LETTURE IN QUARANTENA
di Donato Salzarulo
1.- Questo non è il libro del momento. Non è Spillover. Aspettava di esser letto da più di un anno. Pazientemente in fila, fra tante pile di libri da leggere. Non è del momento ma qualcosa ha a che fare con questo momento. C’è chi vorrebbe dare la parola alle Cose. E il virus cos’è?… Avete notato che ho tirato in ballo “cosa” per cercare di definirlo?…Le cose ci assediano. Sono dappertutto. Usiamo cose (scarpe, pantaloni, occhiali, computer…) e mangiamo cose (pasta, riso, pane…). Noi stessi, in ultima istanza, siamo atomi di cose (acqua, carbonio, azoto, calcio, potassio, fosforo…).
Dare la parola alle cose?!… Come è possibile? Le cose non parlano.
Ci sono scrittori, artisti, poeti che hanno cercato, però, di mettersi dal punto di vista delle cose. In un certo senso di farsi cosa, diventare cosa.
A scuola quasi tutti abbiamo letto quella poesia su Natale di Ungaretti che, avendo tanta stanchezza sulle spalle (era in temporanea licenza dalla guerra), invita i suoi lettori a lasciarlo così «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata». Certo, questa è soltanto una similitudine. Ma la “cosa” è tirata in ballo perché soddisfa il bisogno di solitudine del poeta e il desiderio paradossale di non avere più desideri, voglie, timori. Una pulsione di morte, direbbe forse uno psicanalista, che copre un desiderio di nuova nascita (questa poesia, cielo santo, s’intitola Natale!). Però a me interessa l’uso della parola “cosa” che sembra perdere la sua tradizionale connotazione negativa (come quando diciamo: «non sono mica una cosa!») e si fa, per così dire, oggetto di desiderio.
2.- Di tutt’altro tenore e prospettiva è, invece, un racconto di Primo Levi tratto da «Il sistema periodico», un suo libro del 1975. È dedicato a un atomo di carbonio, quando se ne conosceva l’esistenza, ma non esistevano ancora tecniche per “vederlo”. Ciò accadrà pochi anni dopo col microscopio a effetto tunnel. Il suo sviluppo nel 1981 fruttò ai suoi inventori, i fisici Gerard Binning e Heinrich Rohrer, il premio Nobel per la fisica nel 1986.
Su questo racconto richiama l’attenzione Felice Cimatti nella Premessa del suo libro «Le cose. Per una filosofia del reale» (Bollati Boringhieri, 2018, pp. 200, euro 19), le cui pagine sto leggendo e rileggendo molto lentamente in questi giorni di quarantena. Veramente è qualcosa di più di un’attenzione. È partecipazione, condivisione piena dei contenuti di pensiero proposti implicitamente da Levi, tanto da ritenere la propria opera un «omaggio filosofico a questa storia».
Il racconto si intitola «Carbonio». Le citazioni sono contenute nel libro del filosofo.
«Il nostro personaggio giace dunque da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi d’ossigeno e ad uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea: ha già una lunghissima storia cosmica alle spalle, ma la ignoreremo. Per lui il tempo non esiste, o esiste solo sotto forma di pigre variazioni di temperatura, giornaliere e stagionali, se, per la fortuna di questo racconto, la sua giacitura non è molto lontana dalla superficie del suolo. La sua esistenza, alla cui monotonia non si può pensare senza orrore, è un’alternanza spietata di caldi e di freddi, e cioè di oscillazioni (sempre di ugual frequenza) un po’ più strette o un po’ più ampie: una prigionia, per lui potenzialmente vivo, degna dell’inferno cattolico. A lui, fino a questo momento, si addice dunque il tempo presente, che è quello della descrizione, anziché uno dei passati, che sono i tempi di chi racconta: è congelato in un eterno presente, appena scalfito dai fremiti moderati dell’agitazione termica.» (pag. 9)
Primo Levi si sforza d’immaginare per quest’atomo di carbonio una strana vita che non è quella nostra, biologica, anche se s’intreccia con essa in molti modi. È un piccone in mano ad un uomo, infatti, a staccarlo con un colpo e ad avviarlo verso un forno a calce, «precipitandolo nel mondo delle cose che mutano». Abbarbicato a due atomi di ossigeno esce dal camino e prende la via dell’aria. Dopo aver viaggiato col vento per otto anni, incappa in un filare di viti ed ha la fortuna di entrare, grazie al sole, in una foglia. Qui, separato dal suo ossigeno e combinato con idrogeno e fosforo, viene inserito nella catena della vita.
Col lento passo dei succhi vegetali risale dalla foglia al picciolo, dal picciolo al tralcio, dal tralcio al tronco e di qui discende in un grappolo quasi maturo. L’atomo diventa vino e finisce nel fegato del suo bevitore come alimento di riserva per uno sforzo improvviso. Quando l’uomo lo fa, l’atomo corre in una fibrilla muscolare a spaccarsi in due molecole d’acido lattico; qualche minuto dopo l’ossigeno, procurato dai polmoni, lo ossida e, come molecola d’anidride carbonica, ritorna di nuovo nell’aria, ancora alla mercé del vento.
Questa volta Eolo lo porta in un tronco di cedro del Libano. Dopo vent’anni se lo mangia un tarlo che s’impupa e si trasforma in farfalla. Lui è là, in uno dei mille occhi dell’insetto. Questo, fecondato, depone le uova e muore. Ora il piccolo cadavere giace nel sottobosco, ma la corazza di chitina resiste a lungo, quasi indistruttibile.
«La neve e il sole ritornano sopra di lei senza intaccarla: è sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventato una spoglia, una “cosa”, ma la morte degli atomi, a differenza dalla nostra, non è mai irrevocabile. Ecco al lavoro gli onnipresenti, gli instancabili ed invisibili becchini del sottobosco, i microrganismi dell’humus. La corazza, coi suoi occhi ormai ciechi, è lentamente disintegrata, e l’ex bevitore, ex cedro, ex tarlo ha nuovamente preso il volo.» (pag. 12)
Ultima tappa: finisce in un bicchiere di latte; bevuto e digerito, bussa alla porta di una cellula nervosa; questa cellula è parte del cervello dello scrittore e l’atomo partecipa al suo scrivere, fino ad aiutarlo a mettere un temporaneo punto alla storia.
3.- Le chiavi di lettura di questo racconto sono molteplici. La più semplice: siccome lo scrittore era un chimico, ci vuol far capire che il carbonio è un elemento essenziale alla vita. È l’unico atomo presente in tutte le molecole organiche. Ha una sua particolare plasticità e versatilità chimica: infatti transita facilmente tra i vari “regni”: da quello minerale a quello vegetale a quello animale. In un uomo di 70 chili, circa 14 sono di carbonio…
Però, proprio in questi giorni, mezza umanità è chiusa in casa (per chi ce l’ha) e parecchi rischiano di lasciarci le penne per un virus che non sappiamo in quale “regno” collocare. Roberto Burioni l’ha paragonato a una nano bistecca. Cioè a del materiale organico che diventa attivo se lo mangiamo.
Il fatto è questo: non sappiamo se abbiamo a che fare con un organismo vivente, non vivente o vivente-non vivente. Come a Cartesio a noi piacerebbero le idee chiare e distinte. Ecco, caro Cartesio, non sempre è possibile. Primo Levi col suo racconto vuol farci capire proprio questo: non è facile definire i confini della “vita”; forse anche un atomo di carbonio può avere la sua storia e la sua “vita” che non coincide con quella biologica, ma è, comunque, una qualche vita.
Cimatti, il filosofo, infatti, si domanda:
«Per quale ragione, in effetti, l’unica vita che conosciamo dovrebbe costituire il paradigma per tutte le possibili vite nell’universo? Quella che Levi ci sta implicitamente proponendo è una nuova ontologia, allo stesso tempo scientifica e mistica, non più basata sulla distinzione fra vita e non vita. In questa ontologia, centrata sulla cosa, prima di tutte le “nostre” distinzioni, ci sono solo possibilità di combinazioni» (pag. 9)
In questa ontologia “vita” significa soltanto “modo d’esistenza”: in quali forme si presenta il carbonio, come si combina, come prende parte agli accadimenti del mondo…Le cose non hanno la preoccupazione di distinguersi tra di loro. Questo lo facciamo noi: prima distinguendoci dalle cose, che vorremmo sempre a nostra completa disposizione (salvo svegliarsi una mattina contagiato da una cosa-non cosa che chiamiamo virus), poi riducendo a cose un bel po’ di persone (ricordate il pensiero di Aristotele sugli schiavi? Per lui erano “cose”), e, infine, riducendo a cosa il nostro corpo perché destinato a morire e a scomporsi, mentre l’anima, la ragione quella sì che rimane immortale.
Insomma, le cose ci riguardano perché non sembrano confinate in un regno a parte.
«Il mondo, questo mondo di cui parla Levi, non è un mondo di cose, è piuttosto un mondo democriteo di relazioni, urti, scontri, carezze fra le cose. L’atomo di carbonio è quello che gli succede; la sua identità, quella identità che tanto ci appassiona e preoccupa, non è altro che tutto quello a cui in qualche modo partecipa.» (pag. 10)
Prima era pietra, poi aria e vento, successivamente foglia, grappolo d’uva, bevitore; quindi di nuovo aria, vento, tronco di cedro, tarlo, farfalla…in sempre nuove combinazioni, trasformazioni, relazioni. Si desidera ciò che ci manca. Ma l’atomo di carbonio non ha desideri simili. La sua storia è sempre piena, è un divenire continuo, un incessante approdare a nuovi corpi, condizioni, concatenazioni.
4.- Da questo racconto di Levi, Cimatti sembra trarre ispirazione per una nuova “filosofia del reale”, una nuova ontologia centrata su concetti come “relazioni”, “eventi”, “campo”. Nel primo capitolo lo fa confrontandosi, innanzitutto, con gli esponenti del “realismo speculativo” (Meillassoux, Brassier. Bogost, Bryant, Harmann, ecc.), filosofi che vorrebbero superare giustamente l’orizzonte umanistico e dare al mondo e alle cose tutto lo spazio che meritano; però, vorrebbero farlo senza la nostra ingombrante presenza. Come è possibile?
«Il sogno del realista è che le cose parlino da sole, senza la nostra mediazione. Ma questo, lo sappiamo, non è un sogno, è una illusione. Le cose, se le lasciamo stare, non parlano, anzi, una primissima definizione della cosa potrebbe proprio essere: la cosa è ciò che non parla, né di sé né di altro. La cosa è radicalmente muta.» (pag. 18).
Vedere qualcosa come qualcosa è già un’operazione concettuale.
Il mondo esiste fuori di noi e senza di noi. Esisteva prima della nostra comparsa sulla superficie terrestre ed esisterà anche quando non ci saremo più. Ma quando si pongono problemi di “realismo” o di “antirealismo”, questi si pongono soltanto all’interno della condizione umana e della sua soggettività. «Un gatto non è realista perché non è nemmeno antirealista. Il gatto esce a cercare il topo, e tutta la faccenda finisce qui.» (pag. 20). Considerare invece le sfere della soggettività e dell’oggettività come indipendenti l’una dell’altra – sogno dei realisti – è impossibile. Tra le due sfere vi è correlazione.
Il correlazionalismo, posizione fatta propria da Cimatti, «è del tutto compatibile con l’oggettività della conoscenza, e la reale e autonoma esistenza delle cose. Quello che il correlazionalismo sostiene è che il modo di stare al mondo di ogni vivente è commisurato al suo apparato sensoriale e cognitivo (i suoi “occhiali” naturali, per capirci). Quindi le cose del mondo, che sono del mondo e non del soggetto che le percepisce, sono contemporaneamente le cose del mondo così come le può percepire e pensare un animale umano.» (pag. 21).
5.-Mettersi dalla parte del mondo e della natura in tempi di crisi ecologica (e di pandemia) è un’esigenza quanto mai sentita ed urgente, ma non lo possiamo fare al di fuori di questa correlazione. I “realisti speculativi” che vorrebbero sfuggire totalmente a questo intreccio inseparabile di oggetto-soggetto-oggetto, non prestando la necessaria attenzione al tema fondamentale del linguaggio, rimangono prigionieri dell’orizzonte umanistico che vorrebbero superare. Non si toglie, infatti, centralità all’uomo se si diventa propugnatori di una “ontologia cosale” che non tiene conto delle “metafisiche influenti” (credenze, concetti, frammenti di conoscenza, intuizioni) che il linguaggio inevitabilmente porta con sé, essendo una delle forme fondamentali della soggettività umana. E, fino a prova contraria, i “realisti speculativi”, quando scrivono i loro pensieri e le loro dichiarazioni filosofiche, sono uomini e donne come tutti noi.
Le parole insieme ai sensi sono un po’ i nostri “occhiali” naturali. Per noi le cose diventano importanti se gli diamo un nome. Si pensi tanto per fare un esempio al nostro odioso Coronavirus di questi giorni. Il SARS-CoV-2 probabilmente era ospitato nei corpi dei pipistrelli (o di qualche altro animale) anche prima; ma solo quando ha compiuto il “salto di specie” sono partite le operazioni conoscitive per isolarlo, identificarlo e dargli un nome. Vedere è già un fare, costruire una relazione. La scienza, in fondo, fa con metodi e strumenti raffinati, ciò che ognuno di noi fa più o meno rozzamente quando compiamo le nostre operazioni conoscitive.
Tutto giusto. Nel momento in cui sappiamo che è il SARS-CoV-2 a minare i nostri polmoni, la comunità degli scienziati e i vari laboratori in funzione potranno lavorare alla messa a punto di un vaccino e di eventuali terapie antivirali per combatterlo e neutralizzarlo.
Qualcuno, se riflette filosoficamente su questa vicenda, potrà mai pensare che gli scienziati, dando una sigla al Coronavirus, conoscendo e studiando le sue proprietà, lo abbiano inventato?…Ovvio che no. Conoscere una cosa non significa crearla. I realisti hanno ragione: la gnoseologia è altra cosa dall’ontologia. Ma si può fare l’una senza l’altra? Cimatti crede di no. I realisti, invece, pensano che si possa fare.
6. – Pagina dopo pagina, la strada che prende il pensiero di Cimatti appare, a questo punto, abbastanza chiara. Ad un’”ontologia delle cose” sostenuta dai realisti speculativi contrappone un’”ontologia delle relazioni”. Il mondo non è una collezione di cose, separate da noi. Se continuiamo a pensare che l’essere umano con la sua soggettività è in qualche modo separato dal mondo nella sua oggettività, non riusciremo ad uscire dalla riproposizione di un umanesimo che continua a mettere al centro l’uomo come signore, se non dell’universo, del pianeta Terra.
Non è secondario il modo di pensare il mondo e la nostra posizione al suo interno. Noi ne siamo parte allo stesso titolo di un albero, una rondine, una nuvola o un pericoloso coronavirus. Non possiamo considerare Natura solo ciò che ci appare bello o ci torna utile. L’utilità non è la nostra unica relazione possibile. Il mondo non è un insieme di cose, è un tessuto unitario, continuo, stratificato di relazioni dinamiche. Il cambiamento è la sua materia prima.
«L’ontologia che si sceglie – scrive Cimatti – non è indifferente sul piano etico. Il punto in questione, allora, è un’ontologia relazionale, un’ontologia in cui chi parla del mondo è un ente mondano esattamente allo stesso titolo di una cavalletta o una sera di pioggia.» (pag.35)
Tutti sono “modi di esistenza” del mondo, un concetto questo che, come abbiamo visto col racconto di Levi, un po’ sostituisce e un po’ amplia quello di “vita”.
Quanto al concetto di “natura”, Cimatti condivide l’impostazione di Alfred North Whitead e si fa guidare nelle sue riflessioni da un libro che mi piacerebbe leggere intitolato «Il concetto della natura». Ad esergo del primo capitolo riporta una citazione estremamente importante e quanto mai orientativa nella situazione attuale:
«Ammetto che la visione della natura da me sostenuta non è semplice. La natura vi appare come un sistema complesso i cui fattori riusciamo a distinguere solo torbidamente. Ma, io domando, non è proprio questa la verità? Non dobbiamo diffidare della baldanzosa sicurezza con cui ogni età si vanta di avere finalmente trovati i concetti ultimi, che permettono di esprimere in formule quanto accade? Il compito della scienza sta nel cercare le spiegazioni più semplici dei fatti complessi; ma è facile cadere nell’errore di credere che i fatti stessi siano semplici, poiché la semplicità è la meta della nostra ricerca. Il motto di ogni filosofo della natura dovrebbe essere: “Cerca la semplicità e diffida di essa”.» (pag.17)
Ecco la differenza fra uno scienziato (biologo, virologo, fisico…) e un filosofo della natura. Costui sa che compito dello scienziato è “cercare le spiegazioni più semplici dei fatti complessi”, ma trovata la “semplicità” non si può compiere l’errore di pensare che i fatti siano semplici; meno che meno che la “natura” sia semplice. Tutt’al contrario. La natura è “un sistema complesso i cui fattori riusciamo a distinguere solo torbidamente”. Ricordiamoci di questa citazione, quando pretendiamo dagli scienziati bacchette magiche o chissà cos’altro. No alla “dittatura dell’ignoranza”, ma anche no alle semplificazioni, al credere che tutto possa essere riposto nelle mani del più onesto e competente esperto. I filosofi dovrebbero parlare di più in questi giorni e, salvo poche voci, li vedo balbettare sulla debolezza e fragilità umana come se avessimo avuto bisogno del Coronavirus per scoprirlo e ricordarcelo. Siamo immersi da anni in una crisi ecologica e planetaria che richiede nuove risorse di pensiero per affrontarla.
7.- Per mettere a punto la sua “ontologia relazionale”, oltre a Whitead, Cimatti ricorre al pensiero di Henry Bergson per il concetto di “evento” (o “durata”) e alla fisica per il concetto di “campo”.
Il mondo è caratterizzato, come si diceva sopra, dalla continuità dei processi, dal suo flusso ininterrotto e stratificato, dalla sua “evoluzione creatrice”. La “durata” è una porzione qualunque di questa continuità. L’”evento”, altro nome della durata, è il semplice «fatto che qualcosa avviene». Per intenderci ciò che sta accadendo è un evento (abbastanza traumatico e tragico), di durata non ancora ben definibile, ma è soltanto una porzione di questa continuità del mondo-natura. I poeti vorrebbero che la primavera partecipasse al nostro dolore e, magari, magnolie, forsizie, margherite ed occhi della madonna si mettessero a piangere con noi i nostri morti, ma nulla da fare “il mondo continua” e quasi ci fa rabbia questa indifferenza ai nostri drammi. Per scrivere versi simili, però, i poeti devono spostare gli sguardi dalle file delle bare, viste in televisione, o degli scafandri di medici e infermieri impegnati a fronteggiare la minaccia, al prato o al parchetto intravisto dalla finestra. Sguardi richiamati dalla magnolia appunto che ci domanda ammirazione o dal cespuglio di forsizie che col suo giallo solare vorrebbe illuminare i nostri occhi. Eventi che accadono, relazioni, durate più o meno lunghe o brevi nel flusso stratificato del mondo.
Scrive Cimatti:
«Un’ontologia basata sull’”evento” è un’ontologia che fin dall’inizio mi scaraventa dentro il mondo, cosa fra cose, vita fra altre infinite possibilità di vita, senza gerarchie né punti di vista privilegiati. […] Il mondo, come un movimento infinitamente stratificato, è sempre e solo lo stesso mondo, sia quello “vivente” che quello inorganico, differenze che valgono solo per una certa scala di grandezza, ma che svaniscono se si prendono in considerazione relazioni diverse, su scali più grandi o più piccole. In un mondo di questo tipo il posto dell’umano è un posto come qualunque altro.» (pag.36)
Un mondo così è caratterizzato dalla relazione e dalla connettività. “Separazione”, “atomo”, “individuo” sono concetti astratti, nel senso che sono il risultato di processi di astrazione della nostra mente. Processi che ci caratterizzano, che producono riduzioni di complessità, semplicità, individuazione di fattori, variabili più o meno dipendenti; ma che non ci aiutano a capire il mondo.
8.- “Campo” è il concetto fisico equivalente a quello biologico di “evento”. Occorre pensare al “campo” in senso letterale: uno spazio di terreno pieno di vita con erbe, fiori, alberi, uccelli, insetti. Il campo riceve luce e calore dal sole, la pioggia lo innaffia, gli organismi viventi gli forniscono il concime. «Il campo, in questo senso elementare, è vivo, vivo della vita di chi ci vive, che a sua volta vive della vita del campo. Il campo, appunto, non è una cosa, nel senso di una entità isolata, e descrivibile come entità autosufficiente» (pag. 39)
Secondo il fisico Carlo Rovelli, citato da Cimatti, il “campo” in fisica non è molto diverso da quello che coltiva un contadino: è «una gigantesca ragnatela invisibile» (pag. 39). Il mondo è questa ragnatela, questo evento che evolve, questa trama spazio-temporale in cui le entità (viventi, non viventi, viventi-non viventi, cose, energia, ecc.), che noi proviamo a pensare separate, si mischiano e confondono. Noi siamo in questa ragnatela. Quindi non il mondo fuori di noi e noi, romanticamente, su una vetta alpina abissale ad osservarlo. Noi siamo immersi nel mondo. Tessiamo relazioni, lavoriamo, vibriamo, camminiamo, amiamo, moriamo. Siamo parte di mondo. Anche un sasso vibra, se lo guardiamo in dettaglio con lo sguardo di uno studioso di meccanica quantistica.
Ecco cosa scrive Rovelli, citato sempre da Cimatti:
«Un sasso è un vibrare di quanti che mantiene la sua struttura per un po’, come un’onda marina mantiene un’identità prima di sciogliersi di nuovo nel mare. Che cos’è un’onda, che cammina sull’acqua senza trasportare con sé nulla se non la propria storia? Un’onda non è un oggetto, nel senso che non è formata da materia che permane. E anche gli atomi del nostro corpo fluiscono via da noi. Noi, come le onde e come tutti gli oggetti, siamo un fluire di eventi, siamo processi che per un breve tempo sono monotoni…»
Come si fa ad ingaggiare guerre in nome di “identità” (le nostre) che hanno durate un po’ più lunghe di quelle delle onde?…Come si fa a pensare che qualcuno (singolo o popolo che sia) possa essere il “signore della Terra”?…Per quel breve tempo in cui siamo “monotoni” (anche in senso musicale) perché continuare con la monotonia delle guerre, della fame, delle disuguaglianze, delle ingiustizie?…Occorre un pensiero all’altezza del mondo, che sia capace di prendersi cura del mondo, custodirlo e conservarlo. Un “mondanesimo” al posto di un umanesimo vecchio o nuovo. Perché, non dimentichiamolo, siamo una piccola parte del mondo.
“8 Aprile 2020
Ci sono al mondo più tipi di filosofi. I primi sono quelli che indagano e scoprono cose nuove e producono idee nuove; i secondi sono quelli che fanno la storia di ciò che hanno detto i primi, che ne espongono e commentano le dottrine; i terzi sono quelli che ne divulgano le dottrine rimescolandole e narrandole con nomi nuovi; non producono nuovi risultati ma nuovi modi di raccontare i risultati già noti. Spesso questi terzi si confondono con i primi, o addirittura il lettore non esperto crede che siano gli unici primi o almeno i più aggiornati e validi.
Franco Cimatti (Roma, 20 settembre 1959) si è occupato di filosofia del linguaggio e di altro, insegna Filosofia del Linguaggio all’Università della Calabria ed è anche conduttore radiofonico di programmi culturali. Ha scritto oltre venti libri quasi tutti sul linguaggio e sulla comunicazione (umana e animale), sul rapporto fra linguaggio e sentimenti ecc.
A mio parere è più un divulgatore e un ri-narratore di cose già conosciute che un teorico che si sforza di spostare il confine della conoscenza un po’ più avanti.
Non è privo di interesse, ma, come fanno molti che lavorano sulla riorganizzazione di ciò che si conosce già piuttosto che su ciò che non si conosce, tende ad aumentare l’interesse di ciò che dice con invenzioni linguistiche, espedienti narrativi (anche di tipo giornalistico) e la contrapposizione fra modelli epistemologici che invece non sono in alternativa ma complementari.
I temi che Salzarulo riassume sono da sempre all’attenzione dei filosofi e sono stati sviscerati a fondo in molti modi e raccontati in molte forme. La complessità del reale e ciò che sia il reale sfugge alla nostra conoscenza, che si occupa solo di ciò che il reale rivela nelle sue relazioni fenomeniche. La nostra conoscenza non è uno specchio della realtà, ma un’interpretazione della realtà e tutta costruita con l’unico strumento che noi abbiamo: la coscienza. Che si suddivide in coscienza di sé e in coscienza delle cose ad essa esterna, ma che diventano ad essa interna con l’atto del conoscerle. Le cose sono l’oggetto del soggetto, ma non separate dal soggetto che le considera.
Mi sono occupato di questo, in relazione alla domanda «Che cos’è la storia?» e alla distinzione fra storia e storiografia in un libro del 1990, e qualche aspetto del discorso si può applicare anche alla distinzione fra realtà e scienza della realtà, fra natura e scienze della natura (argomento a lungo dibattuto fra Ottocento e Novecento).
Dunque, noi abbiamo un punto di partenza, che possiamo indicare come “livello A”. Questa è la realtà “in sé”, qualunque cosa voglia dire; è il “noumeno” kantiano (o, se si vuole, anche platonico, visto che è Platone che ha coniato il termine). È il fondo inconoscibile direttamente, da ricostruire con il ragionamento. È ciò che sta alla base sia della scienza sia della metafisica.
Poi c’è il “livello B” che è l’insieme di ciò che di A si rivela a noi attraverso i fenomeni. E dicendo “a noi” intendo proprio a noi, perché ad altri, ad esempio alle “cose”, ai vegetali e agli animali si rivela in tanti modi diversi.
Poi c’è il “livello C”, che è l’insieme di ciò che di B conosciamo realmente e di come ce lo rappresentiamo e raccontiamo. La “scienza” fa parte del livello C e sta in un rapporto particolare con B, diverso dal rapporto particolare fra la storia e B, fra la poesia e B ecc.
La conoscenza scientifica può essere perseguita, organizzata, raccontata in modi diversi, secondo diversi modelli epistemologici, alcuni in alternativa, altri complementari. Ma in generale si possono definire le scienze forti (ad esempio la fisica) come corpi di leggi, perché non sono interessate alle “cose” nella loro individualità ma nel loro funzionare costante e ripetitivo. Le “leggi” spiegano e predicono. Spiegano perché l’acqua, in determinate condizioni, bolle a cento gradi, e prevedono che, a condizioni inalterate, continuerà a bollire a cento gradi.
La scienza è sempre, a suo modo, riduzionistica, perché tende a ridurre il complesso al semplice. Ma ne è ben consapevole. Il “riduzionismo” scientifico è una necessità per arrivare a determinate conoscenze, non è un merito o demerito metafisico. Diventa un demerito se lo si trasforma in ideologia, cioè se da strumento diventa teoria generale.
Man mano che le “scienze” sono meno forti, e dalla fisica si passa alla biologia e poi alle scienze sociali e infine alle scienze umane, il “riduzionismo” perde via via il suo significato e la sua funzione e la complessità si impone, come si impone il fatto che diventa sempre più difficile e a un certo punto impossibile definire un corpo di leggi che giustificano la scienza come tale. Dalla spiegazione per mezzo di leggi si passa allora al racconto, alla narrazione e alla spiegazione per mezzo dell’interpretazione intuitiva e analogica, che esalta le relazioni fra i “fatti” più che i fatti stessi (la logica matematica è sostituita da una logica che è un mero controllo delle modalità narrative e della loro coerenza; si scivola dalla logica della sperimentazione verificabile e falsificabile alla dialettica della discussione basata sulle opinioni non verificabili e non falsificabili).
Il racconto di Primo Levi utilizza leggi fisiche, ma resta una narrazione con una dimensione storica, cioè con uno svolgimento nel tempo. Il tempo è una variabile che interessa alle scienze forti solo quando rientra come componente essenziale, come parte del fenomeno, nell’esperimento. Quando nella formulazione della legge la variabile tempo non compare, vuol dire che non interessa nello studio di quel fenomeno particolare.
Ma i fenomeni che sono oggetto delle scienze, e persino quelli della matematica, si possono anche narrare assumendo la dimensione temporale come parte essenziale del proprio punto di vista. In sostanza, anche “2+2=4” ha una sua storia, che interessa lo storico, ma ha anche una dimensione temporale, perché per quanto rapida sia la mente umana, o un calcolatore, occorre sempre una quantità di tempo per pensare che “2+2=4” e se noi ripercorriamo quel tempo in ognuna delle sue fasi, con sufficiente dettaglio, anche microdettaglio, abbiamo la spiegazione del perché “2+2=4” e insieme la narrazione dei processi mentali e delle sue componenti psicologiche e logiche che ci permettono di dire che “2+2=4”. E applicando ciò a un calcolatore, ne ricaveremmo l’ingegneristica hardware e la logica dell’algoritmo software che ci danno quell’operazione.
A questo punto, ogni riduzionismo scompare e riappare, anche nelle operazioni più semplici, sia la complessità che le produce sia la complessità che sta alla base dell’attività umana che produce quella conoscenza. E forse non basterebbe un libro intero per spiegare perché “2+2=4”, cioè per spiegare la psicologia e l’aritmetica che ci permettono di formulare una simile affermazione, le basi “realistiche” e “logiche” di quella psicologia e aritmetica, l’epistemologia e l’ontologia di esse, e altro ancora, fra cui il modo come noi le apprendiamo per via culturale e per via “istintuale”, e il modo con cui usiamo ciò che sappiamo per abitudine inconsapevole o consapevole a diversi gradi di consapevolezza.
Una cosa è una cosa, ma è anche un insieme di cose. Un atomo è una cosa, ma è anche un insieme di particelle che sono cose a loro volta. Una cosa è la molecola formata da più atomi e un martello o un’automobile formati da miliardi di atomi, ma anche da parti definite come il manico, la penna (di un tipo di martello), la testa; come motore, ruote, carrozzeria ecc. ecc.
Una cosa è solo una cosa quando la si considera fuori dalla specificità che gli dà il nome. Quindi una cosa è una cosa se non ha il nome, o se dimentichiamo il nome, o se la prendiamo senza interessarci del nome. Una cosa è un oggetto generico. E fin dalla prima elementare insegnano (o almeno insegnavano ai miei tempi) di non usare il termine cosa ma di sostituirlo con il nome appropriato. Il nome “cosa” rimane alle cose senza nome e alle cose che pur avendo un nome sono viste non sotto quel nome ma sotto l’aspetto generico.
Cimatti scrive: «Quella che Levi ci sta implicitamente proponendo è una nuova ontologia, allo stesso tempo scientifica e mistica, non più basata sulla distinzione fra vita e non vita. In questa ontologia, centrata sulla cosa, prima di tutte le “nostre” distinzioni, ci sono solo possibilità di combinazioni».
In realtà non si tratta di “nuova ontologia” ma di una fra le tante ontologie possibili e praticate nelle diverse discipline umane. A me pare errato ritenere che si abbia un’unica ontologia, e che dunque le diverse ontologie siano in alternativa e in contrasto. Sono semplicemente complementari.
La stessa persona, se scrive una poesia o un romanzo o un trattato di fisica, adotta di volta in volta ontologie diverse correlate fra loro.
E mi pare che una «nuova “filosofia del reale”, una nuova ontologia centrata su concetti come “relazioni”, “eventi”, “campo”. […] confrontandosi, innanzitutto, con gli esponenti del “realismo speculativo”», non sia affatto nuova. Forse i filosofi del “realismo speculativo” non conoscono, o negano, i concetti di “relazione”, di “evento”, di “campo”? Certamente no. Ma questi concetti non sempre servono o sono utili, ma dipende dal tipo di studio che si vuole fare, dal tipo di conoscenza a cui si vuole arrivare, da ciò che si prende come oggetto di ricerca.
Mi pare che Cimatti scorra velocemente dall’ontologia sottesa a un’opera letteraria a quella sottesa a uno specifico lavoro scientifico, come se l’ontologia stessa non fosse una costruzione umana e una variabile che rientra nel modo di pensare e di comportarsi e come se, lui e i filosofi speculativi, i realisti e gli antirealisti, come noi tutti, non usassimo più ontologie nel corso della giornata.
A meno che, per ontologia, non si intenda qualcosa che sta sullo sfondo, prima di ogni altra cosa, qualcosa che riguarda la metafisica e i principi primi di tutto il resto. Qualcosa che definisce l’essere in quanto tale, una volta per tutte, e ne fa un dogma.
Ma questo non appartiene più alla filosofia moderna.
In conclusione, mi pare interessante l’applicazione della filosofia all’interpretazione letteraria (nell’esempio, al racconto di Levi); e l’esposizione che Salzarulo fa del libro di Cimatti. Ma non ci trovo novità filosofiche.
Caro Aguzzi, ti ringrazio per il commento. Ci sono diversi pensieri su cui sono d’accordo con te. Mi concentro, allora, solo su quelli che mi suscitano maggiori perplessità.
Scrivi che ci sono al mondo tre tipi di filosofi: A) quelli che «scoprono cose nuove e producono idee nuove»; B) «quelli che fanno la storia di ciò che hanno detto i primi»; C) quelli che producono «nuovi modi di raccontare i risultati già noti». Sei generoso. Per Whitehead il filosofo è uno solo: Platone. E «tutta la storia della filosofia non è che una nota a piè di pagina all’opera di Platone». Non so se a Cimatti interessi sapere che Aguzzi lo collochi decisamente in C., ma immagino che, avendo letto Whitehead, conosca questa sua massima e forse non si farà troppe illusioni sul suo contributo alla storia della filosofia. Sto scherzando, naturalmente. Cimatti ha scritto un libro, secondo me, molto interessante, che merita di essere letto.
Ciò detto, non condivido né il tuo pensiero, né quello del platonico Whitehead. Su questo punto io sono d’accordo con il Gramsci dei Quaderni: tutti gli uomini (e le donne, ovviamente) sono «filosofi». Tra quelli come me e quelli come Cimatti o Whitehead o Platone non c’è differenza “qualitativa”, ma solo “quantitativa” (nel senso di una maggiore o minore “omogeneità”, “coerenza”, “logicità”). Il filosofo professionale è un particolare tipo di specialista che, a differenza di altri specialisti, si avvicina di più agli altri uomini perché pensare è proprio dell’uomo. Ma preferisco citare Gramsci:
«Il filosofo professionale o tecnico non solo “pensa” con maggior rigore logico, con maggiore coerenza, con maggiore spirito di sistema degli altri uomini, ma conosce tutta la storia del pensiero, cioè sa rendersi ragione dello sviluppo che il pensiero ha avuto fino a lui ed è in grado di riprendere i problemi dal punto in cui essi si trovano dopo aver subito il massimo di tentativo di soluzione ecc. Hanno nel campo del pensiero la stessa funzione che nei diversi campi scientifici hanno gli specialisti. Tuttavia c’è una differenza tra il filosofo specialista e gli altri specialisti: che il filosofo specialista si avvicina di più agli altri uomini di ciò che avvenga per gli altri specialisti. L’avere fatto del filosofo specialista una figura simile, nella scienza, agli altri specialisti, è appunto ciò che ha determinato la caricatura del filosofo. Infatti si può immaginare un entomologo specialista, senza che tutti gli altri uomini siano “entomologhi” empirici, uno specialista della trigonometria, senza che la maggior parte degli altri uomini si occupino di trigonometria ecc. (si possono trovare scienze raffinatissime, specializzatissime, necessarie, ma non perciò “comuni”), ma non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è proprio dell’uomo come tale (a meno che non sia patologicamente idiota).»
Quanto a me, come “lettore non esperto” (infatti, non sono e non sono stato un prof. di filosofia in nessun grado scolastico), però come lettore che pensa, ho trovato interessanti i problemi sollevati e ho ritenuto utile condividere questa mia esperienza di lettura.
I problemi, che Cimatti riprende dal punto in cui essi si trovano, tanto per fare degli esempi, sono:
1) Cosa s’intende per “vita”? Soltanto ciò che noi umani abbiamo deciso che sia oppure possiamo allargare il concetto e pensare ai “modi esistenza”?…
2) Siccome le cose sono un po’ il nostro mondo, come ci rapportiamo ad esse?…
3) Noi pensiamo che esiste “La Natura”, al singolare, come ciò che si contrappone al nostro sguardo. Ma questa Natura così pensata e separata da noi è soltanto un’entità linguistica. Tra l’altro noi siamo Natura. Quindi, quale concetto abbiamo della Natura?…
4) C’è chi crede che teoria della conoscenza (gnoseologia) e dottrina dell’essere (ontologia) siano indipendenti e separati. Hanno ragione?…Cimatti sostiene di no. Io sono d’accordo con Cimatti.
5) Quale ruolo svolge il linguaggio nella formulazione delle proprie gnoseologie ed ontologie?
6) Il rapporto tra la filosofia e la scienza. Non sono per la “dittatura dell’ignoranza”, ma non sono neanche per lo scientismo. Che cos’è la filosofia e che cos’è la scienza…Sono domande aperte da qualche millennio. Ciò non toglie che lettori esperti o non esperti tornino a porsele.
6) Nell’umanesimo il ruolo dell’uomo è centrale. È il caso di ridiscuterlo? Di farsi qualche domanda?…
È probabile che per uno specialista di filosofia questi problemi siano risolti. A me non pare. Tu, in fondo, mi sembri propugnatore di una sorta di relativismo gnoseologico e ontologico. Credi che tutti la pensino così?…Proprio in questi giorni sto leggendo un libro di Rocco Ronchi («Il canone minore. Verso una filosofia della natura») che dissente profondamente da quest’atteggiamento.
Insomma, i problemi mi sembrano più che mai aperti.
Caro Salzarulo, concordo senza fatica con l’affermazione: «Insomma, i problemi mi sembrano più che mai aperti» e anche col fatto che non tutti siano d’accordo con me, come gli stessi non sono d’accordo con tanti altri; e anche con le osservazioni piuttosto scontate, ma non per questo inutili, che tutti gli uomini sono in qualche modo filosofi.
Tutto ciò caratterizza la filosofia proprio come una disciplina che non è riuscita a specializzarsi al punto da arrivare alla formulazione di dottrine univoche, nemmeno a livello di un nucleo di base. Tutti gli argomenti che la storia della filosofia ha trattato nel passato e tratta oggi pongono domande a cui non sono mai state date risposte definitive e condivise da tutti.
Detto questo, però, rimane una notevole differenze fra il “filosofo di vocazione”, fra quello di “mestiere”, quello “occasionale” e quello generico che, vivendo, una sua filosofia deve averla per forza, perché non si vive senza avere un’idea del mondo, della vita stessa, dei rapporti umani e così via. E questa è già filosofia.
Il termine “filosofia”, come tanti termini illustri e antichi, ha dilatato la sua area semantica in maniera eccezionale.
La mia divisione dei filosofi in tre tipi è poco più di una battuta, e questo l’hai sicuramente capito; inoltre è riservata ai professionisti, in particolare, per non dire unicamente, agli scrittori di libri di filosofia.
Una mia divisione più pertinente e che mira al cuore stesso del fare filosofia potrebbe essere questa: 1) i filosofi che praticano la filosofia come scienza, e che escludono dalla filosofia ciò che non è trattabile con metodo scientifico, e 2) quelli che la praticano come chiacchiera, magari chiacchiera alta, interessante, illuminante, necessaria ecc., ma sostanzialmente chiacchiera perché fondata sull’opinione, sull’intuizione, sull’analogia, sulle coincidenze, sull’interpretazione della propria esperienza, della storia e così via. Si tratta di un immenso lavoro che non ha però mai un fondamento sicuro, mai qualcosa che si possa paragonare a una legge scientifica; che non porta mai a risposte definitive.
La filosofia scientifica porta a risposte definitive e univoche, ma solo in ambiti molto ristretti e quasi solo per strutture formali o formalizzabili. Questa filosofia manca quasi del tutto, o del tutto addirittura, ai filosofi generici. In questo senso non è vero che siamo tutti filosofi, anzi, i filosofi sono solo pochi specialisti che si interessano a problemi che normalmente interessano a poche persone.
La filosofia della chiacchiera è invece a portata di tutti, ovviamente a diversi livelli di chiacchiera. Hegel e Sartre sanno chiacchierare in modo ricco, alto, intelligente, con enorme cultura, e sanno produrre libri non conclusivi ma di grande interesse. Altri, invece, sanno chiacchierare solo a livello delle battute da bar. Il cui succo finale potrebbe anche coincidere con il pensiero di Hegel o di Sarte (per fare due nomi fra le centinaia e centinaia possibili), ma mentre quelle battute non ci arricchiscono di niente, Hegel e Sarte, anche quando li leggiamo senza esserne d’accordo, ci arricchiscono molto. Direi, anzi, che ci arricchisce di più la ricca trama del loro chiacchierare che le tesi a cui arrivano. In un certo senso tutta la filosofia della chiacchiera costruisce tipi particolari di romanzi nei quali la scrittura è più importante della trama e delle conclusioni.
La differenza è quella stessa che c’è fra logica e dialettica. La logica convince necessariamente, e non è possibile dire, senza mentire, che 2+2=5, una volta assunti i significati per cui quel giudizio è vero o falso, cioè avere definito il valore dei numeri, del sistema decimale, del procedimento della somma e quindi del segno + e del concetto di uguaglianza e quindi del segno =. Qui, alla domanda: è vero che 2+2=4? L’interlocutore deve obbligatoriamente rispondere “Sì, è vero”. La verità come necessità era, in qualche modo, l’utopia filosofica di Parmenide, di Socrate, di Platone, non più di Aristotele che distingue nettamente la logica dalla dialettica.
Nel caso della filosofia della chiacchiera, a tutte le domande che pone si può rispondere in modi diversi perché non c’è un modo unico di rispondere necessitato dalla forza della logica. Naturalmente, la filosofia della chiacchiera può inglobare al suo interno dei pezzi di scienza, ma questi non sono la sua ossatura ma soltanto materiali momentanei a sostegno di argomentazioni basate sull’opinione.
Ad esempio, tu elenchi sette problemi che ritieni aperti, ed è vero che sono aperti. Tuttavia al filosofo che vuole operare in modo scientifico, almeno nel senso che al termine danno gli accademici, che non è lo stesso che io abbino alla filosofia nell’espressione “filosofia come scienza”, questo appare del tutto ovvio e non è questo che interessa. Interessa invece vedere che cosa hanno detto gli altri, dove sono arrivati con le loro risposte e partire da qui per fare lo sforzo di aggiungere qualcosa di nuovo, ma non nuovo cambiando nome al vecchio, ma sostanzialmente nuovo. Interessa dare un contributo nuovo che si aggiunga a quelli già raggiunti e che ponga problemi e domande nuove a chi vorrà aggiungersi in futuro.
In questo senso accademico il lavoro scientifico si può fare anche all’interno della filosofia della chiacchiera e certamente Hegel e Sartre lo hanno fatto, hanno aggiunto cose nuove alla filosofia precedente e hanno posto le basi per ulteriori sviluppi. Che poi nemmeno questi sviluppi siano arrivati a risposte certe e condivise da tutti (condivise per forza, con la forza della logica, e non per convinzione personale basata sulla forza della retorica o su qualsiasi altra cose che non presenta necessità logica) è un dato di fatto e in quanto a certezze e fondamenti si può dire che oggi siamo più o meno allo stesso livello dei filosofi antichi.
Quindi Whitehead aveva ragione, dal suo punto i vista, a dire che «tutta la storia della filosofia non è che una nota a piè di pagina all’opera di Platone», visto che lui era un matematico, un logico, un fisico, che si occupava anche dei campi della “filosofia della chiacchiera” su basi platoniche aggiornate e a suo modo integrate con idee di Leibniz e di Bergson. Severino avrebbe potuto dire che tutta la filosofia è una nota a piè di pagina, a favore o contro, la filosofia di Parmenide, che precede Platone e che già pone tutti i temi poi ripresi e sviluppati da Platone.
E tanti grandi filosofi hanno lavorato, al contrario, senza conoscere la storia della filosofia, ma limitandosi a confrontarsi con gli autori più importanti della generazione precedente e della loro generazione, perché tanto questi riassumevano tutto quanto era stato scritto prima. Ma si tratta sempre di filosofi teoretici e speculativi, non di storici della filosofia e meno ancora di divulgatori.
La domanda allora è: Cimatti dà un nuovo contributo che arricchisce ciò che lui eredita dai filosofi precedenti o si limita a fare il comunicatore dell’eredità ricevuta, o meglio, di qualche aspetto di questa eredità?
Magari lo fa anche bene e utilmente, magari i suoi libri sono interessanti e utili da leggere. Non è questo il punto.
Il punto è: dice cose nuove o no? Ecco, a me pare che non ne dica, di cose nuove. Se a te pare di sì, va bene anche per me e ciò conferma l’utilità dei libri di Cimatti, almeno a livello divulgativo.
Prendiamo il primo dei sette punti aperti che tu elenchi:
«1) Cosa s’intende per “vita”? Soltanto ciò che noi umani abbiamo deciso che sia oppure possiamo allargare il concetto e pensare ai “modi esistenza”?».
— Bene, il problema può essere affrontato da tanti punti di partenza diversi. Se parti dalla biologia il concetto di vita vegetale e animale è chiarissimo e diventa problematico solo a certe estremità, ad esempio per elementi organici unicellulari, come possono essere gli stessi virus, per i quali è incerta la qualifica di vita perché per tanti aspetti sono piuttosto elementi ancora più primitivi della cellula organizzata in vita, sono forme di pre-vita, di quasi-vita. Infatti non sono semplici molecole organiche dotate solo di proprietà chimiche. Un altro confine estremo è quello degli embrioni nelle loro prime ore: sono già vita di per sé o sono ancora solo parte della vita della madre? Le risposte cercate dalla biologia e dalla bioetica non concordano.
— Se parti da un punto di vista religioso allora la distinzione fra vita e non vita è di nuovo abbastanza chiara. Le persone vivono, gli animali vivono, le piante vivono, le pietre no. Ma se la religione è una forma di animismo, allora anche le pietre possono essere vive e avere una loro realtà spirituale che interagisce con tutto il resto.
— Se parti da un punto di vista letterario (o anche filosofico o religioso di religione primitiva) puoi allora vedere vivere tutte le cose, anche un sasso e un granello di sabbia, perché tutto ha una sua vicenda che si può raccontare, ha una sua esistenza nel tempo, subisce mutazioni, può persino nascere e morire nel senso che ha un tempo per la sua formazione e un altro per la sua disgregazione, un suo sorgere e un suo scomparire.
— Restringere o allargare il concetto non pone in campo posizioni contrastanti, ma solo diverse e complementari. Io posso, mentre penso a che effetto può fare un determinato farmaco, restringere il campo della vita alla vita biologica; ma se vado col ricordo all’infanzia e ne racconto i sentimenti e le emozioni, ecco che anche un giocattolo, un mobile, un angolo di stanza, un libro diventano cose vive, hanno un loro modo di esistere, sono in relazione con me e con ciò che ci circonda.
— Quindi lasciare il concetto di vita per sostituirlo con quello di “modi di esistenza” non mi è di nessuna utilità se non continuerò ad avere presenti le distinzioni necessarie e il contesto mentale in cui io parlo di vita o di modo di esistenza. Ho solo fatto un’operazione linguistica che rischia non di allargare la mia capacità di analisi, ma di confonderla. E poi, i modi di esistenza sono tanti, tantissimi, e sarà necessario distinguerli e chiamarli con nomi diversi. Come l’umanità ha sempre fatto. Per noi la neve è neve e se vogliamo distinguere vari tipi di neve dobbiamo usare degli attributi: neve fresca, neve vecchia, neve soffice, neve dura, neve acquosa, neve ghiacciata e così via. Gli Inuit, i cui modi di esistenza dipendono molto di più dal conoscere bene la neve, hanno circa 25 nomi diversi per distinguerne le varie forme. Ma al di là della diversità linguistica che rispecchia una diversa analisi della realtà e un diverso modo di pensare a questa realtà, la differenza è solo nominale, linguistica, anche psicologica e ideologica, ma non chimica e fisica. La realtà dura rimane la stessa, se analizzata dal punto i vista di queste due “scienze dure”.
— Infine, l’affermazione n. 1) contiene un’evidente contraddizione. Infatti: «1) Cosa s’intende per “vita”? Soltanto ciò che noi umani abbiamo deciso che sia oppure possiamo allargare il concetto e pensare ai “modi esistenza”?». Qualunque sia la definizione, saremmo sempre «noi umani [che] abbiamo deciso». Parlare di vita o di modi di esistenza è sempre una questione nostra, di noi umani. Non è che il concetto di “modi di esistenza” allarga di per sé il numero delle cose vive, come se fossero queste, per loro decisione autonomo, a imporci l’allargamento. Si tratta sempre e comunque di un rapporto fra il livello A, quello B e quello C e il cambiamento avviene solo in C e potrebbe essere giustificato solo se sarà, per noi, più ricco e conveniente da un punto di vista del rapporto fra C e B. Altrimenti l’operazione linguistica è solo di tipo retorico, è solo un espediente per farsi leggere meglio e magari per conquistarsi il nome di creativo con poca fatica.
— Concludendo: mi va bene che Cimatti scriva libri e che ci siano dei cultori di filosofia che li leggano e li trovino interessanti. Ciò contribuisce all’ampliamento della cultura filosofica, che è una buona cosa. Mi limito solo a dire che i libri di Cimatti non sono quelli di un filosofo speculativo che giunge a nuovi risultati destinati a restare nella storia della filosofia.
***
Questo intervento è già troppo lungo e non posso esaminare uno per uno tutti i problemi aperti elencati. Ma su alcune frasi della conclusione devo soffermarmi.
Tu scrivi: «È probabile che per uno specialista di filosofia questi problemi siano risolti. A me non pare». No, il punto è che i problemi non sono risolti ma che Cimatti non aiuta a risolverli. Casomai aiuta a chiarirli a livello divulgativo a chi non li ha già chiariti con lo studio della filosofia.
Tu scrivi: «Tu, in fondo, mi sembri propugnatore di una sorta di relativismo gnoseologico e ontologico». No, non sono questo tipo di relativista. Io dico che ci sono strade diverse e complementari, non dico che la stessa cosa, nello stesso momento e nella stessa circostanza, può essere nera per A e bianca per B e avere entrambi ragione. Il relativismo è una forma di scetticismo gnoseologico (non possiamo conoscere questo o quello) o una forma di scetticismo della realtà (questa cosa è diversa a secondo di chi la guarda, diversa nella sua sostanza, diversa in sé) o una forma di scetticismo etico (non esiste il bene e il male, sono gli uomini che dicono ciò che è bene e ciò che è male e la stessa cosa per gli uni è bene per gli altri è male). Il relativismo non ammette la possibilità di conoscere la verità, in tutti o in qualcuno dei campi di indagine, e ne fa conseguire la necessità di una convivenza fra diverse presunte verità.
Io non credo che si possa raggiungere una verità assoluta, ma tante verità parziali sì e qualcuna assoluta in campi specifici. Ma credo anche nella necessità di assumere come più probabili alcune verità rispetto ad altre ogni qualvolta la coesistenza di due verità crea conflitti e incompatibilità. Insomma, non credo, ad esempio sul problema dell’infibulazione, che dobbiamo attenerci a un relativismo culturale per cui sarebbe legittimo, per i gruppi etnici che la praticano, lasciare che la pratichino anche in Italia e magari negli ospedali italiani a spese del servizio sanitario nazionale, come alcuni hanno proposto anni fa. Credo che sia necessario imporre a tutti la legge italiana.
Questo esempio estremo si può estendere ad altre vere o presunte verità.
Insomma, pratico il dubbio ma anche la necessità della verità dove questa si può avere e la necessità di una verità più vera di altre dove la doppia verità creerebbe necessariamente conflitto e incompatibilità. Sono, dunque, un mezzo relativista, un pragmatico.
Caro Aguzzi, per rispondere puntualmente al tuo fluviale commento dovrei scrivere quasi un libro. Cioè, incrementare la “filosofia della chiacchiera” e, sarai d’accordo con me, non è proprio il caso. Tuttavia, non vorrei rinunciare ad esprimerti le mie perplessità sul modo in cui, ancora una volta, tagli con l’accetta i problemi su tre punti decisivi.
1.-Nel primo intervento avevi divisi i filosofi in tre tipi. Nel secondo hai riconosciuto che la tua era poco più di una battuta. Adesso, però, fai di peggio: proponi una tua «divisione più pertinente e che mira al cuore stesso del fare filosofia». Dio mio!, mi sono detto. Quale sia il “cuore stesso del fare filosofia” è uno di quei problemi rimasti aperti almeno dal VII secolo A.C. e, per quanto sia fiducioso dell’intelligenza dei miei simili, rimango un po’ perplesso di fronte a propositi siffatti…Comunque, vado avanti: «La divisione – scrivi – potrebbe essere questa: 1) i filosofi che praticano la filosofia come scienza, e che escludono dalla filosofia ciò che non è trattabile con metodo scientifico, e 2) quelli che la praticano come chiacchiera, magari chiacchiera alta, interessante, illuminante, necessaria ecc., ma sostanzialmente chiacchiera.»
Nel fare degli esempi, tra questi secondi, ci metti addirittura Hegel e Sartre. Poi, forse rendendoti conto dell’enormità delle tue affermazioni, attenui e spieghi che la “filosofia della chiacchiera” è «fondata sull’opinione, [opinione?!…La doxa?!…Ma i filosofi non si sforzano di abbandonare il terreno delle opinioni?…] sull’intuizione, sull’analogia, sulle coincidenze, sull’interpretazione della propria esperienza, della storia e così via.» Insomma, letteratura! Arricchente, sicuramente, ma letteratura. Infatti, ad un certo punto, scrivi: «In un certo senso tutta la filosofia della chiacchiera costruisce tipi particolari di romanzi nei quali la scrittura è più importante della trama e delle conclusioni.» Sarà. Ma non la penso assolutamente così. Che tra letteratura e filosofia vi siano punti di contatto e sconfinamenti è indubbio. Ridurre Hegel a un letterato o poco più è un modo di farlo rivoltare nella tomba.
2.- Dopo esserti rassicurato con questa distinzione, ribadisci che «la filosofia scientifica porta a risposte definitive e univoche», però, pensando magari ai filosofi che hai in testa, senza citarli, spieghi che tali risposte le ottengono «solo in ambiti molto ristretti e quasi solo per strutture formali o formalizzabili.» Immagino che ti riferisca ai filosofi analitici (Frege, Wittgenstein, Moore, ecc.). Comunque, questa tua distinzione la utilizzi per ripetere che tale filosofia scientifica «manca quasi del tutto, o del tutto addirittura, ai filosofi generici. In questo senso non è vero che siamo tutti filosofi, anzi, i filosofi sono solo pochi specialisti che si interessano a problemi che normalmente interessano a poche persone. La filosofia della chiacchiera è invece a portata di tutti, ovviamente a diversi livelli di chiacchiera. Hegel e Sartre sanno chiacchierare in modo ricco, alto, intelligente, con enorme cultura, e sanno produrre libri non conclusivi ma di grande interesse. Altri, invece, sanno chiacchierare solo a livello delle battute da bar.» Insomma, Gramsci ha torto e con Gramsci Salzarulo, perché i filosofi scientifici “sono solo pochi specialisti”.
Quattro obiezioni: A) Il concetto di “scienza” (episteme…nel senso di conoscenza certa e incontrovertibile) non può essere ridotto a quello che hanno in testa gli scienziati. Hegel, tanto per restare ad uno dei nomi che hai tirato in ballo, ha scritto una “Scienza della logica” e una “Enciclopedia delle scienze filosofiche”…Non pensava mica di fare “chiacchiere” Hegel!…Tanto meno Sartre. Come tu sai l’esperto per la critica della “chiacchiera” è Heidegger. B) Il rapporto filosofia – scienza. Se la filosofia si riduce a scienza, fa un cattivo servizio a sé stessa e alla scienza. A sé stessa, perché la filosofia, avendo a che fare col “pensare” e il “mestiere di pensare”, è, in un certo senso, “la fabbrica dei concetti”. La scienza, invece, è pensiero in atto, verificato, sperimentato, “falsificabile” (come direbbe il tuo, forse preferito, Popper). Certo anche uno scienziato pensa (“tutti gli uomini sono filosofi”!…), ma non è detto che pensi bene. Un amico recentemente mi ha consigliato un libro scritto da Gerald Schroeder, un fisico israeliano. Si intitola “Genesi e Big Bang”. Lo scienziato analizzerebbe il racconto biblico della creazione e dimostrerebbe che «può essere interpretato come un resoconto puntuale degli avvenimenti che, secondo la scienza, si sono verificati nel corso di miliardi di anni a partire dal Big Bang.» Insomma, non ci sarebbe «nessun antagonismo tra concezione scientifica circa l’origine dell’universo e la fede nella verità delle scritture.» Contento lui!… C) Matematica e Logica hanno dovuto affrontare all’inizio del ‘900 quella che viene chiama “crisi dei fondamenti”. 2+2=4 solo all’interno di certi assunti. Non esiste “la matematica” ma “le matematiche” così come non esiste “la logica” ma “le logiche”. Ignacio Matte Blanco in uno straordinario libro intitolato “L’inconscio come insieme infinito” ha dimostrato come il nostro pensiero (compreso quello matematico) sia sempre il frutto dell’intreccio di due logiche: quella tradizionale (aristotelica per intenderci) e quella simmetrica definita come “espressione logica del modo indivisibile dell’essere”. D) Se i filosofi si riducono a “pochi specialisti che si interessano a problemi che normalmente interessano a poche persone” fanno malissimo. Questa loro scelta, oltre che tradire la filosofia e la sua storia, rende irrilevante la loro attività.
3) «La domanda allora è: Cimatti dà un nuovo contributo che arricchisce ciò che lui eredita dai filosofi precedenti o si limita a fare il comunicatore dell’eredità ricevuta, o meglio, di qualche aspetto di questa eredità?
Magari lo fa anche bene e utilmente, magari i suoi libri sono interessanti e utili da leggere. Non è questo il punto.
Il punto è: dice cose nuove o no? Ecco, a me pare che non ne dica, di cose nuove. Se a te pare di sì, va bene anche per me e ciò conferma l’utilità dei libri di Cimatti, almeno a livello divulgativo».
Ho capito che Cimatti non ti va giù. Probabilmente lo conosci meglio di me ed hai degli elementi per valutare la sua proposta di ontologia relazionale (centrata su concetti, appunto, come “relazione”, “eventi”, “campo”) come qualcosa di già conosciuto, noto, non nuovo. Per quanto mi riguarda il mio discorso è molto semplice. Quello di Cimatti è un saggio che enuncia tesi a partire da altri autori. Con alcuni dissente per certi aspetti (“realisti speculativi”, Heidegger, ecc.), con altri consente per certi altri aspetti. Ad esempio, consente con Whitehead e la sua citazione tratta dal “concetto della natura”, consente con Deleuze quando usa il concetto di “modo d’esistenza”, con Bergson e il suo concetto di “durata”-“evento”, ecc.
È ovvio che quando Cimatti cita e condivide autori si comporta un po’ come il sottoscritto che cita Gramsci sul fatto che “tutti gli uomini sono filosofi” e ne condivide la tesi. Nel momento, in cui condivido, non sto dicendo nulla di nuovo rispetto a Gramsci. Ma è proprio così? In una citazione (di Gramsci) si dissimula un’affermazione (la mia) e in un’affermazione una citazione. Ma io sono nuovo, rispetto a Gramsci– nel senso letterale di corpo biologico – e la mia affermazione rinnova, attraverso il mio corpo-mente, un’eredità di pensiero.
Cosa c’è di nuovo nei manuali di matematica, di fisica, di chimica studiati dai nostri ragazzi? Nulla o quasi. E pensa, qui abbiamo a che fare con manuali di scienze la cui conoscenza, come tu sai, è per certi versi “cumulativa”. Ma cosa c’è di nuovo nelle opere di Aristotele, se non la nostra interpretazione a vari livelli di maestria?…Cosa c’è di nuovo nella lettura della Comedia dantesca, se non la nostra lettura?…Sarà capitato anche a te di leggere un libro in diversi periodi della vita e aver scoperto degli aspetti nuovi.
Sotto questo profilo, nuova è l’interpretazione che Cimatti fornisce delle tesi e dei concetti di alcuni autori. Nuova perché quelle tesi e quei concetti vengono filtrati attraverso la sua esperienza di filosofo del linguaggio…
Però, detto con estrema franchezza, questo discorso del nuovo in filosofia, non mi interessa più di tanto. Per me la “tradizione del nuovo” è un discorso tipico della modernità, una tradizione abbastanza antica, come tutte le tradizioni.
Mi interessa più il processo che avviene in un’esperienza di lettura, perché lo immagino come un sangue circolante nella società umana, una sangue che vivifica morti e vivi. Chi sarà mai capace di indicare quanti corpi-menti abbia nutrito il pensiero di Platone, di Aristotele, di Hegel, di Sartre, ecc. ecc. Penso che, a un certo punto, un pensiero diventi comune, indiscernibile e non si riesce più a rintracciarne l’origine.
Così, tanto per fare un esempio, quando la proposizione “tutti gli uomini sono filosofi” diventerà indiscernibile e non si saprà più se appartiene a Salzarulo o, con rispetto parlando, a Gramsci diventerà una “cosa in sé”, una “cosa che non è di nessuno perché è più vecchia di ogni pensiero che la sta pensando”. Diventerà, quindi, una sorta di bene comune, come la lingua, l’aria, l’acqua, la terra, ecc.
Alcuni mesi fa ho fatto un’esperienza sconvolgente. Ho letto il Gorgia di Platone. Mi sembrava scritta oggi. Nessuna, sottolineo nessuna, opera di critica culturale e intellettuale oggi esistente raggiunge il livello di quell’opera. Confesso che ero stato tentato dalla voglia di parafrasarla, riscriverla e metterne in circolazione i pensieri. Poi, non l’ho fatto. Sono stato catturato da altri desideri.
Insomma, cosa sia nuovo in filosofia non mi appare facile da definire.
Ciò detto, ti ringrazio per i tuoi commenti.
Caro Salzarulo, scrivi: «Ciò detto, ti ringrazio per i tuoi commenti». Ti ringrazio anch’io, per i tuoi articoli e interventi che mi hanno sollecitato a mettere per iscritto pensieri che coltivo mentalmente da decenni. La scrittura, anche se frettolosa e improvvisata come commento in un blog, obbliga sempre a un lavoro di chiarimento a se stessi ancora prima che agli altri. Non mi scuso invece per la lunghezza perché la sintesi crea sempre malintesi e sottintesi che poi alimentano la necessità di ulteriori interventi. Ci sono cose che hanno bisogno di spazio per essere dette in modo appropriato.
Divido però il mio nuovo commento in due puntate. Questa è la prima.
***
Io cito poco gli autori di cui pure mi avvalgo, e solo se necessario e fra virgolette, perché preferisco esporre il mio pensiero, quello che penso io, piuttosto che, come è d’uso fra gli accademici e fra o loro imitatori, fare lo slalom fra un nome e l’altro.
Sono d’accordo con Deleuze dove scrive, come nota negativa e di critica dura: «La storia della filosofia è sempre stata l’agente del potere nella filosofia, e anche nel pensiero. Essa ha giocato il ruolo repressivo: come potete credere di pensare senza aver letto Platone, Cartesio, Kant e Heidegger, e neanche il libro di questo o quell’autore su di loro?». Gli storici della filosofia e i divulgatore non possono fare a meno di leggere tutti i classici, i filosofi originali sì, possono farne a meno, proprio come i matematici e i fisici e i biologi possono fare a meno di studiare la storia della matematica, della fisica e della biologia. Gli basta conoscere a che punto sono arrivate le scienze di cui si occupano.
Naturalmente va bene leggere anche tutta la dimensione storica di una disciplina che si coltiva per passione o che si professa per professione, ma non è obbligatorio né necessario.
Quello che tu scrivi sull’attualità di Platone io lo condivido e ai miei studenti di liceo a volte proponevo proprio questo gioco: leggevo un brano di un filosofo del passato e chiedevo a quale periodo storico fosse attribuibile. Spesso attualizzavano le date di millenni o comunque di secoli. Ma questo è proprio tipico di un discorso non scientifico, di un discorso la cui attualità non sta in una definita scoperta che ha una data specifica, sia che quella scoperta si sia mantenuta vera e conservata nei manuali di oggi, sia che si sia dimostrata falsa e non conservata nei manuali di oggi. È tipico, insomma di un discorso che si basa sull’abilità nella sua costruzione e sull’attualità descrittiva di fatti, idee e concetti che non sono cumulabili e superabili nel tempo, ma che, come la letteratura in prosa e in versi, se è buona letteratura, conserva sempre la sua attualità.
Lo stesso esperimento ha risultati diversi con la matematica, perché ogni suo teorema è legato a un periodo storico e, se vero, si mantiene attuale solo perché vero e perché è stato progressivamente integrato in ciò che oggi è la matematica (o le matematiche al plurale, se vuoi, il che non cambia nulla).
Quindi, l’attualità di Platone e quella di Euclide hanno caratteristiche completamente diverse. Platone è attuale perché mi dice ancora qualcosa, come Omero, come Saffo, come Cicerone. Ma lo si può anche ignorare e la vita quotidiana delle persone in genere non cambia. Euclide, al contrario, è attuale perché con la sua aritmetica e la sua geometria io opero ogni giorno e non posso farne a meno. Se di Platone non leggo nulla, lo ignoro. Ma se non leggo nulla di Euclide non lo ignoro, perché è integrato, si è fatto corpo imprescindibile, nella nostra cultura fin dalle elementari.
Tu, nel tuo discorso, confondi il processo di apprendimento con quello di originalità nella scoperta scientifica. Certo che si legge Dante e che ogni lettore ci trova qualcosa di nuovo, ma di nuovo per chi? Per il lettore. Ma questo nuovo diventa interessante a livello culturale solo quando è nuovo per tutti. Tutto il tuo discorso su questo punto non fa che confermare la mia distinzione fra filosofia della chiacchiera e filosofia come scienza.
In quanto al nominalismo accademico, beh, c’è solo da ridere. Se Hegel ha scritto un grosso libro edito nel 1817 intitolato «Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio // Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse», vuol forse dire che si tratta davvero di un libro di scienza? No, le scienze di cui parla sono quelle che lui considera scienze, non sono le scienze degli scienziati.
A livello accademico nominalistico e disciplinare abbiamo anche le scienze umane, le scienze sociali, le scienze della religione, le scienze politiche e altre ancora. Ma sono scienze tutte allo stesso modo? Tutte dure come la Fisica? Suvvia!
La frase di Gramsci «che tutti gli uomini sono “filosofi”», il cui concetto risale all’antichità greca, è corretta se intesa in senso generico, come ho specificato nel mio primo commento, ma errata se intesa in senso stretto. Del resto Gramsci distingue fra il semplice individuo che in qualche modo è portatore di una filosofia e il filosofo specialista. Ma c’è di più. Paragona il filosofo specialista con un tecnico, con un ingegnere, e sebbene tutti gli uomini sappiano qualcosa di ingegneria e usino qualche concetto ingegneristico nella loro vita quotidiana, non si può certo dire che siano tutti ingegneri. Ma se si volesse generalizzare la frase di Gramsci si sarebbe costretti a dire che tutti gli uomini sono ingegneri, sono tecnici, sono medici (visto che tutti, a volte, si curano da se stessi) e così via. Il che vorrebbe dire che Gramsci è uno sciocco, o piuttosto dire che si sta strumentalizzando la frase di Gramsci ben oltre il significato che lui gli ha inteso dare.
Inoltre c’è un altro elemento da tener presente: se il paragone è con i tecnici e gli ingegneri e i manovali specializzati, ci manteniamo nell’ambito di chi, normalmente, salvo eccezioni, utilizza il sapere, non di chi, come lo scienziato in senso più proprio, fa ricerche per allargarne il campo e scoprire cose nuove.
La frase di Gramsci, presa alla lettera e fuori dal suo contesto, è poi errata quando usa categorie hegeliane (mutuate da Marx) e distingue differenze quantitative e differenze qualitative, con la quantitativa che diventa «quantità di elementi qualitativi».
Distinzioni nominalistiche il cui preciso senso sfugge. Fra me e il mio medico la differenza è solo quantitativa o anche qualitativa? E se fosse qualitativa, a che punto comincerebbe il qualitativo e cesserebbe il quantitativo? Ecco un guazzabuglio logico che solo gli scolastici della dialettica dogmatizzata potrebbero cercare di risolvere, con operazioni linguistiche che non dicono nulla di concreto.
Io ho consultato più volte libri di medicina e so qualcosa di medicina, mi curo da solo ogni qualvolta ho un disturbo che penso di poter curare con il mio sapere senza perdere tempo dal medico, ma questo non fa di me un medico, e tanto meno un ricercatore nel campo medico e meno ancora un ricercatore di successo che realizza nuove scoperte.
Così l’uomo comune può sapere qualcosa di filosofia ma non è certamente un filosofo e tanto meno un filosofo originale.
La frase di Gramsci porta alla conclusione a cui lui arriva, che non nega affatto la differenza fra l’uomo comune e il filosofo specialista: «Tuttavia c’è una differenza tra il filosofo specialista e gli altri specialisti: che il filosofo specialista si avvicina di più agli altri uomini di ciò che avvenga per gli altri specialisti».
Questo è il senso. Ma questo vuol proprio dire che la filosofia non è una scienza. È una disciplina che utilizza maggiormente il discorso comune (con tutto ciò che comporta in termini di descrizione, di sentimenti, di emozioni, di espedienti retorici, di concetti non formalizzati ecc.) perché non ha mai raggiunto il livello di formalizzazione proprio delle vere scienze.
E Gramsci lo sa. Infatti prosegue il suo discorso dicendo: «L’avere fatto del filosofo specialista una figura simile, nella scienza, agli altri specialisti, è appunto ciò che ha determinato la caricatura del filosofo. Infatti si può immaginare un entomologo specialista, senza che tutti gli altri uomini siano «entomologhi» empirici, uno specialista della trigonometria, senza che la maggior parte degli altri uomini si occupino di trigonometria ecc. (si possono trovare scienze raffinatissime, specializzatissime, necessarie, ma non perciò «comuni»), ma non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è proprio dell’uomo come tale (a meno che non sia patologicamente idiota)».
Quindi la filosofia non è una scienza, è un pensare «proprio dell’uomo come tale».
Questa è quella che ho chiamato filosofia della chiacchiera e non mi pare che Gramsci mi smentisca. A ogni modo, non ho bisogno di appoggiarmi all’autorità di nessuno, perché la mia affermazione si basa sul fatto che tremila anni di filosofia non hanno prodotto nessuna dottrina condivisa da tutti per necessità logica, mentre la scienza accumula dottrine condivise da tutti proprio perché verificate e organizzate in un corpo scientifico (ad esempio un manuale per studenti, una monografia specialistica) dove sono comprese solo quelle dottrine che sono ritenute verificate escludendo tutte quelle formulate nel corso dei secoli e poi cadute e dimenticate da tutti, salvo che dagli storici delle diverse discipline. Le dottrine di Ippocrate o di Galeno, ad esempio, sono molto interessanti dal punto di vista storico ma non fanno più parte da molto tempo del bagaglio scientifico di un medico moderno, salvo poche affermazioni piuttosto generiche.
In quanto a Hegel, ecco cosa di lui dice Hans Reichenbach, scienziato e filosofo della scienza: «Alcuni rilievi a proposito del pensiero hegeliano sono senz’altro opportuni, dato che esso può venir ritenuto l’estremo punto di arrivo – o dovremmo forse dire: la caricatura? – della speculazione idealistica. Hegel si stacca da Platone e da Kant in quanto non condivide la loro ammirazione per le scienze matematiche, senza raggiungere, però, nemmeno la loro profondità nel formulare i problemi. D’altra parte, egli ne ripete tutti gli errori, manifestandoli in maniera così ingenua, da far sì che il suo sistema possa venir studiato come modello di ciò che la filosofia non dovrebbe essere. Il punto di partenza del pensiero hegeliano è la storia, non la scienza. Hegel cerca di spiegare lo sviluppo delle vicende umane […] mediante la costruzione di schemi elementari. […] Questa ingenua schematizzazione, degna di uno studente universitario messosi a costruire un proprio sistema filosofico» («La nascita della filosofia scientifica», Il Mulino, 1974, pp. 76-77).
Reichenbach confronta Hegel con Kant e in proposito scrive: «Pur non avendo resistito alle critiche, il sistema di Kant costituisce un serio tentativo di fondare il razionalismo scientificamente, mentre il sistema hegeliano si risolve nella costruzione di un fanatico, desideroso di trasformare una semplice verità empirica in una legge logica del tipo più antiscientifico possibile. L’opera kantiana può essere ritenuta il culmine dello sviluppo storico della filosofia razionalistica, laddove la concezione di Hegel appartiene alla decadenza del pensiero speculativo proprio del diciannovesimo secolo. [….] più di ogni altra dottrina l’hegelismo ha contribuito a promuovere la separazione tra filosofi scienziati; ha fatto sì che la filosofia diventasse oggetto di scherno da parte dei cultori della scienza e che gli stessi cercassero di tenersene lontani» (ibidem, p. 81).
Ho riportato questa lunga citazione che non fa che ripetere quanto ho già detto in un commento precedente, perché sembra che tu ci tenga alle citazioni.
Non concordo con chi ritiene inutile leggere Hegel, ma concordo con chi dice che in Hegel non vi è nulla di scientifico: se per scienza intendiamo soprattutto le scienze esatte e la fisica in primo luogo. Se invece per scienza intendiamo qualunque pratica di studio e di pensiero che adotti una certa metodologia e faccia un qualche sforzo di approfondimento, allora possiamo dire che anche Hegel è uno scienziato, ma lo sarebbero anche Dante, Leopardi e, perché no, il papa con le sue encicliche.
Caro Salzarulo, ecco la seconda parte in cui mi soffermo a commentare alcune tue singole affermazioni, a corredo di quanto già detto nei miei commenti precedenti.
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1) Scrivi: «Ma i filosofi non si sforzano di abbandonare il terreno delle opinioni?».
Si sforzano, ma non è detto che ci riescano. Anzi. In genere costruiscono opinioni più argomentate, senza però passare dall’opinione alla teoria verificata e condivisa.
2) Scrivi come obiezione A: «Il concetto di “scienza” (episteme… nel senso di conoscenza certa e incontrovertibile) non può essere ridotto a quello che hanno in testa gli scienziati». Qui metti insieme due problemi diversi che vanno trattati separatamente.
a) Il concetto di scienza deve per forza essere definito all’interno della pratica scientifica. Se così non fosse, lo dovremmo definire entro quale altra pratica? La filosofia, la letteratura, la religione, il cinema o qualsiasi altra pratica o tutte insieme? Il filosofo non può definire il concetto di scienza dal puto di vista dello scienziato, ma solo dal punto di vista del filosofo, ed è un’altra cosa. Come diversa è la definizione di religione dal punto di vista della pratica di una religione o dal punto di vista della sociologia delle religioni. Ad ambito diverso corrispondono definizioni diverse.
b) Altro problema è quello del carattere certo e incontrovertibile delle affermazioni scientifiche. Non tutta la verità sta nelle scienze e non tutte le affermazioni scientifiche sono vere, come dimostra la storia delle diverse scienze. Ma mentre la pratica scientifica ha la capacità di autocorreggersi (ci vuole un fisico per migliorare una teoria fisica, un medico per migliorare una dottrina medica ecc.), le discipline non scientifiche o scientifiche a un livello debole non hanno questa capacità o l’hanno in misura di gran lunga minore. E aggiungo: una teoria scientifica, una volta dimostrata con l’esperimento, rimane vera in ciò che è stato dimostrato e magari risulta falsa nell’estensione che lo scienziato gli ha dato nell’esporla. È così che la meccanica di Galilei, in ciò che è stato verificato negli esperimenti, rimane vera anche dopo Newton e Einstein e la quantistica, sia pure entro un discorso scientifico che si è allargato e ne ha limitato la verità solo a determinate condizioni.
3) Scrivi: «Se la filosofia si riduce a scienza, fa un cattivo servizio a se stessa e alla scienza. A se stessa, perché la filosofia, avendo a che fare col “pensare” e il “mestiere di pensare”, è, in un certo senso, “la fabbrica dei concetti”. La scienza, invece, è pensiero in atto, verificato, sperimentato, “falsificabile” (come direbbe il tuo, forse preferito, Popper). Certo anche uno scienziato pensa (“tutti gli uomini sono filosofi”!…), ma non è detto che pensi bene».
a) Quella che io chiamo filosofia della chiacchiera non deve ridursi a scienza. Non è questo il mio scopo né il mio auspicio. Semplicemente dico che non è scienza, che ha un altro compito, diverso da quello scientifico, e che usa altri metodi.
b) La filosofia è la fabbrica dei concetti filosofici, ma non certo di quelli scientifici. Anzi, rispetto alle scienze, il filosofo è quasi sempre al traino e spesso si limita a dare formulazioni più generali ai risultati scientifici, estraendone, o illudendosi di estrarne, quel quid che è comune a tutto il sapere e che farebbe della filosofia, secondo qualcuno, la scienza generale, la scienza delle scienze. Ma con ciò si ritorna nella chiacchiera dei giochi verbali.
c) La scienza non è «pensiero in atto» ecc., ma è una pratica di lavoro che segue specifici metodi e che produce sia idee, sia concetti, sia risultati verificabili con gli esperimenti. «Pensiero in atto» è un’espressione di Gentile che ha senso nell’ambito del suo sistema, ma che non ha nulla a che fare con la pratica scientifica. In senso più generico e comune a moltissimi filosofi si può dire che tutte le attività pratiche sono pensiero in atto, in quanto traduzione pratica del pensiero. E il pensare stesso, quando pensa a se stesso, al suo modo di procedere, al significato del pensare ecc., si può scindere in pensiero che pensa e in pensiero che è pensato.
d) Non ci piove: non è detto che uno scienziato pensi bene. Ma dello scienziato interessano soprattutto i risultati non quello che pensa. Di Georg Cantor interessano i risultati delle sue ricerche matematiche, non il suo lungo invilupparsi in dottrine religiose. Queste interessano il biografo di Cantor e magari anche lo storico della matematica per vedere che rapporti ci sono, nel suo pensiero, fra le speculazioni matematiche sull’infinito e quelle sul tema dell’infinito nella filosofia e nella religione. Ma al matematico in senso stretto interessano solo i risultati matematici (e non confondiamo il matematico con la persona del matematico, che può avere e di solito ha interessi e curiosità molto più vasti, perché ogni persona è contemporaneamente più cose, ma non tutti i versanti della sua personalità ci interessano allo stesso modo. Ad esempio James C. Maxwell era anche un non indegno poeta, ma la sua poesia non interessa a chi studia le sue teorie sull’elettromagnetismo o le sue equazioni, o, se gli interessa, gli interessa in altro modo e per altri motivi).
Se invece lo scienziato “pensa male” non al di fuori della sua attività scientifica ma al suo interno, solo l’attività scientifica sarà in grado di correggerlo e l’errore, prima o poi, risulterà chiaro e verrà emendato. Il che non avviene nelle discipline non scientifiche, salvo che non si tratti di errori di fatto; ad esempio una data sbagliata, una variante linguistica sbagliata e così via. Ma in questo caso l’errore viene corretto proprio grazie alla documentazione che, nelle discipline storiche e filologiche, sostituisce l’esperimento, quindi in modo pratico analogo al metodo scientifico. Se però non si tratta di errore di fatto ma di errore di interpretazione o di estensione per analogia non c’è modo di correggerlo e si può cambiare solo con il maturare di una diversa convinzione che a sua volta avrà la fragilità logica della precedente.
4) Citi Gerald Schroeder che, secondo te, afferma: «Insomma, non ci sarebbe «nessun antagonismo tra concezione scientifica circa l’origine dell’universo e la fede nella verità delle scritture». E mi pare che lo disapprovi.
Ma a parte disapprovare o meno questo scienziato e teologo esponente del cosiddetto ebraismo ortodosso per i quali non ci sarebbe nessuna contraddizione fra la Bibbia e la scienza sul tema dell’origine dell’universo, mi pare più interessante notare che questo autore teologizza la fisica e fisicizza la teologia con una operazione (legittima per un teologo ma non per uno scienziato) che porta più confusione che chiarezza. Come scienziato, infatti, non può parlare dell’origine dell’universo se non in senso improprio perché le teorie scientifiche non riguardano l’origine dell’universo in senso assoluto ma solo l’inizio storico dell’attuale universo in cui viviamo. E mi pare che ci sia molta differenza. Nessuna delle attuali teorie sull’inizio dell’universo sono in grado di dirci qual è la causa prima del Big Bang, se c’era o no qualcosa prima di questo momento zero, se si tratta di una trasformazione da una condizione precedente dell’universo a quella successiva o di una “creazione” ex novo. E non sanno nemmeno dirci se si tratta di una esperienza unica o se si è ripetuta e ripeterà più volte, se l’universo che conosciamo è unico o se è uno dei tanti possibili situati in dimensioni diverse.
In sostanza, le teorie scientifiche ci riportano al momento più indietro nel tempo a cui riusciamo a risalire sulla base delle radiazioni che ancora restano del momento iniziale. Questa è una ricostruzione scientifica ma nello stesso tempo storica, che ha un momento iniziale il quale non comporta una specifica conoscenza dell’origine.
Del resto la Bibbia stessa non parte dall’origine e non ce la spiega. Non parte, cioè, da un inizio assoluto ma da un inizio storico. Prima della creazione c’è già qualcosa, c’è Dio. Quindi l’origine è in Dio ma sull’origine di Dio non ci dice niente. E questo, per un filosofo e uno scienziato attenti, è un buco enorme che dovrebbe essere colmato prima di fare certe affermazioni sull’origine dell’universo. Inoltre la Bibbia usa termini dell’antico ebraico il cui significato non è correttamente traducibile in italiano e nelle lingue moderne in genere. Non si sa, e resta un problema filologico forse insolubile, se il testo originale intenda dire che Dio crea dal nulla o crea a partire da una qualche realtà materiale già esistente e informe. Tutto ciò che si dice intorno al versetto biblico è interpretazione dei biblisti, ma le interpretazioni sono diverse e in contrasto fra loro.
Quindi dire che non c’è «nessun antagonismo tra concezione scientifica circa l’origine dell’universo e la fede nella verità delle scritture» o è un atto di fede o è una affermazione sbagliata.
5) Scrivi: «Ho capito che Cimatti non ti va giù». Non è vero, hai capito male. Non giudico la persona e nemmeno lo scrittore (al quale ho riconosciuto pregi come divulgatore), semplicemente dico che non afferma niente di nuovo e il tuo discorso su cos’è nuovo o non nuovo nella filosofia me lo conferma, perché per te il nuovo è anche un modo di dire diversamente cose già dette o ridirle per farle circolare o apprenderle personalmente e utilizzarle. Per me il nuovo è ciò che non è mai stato detto prima in nessuna forma che sia analoga o che porti allo stesso risultato.
Mi confermi il tuo modo inappropriato di intendere il nuovo con l’affermazione: «Cosa c’è di nuovo nei manuali di matematica, di fisica, di chimica studiati dai nostri ragazzi? Nulla o quasi». Infatti, non c’è nulla, in qualunque modo i manuali siano scritti. Perché il compito di un manuale non è di dire cose nuove ma di riassumere ad uso dei lettori tutto il sapere nell’ambito di una disciplina o di una parte della disciplina (manuali generali, manuali per secoli, per settori, per argomenti ecc.). Quindi un manuale, di nuovo, può avere solo qualcosa che attiene al manuale e non alla scienza che vi è contenuta, cioè novità di scrittura, di scelte, di esposizione rispetto ad altri manuali, ma non nuove teorie scientifiche che per la prima volta, scoperte dall’autore del manuale stesso, vengano esposte nel manuale. Può capitare, ma normalmente non avviene perché non è questo il compito dei manuali di scienze.
Aggiungi poi: «Sotto questo profilo, nuova è l’interpretazione che Cimatti fornisce delle tesi e dei concetti di alcuni autori. Nuova perché quelle tesi e quei concetti vengono filtrati attraverso la sua esperienza di filosofo del linguaggio». Ma siamo sempre lì. Si tratta, nel caso migliore, di una rilettura da un punto di vista un po’ spostato. Questo può illuminare e rendere meglio comprensibile l’oggetto del discorso, ma non lo cambia nei suoi termini essenziali. Il nuovo sta dunque, quando c’è, nella narrazione, non in ciò che è narrato. Una teoria scientifica la si può spiegare in tanti modi, ma la sua formula essenziale rimane identica. E c’è differenza fra l’aggiungere qualcosa di nuovo alla formula essenziale o aggiungerlo ai modi di spiegarla. Sono cose e piani diversi. Dirò di più. Anche passando dal piano dello spiegare al piano di utilizzare certi concetti in modo nuovo applicandoli a campi diversi del sapere, il nuovo potrebbe limitarsi solo alla forma letteraria scelta o all’interpretazione che se ne trae, senza toccare i concetti di cui si parla. Ad esempio Sergio Givone ha scritto un bel libro «Sull’infinito» (Il Mulino, 2018) applicando una serie di temi relativi alle problematiche dell’infinito all’interpretazione di alcuni dipinti e in sostanza all’estetica. Dice qualcosa di nuovo in questo campo, o almeno sugli autori presi in esame, ma, a mio parere (e non ce lo con Givone, te l’assicuro), non aggiunge niente di nuovo sul concetto di infinito e sulla lunga discussione su di esso fra filosofia e matematica.
6) Scrivi: «Mi interessa più il processo che avviene in un’esperienza di lettura, perché lo immagino come un sangue circolante nella società umana, un sangue che vivifica morti e vivi». Nessuno ti contesta questo interesse né l’importanza dell’esperienza di lettura, ma che c’entra con il nuovo in campo scientifico? Mi viene quasi il dubbio che tu abbia una concezione spiritualistica della scienza, genericamente un po’ new age. Niente di male, s’intende, sei libero di pensarla come vuoi. Ma questo sarebbe un campo vasto e distinto da ciò che normalmente si intende per scienza.
Si può parlare di “scienze dello spirito” o di “scienze del corpo” mettendo insieme un po’ di psicologia, un po’ di yoga, un po’ di religione o di senso del sacro, un po’ di psicoterapia psicosomatica, un po’ di dietologia e così via, ma il tutto ha poco di scientifico. Come poco o nulla hanno di scientifico le “scienze esoteriche” e le para- e pseudo-scienze di ogni tipo. Questo non stabilisce, a priori, una scala di merito, ma stabilisce delle marcate differenze fra discipline (scientifiche) ben definite e con una specifica efficacia teorica e pratica che vale per tutti, e discipline (non scientifiche) che, al contrario, non sono ben definibili e che hanno scarsa efficacia teorica e pratica e valide solo per alcuni. Ci sono persone malate terminali che la scienza non ha potuto curare e che sono improvvisamente guarite per un fatto che viene narrato come miracolo. Ma ciò non toglie che il miracolo, che se vero sarebbe superiore alla scienza in ordine di merito, non faccia parte della scienza e non sia esperimentabile e applicabile a tutti come terapia.
7) Scrivi: «Insomma, cosa sia nuovo in filosofia non mi appare facile da definire». Concordo. Come non è facile definire cosa sia nuovo in poesia o in letteratura o in politica. Non sono scienze in cui il sapere verificato si accumula e rispetto al quale è facile distinguere i contributi nuovi originali. Se nella storia delle scienze il nuovo non sempre è stato riconosciuto come tale o è stato negato e ostacolato, ciò non lo si deve ai caratteri intrinseci del lavoro scientifico ma ai fattori di disturbo estrinseci, come gli interessi, le rivalità, le carriere, le ideologie, la volontà del potere statale o accademico e tante altre cose proprie della vita umana. Questo, però, appartiene alla storia delle scienze come cultura, non alla storia delle scienze in senso stretto, cioè come successive sequenze di ricerche e risultati e dei rapporti fra loro.
In filosofia, come in letteratura e in poesia, pur con le dovute differenze, il nuovo non è riconoscibile oggettivamente ma dipende dalla sensibilità e dalle idee dei lettori, per cui lo stesso libro di filosofia o di narrativa o di poesia può contenere del nuovo per qualcuno e solo del vecchio per altri. E non c’è nessun elemento oggettivo che possa permettere il superamento delle divergenze, nemmeno dopo secoli.
Caro Aguzzi, una sintetica replica per punti e, dopo di che, mi perdonerai se non interverrò più.
1.- I filosofi originali possono fare a meno di leggere tutti i classici?… Certo!…Mozart cominciò a comporre all’età di cinque anni. Siccome “tutti gli uomini sono filosofi”, può capitare che nascano dei geni col pallino della “filosofia come scienza”. Ciò che non capisco è perché rompiamo le palle ai ragazzi per tre anni nei licei e per altri anni all’università con la “storia della filosofia”.
2. Attualità di Platone e attualità di Euclide, Galilei o di Einstein. Se si può ignorare Platone, t’assicuro si possono ignorare tranquillamente anche i teoremi di Euclide, il metodo sperimentale di Galilei e la relatività di Einstein. Pure in questo caso “la vita quotidiana delle persone in genere non cambia”. Ma cosa s’intende per “vita quotidiana”?… Mi ha sempre affascinato la storia di Domenico Scandella, contadino e mugnaio di Montereale di Valcellina. Sapeva leggere e scrivere e, come ha raccontato Carlo Ginzburg in un suo libro, si era inventato una sua cosmogonia: nel caos primordiale i quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) erano fusi insieme. Il caos si condensa in una massa così come succede al formaggio nel latte. Gli Angeli e Dio nascono dalla terra come i vermi dal formaggio. Insomma, si può trascorrere la propria vita quotidiana anche senza sapere che la realtà non è come appare.
3. Processo di apprendimento e originalità della scoperta scientifica. Non confondo i due processi. Semplicemente credo che ogni nuovo nato riscopre, per così dire, il mondo e lo fa suo. Chi abbia scoperto che cosa, è importante ma fino a un certo punto. Democrito aveva già in testa gli atomi e Eratostene che la terra avesse forma sferica, ma non se ne fece nulla. Certe scoperte hanno bisogno di contesti sociali, culturali, economici…Va bene esaltare i “geni”, ma non esageriamo.
4. Il nominalismo accademico. Infatti, capisco ancora Hegel che, ad inizio ottocento, chiami la sua “Scienza della logica” – lo fa chiaramente in modo polemico – , non capisco gli altri (positivisti, neo-positivisti..) tutto questo correre dietro le cosiddette “scienze dure”, come se fossero le regine del sapere. Come giustamente scrivi più avanti: «Non tutta la verità sta nelle scienze e non tutte le affermazioni scientifiche sono vere». Quindi, rispetto per le scienze, valutazione attenta dei loro risultati, ma niente scientismo.
Nella seconda puntata, però, poi scrivi: «La filosofia è la fabbrica dei concetti filosofici, ma non certo di quelli scientifici. Anzi, rispetto alle scienze, il filosofo è quasi sempre al traino e spesso si limita a dare formulazioni più generali ai risultati scientifici, estraendone, o illudendosi di estrarne, quel quid che è comune a tutto il sapere e che farebbe della filosofia, secondo qualcuno, la scienza generale, la scienza delle scienze. Ma con ciò si ritorna nella chiacchiera dei giochi verbali.»
Domanda, perché mai un filosofo della scienza come Hans Reichenbach scrive un libro intitolato “Fondamenti filosofici della meccanica quantistica”? Per stare al traino della meccanica quantistica?…E che bisogno c’è per uno che ha studiato fisica, matematica e filosofia di dare dei “fondamenti filosofici” alla meccanica quantistica?…Che bisogno c’è di scrivere un libro sulla “nascita della filosofia scientifica”, se già le scienze compiono brillantemente la loro attività?…
5.- Tutti gli uomini sono filosofi. La frase di Gramsci, certo, non va generalizzata. Gli ingegneri sono ingegneri (anche se qualche volta fanno cadere i ponti!…). La citazione di Gramsci “non nega affatto la differenza fra l’uomo comune e il filosofo specialista”, ma coglie nel “pensare” la facoltà alla base dell’uno e dell’altro. Conclusione tua: «Quindi la filosofia non è una scienza, è un pensare “proprio dell’uomo come tale”. Va bene. Ma sei tu che dici che la filosofia o è scienza o è chiacchiera. Per me la filosofia è “la fabbrica dei concetti”, e il suo mestiere è pensare.
6. Hegel. Non mi meraviglia che Hans Reichenbach scriva di Hegel quanto da te riportato. Lo condividi? Bene. Io non sono un interprete di Hegel, né un hegeliano di sinistra. Non sono neanche un sostenitore di un ritorno a Kant né un neo-positivista. Io ho soltanto recensito un libro di Cimatti che, come già ho scritto, mi è apparso molto interessante ed ho spiegato anche perché.
7. «Sembra che tu ci tenga alle citazioni.» Sì, se sono notevoli, se esprimono il mio pensiero meglio di come potrei dire. È un po’ come rubare delle ciliegie.
8. – Avrei una “concezione spiritualistica della scienza, genericamente un po’ new age.”, ecc. ecc.? No. Non ho una simile concezione della scienza. Credo che sia una forza produttiva sussunta nel processo di valorizzazione del capitale. Per fare scienza oggi, basta leggere Spillover, ma io ho letto da anni Cini e tanti altri, ci vuole capitale, molto capitale. Non sono un credente e, pur sapendo cos’è oggi la scienza e come si pratica, ho una visione scientifica del mondo. Quanto al “new age” non ha nulla a che fare con me. Io sono un educatore. Ho trascorso quasi tutta la mia vita a scuola, un luogo in cui si trasmette il patrimonio culturale di una civiltà. Conosci le discipline ed è inutile che te le elenchi. Quando ti parlavo di esperienza di lettura “come un sangue circolante nella società umana, un sangue che vivifica morti e vivi”, avevo in mente un mio scritto che puoi trovare in Rete (“La boccetta di Baudelaire”), una citazione di Borges: «una biblioteca è una specie di grotta magica piena di uomini morti». un’altra citazione (ahi!..) di Giovanni Raboni: «Uno dei pochi pilastri della mia fede […] è l’idea della comunione dei vivi con i morti, che non vuol dire che io pensi che c’è un oltrevita nel quale si incontrino i morti. Penso che i morti ci siano, cioè penso che si continui a vivere anche con le persone che non ci sono più, che continuino a fare parte della nostra vita…Attraverso la memoria, attraverso la continuità dei pensieri e delle emozioni». E, infine, lui, Platone: «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti.»
Capita, pensa!, persino ad un filosofo della scienza come Reichenbach. Il cui antihegelismo per essere riportato in vita, ha bisogno del tuo sangue e del tuo cervello.