di Ezio Partesana
Segnalo il blog di Ezio Partesana, che ha anche collaborato in passato con Poliscritture, pubblicando questo suo recente testo filosofico. L’ho letto attentamente. Mi ha colpito la sottile distinzione che Ezio fa tra i due concetti e l’importanza che attribuisce ai meccanismi psichici ben più complessi dell’offesa rispetto al “semplice” insulto. Scrive: “l’offesa ammette il riconoscimento di uno stato comune, la pietà e il perdono”, perché in essa non solo affiora (forse si potrebbe dire: si costruisce…) un legame tra offensore e vittima (“qualcosa nella volontà dell’altro ci ha sorpreso e a quello siamo appesi come al cordone ombelicale la prima volta che fummo lasciati soli”) ma pure un legame col passato (e quindi con una storia): “tutte le offese vengono dal passato e sono state apparecchiate prima che fossimo in grado di sopportarle, e in fondo non sono dirette a noi, ma a quello che eravamo prima”. Abituato come sono a rendermi conto dei concetti solo quando riesco ad associarli a personaggi o fatti storici, ho pensato almeno a Primo Levi e a Toni Morrison, che nelle loro opere hanno appunto meditato sulle “offese” della Shoah e della schiavitù degli afroamericani. Non so se riesco a seguire Ezio quando dal piano dei rapporti tra gli umani sembra passare al piano del rapporto umano/divino (“Si può, insomma, insultare Dio perché ha fatto degli errori o bestemmiare che sarebbe stato meglio non fosse mai esistito nulla”) ma altri – spero – lo faranno e io cercherò di capire di più. [E. A.]
Insultare è semplice, basta scegliere due o tre parole che si reputano sconce e lanciarle in aria; non importa che chi le riceve sappia per bene cosa significhino né che condivida il disprezzo per certe qualità o sappia perché proprio a lui sono dirette. Ma offendere è più difficile; senza una conoscenza, seppur minima, della vittima non si sa a cosa mirare e il colpo va a vuoto.
Tra due soggetti ci sono di mezzo così tante cose che nessun messaggio, nessuna comunicazione, può arrivare dall’uno all’altro senza fare il giro del mondo, senza percorrere la storia, l’economia e la politica; è come se parlassimo sempre scrivendo dentro un libro di storia, intenti a capire quel che c’è scritto e traduttori d’una lezione che ci appartiene solo inconsciamente, ma nella necessità di dire in fretta e furia quel che è importante.
Per insultare basta la forma, un gesto sgarbato fatto di spalle, ma per offendere bisogna che ci sia anche un contenuto, una qualche sorta di colpa che entrambi i duellanti conoscono e che uno rimprovera all’altro per ucciderlo. Però non c’è vento che faccia volare insieme le anime e così, si parva licet, l’offeso e l’aggressore devono scegliere anche un medium, una forza che non controllano e della quale non sono responsabili. Non è la stessa cosa ricevere un’offesa per lettera, da un parente, con arma da taglio o alle spalle, non sarebbe lo stesso neanche se tutto fosse messo insieme per essere certi dell’effetto e non lasciare adito a dubbi. Per questo gli insulti degenerano in rissa ma le offese in odio.
Chi insulta non sa, è una difesa disperata quella che mette in atto e attacca perché dietro non c’è nulla e su niente può fare affidamento se non sulle sue forze. È strano a dirsi ma chi offende, invece, vuole qualcosa in cambio; sia sottomissione, sia riconoscimento poco cambia: Uno dei due deve cedere. E poiché chi offende ha stracciato il patto tramite il quale l’offesa passa il confine e urta, l’unico che può cedere sei tu.
In ascolto di chi insulta si sente la paura, a sentire le offese invecchiamo di colpo. Si può rispondere o non rispondere a tono, rincarare la dose, uccidere il cavallo, qualcosa nella volontà dell’altro ci ha sorpreso e a quello siamo appesi come al cordone ombelicale la prima volta che fummo lasciati soli e non c’era riparazione che tenesse, perché tutte le offese vengono dal passato e sono state apparecchiate prima che fossimo in grado di sopportarle, e in fondo non sono dirette a noi, ma a quello che eravamo prima; sono un comandamento: Ritirati più indietro.
Se l’insulto ci sfida a sfoderare la lama, a far valere il coraggio, l’offesa ci disarma perché chiede la resa, non il combattimento; è meno di uno specchio e più di un vetro la superficie sulla quale si vede che il l’eterna alleanza non c’era, e ognuno consegnerà i suoi al nemico affinché ne faccia quel che vuole.
Ogni volta che l’Io apre bocca contrae un debito; come un governatore deve guadagnarsi il voto dei suoi elettori, così l’Io si procura le derrate alimentari con le quali terrà a bada, per bene che vada, le bestie che amministra, fino a quando non si accorgeranno di lui. L’insulto e l’offesa sono una parte del foraggio che si cerca di far passare sotto silenzio. O credi forse che io non sappia perché proprio quelle parole hai detto e a chi fossero rivolte? Se chi offende non insultasse sempre una immagine che dentro di sé ha costruito, non avrebbe seguito. È dalla tua abiura che sono offeso, non dagli insulti.
In pubblico è facile far finta di niente oppure montare una tragedia, ma non l’insulto né l’offesa sono pubblici. È vero che per alcuni la faccia vale tanto quanto l’anima – ne è lo specchio, si usa dire – però l’unica dimensione comune che vale davvero è quella tra chi offende e chi si sente offeso, tra chi insulta e l’insultato. L’aggravante del pubblico ludibrio è solo, come era in principio, un espediente giuridico, una forma di ammonimento che non per caso veniva attuata per chi non aveva commesso il fatto, una minaccia non una circostanza.
Perché è vero il contrario: l’insulto e l’offesa hanno una funzione sociale complementare: Si insultano i nemici, si offendono gli amici. Il problema è che non sempre è chiara la distinzione tra i due, non sempre il soggetto della frase è in grado di distinguere con chi ce l’ha sul serio e quali siano invece proiezioni, immagini di un colpevole mal fatto a bella posta, scritto perché se ne assuma la responsabilità, compreso se stesso. Non è forse un insulto sprecare un talento e non è offensivo abbandonare la nave quando ci sarebbe bisogno di noi, di una nostra fine onorevole?
Ma se la morte può essere un’offesa – te ne sei andato senza il mio permesso – l’insulto non prevede alcun rammarico. Sì, può scappare una frase e sì ce ne si può pentire, ma uniti nel desiderio che quel che è accaduto non sarebbe mai dovuto succedere, l’insultato medita vendetta, l’offeso redenzione. Una cosa senza l’altra lascia il tempo al governo dei peggiori, l’altra senza l’una alla carità e alla sopportazione. In nome di che cosa non è chiaro.
Non si può rispondere agli insulti con la ragione, non ha senso dire che non è vero, ma anche contro le offese non esiste difesa: ragionare sopra quel che è o non è stato, è esattamente quel che l’offesa intende mettere fuori gioco, è questa l’offesa, non quel che viene detto. Nell’offesa si mette in scena la pantomima del riconoscimento, dove non c’è alcuno scontro e da se stesso il soggetto si certifica, in prevista e anzi ricercata assenza dell’altro; l’insulto è, in un certo senso, la versione pura e semplificata: Se ti tolgo la vita, allora significa che io sono vivo. È questo quel che rimane del Cogito, una Res inestesa e che non può più pensare.
Ci sono tuttavia gradi differenti, come se in una bizzarra ontologia si procedesse a distruggere per gradi: dal manufatto all’artefice, dall’artefice al procuratore e dal procuratore all’essere. Gli insulti e le offese, in questo caso identici, possono essere diretti contro qualcosa detto o fatto, oppure verso l’altro nel suo intero, nel suo frammentato intero. Si può, insomma, insultare Dio perché ha fatto degli errori o bestemmiare che sarebbe stato meglio non fosse mai esistito nulla. È questo, il grado zero che accomuna insulto e offesa: la minaccia di sospensione eterna. Che tu sia questo o quello, qualunque posto occupi, in ogni cosa che da te possa venire, non esisti e non dovresti esistere e in questo sei esecrabile e degno di essere messo da parte.
Ogni insulto è sempre volontario, nonostante i modi di dire e la cattiveria: La tua ragione è un insulto al buon senso è un’offesa, non un insulto. Al contrario, come insegnano da sempre le religioni della colpa, si può offendere anche senza volere, senza fare, apparentemente, nulla. L’amore non corrisposto è un’offesa, come il genitore che sopravvive al figlio o l’oblio; qui per davvero non c’è nulla da fare, nessuno da insultare né un innocente al quale appellarsi. Il problema è nascosto in quel “apparentemente”, cioè vale a dire nella coscienza, della colpa appunto o dell’innocenza. Anche quando ha rubato e ucciso tu sei il custode di tuo fratello e egli il tuo. Non è una condizione dalla quale si possa uscire né un legame che possa essere sciolto perché per vedere, te stesso e gli altri, non è possibile farne a meno. E così proprio dove sembrava fossero uguali l’offesa e l’insulto si dividono per sempre, scelgono due strade diverse o, per meglio dire, arrivano sopra di noi da due strade differenti. Se all’insulto non c’è rimedio che non sia un altro insulto, l’offesa ammette il riconoscimento di uno stato comune, la pietà e il perdono.
Come in certe declinazione l’ablativo e il vocativo si somigliano, così insulto e offesa appaiono la stessa cosa sino a che altre direzioni non chiariscono chi stia facendo cosa a chi. L’insulto, anche il più grave, è un soggetto che non ha altro da fare per affermare se stesso che colpire; l’offesa scorre tra due individui che si riconoscono reciprocamente, ne provano vergogna e si difendono passando all’altro il bastone che dovrebbe servire a aprire le acque e a far uscire entrambi – e in prospettiva tutti – dallo stato di minorità, volontario.
Alla fine le banalità del “non volevo” e del “non avrei voluto” dicono la verità meglio dell’affermazione della potenza e del diritto a fare da sé. L’insulto non ha giustizia, l’offesa la trova non nel perdono ma nella ammissione di colpa. Riparare a un’offesa è, dunque, conservare memoria e al tempo stesso ricordare chi siamo.
(da Etica e Politica)
Siamo di fronte a un testo molto denso e di raro acume e intelligenza. Partesana scrive in forma aforistica o di brevi riflessioni, una forma che eredita da Adorno. Mi sembra trasparente il suo intento di continuare le “meditazioni della vita offesa”. Questo era, infatti, il sottotitolo di quel libro straordinario che fu ed è «Minima Moralia».
Non entrerò nel merito dei risultati, importanti ed essenziali, raggiunti confrontando “insulto” e “offesa”, un confronto condotto all’insegna di ciò che accomuna e ciò che differenzia i due atti; mi preme, invece, sottolineare un assunto condivisibile, che mi sembra avere come bersaglio la «Teoria dell’agire comunicativo» di Habermas: «Tra due soggetti ci sono di mezzo così tante cose che nessun messaggio, nessuna comunicazione, può arrivare dall’uno all’altro senza fare il giro del mondo, senza percorrere la storia, l’economia e la politica; è come se parlassimo sempre scrivendo dentro un libro di storia, intenti a capire quel che c’è scritto e traduttori d’una lezione che ci appartiene solo inconsciamente, ma nella necessità di dire in fretta e furia quel che è importante.»
Se non ricordo male, Fortini scriveva: “Due persone che dicono la stessa cosa, in realtà non dicono la stessa cosa”.
Comunque, grazie per questo testo. Davvero prezioso. Terrò sott’occhio il blog di Partesana.
…mi sembra di aver inteso solo globalmente il discorso di Ezio Partesana, ma lo sento molto vicino e interessante…A volte le frasi del discorso sembrano buttate li’, slegate dal contesto, ma vanno “solo” cucite insieme. A colpirmi nella descrizione delle dinamiche che intercorrono tra chi fa e riceve insulti e/o offese è il riferimento sottinteso alle vittime, che alla fine potrebbero essere entrambi i soggetti inscindibilmente collegati: “Anche quando ha rubato e ucciso tu sei il custode di tuo fratello e egli il tuo. Non è una condizione dalla quale si possa uscire…” Mi viene in mente che lo schiavo vieno offeso, ma non allontanato, la sua presenza serve. Per il riconoscimento da entrambe le parti a volte possono passare secoli…l’offeso deve cicatrizzare una ferita che arriva all’osso, e pur di vivere si autoelimina, l’offensore ha bisogno dell’offeso per confermarsi in “vita”…Dinamiche perverse a cui si puo’ a volte porre un rimedio parziale con la fuga, l’allontanamento…La vittima non si illuda di essere ancora libera, é inseguita, a volte braccata, da dentro, ma farà una morte onorevole…Beh, stare con gli altri, nel confronto, aiuta. Grazie..
Vi ringrazio per la pazienza e l’attenzione.
Fu una donna, molto anni addietro, a insegnarmi che quando quasi tutto sembra perduto, la cosa migliore è continuare a fare il proprio lavoro. Ed è davvero una lezione che spero di non aver dimenticato.