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Ho sempre sentito parlare bene dell’opera cinematografica di Straub. Eppure anche questo suo lavoro non mi prende, come non mi prese quello su Cesare Pavese. Ho come una ritrosia a segnalarlo. E’ questo il comunismo che ho nella mia mente? Ne parlerei così io? Certo mi piace la pulizia classica delle immagini e delle parole. Anche la lentezza dello sguardo e il senso di distanza, ma restano i dubbi. E perciò vi invito a vederlo e a discuterne. [E. A.]
Una scheda critica del film
KOMMUNISTEN
di Jean-Marie Straub
Kommunisten è un nuovo, essenziale, viaggio di Straub nel Novecento, ma non solo: partendo da Malraux, si aggira per declamazioni, letture, voci recitanti, mescolando tutto e donando sempre il fianco a una nuova interpretazione. Un’opera che non ha paura a definirsi intellettuale.
L’ideologia che non muore
Il film inizia con l’inno della DDR, un verso della sua seconda strofa potrebbe essere il comune denominatore dei sei blocchi di cui è composto il film. Prendendo come punto di partenza Le temps du mépris d’André Malraux, Straub ritorna sui lutti popolari degli anni 1920-1940: nella Germania nazista, nell’Italia fascista, nell’Egitto colonizzato. Tessendo frammenti che provengono per la maggior parte dai film precedenti di Straub e Huillet, dà vita a un ritratto terribile del 20°secolo… [sinossi]
Mentre
il coro intona “Alte Not gilt es zu zwingen, und wir zwingen sie
vereint, denn es muss uns doch gelingen, dass die Sonne schön wie
nie, Über Deutschland scheint”, lo schermo passa dal nero
all’immagine dell’interrogatorio
di due prigionieri politici,
accusati di essere comunisti. La Germania non è la DDR dell’inno
nazionale, ma quella nazista. La musica scema, l’immagine irrompe
in tutta la sua schietta semplicità. Senza orpelli, come sempre. È
già qui, nel
passaggio dal non-visibile dell’utopia al visibile della barbarie,
il senso politico di Kommunisten,
il nuovo film di Jean-Marie Straub che, dopo essere stato presentato
in una copia lavoro al Festival di Locarno nell’agosto del 2014, ha
raggiunto le sale italiane il mese scorso, grazie al lavoro di Boudu,
la combattiva casa di distribuzione che dalla sua nascita ha dato
ospitalità sugli schermi italiani a titoli come Ana
Arabia di
Amos Gitai. Una distribuzione a suo modo clandestina, lontana dai
percorsi abituali e quindi destinata inevitabilmente a lambire gli
orli del sistema cinematografico italiano. Eppure, allo stesso tempo,
la dimostrazione di come qualcosa
si muova, donando varchi d’aria e luce a un sistema asfittico,
richiuso mortalmente in se stesso.
Il
pubblico italiano non aveva rapporti con il cinema di Straub e
Huillet (impossibile pensarli separati, nonostante la scomparsa di
lei oramai quasi dieci anni fa) dai tempi di Sicilia!,
che nel novembre del 1999 raggiunse le sale con l’Istituto Luce.
Altri tempi.
Non
esistono invece tempi “altri” per Jean-Marie Straub, che
con Kommunisten non
fa che proseguire sul terreno già percorso nel corso dei decenni,
prima insieme alla Huillet e poi da solo, come dimostrano titoli
quali Corneille-Brecht e Un
héritier,
inserito nel 2011 nel tradizionale Jeonju
Digital Project.
Il tempo è uno e unico, ma può essere frazionato, sconnesso,
ricomposto nelle forme più diverse. È quel che Straub fa proprio
con Kommunisten,
che si compone di
sei frammenti, alcuni diretti ex-novo, altri ripresi da precedenti
lavori, da Operai,
contadini a Troppo
presto, troppo tardi,
da Fortini/Cani a La
morte di Empedocle.
La novità, lo
pseudo-collante che dovrebbe unire i segmenti, è ispirato invece a
un misconosciuto lavoro, Le
temps du mépris,
scritto da André Malraux per Gallimard nel 1935, quando è
considerato un “compagno di strada” dei trotskisti.
Tutto,
verrebbe da dire, è già nel titolo. Kommunisten.
Una
rivendicazione d’appartenenza che è anche, come sempre, analisi
della Storia, di se stessi, del mondo a cui si appartiene.
In forma lirica, scomposta perché impossibile da attuare attraverso
il rigido rigore di forme preordinate, Straub orchestra
una poesia d’immagine e di parola.
Trae ispirazione dal passato perché solo attraverso esso può ancora
dare senso ultimo al presente, e a ciò che sarà. Per arrivare al
fulcro del discorso non ha bisogno di una forma esteticamente
compiuta, perché ciò lo porterebbe distante dall’urgenza
espressiva che è alla base del percorso, e lo è sempre
stata.
L’interrogatorio, risolto in un’inquadratura
volutamente “facile”, persino sciatta agli occhi disattenti di un
mondo cinefilo che non ha più dimestichezza con l’etica, e la
confonde con la fissità di concetti e immaginari,
è l’esplosione definitiva. Il punto di non ritorno già insito
nell’incipit. Il
“bello” è materia per altri, non certo per Straub, che non rende
mai comoda la
visione al proprio pubblico: come dimenticare le stolide risatine che
accompagnarono la proiezione stampa veneziana di Quei
loro incontri,
o i ben più vergognosi fischi che rovinarono la proiezione/omaggio
alla Huillet di Chambre
à gas, chaise éléctrique durante
la prima edizione della Festa del
Cinema di Roma?
L’immagine di Straub non è comoda perché non
propone mai una via di fuga nell’immaginario; rimane
lì, tangibile, reale al
di là di ogni possibile straniamento brechtiano – escamotage
attoriale mai utilizzato in senso esclusivamente artistico, ma sempre
come grimaldello per scardinare le trappole usurate della logica e
dell’ovvietà. Se uno spettro si aggira per l’Europa, quello non
è certo il cinema, al contrario ultima ancora contro una società
ectoplasmatica, che fa della sua traslucida forma l’arma per
nascondersi, celarsi dietro forme rassicuranti. L’ideologia
è stata triturata e frammentata nel corso dei decenni, ridotta a
truciolo per le gambe di legno del sistema, ed è a questo che si
oppone Kommunisten.
E
vi si oppone proprio facendo leva sulla
frammentazione, sull’apparente disgregazione che produce una unità
sorprendente.
I
vari segmenti del cinema di Straub/Huillet servono dunque a
rafforzare le fila di una resistenza etica e cinematografica, che è
sempre in fieri e mai al sicuro nella propria memoria. Il
cinema di Straub è ancora oggi uno choc per lo spettatore perché,
al contrario di una società dei consumi sempre più slabbrata,
“resiste”.
È in questo dettaglio – che dettaglio non è – che se ne trova
il cuore profondo, quell’eterno nuovo
mondo a
cui anela anche la Huillet in scena in uno dei passaggi più ispirati
e commoventi di Kommunisten,
estratto da Peccato
nero.
Una
resistenza impossibile, a tratti, perché il deragliare del mondo va
in altre direzioni, opposte per senso, sensibilità e sguardo
poetico/politico a quello di Straub e di Huillet; eppure
sempre in atto, come il recupero di Franco Fortini da
quel Fortini/Cani che
è ancora oggi, forse, il risultato più potente dell’intera
filmografia dei due –
insieme a Dalla
nube alla resistenza.
Straub
come Godard,
in un apparentamento da sempre ribadito dagli stessi registi e che
trova in Kommunisten alcune
ulteriori conferme, se qualcuno ne sentisse la necessità. Potrà
apparire ostico, un
oggetto cinematografico di questo tipo, ma solo se non si ha la
voglia di guardare dietro la prima immagine, per svelarne le altre,
molteplici, che si rincorrono, per formare l’ennesimo
dialogo (im)possibile tra Utopia e Realtà, tra umano e naturale, tra
poesia e barbarie.
Perché in fin dei conti si torna sempre all’inno della DDR: “Alle
Welt sehnt sich nach Frieden, Reicht den Völkern eure Hand”. Tutto
il mondo anela alla pace, tendete ai popoli la vostra mano.
Comunisti.
…avrei visto volentieri il film, ma non riesco ad avviarlo, penso perchè è in raiplay e vi si accede solo in Italia…
Non ti so dire. Ma quando clicchi sul link che ho indicato cosa vedi?
,,,se clicco compare la scritta: il contenuto non puo’ essere eseguito perché non disponibile o non supportato
pero’ ho letto la scheda, il fim deve essere interessante
Allora non so dirti. Ciao
Una produzione cinematografica originale, dove le scelte estetiche appaiono coerenti fino alla provocazione, riflesso di considerazioni storico-politiche realistiche, finalizzate a contenuti affermativi anti-retorici. Una voce fuori dal coro.