di Rita Simonitto
La riflessione in varie forme (poetiche, narrative, saggistiche, giornalistiche) sull’incubo pandemico che stiamo vivendo sembra oscillare tra razionalismo e irrazionalismo; e smuovere immaginari che vanno da visioni idilliache quasi new age (qui) a tenebrose e barocche lamentazioni (qui) a interrogazioni sulla dimensione tragica (dell’individuo e della società). Come in questo breve racconto di Rita Simonitto in continuità con altri suoi scritti recenti (qui, qui e qui) ma anche con la sua raccolta di poesie, “Per ordine di verso”, che purtroppo finora ho potuto soltanto segnalare (qui). [E. A.]
Anche se all’apparenza poteva sembrare un giorno come tutti gli altri quella mattina aveva un vago sentore che non fosse proprio così, anche se non avrebbe saputo dire se quello strano percepire derivasse da qualche cosa di esterno a lui oppure da dentro di lui.
Decise di non pensarci: se qualche evidenza si fosse palesata ecco, lui era pronto ad afferrarla. Si sistemò meglio il plaid sulle gambe e, senza accorgersi, scivolò nel sonno coadiuvato dalla tiepida aria di fine aprile e riparato, in quell’angolo di terrazzino, dagli smaniosi refoli di vento.
Ma anche il colpo di tosse che bruscamente lo risvegliò, non era il solito: aveva l’impressione che fosse portatore di un qualche messaggio, come quando si ha la strana percezione che qualcuno busserà alla tua porta e poi, inopinatamente, ciò accade.
Si tirò su di brusco e si guardò attorno. Nulla di diverso, i suoi compagni di avventura (se così si poteva chiamare quella stramaledetta esperienza di reclusione forzata…, sì, esperienza, come aveva sentito dire da echi di dibattito arrivati fin lì, e da parte di chi, ovviamente, non era lì e che cosa ne sapevano loro dell’esperienza… se la patisci soltanto… non ne fai nulla…, ma non era quello il momento di recriminare…).
Si diede uno sguardo attorno, cercando di perlustrare visivamente non solo quelle angolazioni che, dandole per assodate quotidianamente, ci aspettiamo di trovarle sempre lì e invece, se ci soffermassimo un po’, faremmo inedite scoperte. Tutto immobile, tutto quieto: il silenzio gravava sovrano, anche i cani vi si erano adeguati. Sorrise tra sé e sé: povere bestiole costrette anche loro a subire qualche cosa di inconcepibile che si era abbattuto improvvisamente lasciando tutti nello sgomento. E lo sgomento, si sa, attutisce lo spirito di ribellione: non si può nemmeno abbaiare, tutt’al più, guaiolare.
Proveniente dal bordo del terrazzino, una lama dorata lo colpì d’improvviso: un fiore di tarassaco, abbarbicato in modo periglioso sopra l’abisso, con il suo capolino d’oro sembrava cantare una canzone. Bah, più che muovergli un senso di tenerezza non successe altro.
Dall’emergere di questi turbamenti, comunque, del tempo era passato, forse si approssimava l’ora della colazione (lì erano molto puntuali): forse era soltanto un poco agitato per la situazione insolita in cui era venuto a trovarsi e non c’è nulla di peggio che sentirsi impotenti davanti a qualche cosa che ci sovrasta.
Buttò lo sguardo sulla montagna che si stagliava davanti a lui e non la vide mai così minacciosa. Ne prese paura al punto che si rannicchiò sulla sdraio tirandosi il plaid quasi fino agli occhi.
La montagna. L’aveva sempre titolata dentro di sé con la maiuscola, come l’espressione di un condensato di significazioni, da quelle più fantastiche a quelle più realistiche, ma che comunque manteneva sempre un alone di mistero misto a sfrontatezza e questo la rendeva seducente e pericolosa.
La montagna. Le sue vette e le sue viscere insidiose. Mai come, nel vedere la prima volta una montagna, aveva avuto l’esperienza plastica della coesistenza dell’Uno e del Molteplice: bastava girarci attorno e lei non sembrava già più la stessa, vista da altre prospettive non la riconoscevi quasi più!
Ma che cosa voleva dirgli, se di un possibile discorso si trattava, quella montagna che si ergeva lì davanti a lui come una minaccia incombente? Che il mondo stava cambiando e lui non se ne era accorto? O che forse era GIA’ cambiato ma lì, su in alto, in quel territorio protetto dove lui si trovava, non era arrivato sentore alcuno?
Ricominciò a tossire e la cosa non gli piacque: che significato poteva avere tutto ciò? un peggioramento? che erano segni premonitori negativi e che la cura che stava facendo era insufficiente, insufficiente l’isolamento a cui era costretto per cui veniva privato anche degli ultimi residui di vita? O, invece si trattava di quello sguardo minaccioso che si profilava di contro a lui come un monito… Al singulto della tosse si unì il singulto del riso! Si sentì stupido!
Ma non eravamo mica tornati al Medio Evo, l’espiazione dei peccati in particolare modo quello della Superbia, o quello di cedere alla seduzione di forze demoniache, a Satana, che contamina e distrugge tutto…
No, così non ne veniva fuori.
Osservò il movimento del sole per capire, dall’ombra che proiettava, quanto tempo aveva ancora prima di sentire il suono della campanella per il pasto condiviso con gli altri ospiti.
Notò che il Sole era allo Zenit ma la montagna non ne era illuminata, anzi, rimaneva in un’ombra resa ancora più nera dallo sfavillare della luce in cielo. Ma si ricordò che una cosa analoga accadeva anche al mattino: dal suo punto di osservazione il sorgere del sole non illuminava la montagna bensì le faceva proiettare la sua ombra davanti a lei. Non diversamente accadeva alla sera, in quel particolare periodo dell’anno: la luce del tramonto cadeva obliqua e lasciava più scuri che chiari. In altre parole si rese conto che quella montagna non veniva mai illuminata! Che significato questo poteva avere? Chi e che cosa rappresentava l’incanto di quella montagna? La sua irrapresentabilità?
Il suono della campanella ruppe il silenzio e il percorso dei suoi pensieri.
L’oppressione al petto si faceva sentire un po’ più forte anche se lui non voleva assecondare quella sensazione dandole magari un risalto eccessivo.
I suoi compagni di “avventura”, diligentemente avevano preso il loro posto e, forse per scaramanzia o sedare la loro paura, parlavano a voce alta da un lato all’altro della stanza, raccontandosi delle storie gustose, accennando a qualche canzoncina sottolineata dal coro delle posate battute sui bicchieri, mentre gli inservienti non intervenivano lasciando che questa rappresentazione si esaurisse da sé.
Non poté non venirgli in mente il tragico racconto di E.A. Poe, “La morte rossa”: là, in quella stanza isolata dal mondo malato, quei convitati pensavano, in quanto privilegiati, di essere scampati da quella ecatombe che si stava compiendo là fuori, giù sotto. Ma invano!
Anche oggi, con una liturgia macabra, là sotto si stava celebrando un’altra guerra, con armi più sofisticate, ma l’esito era sempre quello: acquisire il potere. E chi lo avrebbe preso, questo potere? Gli inetti, gli sciocchi che confondono l’individualità con l’individualismo? Rabbrividì. Avrebbe voluto uscire ma bisognava rispettare le regole stabilite dall’Istituto.
Avrebbe dovuto essere contento che ci fosse qualcuno sopra di lui che vegliasse non soltanto su lui, sul suo benessere ma anche su quello degli altri. Perché non lo era?
Che cosa voleva di più? Dall’ampia vetrata di quel refettorio monacale, poteva vedere la montagna che si profilava davanti a lui come un monito.
Ma di che cosa? Di non perdere altro tempo, forse?
Cercò di alzarsi, ma, in modo maldestro e per debolezza, perse l’orientamento e solo fortunosamente non cadde a terra!
Avrebbe voluto trasmettere i suoi affanni alle persone che, attorno a lui, cercavano di sopravvivere a quella reclusione forzata, certi che, una volta usciti, tutto sarebbe tornato come prima.
Ma la montagna sembrava dire di no, nulla poteva tornare come prima perché questo era soltanto l’antipasto!
Bisognava agire, fare qualche cosa! Se non altro segnalare l’equivoco in cui tutti stavano cadendo credendo cioè che quella e solo quella, la pandemia, fosse l’emergenza che bisognava contrastare! No. Quello era soltanto il fenomeno, come gli stava dicendo la montagna: non sono io ciò che vedi ma c’è dell’altro.
In quello consisteva la cura: nell’andare oltre l’apparire.
Il respiro gli stava mancando e gli faceva annebbiare la vista. Chiese all’inserviente di poter uscire nel suo terrazzino e lì gli sembrò di ritrovare un po’ di ristoro.
Il fiorellino di tarassaco lo guardò e gli sorrise (o almeno così gli parve).
Come resistere a quell’invito…
Si chinò verso di lui e, mentre stava per accarezzarlo, gli mancò l’equilibrio, sfondò la vetrata protettiva e precipitò nell’abisso.
Conegliano, 07.04.2020
…trovo molto inquietante questo racconto di Rita Simonitto, ci trasmette una forte sensazione di allerta, soprattutto attraverso la descrizione dei segnali o messaggi “premonitori” lanciati da una Montagna sovrastante, immensa, in perpetua ombra, Una e Molteplice a un malato ricoverato in una casa di cura…Mi ricorda il clima pauroso di imminente pericolo dilagante tra gli abitanti di Pompei e Ercolano prima della catastrofica eruzione del Vesuvio (” questo era soltanto l’antipasto”..) . Il protagonista è un “paziente” , è sofferente è vero ma tutto sembra predisposto perché lui e gli altri ospiti di quel reclusorio, non ne escano vivi…Comunque appiattiti e rassegnati…chi non vuol vedere si accontenta di far passare il tempo in compagnia, soffocando la paura, convinto della guarigione…L’ultimo gesto dell’uomo solitario è affettuosamente rivolto a un piccolo fiore giallo, spuntato nel cemento e gratuitamente gentile…
Gentile Simonitto, ho letto con attenzione il suo racconto. Mi permetto una sintesi, due veloci annotazioni e un brevissimo giudizio finale.
1.-SINTESI:
Lui è un personaggio senza nome, vigile, attento ai segnali provenienti dall’interno e dall’esterno del suo corpo, pieno di domande, molto colto: ha letto “La morte rossa” di Poe e si pone problemi filosofici classici («nel vedere la prima volta una montagna, aveva avuto l’esperienza plastica della coesistenza dell’Uno e del Molteplice»)…
Vive recluso, in alto, in un Istituto, insieme ad altri compagni di “avventura”, privilegiati. Sta lì, un po’ come nel racconto di Poe, per sfuggire all’epidemia. Quasi certamente sa che esistono confini fra la propria “vita interiore” e quella esteriore, del mondo fuori di sé; ma nei suoi pensieri e nelle sue riflessioni spesso e volentieri “oggettivizza” l’interno e “soggettivizza” l’esterno, come succede a molta psicanalisi. Così nel suo residuo di vita reclusa e minimale trascorsa nell’ Istituto, vita ridotta praticamente al guardare e ad attendere il suono della campanella per recarsi nel refettorio comune, interiorizza la Montagna (che “aveva sempre titolata dentro di sé con la maiuscola”), come una minaccia incombente, minaccia di un cambiamento di cui non si era accorto o, in quel territorio protetto dove si trovava, non aveva avuto sentore. Non le apparve soltanto minacciosa. Quel giorno “si rese conto che quella montagna non veniva mai illuminata! Che significato questo poteva avere? Chi e che cosa rappresentava l’incanto di quella montagna? La sua irrapresentabilità?”…
Intanto, la tosse, che fin dal mattino non era più la solita, riprese e l’oppressione al petto si fece sempre più oppresso. Il suono della campanella ruppe il silenzio. Nel refettorio i suoi compagni di “avventura”, parlavano a voce alta raccontandosi delle storie gustose. Pensavano, in quanto privilegiati, di essere scampati a quella ecatombe che si stava compiendo là fuori. Infatti, giù sotto “si stava celebrando un’altra guerra, con armi più sofisticate, ma l’esito era sempre quello: acquisire il potere. E chi lo avrebbe preso, questo potere? Gli inetti, gli sciocchi che confondono l’individualità con l’individualismo? Rabbrividì. Avrebbe voluto uscire ma bisognava rispettare le regole stabilite dall’Istituto.”. Avrebbe dovuto essere contento, ma non lo era. Fuori la montagna gli si profilava davanti come un monito. Nulla sarebbe tornato come prima. Questo i suoi compagni di “avventura” non lo capivano. Ciò che stava succedendo era soltanto l’antipasto.
”Bisognava agire, fare qualche cosa! Se non altro segnalare l’equivoco in cui tutti stavano cadendo credendo cioè che quella e solo quella, la pandemia, fosse l’emergenza che bisognava contrastare! No. Quello era soltanto il fenomeno, come gli stava dicendo la montagna: non sono io ciò che vedi ma c’è dell’altro. In quello consisteva la cura: nell’andare oltre l’apparire.”
Usci sul terrazzino, gli sembrò di ritrovare un po’ di ristoro, guardò il fiorellino di tarassaco, visto al mattino, “abbarbicato in modo periglioso sopra l’abisso, con il suo capolino d’oro” che sembrava cantare una canzone. Questa volta “gli sorrise (o almeno così gli parve).
“Si chinò verso di lui e, mentre stava per accarezzarlo, gli mancò l’equilibrio, sfondò la vetrata protettiva e precipitò nell’abisso.”.
2.-DUE ANNOTAZIONI
Questo racconto ci dice che la cura consiste “nell’andare oltre l’apparire” e, probabilmente, si può essere d’accordo. È un insegnamento che ci viene dai “maestri del sospetto”. Peccato, però, che il personaggio, il Lui che capisce questo, per accogliere l’invito di un fiorellino di tarassaco, “abbarbicato in modo periglioso sopra l’abisso, con il suo capolino d’oro”, proprio nel momento in cui capisce questo, perde l’equilibrio e precipita nell’abisso. Così il messaggio, il monito che Lui aveva tratto dalla Montagna, viene lasciato dalla voce narrante alla responsabilità del lettore.
Ma perché occorre andare oltre l’apparire? Per capire ciò che l’ombra minacciosa della Montagna ha comunicato al nostro Lui: che lì sotto si stava celebrando un’altra guerra per il potere, con armi più sofisticate. “E chi lo avrebbe preso, questo potere? Gli inetti, gli sciocchi che confondono l’individualità con l’individualismo? Rabbrividì. Avrebbe voluto uscire ma bisognava rispettare le regole stabilite dall’Istituto.”
Nella pandemia in atto, quindi, si sta combattendo, se capisco bene, una lotta per il potere. Chi vuole conquistarlo, cosa che fa rabbrividire il nostro personaggio, sono gli inetti e gli sciocchi che “confondono l’individualità con l’individualismo”…Sul non confondere “individualità” e “individualismo” sono d’accordo, non capisco, invece, chi siano questi inetti e questi sciocchi che stanno conquistando il potere. Sempre che il racconto alluda un po’, come pare, alla situazione in atto.
3.- GIUDIZIO FINALE
Il racconto è ben scritto. C’è maestria nell’arte della rappresentazione. Ma il personaggio non mi sembra molto risolto. Mi sembra un po’ astratto. È un anonimo troppo pieno di domande e pensieri, troppo preso nella ragnatela simbolistica o psicanalitica di “proiezioni” e “identificazioni”. Non sarebbe male se sentisse ogni tanto il bisogno di verificare i propri pensieri con qualche compagno di “avventura”…Ma forse non può che essere così.
Grazie ad Annamaria per i suoi commenti molto partecipati e che sono molto utili nel far percepire quella ‘comunione’ a cui oggi purtroppo abbiamo, per ragioni di tutela sanitaria di tutti, dovuto rinunciare nella quotidianità dei nostri movimenti.
E grazie alla lettura di Salzarulo che mi ha permesso, attraverso la sua disamina puntuale dei vari passaggi del raccontino di arrivare proprio a quell’esito finale (che Annamaria con sensibilità e sagacia ha sottolineato “L’ultimo gesto dell’uomo solitario è affettuosamente rivolto a un piccolo fiore giallo, spuntato nel cemento e gratuitamente gentile”), e che ci fa ribadire ancora una volta l’importanza dell’arte che, inconsapevolmente, tiene in sé all’inizio quello che avverrà dopo, ma che solo a processo concluso la fine sarà nota (vedi Shakespeare nel Giulio Cesare: “Oh, se fosse dato all’uomo di conoscere la fine di questo giorno che incombe! Ma basta solo che il giorno trascorra e la sua fine è nota”).
Come correttamente sottolinea Salzarulo, il personaggio centrale fin dall’inizio ci viene presentato come un uomo colto, che sa porsi le domande, che ha letto molto, che fa citazioni pertinenti, che sa fare, o perlomeno si industria a fare, le distinzioni tra mondo interno e mondo esterno: in realtà è un recluso non tanto in quel sanatorio, che va letto sotto metafora, ma nel suo mondo solipsistico, granitico (come una montagna) ma inesplorabile. Le occasioni di ‘comunità’, scandite dalla campanella, non rappresentano un suo bisogno interiore di partecipazione, ma quasi una seccatura che lo distoglie dalle sue elucubrazioni. Infatti irride ai suoi compagni di sventura che cercano in modo scaramantico e primitivo (lui invece è colto, cita Poe) di fugare la paura di fronte alla minaccia di un qualche cosa di sconosciuto. E qui Salzarulo coglie nel segno quando afferma: “Non sarebbe male se sentisse ogni tanto il bisogno di verificare i propri pensieri con qualche compagno di “avventura”…Ma forse non può che essere così.”. Perché è proprio questo il problema. Quel “lui”, quel personaggio senza nome, rappresenta quella parte di noi che si fa forte delle sue capacità cognitive, come se fossero lo zoccolo duro contro cui si infrangono i dubbi, i pensieri diversi, ecc. (riconosciuti a parole, ma non nei fatti).
E, in effetti, quando questo “Lui” afferma che avrebbero potuto prendere il potere “Gli inetti, gli sciocchi che confondono l’individualità con l’individualismo”, pur facendo una osservazione corretta, non è pertinente, perché, senza rendersene conto, continua a fare riferimento solo a se stesso e chi non la pensa come lui è solo un incompetente e questo lo fa rabbrividire. Questa è l’ambiguità, il monito a cui lo richiama minacciosa la Montagna.
Questa ambiguità non gli permette di calibrare bene il rapporto tra razionalità ed emozione, contro la quale ha messo un vetro protettivo, onde evitare di cadere nell’abisso di tutto ciò che non può essere dominato, controllato. Ed è per questo motivo che ‘sfonda’ il vetro del parapetto, pur mosso da un pensiero genuino di partecipazione alla gentilezza del fiore che, in un primo momento, gli aveva suscitato soltanto tenerezza.
Mi scuso per la lunghezza del commento ma mi sembrava utile fare queste precisazioni.
E, come si scrive in premessa a certi film o a certi libri “ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale”.