di Rita Simonitto
Assieme a “La Signora” (qui) questi due racconti formano un trittico. Si tratta, come dice l’autrice, di ” tre sfaccettature diverse – attraverso tre ‘personificazioni’ – nel tentativo di dare una rappresentazione plastica di quello che ci sta accadendo”. [E. A.]
Unicuique suum
Se fosse stato uno scrittore esordiente il suo incipit sarebbe stato: “si svegliò madido di sudore”. Ma non era un esordiente e nemmeno scrittore.
Ciò nonostante quello che gli stava capitando era inquietante, oltre i limiti della rappresentazione. Come si fa a raccontare che aveva l’impressione che era il suo corpo che si stava liquefacendo e che quel liquido pian piano si stava allargando sul lenzuolo sudaticcio e caldo?
Avrebbe voluto rotolarsi nel letto come quando si è presi dalla disperazione, ma con sgomento si accorse che per farlo c’era bisogno di contorni, di un perimetro ben definito entro il quale muoversi e invece tutto il corpo sembrava sfuggire al suo controllo e disperdersi nello spazio. E gli sembrava che pure il pensiero subisse la stessa trasformazione: pensieri che prima potevano sembrargli chiari e distinti adesso si sovrapponevano l’un l’altro confondendosi come onde. Un flash mnemonico gli attraversò la mente e aveva a che fare con la definizione che veniva data oggi alla società: società liquida, ma che cosa … epperò quel flash subitamente si spense senza far posto a nulla cui potersi aggrappare.
Solo l’angoscia e il cuore che tonfava colpo su colpo gli potevano dare la dimensione del suo esserci, ma era troppo poco per tentare una qualsiasi connessione.
Perché e come si trovava lì? E da quanto tempo giaceva in quelle condizioni? Ci poteva essere qualcuno vicino a lui che si sarebbe accorto di quella tragica situazione? Un altro flash si accese e scivolò via con altrettanta velocità.
L’unico brandello che riuscì a trattenere fu “discorso”, dover “fare un discorso”. Ma a chi, quando, dove?
Il soffitto della stanza, con le sue istoriazioni, sembrava guardarlo quietamente, forse lo riconosceva… questo è già un buon punto di solidità: se qualcuno (o qualcosa) ci riconosce, vuol dire che esistiamo! Forse poteva essere un sistema quello di aggrapparsi ad un particolare e da lì poi incominciare a tessere qualche cosa, ed ecco che un grido irriconoscibile gli sfuggì da una gola così riarsa (avrebbe dovuto essere umida anch’essa, no!?) che pareva il vibrare di stecche al vento.
Informazioni dissonanti che rendevano problematico ogni tentativo di connessione. Smembrato!
E se si fosse trattato di un incubo? Quest’altro flash per un nanosecondo sembrò risollevarlo ma poi ripiombò nel limbo. Nell’incubo ci sei tutto dentro però ne puoi uscire svegliandoti, mentre la sua percezione, per quanto scomposta, era la compresenza di un dentro e un fuori, ma un fuori che però non aveva alcuna possibilità di accesso. La sola parte del suo corpo che riusciva a muovere erano gli occhi perché aveva la sgradevolissima sensazione che le sue membra fossero disperse, non orientabili nel tempo e nello spazio.
Più che un flash, ci fu un lampo che stracciò quella cortina indefinita con un termine lapidario “metamorfosi”. Per quel poco di pensiero su cui poteva ancora contare fu davvero un fulmine devastante. Non era che si stesse trasformando in un ectoplasma? Peggio, molto peggio di quello che era accaduto a Gregor Samsa (*): almeno lui, in qualche modo, sia pure con difficoltà estreme, riusciva ad articolare le sue zampette! Muovendo le ciglia percepì un lieve cambiamento di luce: forse qualcuno era entrato nella stanza? Ma era inutile perdersi in congetture perché i fili delle connessioni sembravano essere del tutto recisi.
E intanto il cuore continuava a fare tumpf, tumpf. Ma, senza un coordinamento, un senso a che serviva tutto ciò? Il sudore, o almeno quello che lui percepiva come sudore, anziché fargli sentire freddo, sembrava caldo. Sussultò. E se fosse sangue? Forse stava sudando sangue? E se sudava sangue forse stava diventando santo? L’orrore di quella ipotesi gli fece chiudere gli occhi come a chiudere fuori portata ogni elemento che potesse avvicinarsi e quella idea. Nel buio nel quale si era chiuso emerse un ricordo di quando era chierichetto: stimmate? Il corpo come una grande stimmata? Ma di che cosa? E poi anche quella domanda svanì. Scoprì che più cercava di stare sveglio e attivo e meno riusciva a mettere a fuoco la situazione.
Un’altra ombra passò vicino a lui ma non riuscì ad identificarla. Chi mai poteva essere? Ma se lui stesso non riusciva a definirsi, a ritrovarsi, come sarebbe stato possibile definire l’altro? O forse l’ombra non era che una parte di sé che se ne stava vagando senza il suo legittimo proprietario? Per un attimo gli passò davanti l’immagine della sua faccia inespressiva: ma era proprio lui quello? Per avere delle espressioni sarebbe importante avere delle passioni. Ma lui, quali passioni aveva? Quali passioni aveva avuto?
Scoprì che se, da un lato, riuscire a porsi queste domande gli permetteva di avere una pur flebile percezione di sé in quel momento in cui sembrava galleggiare senza confini, dall’altro, la pochezza, la miseria delle risposte lo faceva sentire ancora di più sperduto. Ma quel sentimento di sperdutezza non era forse quello che lo aveva portato, nella vita, ad appoggiarsi a qualche spalla, più o meno compiacente, più o meno stimolante, fino a relegarlo in quel ruolo tipico in cui una persona si fa portatrice dei pensieri e dei desiderata di qualcun altro? Indubbiamente era una forma di paralisi emotiva, una immobilità che però aveva un suo lato positivo, se così lo vogliamo chiamare. Non entrava mai in conflitto con nessuno, si plasmava sull’altro senza fatica alcuna. Ovvero, un po’ di fatica c’era, soprattutto quando quell’altro manifestava personalità forti e lui aveva l’impressione di subirne il potere piuttosto che poterselo ingraziare.
Dopo essersi ritirato in questi pensieri interni, riaprì gli occhi per capire se qualche cosa stesse cambiando. Ma tutto sembrava stranamente immobile, come senza tempo.
Come ne sarebbe venuto fuori?
Ma per poterlo fare era necessario sapere chi era, quale era il suo ruolo nella società… “discorso al paese…”. Sì, ecco che ritornava quel flash di poco prima. Ma quale paese? Al suo paesello non avevano bisogno certo dei suoi discorsi e poi, lui, i discorsi se li faceva preparare….. già, ma allora doveva esserci accanto a lui qualcuno che glieli preparava, che lo aiutava a fare la voce grossa e perentoria, ma lì non vedeva nessuno.
Un attimo di scoramento lo travolse e gridò dentro di sé, perché ormai non un filo di voce gli poteva uscire dalla gola, come fece Gesù nell’orto del Getsemani “Padre, allontana da me questo calice!”
A quel muto richiamo qualcosa si stagliò in quell’assurdo chiaroscuro. Ai piedi del letto un’ombra dai contorni aguzzi e irregolari lo stava guardando sorniona. Pur nel sibilìo della sua voce le parole le uscivano chiare. Sillabava: “Eri tu quello che non voleva credere alla mia potenza? Eri tu quello che mi ha sfidato dicendo che ero poca cosa e che mi avresti debellato in men che non si dica? Invece eccomi qua.
Sono il Coronavirus.”
(*) Protagonista del Racconto di F. Kafka, La Metamorfosi.
Il segnale
Beh, un segno se lo sarebbe aspettato. Era una vita che aveva speso in quell’attesa. Molte scelte non fatte, altre invece fatte per rispondere alle emergenze di sopravvivenza. E quel segnale che non arrivava mai.
Ma perché adesso questa urgenza? Niente di preciso, in effetti. Era solo un clima di inquietudine che lo faceva sentire a disagio e, nello stesso tempo, avere la percezione del bisogno urgente di essere affiancato da una guida sicura. Era ciò che auspicava e desiderava maggiormente: ne andava della sua esistenza.
Era pervaso anche da un pensiero – se così si poteva chiamare quel rincorrersi di onde chimico-elettriche che lo attraversavano – e cioè che lui era soltanto una ‘parte’, un ‘tratto’ di qualche cosa di cui lui non aveva cognizione mentre avrebbe desiderato averla. Voleva sentirsi una creatura, degna di tale nome.
Cercava di prendere esempio da suoi parenti, più o meno prossimi ma comunque ‘consanguinei’, i quali cercavano di dare continuità alla loro esistenza cambiando continuamente aspetto onde non farsi riconoscere, farsi trovare ed essere sconfitti.
Ma alla fine quella mossa che sembrava essere così astuta non dava certo i risultati attesi. Era come se si dovesse ricominciare sempre da capo.
Sinceramente, non era ciò che voleva, oltretutto considerando gli sforzi implicati nel doversi mascherare continuamente!
Anche se a detta di molti non veniva considerato granchè intelligente però una sua intelligenza comunque ce l’aveva, e certe connessioni, magari elementari, gli venivano bene, forse più che a tanti altri che con la loro saccenza ritenevano di non dover imparare nulla da nessuno.
Ed era su quella dotazione orientata alla ricerca che intendeva muoversi.
Però lo stesso aveva bisogno che gli arrivasse un qualche segno, altrimenti, dipendente com’era, sarebbe stato condannato a rimanere al palo di un vivacchiare alla giornata, senza alcun trionfo!
Ma ora era inutile perdersi in chiacchiere e nemmeno in pensieri elevati.
Primum vivere deinde philosophari. Si complimentò con se stesso per la citazione. Non era dunque del tutto scemo. E, d’altra parte, ne aveva di Storia alle spalle, bastava solo saperla tirare fuori al momento giusto, e non a sproposito come vedeva fare in giro! La memoria storica! Come se si trattasse sempre della solita solfa! No, no. La Storia non era un fossile che se ne stava lì immutato per sempre. Quella, tutt’al più, era una prerogativa di Dio (mentalmente si genuflesse per aver chiamato il nome di Dio invano!). La Storia cambia. Ci sono le mutazioni, i salti, gli “spillover” come aveva illustrato qualcuno, uno scienziato americano, se non ricordava male (*), nel parlare di quegli equilibri che saltano così che dopo il crash, dopo il traboccamento, si riprende un vigore diverso. Nuovamente si complimentò con sé stesso per la sua capacità di cogliere al volo citazione dopo citazione. Che figurone avrebbe fatto se lo avessero chiamato in un talkshow! Ma era più che certo che lì non l’avrebbero voluto. E già. Perché a volte la verità fa male, spiazza con la sua crudezza, meglio vivere, anzi sopravvivere, nell’inganno!
Si guardò attorno.
Tutto preso dai suoi pensieri che lo stavano occupando ormai giorno e notte aveva trascurato l’ambiente attorno a sé. Non si poteva dire che fosse un porcilaio, ma poco ci mancava. A qualcuno dei suoi conoscenti poteva andare bene, perché anche lì si trovava qualcosa da raspare su. Bastava non storcere tanto il naso! Ma non era aria per lui, lui aveva bisogno di ossigeno, di aria libera sulle cui ali avrebbe potuto viaggiare e muoversi da un continente all’altro. Respirare in grande, a pieni polmoni! Che sogno! Sogno!?
Respirare! Ecco qual’era il segno che aspettava: il respiro! Tutti per vivere hanno bisogno di respirare! Bastava trovarne tanti e lì, soprattutto se messi tutti vicini vicini: avrebbe trovato modo di pascolare saltabeccando dall’uno all’altro senza fare tanta fatica! Il loro respiro sarebbe stato il nutrimento del suo respiro.
Che meraviglia! E tutto senza dannarsi nella ricerca spasmodica di trovare quell’habitat che gli avrebbe permesso di continuare a vivere. Eureka!
Certo che gli passò per la mente che tutto quel ben di Dio (“Dio mi perdoni ancora una volta per averlo nominato invano”, si disse genuflettendosi e battendosi il petto) sarebbe un giorno terminato. Né più né meno di come terminano tutte le cose terrene. Ma intanto avrebbe continuato a vivere e alla grande … e poi ci sarebbe stato un altro spillover, un’altra mutazione e un’altra avventura sarebbe cominciata.
Così il Coronavirus fece uno studio approfondito non solo riguardo al veicolo che gli avrebbe permesso di viaggiare indisturbato, cullato dalle goccioline di saliva che come spruzzi di aerosol si accompagnavano a starnuti, attacchi di tosse, sputacchi vari, ma anche sul luogo dove avrebbe potuto esercitarsi.
Visto che erano caduti i principi che regolano le frontiere, che la globalizzazione aveva reificato la canzone anarchica in cui si cantava “nostra Patria è il mondo intero” (mutuata da un pensiero di L. A. Seneca (4 a.c.- 65 d.c.), anche se quel filosofo romano intendeva tutt’altro che elogiare l’anarchia, anzi raccomandava di non correre qua e là agitandosi in continui spostamenti, indizio di una poca tranquillità interiore) e che tutti, ma proprio tutti, sentivano il bisogno di assembrarsi, di stare appiccicati l’un l’altro, forse per paura della solitudine, i luoghi furono presto trovati.
Il resto è Storia.
(*) Spillover, L’evoluzione delle pandemie, di David Quammen (Adelphi Ed.)