di Alessandro Scuro
Il brainstorming (o “tempesta di cervelli”) scaturito dalla pandemia di Coronavirus è di una tale intensità e vastità da scoraggiare chiunque voglia mantenere un minimo di lucidità e di controllo dell’ansia dall’inseguire il flusso ininterrotto e crescente di notizie, video, commenti, proclami politici, dichiarazioni scientifiche. La sobrietà in questa situazione mi pare una virtù fondamentale. E perciò su Poliscritture ho finora evitato di segnalare anche la minima parte delle cose che vado leggendo. Sto ospitando, infatti, esclusivamente contributi che mi vengono proposti da amici e amiche. Questo arrivatomi da Alessandro Scuro, collaboratore di Poliscritture per un lungo periodo con articoli sulla letteratura spagnola, è il primo che affronta il tema del cosiddetto “dopo-Coronavirus” su un piano direttamente politico e con una scelta “militante” molto orientata. Proviamo a discuterne. [E. A.]
Alcune settimane fa, su El País, è stato pubblicato un trafiletto di Fernando Savater, filosofo di chiara fama qui in Spagna, intitolato Cúnico(sulla falsa riga di una famosa battuta “¡Que no panda el cúnico!”, storpiatura dell’esclamazione “¡Qué no cunda el pánico!”, ovvero “Niente panico!”). Savater se la prende con i sacerdoti dell’apocalissi che in momenti come questi, oggi come mille anni fa, interpretano il disastro come una punizione divina, come il giusto castigo per le malefatte dell’umanità, riferendosi in particolar modo a chi sta approfittando della situazione attuale per denunciare lo stile di vita criminale al quale fino a poche settimane fa, volenti o nolenti, tutti eravamo ben abituati. L’articolo si conclude con un augurio del filosofo che, con grande sicumera, tranquillizza i lettori: Niente panico! Sconfitto il virus tutto tornerà come prima!
Il breve articolo dice molto sull’intellighentia di centrosinistra che, al di fuori degli slogan, teme ogni possibilità di cambiamento e dimostra la propria distanza siderale dalla vita comune. Innanzitutto bisognerebbe far notare a Savater che non per tutti il ritorno alla vita precedente è necessariamente un auspicio, né niente di troppo desiderabile. Tra questi ve ne sono molti che in panico lo erano già prima e che, da quando sono obbligatoriamente confinati nelle proprie case, sono totalmente sprofondati nel panico di quel che sarà, senza per questo sostenere nessuna tesi cospirazionista o apocalittica, ma semplicemente perché la vita di prima non c’è più, ne più ritornerà. Tra loro lavoratori precari e in nero, gente che a vivere giorno per giorno aveva fatto suo malgrado l’abitudine da tempo e che, esaurite in questi giorni le poche risorse disponibili vive tra la disperazione di non riuscire a prevedere il proprio futuro e la detestabile visione di un domani che, quando questa interminabile attesa forzata sarà conclusa, li costringerà a condizioni di vita ben peggiori di quelle già poco gradevoli alle quali erano abituati.
Per chi si trova in queste condizioni la migliore delle aspettative è quella di ritornare velocemente a lavorare, per ripagarsi i debiti contratti nel frattempo e per continuare a sbarcare il lunario come può, pienamente coscienti che per riuscirci dovrà sottostare a condizioni peggiori e ancora più precarie, oltre che lottare con un concorrenza che si sarà fatta ancor più spietata, dato che i posti disponibili saranno inevitabilmente meno e i candidati molti di più.
Un paio di settimane fa, alcuni amici mi hanno invitato a partecipare alla discussione nata su una pagina facebook creata all’uopo (Spartacus Strike!), per discutere possibili forme di riorganizzazione post-covid19. La provocazione con la quale la discussione si è aperta, cercando di sfruttare la condizione di confinamento come presupposto universale di mobilitazione, si muove intorno a questi temi e più in particolare intorno alle proposte avanzate da Nick Srnicek e Alex Williams nel libro Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, la cui lettura è vivamente consigliata. Le questioni sollevate dai due si pongono in questo momento come inevitabili e una discussione in tal senso risulta oggi più che mai auspicabile, oltre che urgente. Tra insulti al fondatore (i fondatori?) della pagina, inviti a consumare meno alcool e ostacoli posti dallo stesso facebook alla diffusione della pagina, la discussione ha preso piede, ma il panorama che ne esce è disarmante. Da un lato si schierano coloro che si trovano in disaccordo e che, senza nemmeno prender in considerazione la proposta, la scartano in base all’appartenenza politica di chi scrive, accusando tali idee di essere le fonti di tutti i problemi dell’attualità; dall’altro coloro che si definiscono d’accordo ma che partecipano pubblicando emoticon e teneri pupazzetti che ammiccano. In entrami i bandi, poi, ci sono molti che si limitano a definire lapidariamente la proposta come un’utopia. Questi, più di tutti, sono coloro che danno l’esatta misura di quanto sia complesso, oltre che disarmante, cercare di intraprendere una discussione su un’esistenza futura nella quale il lavoro non sia più l’unica forma di realizzazione umana (ammesso che lo sia mai stata o che lo sia ancora oggi come prima di questa crisi). Fa male vedere come l’abitudine vinca sull’evidenza di protrarre modi di vita che non giovano a nessuno e come il distanziamento sociale che ora appare forzato sia reale. Scoraggia accorgersi una volta di più vedere come ognuno si occupi di coltivare il proprio orto anche quando ormai non cresce più niente o guardare al di là del proprio naso pure quando si è schiantato sul muro. Questi però non sono motivi validi per continuare a provarci.
A me piace il tuo richiamo alla sobrietà. Sono in molte/i a sbroccare. Condivido anche il pessimismo di Scuro sul dopo. Ma sobria non è la provocazione spartachista sul non lavoro, rimanda a una petizione generica già consumata, e generica è la discussione non sobria che ne è seguita. Ma tant’è.
La provocazione di Spartacus non è sobria perché è, appunto, una provocazione, uno strumento di propaganda atto ad attirare l’attenzione. Creato l’interesse, l’intenzione è quella di impostare la discussione in maniera più ragionata con altri mezzi e su altri spazi, come questo, più consoni. Questo articolo è proprio un tentativo, abbozzato, in tal senso. Personalmente il tema del non lavoro più che esaurito mi pare evitato.
In quanto al mio pessimismo, si riferisce soprattutto al prima, oltre che al momento attuale. Sul dopo immagino finora a fatica, ma ad ogni modo non vorrei farlo da solo.
Accoglierei la “provocazione” ma passerei alla discussione ragionata. Ritengo però che “il tema del non lavoro” continuerà a essere discusso in modi astratti ( e persino astrusi) se non si parte o non si tiene conto della mai evitabile “realtà”.
Uno che da essa parte – ed è questo per ora fondamentale – è Pierluigi Fagan, uno studioso che seguo nei suoi post su Facebook da tempo.
Ho appena condiviso su POLISCRITTURE FB una sua intervista rilasciata ad un gruppo che si chiama SOTTOSOPRA e invito ad ascoltarla.
Questo il link:
https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10220811799380389?__xts__%5B0%5D=68.ARCnQhKfWD9zAL8__bY2-wsu0ZnC86T9RJ99fo2FUj_NJwb2sYoEdhHp6oyYjbTzXYFIhLhvgqLHye-UBDNJPPFz5oxwzUOQFPWa5eh9oLUnfbLa_SzF1U3o14THY46YXaVhZ2YK_lyEYydMgw7GS7dORA1ziBZyV1mcocM-hysYHLRNJ8a2YRrgwtHr8ZR6nMafHOw5TKhJB0w-LnoOQqzOEwVdjQaPH8XFGQ0EHeNkUv7HuTzWbYvdeoO5TtOOFXRJHPYiUWfZAfUhsE6of3T2imMVi_-V5sGUTmvaHW74vq_MZSRYsunRIhCu79-WeoCJsXCK7GyKM-S5eL2Gc-TsfxFOLgs&__tn__=-R
Se non si aprisse, proverò domani a trasferirlo qui sul sito.
Caro Ennio, l’intervista di Fagan non riesco a leggerla o a vederla perché non ho Facebook…Ti sarei grato, quindi, se la trasferissi sul sito. Grazie
Ecco fatto. Dovrebbe funzionare.
Mi sembra che Fagan tocchi molti punti interessanti. Il primo è che, auspicabile o meno, nessun “ritorno ala normalità” sia possibile, né sul piano economico, né su quello sociale, e qualsiasi tentativo di riappropriarci delle nostre vite dopo questo duro periodo dovrà necessariamente attraverso un prolungato ed elaborato adattamento.
L’altro aspetto interessanti mi sembra il riferimento al tempismo. Se il virus ha colto di sorpresa i più, mentre gli esperti già avvertivano di pericoli del genere da tempo, anche i suoi effetti e le sue ripercussioni, tanto sul piano sanitario quanto su quello economico e sociale, non sono di certi il frutto di problemi sorti d’improvviso solo qualche settimana fa, ma spesso semplicemente taciuti, evitati o trascurati e sarebbe bene non farsi nuovamente cogliere altrettanto impreparati in futuro.
Questo richiede una partecipazione ampia e plurale alla costruzione del futuro, e l’urgenza di discutere già sulle possibili soluzioni a problemi procrastinati per troppo tempo. La discussione sarà senz’altro complessa e faticosa, ma non è un buon motivo per continuare ad evitarla restando ognuno nelle proprie posizioni.
Uno dei temi fondamentali sarà certamente quello del lavoro, a partire dal valore che esso ricopre nella vita di tutti noi. Da un lato bisognerà fare i conti con una crisi inevitabile, e prepararsi a un periodo in cui un lavoro per tutti non ci sarà. Di conseguenza bisognerà pensare a misure alternative di sostegno alle persone che non avranno forma di sostentamento e ragionare su una riduzione degli orari di lavoro (soprattutto per lavori monotoni e non specializzati) che permetta, da un lato di creare più posti, dall’altro di dare a tutti più tempo per dedicarsi ai propri interessi e partecipare più attivamente e consciamente alla vita politica.
Questo lavoro parte innanzitutto da una constatazione che per molti dei miei coetanei, e per la storia lavorativa che molti di noi hanno avuto, è un’evidenza da tempo, per altri forse meno. È necessario considerare il lavoro per quello che nella maggior parte dei casi è: non un fine in sé, ma un’attività strumentale. Allo stesso modo si deve lavorare sullo scardinamento di un pregiudizio che continua ad avvelenare l’esistenza odierna, quello secondo cui è inutile tutto ciò che non produce redditto, parassita chi non lavora. Bisogna estinguere la credenza secondo la quale il lavoro nobilita l’uomo e gli da dignità perché da tempo la realtà dimostra che non è così e difficilmente lo sarà nel prossimo futuro.