lingua
l’ombra di una moneta.
Lavanda o bara ospita il bianco cipresso.
Vedi, i becchini affilano le dita,
come coltelli,
per vestire il morto!
Equina è la maschera della memoria.
Nome… segno… dono…
È una condanna il cerchio
tra fiaccole e lamenti:
ruota della debita esecuzione.
Cagna, bambolina della Nemesi,
tra cordate di vino e sangue
vomiti paglia all’Anno Nuovo:
prodigio o sentenza sotto la forca.
Il ritorno festeggi, come Tieste.
Bevi incubi e artigli, come idromele.
Rigurgiti fonemi, reclami, acrostici,
carcasse di finzioni e di visioni,
voci di bambini e orecchie di veggenti.
Come ti lamenti – delle ali!
Come dai banchetti sputi gemiti – di zolfo!
antonio sagredo
Roma, 27 ottobre 1990
Grazie a Salzarulo del puntuale “riassunto”. Leggerò il libro. È forse bene ricordare che il termine “spillover” (versare sopra, spandere, traboccare) si usa anche in altre discipline, specialmente in economia, e ha il significato di base comune a tutti gli usi di equilibrio che si rompe, che salta, con la creazione di esternalità positive o negative. C’è dunque sempre, di mezzo, uno squilibrio.
SEGNALAZIONE
David Quammen: «Questo virus è più pericoloso di Ebola e Sars»
di Stella Levantesi
https://ilmanifesto.it/david-quammen-questo-virus-e-piu-pericoloso-di-ebola-e-sars/
Stralci:
1.
Un virus non è una creatura cellulare, è un tratto di materiale genetico all’interno di una capsula proteica e può riprodursi solo entrando all’interno di una creatura cellulare.
Molte specie animali sono portatrici di forme di virus uniche. Ed eccoci qui come potenziale nuovo ospite. Così i virus ci infettano. Così, quando noi umani interferiamo con i diversi ecosistemi, quando abbattiamo gli alberi e deforestiamo, scaviamo pozzi e miniere, catturiamo animali, li uccidiamo o li catturiamo vivi per venderli in un mercato, disturbiamo questi ecosistemi e scateniamo nuovi virus.
2.
Ho notato che la disinformazione scientifica che riguarda il coronavirus ha molti punti di contatto con le dinamiche della disinformazione climatica. Qual è la sua opinione al riguardo? E quanto è importante affrontare la disinformazione scientifica?
È estremamente importante affrontare la disinformazione scientifica. C’è sicuramente una sovrapposizione rispetto al cambiamento climatico. Ci sono persone che sono impazienti, arrabbiate e poco informate. Ricevono notizie da fonti inaffidabili e hanno appetito per una forma negativa di eccitazione. Hanno più interesse per le cospirazioni che per la scienza. La disinformazione si diffonde facilmente.
Dov’è la soglia limite tra l’offerta di notizie accurate, credibili, trasparenti e accessibili a tutti e il bombardamento continuo di “notizie” sul virus?
Esiste un limite e di informazione può essercene troppa. Viviamo in un mondo dove i media sono attivi 24 ore su 24 e vogliono aggiornamenti e occhi. Vogliono che la gente consulti la loro piattaforma perché hanno qualcosa un minuto prima di un’altra. È un tipo di competizione che non fa bene a nessuno – a parte agli azionisti della piattaforma stessa. Quindi penso che noi, come consumatori di notizie, dobbiamo resistere all’ossessione di sapere quale sia l’ultimo dato, l’ultimo caso, l’ultima notizia dell’ultima ora.
Dobbiamo seguire l’informazione sul virus, prestare attenzione al problema ma abbiamo bisogno anche di altre cose. Abbiamo bisogno di una copertura sul coronavirus che approfondisca le cause e gli effetti, ma anche di storie che non riguardino il coronavirus. Abbiamo bisogno di musica, di comicità, di arte, di persone che parlano di libri – e non solo del mio.
E’ passato un mese da quando è uscito l’articolo “La matematica del contagio che aiuta a ragionare” di Paolo Giordano. Ricordo di avere letto quel suo articolo, anche perché a me piace come scrive. Del resto il suo romanzo “La solitudine dei numeri primi” si aggiudicò il premio Strega, ricordo….
e poi perché la lettura di “Spillover” mi fu consigliata, quando si faceva un gran parlare del virus Ebola. Lessi quel libro in inglese.
Il gran parlare di questo libro che è unico nel suo genere: un poco saggio storico-medico e un poco reportage. Scienziati che lavorano nelle foreste del Congo, nelle fattorie australiane e nei caotici mercati cinesi…..
Oltre alle interviste, lo scrittore scienziato Quammen ha cercato di comprendere i meccanismi delle nuove malattie. Aggiungerei, che ci ha messo di fronte al problema della continua lotta per la sopravvivenza ed evoluzione che l’uomo ha sempre dovuto affrontare e continuerà anche nel suo futuro.
Magari c’era da sperare che in un mondo globalizzato e sempre più all’avanguardia, le forze scientifiche di ogni Paese si fossero unite nella ricerca e non solo chiudersi nei propri interessi egoistici.
Che comportamento avrà l’uomo alla prossima epidemia? Sperando che questa non lasci una profonda ferita…..
Quello che un occhio ancora marxista vede e altri no….(anche se parlare di “fine del neoliberismo” mi pare una speranza… ci penserei di più…)
SEGNALAZIONE
La fine del neoliberismo
David Harvey
https://jacobinitalia.it/la-fine-del-neoliberismo/?fbclid=IwAR2QHWRV-DSF-XVLotFBETgMsNcdz8ByiuhYSjKdkWREqc_tINMrbEf9oyo
Stralci:
1.
Le forme di consumo esplose dopo il 2007-2008 si sono schiantate con conseguenze devastanti. Queste forme si basavano sulla riduzione del tempo di turnover di consumo il più vicino possibile a zero. L’ondata di investimenti corrispondente a queste forme di consumismo ha a che fare con l’assorbimento di volumi di capitale esponenzialmente crescenti.
Il turismo internazionale da questo punto di vista è emblematico. Gli spostamenti internazionali sono aumentati da 800 milioni a 1,4 miliardi tra il 2010 e il 2018. Questa forma di consumismo istantaneo ha richiesto ingenti investimenti infrastrutturali in aeroporti e compagnie aeree, hotel e ristoranti, parchi a tema ed eventi culturali, ecc. Questo settore di accumulazione di capitale è al collasso: le compagnie aeree sono vicine al fallimento, gli hotel sono vuoti e la disoccupazione di massa nei settori del turismo è imminente. Mangiare fuori è sconsigliato e ristoranti e bar sono stati chiusi in molti posti. Anche la ristorazione «a portar via» sembra rischiosa. Il vasto esercito degli impiegati nella gig-economy o in altre forme di lavoro precario è stato licenziato senza aver accesso ad alcuna tutela. Eventi come festival culturali, tornei di calcio e basket, concerti, convegni aziendali e professionali e persino incontri politici per le campagne elettorali sono cancellati. Queste forme di consumismo esperienziale basate sugli eventi sono state chiuse. Nei bilanci delle amministrazioni locali si aprono voragini. Le università e le scuole stanno chiudendo. Gran parte del modello all’avanguardia del consumismo capitalista contemporaneo nelle condizioni attuali è impossibilitato a funzionare. La spinta verso ciò che André Gorz descrive come «consumismo compensativo» (in cui si suppone che i lavoratori alienati recuperino il loro spirito attraverso un pacchetto vacanze su una spiaggia tropicale) è stata messa in crisi.
2.
Se la Cina non può giocare ancora il ruolo che ha avuto nel periodo 2007-2018, l’onere di uscire dall’attuale crisi economica si sposta negli Stati uniti. E qui sta l’ironia finale: le uniche politiche che funzioneranno, sia economicamente che politicamente, sono molto più socialiste di tutto ciò che Bernie Sanders potrebbe proporre e questi programmi di salvataggio dovranno essere avviati sotto l’egida di Donald Trump, presumibilmente sotto la maschera di Making America Great Again.
Quei repubblicani che si sono opposti così visceralmente al salvataggio del 2008 dovranno fare buon viso a cattivo gioco o sfidare Donald Trump. Quest’ultimo, se sarà saggio, annullerà le elezioni in caso di emergenza e proclamerà l’inizio di una presidenza imperiale per salvare capitale e il mondo da «rivolte e rivoluzioni».
Nota
Ho selezionato soltanto due brevi passi, ma l’articolo va letto (e studiato) tutto.
SEGNALAZIONE
Ho letto, solo ora, è il virus che me l’ha fatto leggere, come a tanti di voi del resto, Quammen, Spillover, gran bel libro di viaggi e di esplorazioni. Se non ho frainteso, ha due argomenti che legano la propagazione del contagio alla globalizzazione antropica, alla nostra invasione del creato. Il primo è che disboscando, deforestando, strappando spazio a dismisura alla vita selvatica, noi ci esponiamo a essere invasi a nostra volta dai virus che là hanno il loro habitat, e che con gli animali selvatici hanno un inveterato modus convivendi. Il secondo è che la facilità e velocità di movimenti fa sì che le escursioni delle nostre avanguardie nei territori selvatici si traducano presto nell’importazione dei virus nei luoghi della civilizzazione più sofisticata e più remota dalla natura non umana – a Nembro, a Manhattan, insomma. Dei due argomenti, il secondo è per sé evidente, e appena bilanciato, rispetto a epoche in cui i movimenti umani erano molto più radi e lenti, dal patrimonio di risorse scientifiche e tecniche che abbiamo intanto accumulato. Il primo argomento, la vita animale (anche vegetale) selvatica che andiamo a disturbare ed eccitare, mi sembra più dubbio: da tempo immemorabile umani asiatici o africani catturano pipistrelli, con un’abilità e una competenza stupefacenti – guardate qualche documentario del National Geographic – e li mangiano e smerciano, o ne fanno religiosamente strage, e un’analoga intimità li lega ai pangolini, fino a minacciarne l’estinzione. Senza moralismo (il moralismo è l’atteggiamento più inappropriato alla pandemia finché dura la virulenza) direi che il modello per cui noi – noi, cinesi compresi, anzi loro di più – prendiamo il coltan del Congo e non vogliamo prenderne l’ebola, arriva alla corda.
(DA Conversazioni con Adriano Sofri su FB
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=10156667552971879&id=86556801878&__tn__=K-R)
• SEGNALAZIONE
Pablo Rodríguez
Intellettuali, luoghi comuni e senso comune di fronte alla pandemia
https://www.machina-deriveapprodi.com/post/intellettuali-luoghi-comuni-e-senso-comune-di-fronte-alla-pandemia
Stralcio:
Questa riflessione ci permette di tornare infine alla questione della parola intellettuale e del ruolo degli intellettuali. Da che luogo si può parlare quando si verificano eventi di questo tipo? Cosa si può dire quando la gravità di ciò che accade richiede che, per un momento, si cerchi di smettere di spiegare tutto? Qual è la posizione del sapere che garantisce un discorso «illuminante»? C’è davvero qualcosa da «illuminare»? Si può dire, con Zygmunt Bauman, quando non era ancora impegnato in cose «liquide», che gli intellettuali sono passati dall’essere legislatori a essere interpreti?
In un’intervista di 40 anni fa, Foucault – sì, ancora una volta Foucault – stabilì la differenza tra «intellettuale universale» e «intellettuale specifico». Il primo agisce come un legislatore, che si ritiene la voce dell’umanità e rivendica «il diritto di parlare come insegnante di verità e giustizia». L’intellettuale specifico è, invece, «settoriale» e si occupa di «problemi che sono determinati, “non universali”». Egli intendeva riferirsi in questo modo a coloro che intervengono nelle lotte in luoghi determinati (ospedali, università, fabbriche), anziché parlare dalla posizione dello scrittore o dell’avvocato. Tuttavia, l’esempio da lui fornito era Robert Oppenheimer, il fisico che guidò il Progetto Manhattan rendendo possibile il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. Dopo la guerra, Oppenheimer giocò un ruolo centrale nel tentativo di fermare la corsa nucleare tra il suo paese e l’Unione sovietica, ma finì per essere accusato di essere comunista e la corsa, come sappiamo, continuò senza ostacoli. Einstein corse un rischio ancora maggiore nel sollevare lo stesso problema mentre la bomba era ancora in corso di progettazione, nonostante proprio una sua lettera al presidente avesse innescato il progetto che il suo collega aveva in seguito portato a termine. L’analogia atomica potrebbe essere oggi estesa al Covid-19, la cui invisibile diffusione assomiglia sempre di più a quella di radiazioni nucleari, mentre Wuhan è sempre più simile a una nuova Chernobyl. Ma l’analogia potrebbe essere valida, a maggior ragione, per il fatto che, in effetti, virologia, epidemiologia, infettivologia e terapia intensiva sono diventati temi di discorsi che concretamente interessano tutti, ma richiedono «intellettuali specifici».
Capire oggi che cos’è un rivestimento proteico, quali sono i recettori cellulari, quali i tempi di permanenza sulle diverse superfici di questo misterioso e minuscolo virus e quale sia il modello statistico più efficace per comprendere le dinamiche dei contagi sembra essenziale per vivere «responsabilmente» nell’incertezza. Foucault diceva che gli «intellettuali universali» stavano cedendo il passo a quelli «specifici». Si potrebbe notare che ciò accade solamente in momenti di urgenza come quello che stiamo vivendo. O forse si potrebbe affermare, parafrasando ancora una volta Latour, che anche questi esperti non sono in senso stretto «intellettuali specifici», ma solo portatori di alcune verità e anche di falsità che dovremo imparare a conoscere. Se c’è un’urgenza per gli intellettuali nella situazione attuale, è allora quella di scendere dal piedistallo di una presunta universalità e smetterla di affidarsi a luoghi comuni elaborati nell’ambito delle proprie teorie. Si tratterebbe di iniziare a pensare in termini di conoscenze specifiche che è necessario possedere per entrare in dialogo con altre conoscenze. Forse è giunto allora il momento di essere autenticamente interdisciplinari o transdisciplinari, qualcosa che forse suona politicamente corretto, ma che certamente abbiamo poco praticato fino a ora, annegati come siamo nell’iperspecializzazione della conoscenza.
All’inizio della pandemia di opinioni che ha segnato il 2020, il filosofo spagnolo Antonio Diéguez Lucena sottolineava come la fretta di assumere una posizione rischiasse di portare molti intellettuali a dimenticare la massima hegeliana secondo cui la filosofia inizia a volare, come la nottola (civetta) di Minerva, al crepuscolo, quando il tempo storico è ormai passato. Anche su questo potremmo decidere invece di seguire Foucault: forse il pensiero non dovrebbe aspettare tanto a lungo, ma piuttosto mettersi al lavoro su un’ontologia del presente. Forse, invece di civette sacre e lente, gli intellettuali potrebbero assomigliare ad agili colibrì, che becchettano spiegazioni imparando sempre di più, poco per volta, ciò che ancora non sanno, anziché presumere di aver già saputo tutto molto prima o aspettare che tutto sia depositato nel senso comune per poterne parlare. Solo Socrate fu davvero chiaro sul fatto che l’intellettuale si trova nella condizione di dover pensare e agire nel presente e con la consapevolezza di non sapere.