Cavalli di Troia nell’arte contemporanea

Gigi Degli Abbati, Teatrino magico – 2003

CONVERSAZIONE CON GIGI DEGLI ABBATI

di Donato Salzarulo

1.- L’occasione per incontrarlo mi è stata offerta dall’inaugurazione della sua ultima mostra nella Scuola di musica “Luigi Piseri” a Brugherio (24 Novembre – 12 Dicembre 2019). 

Parlo di Gigi Degli Abbati, un artista che conosco da cinquant’anni e di cui ho in casa una delle sue opere giovanili: il monotipo N° 1 di una natura morta. Vi è rappresentato un vaso blu scuro con rami di fiori di vari colori e foglioline verde brillante; a fianco forse un piatto giallo limone; il tutto su un tavolo tra il rosso e l’arancione, sotto una finestra azzurra. Mi colpisce il modo di dare il colore: non disteso in maniera uniforme, ma graffiato in molti punti fino a ritrovare il bianco della carta; un bianco che disegna isolette, ghirigori, rametti, ruscelletti…

Gigi è un figurativo pieno di genialità e inventiva. Mi regalò (anzi, ci regalò) questo quadro nella primavera del 1971, quando io e Giuseppina mettemmo su casa in Via Rossini. Dirò di più: Gigi ci disegnò in parte anche i mobili e ci aiutò, insieme ad un suo amico falegname, ad arredare il bilocale in cui avremmo vissuto per vent’anni. In realtà, pure lui era sposato da poco (dal 1968) e viveva con Anna all’Edilnord, fronteggiando grosso modo i nostri stessi problemi.

2.- Un po’ come me, Gigi aveva casualmente incontrato Ennio Abate e, persona aperta e curiosissima qual è, aveva accettato di farsi coinvolgere nell’attività politica. Così nei primi anni Settanta frequentammo insieme le riunioni di Avanguardia Operaia nel Centro Studi di Viale Lombardia e ci impegnammo nelle molteplici iniziative di militanza politico-sociale e culturale.

In quel periodo faceva l’insegnante di educazione artistica alla scuola media e trovava la relazione didattico-educativa molto più motivante di altre esperienze. Aveva iniziato nel 1965-66 con una supplenza annuale a Romano di Lombardia, nel bergamasco, quando, finito il biennio di Architettura, aveva capito che l’architetto non l’avrebbe mai fatto. «Era un mondo», racconta lui, «che non c’entrava nulla con la creatività.» Non so se sia vero. Sicuramente gli architetti hanno un rapporto molto più stretto col potere politico ed economico. Gigi, invece, confessa che «si sentiva portato, sin da bambino, più per il disegno e la pittura che per altro… Sentiva dentro il bisogno e l’urgenza di dare forme e colori ad un mondo fantastico…»

3.- Gigi narra tutto questo in casa di Ennio. È la mattina del sei dicembre del 2019. Seduti tutti e tre intorno a un tavolo, stiamo conversando per capire un po’ meglio l’arte del nostro amico. Io ho sotto mano il catalogo delle sue opere realizzate dal 1978 al 2010. Molte di queste sono state esposte nell’ultima mostra. Ennio, artista come lui, per lo più rivolge domande; Gigi parla, io prendo appunti…E ogni tanto apro il catalogo. 

Autoritratto – 2000

Alla prima pagina c’è un suo autoritratto a colori datato 2 marzo 2000, una sorta di carta d’identità. Titolo: «Allo specchio». Mostra in primo piano il profilo destro del suo lungo volto con la fronte spaziosa, le rughe espressive e i capelli avviati all’indietro e un po’ spettinati; ma il focus è rappresentato dagli occhi curiosi, indagatori, vivi e malandrini; la mano sinistra, nodosa tocca la sua spalla destra. L’incarnato roseo sull’azzurro della maglia primaverile. Un’isola calda sul freddo, con le prime tre dita aperte, forse casualmente o forse a voler indicare una specie di trinità laica: il soggetto, la sua copia allo specchio e l’opera-amore prodotta. Nello specchio dell’opera Gigi si piace, si erotizza. Lo so: l’opera non è uno specchio. È una rappresentazione, una costruzione; ma ciò che voglio dire è questo: il mio amico non si autorappresenta come un artista, ad esempio, “maledetto”. Tutt’altro. È scapigliato quel tanto che basta, sregolato e creativo come lo sono un po’ gli artisti, ma ha la fronte spaziosa e intelligente, le rughe dell’esperienza, gli occhi indagatori e maliziosi, il baffetto simpatico, le spalle larghe e celesti, una manualità ottima, insomma, è un artista intrigante, che attira, che piace…

4.- Il suo autoritratto è una costruzione, il condensato di un corpo pieno di storie, cresciuto dall’infanzia ad oggi, grazie a tante esperienze e all’incontro con decine e decine di persone (reali o immaginarie), con cui si è intrecciata la propria vicenda…

«Vi dicevo del mio bisogno di disegnare un mondo fantastico…Dovrei, però, dire che il primo mondo fantastico con cui sono entrato in contatto è stato quello dei libri…Ricordo un Pinocchio pieno di illustrazioni in bianco e nero…Poi il grande fascino che esercitava su di me il mondo dei fumetti… Penso, in particolare, a «Il Vittorioso», pubblicato dalla casa editrice AVE, emanazione dell’Azione Cattolica italiana…Ero attratto dalle storie a fumetti di Benito Jacovitti (“Cip l’arcipoliziotto”…), dalla sua maniera di disegnare, dai dettagli surreali…Ero attratto anche da Curt Caesar che sempre su «Il Vittorioso» disegnava “Romano il Legionario”…Mi piacevano le storie, ma mi interessavano anche le tecniche grafiche, il disegno realistico ma caricaturato, deformato…La grafica era felice ed io copiavo ed inventavo…». 

Mentre parla, il mio sguardo si posa sull’omino-burattino disegnato sulla copertina nera del catalogo. È al centro, in alto. Ha un piede verde scuro sulla luna e un altro nel vuoto. Ha per copricapo un imbuto da oste, per faccia un rettangolo arancione, per naso un lungo cono rosso alla Pinocchio, dalla parte opposta una bocca larga e lunga quasi quanto il naso, è senza collo ed ha per corpo un trapezio blu al quale è inchiodata una mano da burattino con l’avambraccio a strisce bianche e nere. Dalla base della vestina-trapezio, ai due angoli isosceli fuoriescono le gambe come due strisce bianche e rosse di barriere stradali.

Il disegno di quest’omino ci dice qualcosa sul modo di rappresentare di Gigi? Penso di sì: innanzi tutto un amore per le forme geometriche (A), poi un gusto per il loro utilizzo come elementi sostitutivi: il rettangolo al posto della testa, il cono al posto del naso, ecc.; ma anche un gusto per la sostituzione più in generale: l’imbuto al posto del cappello, le barriere stradali al posto delle gambe, ecc. (B), una predilezione per la deformazione caricaturale o surreale delle figure (C) e, infine, l’idea che l’identità di una figura (o di in individuo) possa essere il risultato di un insieme anche contraddittorio di parti rappresentate da colori e forme (D). L’omino che vuol mettere almeno un piede sulla luna è un po’ ridicolo e donchisciottesco, un po’ romantico e sognante, ma va preso sul serio.

5.- Dal mondo dei fumetti italiani a quelli americani. Nella preadolescenza, tra i 12 e i 13 anni, Gigi scopre “Comics”. «C’era un’edicola dei giornali – racconta – che aveva questi fumetti. Li compravo e, sfogliandoli, ero attratto dal particolare profumo della stampa. Ero assai interessato alla loro tecnica rappresentativa, una tecnica ripresa anche da autori della Pop-Art come Roy Lichtenstein. Mi piaceva assai quel suo modo di scegliere dei dettagli dai fumetti, ingrandirli e portarli in primo piano, quasi all’estremo…Tutta questa produzione e diffusione d’immagini entrava a far parte della mia esperienza…Se già nella scuola elementare ero considerato dai compagni come una persona che sapeva disegnare e il maestro mi chiamava spesso ad aiutarlo, nella scuola media questa mia abilità si approfondì…Ricordo di aver disegnato un pescatore subacqueo che veniva diritto verso di me, usando, per la prima volta, una prospettiva estrema…Il professore di disegno non mi ha mai tormentato o dato fastidio. Seguiva i miei lavori, i miei fogli di carta…Sopra ci disegnavo le figure e i personaggi che mi emozionavano: Turbine o Pecos Bill; personaggi che, comunque, rendevo alla mia maniera…Come nella scuola elementare, il mondo grafico di questo periodo è prevalentemente ancora quello dei fumetti sia storici che americani…Il rapporto coi compagni di gioco era buono e riconoscevano volentieri la mia capacità…»

Ascoltando il mio amico, mi dico di non aver avuto sicuramente un’esperienza simile alla sua. Da ragazzo, ricordo d’aver letto alcuni numeri di pubblicazioni come «Akim», «Capitan Miki», «Blek», «Tex», «Topolino», «L’intrepido», «Il Monello», ecc. ma non credo me ne sia rimasto granché. Cerco, allora, nel catalogo delle sue opere le tracce di questa sua intensa esperienza visiva e cognitiva. Penso che si possano ritrovare: a) nel disegno della figura umana, nelle sue caratteristiche grafiche, quasi sempre caricaturali o grottesche, a volte comiche, comunque mai realistiche; b) nella presenza di alcuni personaggi tratti da quel mondo (es. Topolino nel quadro “4 PERSONAGGI” e forse anche in “improbabili”); c) nell’utilizzo del suo linguaggio relativamente, ad esempio, alla titolazione delle opere (una si chiama esplicitamente “fumetto senza fumo”) e al ricorso al lessico onomatopeico come GRRR nel quadro “gli arrabbiati”; d) nella scelta di dedicare un’intera sezione del catalogo agli “Alberi totem” e agli “Animali”; non solo perché il Totem era un elemento rituale del mondo degli Indiani d’America, ma perché «Totem Comic» fu un fumetto degli anni Ottanta;  e) nella presenza della nuvoletta con dentro il contenuto di un sogno o di un desiderio (es. “il sogno del gatto”); f) nel suddividere un’opera in quadretti, sequenze (es. “4 PERSONAGGI”, “improbabili”, “fumetto senza FUMO”, “Racconto intorno alla casa”), che richiama un po’ l’idea della striscia.

6.- Dopo la scuola media, Gigi frequenta il Liceo artistico «N. Barabino» di Genova. Qui conobbe degli artisti. Fa i nomi di Edoardo Alfieri, uno scultore abbastanza tradizionalista; di Alberto Nobile, un pittore di tendenza realista; di Guido Basso, allievo di Felice Casorati, con una formazione post-impressionista; di Rocco Borella, che insegnava figura disegnata ed era anche il più impegnato nelle ricerche delle avanguardie artistiche. Dava importanza al linguaggio della linea, del colore, dello spazio come veri e propri mezzi espressivi ed era impegnato in esperienze di arte astratta. 

«La frequenza del liceo, sottolinea Gigi, mi è stato molto utile. In parte ha rappresentato un lavoro di formazione accademica. In parte, no. È come andare in una bottega artigiana. Impari un metodo. E questo è fondamentale. Rocco Borella ci presentava dei modelli. Ad esempio, ci fece conoscere le Lezioni tenute dal Paul Klee al Bauhaus dal 1920 al 1931. In questo modo ci portava dentro le problematiche della modernità: il collegamento tra attività artistiche e artigianato, il farsi dell’arte, la funzione dell’immagine e la ricerca di una “grande sintesi” tra organico e inorganico che ci aiutasse a comprendere come ognuno di noi col proprio agire fosse legato all’umanità e al ritmo cosmico…Insomma, cercavamo di capire il pensiero di Paul Klee…Ma prendevamo contatto anche con i linguaggi delle Avanguardie artistiche novecentesche: espressionismo, cubismo, futurismo, surrealismo, astrattismo…Un contatto non “teorico”, nel senso che non leggevamo in classe, né leggevo io autonomamente, gli scritti teorici di Kandinskij o di Picasso…Ci limitavamo a studiare il manuale di storia dell’arte. L’obiettivo era: imparare a interpretare le caratteristiche di un dipinto, collocandolo nel suo contesto sociale e nella sua epoca storica. Queste sicuramente erano lezioni un po’ “teoriche”, però erano molto utili. Trasmettevano un metodo, ci spingevano a saper interpretare e a sapere leggere un’opera…Io, invece, in quel periodo, più che scritti teorici degli artisti d’avanguardia, leggevo romanzi…»

Sfogliando il catalogo, la lezione delle avanguardie artistiche è, comunque, ben presente nelle opere di Gigi: da Picasso (cfr. ritratto della donna nei “4 PERSONAGGI” oppure “Gli amanti”) a Klee, da Matisse a Chagall, dal surrealismo al cubismo (cfr. la sezione dedicate alle “Nature morte” dove un quadro ha espressamente per titolo: Tavolo antropomorfo cubista)

Tavolo antropomorfo cubista – 2003

7.- Durante gli anni del Liceo, nel periodo estivo, Gigi ricorda di aver fatto, per un mese / un mese e mezzo, un’esperienza molto stimolante nella grafica pubblicitaria. Frequentò lo Studio «Firma», fondato nel 1956 da Marco Biassoni, Dario Bernazzoli, Flavio Costantini e Ettore Veruggio. 

«Lo studio – racconta – era una specie di laboratorio d’arte applicata alla pubblicità. Marco Biassoni era un illustratore, un amante dei fumetti e faceva dei cartoni animati per Carosello. Tra le sue pubblicità più note c’è quella del personaggio di Re Artù inventato per la Pavesi. Era accompagnato dallo slogan: “Arriva Lancillotto, succede un 48…”; Dario Bernazzoli era un grafico, amante della pittura. Nei suoi dipinti fa sempre capolino una lumachina, un’immagine legata al ricordo della sua infanzia, quando bimbetto incuriosito e incantato, vedeva strisciare l’animaletto nel giardino della nonna; Flavio Costantini era illustratore e pittore libertario, particolarmente interessato alla storia sociale; Ettore Veruggio aveva anche lui la passione per la grafica e progettava manifesti, depliants, pieghevoli. In qualche modo era stato lui il promotore del gruppo perché aveva aperto l’atelier a Genova qualche anno prima. Il suo intento era quello di applicare l’arte ai bisogni della vita quotidiana: propose, ad esempio, vestiti realizzati con stoffe disegnate e stampate dal gruppo Firma, oggetti d’artigianato di qualità, ecc…

Lo Studio «Firma» lavorava sotto l’ala protettrice di Emanuele Luzzati e Umberto Piombino. Il primo è stato un importante scenografo e illustratore, un grande maestro in qualsiasi campo dell’arte applicata, compreso quello della ceramica; il secondo uno scultore di piccole statuine sacre in ceramica o in terracotta…

L’anno successivo abbiamo fatto la GMG…Ho avuto modo di concentrarmi sui problemi della prospettiva e sull’assonometria…Avevo degli insegnanti certamente all’antica, però ve n’erano anche di moderni… Ricordo il prof. Azena che ci insegnò a fare il rilievo di un negozio e il disegno dal vero del centro storico…

Concludendo, direi che all’epoca della maturità artistica, dell’esame di stato e dell’abilitazione avevo una formazione a spettro molto ampio. Avevo ricevuto e assimilato una serie di stimoli, ma prima di trovare la mia strada artistica ce n’è voluto…»

Sicuramente nella ricerca di questa sua strada Gigi è tornato molte volte sulle esperienze compiute durante l’adolescenza. Avrà guardato e riguardato le illustrazioni di Luzzati, avrà pensato ai loro colori ariosi, alle loro figure ora grottesche ora fiabesche e sognanti; nel realizzare le statuine di ceramica, riprodotte in una apposita sezione del catalogo, avrà ripensato a quelle fatte da questo grande maestro che, nella sua arte, aveva interiorizzato ottimamente Chagall e il Kandisnskij del “Cavaliere azzurro”. Insomma, nel mettersi alla ricerca della sua strada, Gigi aveva assimilato un mondo di immagini di grande forza espressiva, una varietà di procedure e soluzioni tecniche, un’intensità di esperienze e di emozioni, che si attiveranno nella realizzazione del suo mondo interiore, un mondo che, stando alle sezioni del catalogo, è fatto di Personaggi, Alberi totem, Animali, Mandala, Nature morte, Paesaggi, Sculture e ceramiche, ecc.

8.- Dopo il Liceo artistico, l’esame di stato e l’abilitazione, si iscrive ad Architettura. Ma, come dicevo all’inizio, l’esperienza gli scivola addosso. Finisce il biennio e fa altro. Quel mondo non gli appare sufficientemente creativo…Deve, però, trovarsi un lavoro, qualcosa che gli consente di rendersi autonomo economicamente dalla famiglia. Così nell’anno scolastico 1965-66 accetta una supplenza annuale a Fara Olivana, dalle parti di Romano Lombardia, in provincia di Bergamo. L’alternativa era finire a Trapani. Comincia così la sua carriera di insegnante di educazione artistica.

«A Fara Olivana, racconta Gigi, i ragazzini in età scolare facevano tutti i contadini. Io avevo una stanza come quella di Van Gogh ad Arles: il letto, il tavolino, qualche sedia…Oltre all’insegnante, avevo deciso che avrei fatto il pittore e cominciai a dipingere nature morte ad olio…In quel periodo avevo in testa le nature morte, le vedute e i paesaggi di Guido Basso. Iniziai, imitando; ma, piano piano, diedi avvio a un certo tipo di ricerca per rappresentare al meglio il mio mondo interiore…

L’anno successivo partecipai ad un concorso nazionale a Roma e ottenni l’idoneità all’insegnamento dell’educazione artistica. Dopo di che ebbi un incarico triennale a Brembate, sempre in provincia di Bergamo. 

Nel 1968 mi sposai con Anna e andai ad abitare a Brugherio. Fu in quel periodo che incontrai casualmente Ennio. Lui stava facendo l’autostop e io gli diedi un passaggio da Vimercate a casa. Fu così che cominciò il mio periodo di attività politica a Cologno Monzese. Giovane di formazione cattolica, già durante l’esperienza a Fara Olivana, mi stavo aprendo ad una conoscenza più scientifica della realtà e a temi quali la psicanalisi, il marxismo, l’economia; l’incontro col Gruppo Operai e Studenti di Cologno rappresentò per me un approfondimento e una scoperta. Io avevo conosciuto i contadini del poverissimo entroterra ligure, ora incontravo operai, per lo più immigrati, persone semplici spesso provenienti anche loro da campagne o paesini meridionali. Fu un’esperienza nuova, piena di emozioni che mi entravano dentro…Un mondo che cercavo di interpretare a modo mio: disegnavo operai, persone, uomini in bicicletta con uno sguardo più intimistico e un’impostazione prevalentemente grafica. Facevo delle serigrafie e delle chine slavate…Ricordo di aver fatto lo striscione di Avanguardia Operaia…»

Copertina di Avanguardia Operaia – 1971

Oltre alla natura morta descritta all’inizio, nella primavera del 1971, Gigi mi regalò anche una di queste chine slavate. Sullo sfondo di un paesaggio industriale, in primo piano sono rappresentati tre giovani col pugno chiuso alzato. In basso, si legge, a carattere cubitale, SCIOPERO e a destra il simbolo della falce e martello.

9.- L’esperienza dell’insegnamento ha rappresentato un motore fondamentale dell’attività artistica di Gigi: «La didattica ha funzionato da volano, dice…Mi sono dovuto inventare un metodo, attingendo a man bassa agli artisti moderni. Cercavo tutto ciò che poteva stimolare l’osservazione, la manualità e la creatività dei ragazzi. Da un lato cercavo di aiutarli a comprendere la specificità del linguaggio visivo, l’interpretazione di un’immagine, dall’altro sollecitavo la loro espressività. Ad esempio, preparavo delle strisce di quadretti, invitandoli a disegnare sopra…

Quando nel 1975, ho avuto il posto di ruolo a Genova e sono ritornato nella mia città, sono andato ad abitare nel centro storico…A scuola abbiamo realizzato dei progetti interdisciplinari. Ho allestito ed attivato il laboratorio di pittura per l’inserimento di alunni portatori di handicap. Abbiamo partecipato a iniziative promosse dal Comune, abbiamo realizzato un progetto sulla fucilazione dei fratelli Cervi…Diciamo che, in generale, l’attività didattico-educativa mi ha sempre molto assorbito ed è stata sempre molto importante per me.»

Io ho un ricordo particolare di questa passione educativa di Gigi. Quando lo conobbi nel 1969, insegnavo in un doposcuola. Un pomeriggio volle venire con me, volle guardare le attività dei bambini, il loro modo di porre domande, di conversare, di giocare e lavorare. 

Guardando i suoi quadri non ho dubbi: nell’artista adulto è rimasto qualcosa dello stupore dell’infanzia, di quel gusto della scoperta tipico di chi guarda qualcosa per la prima volta, delle attività instancabili e varie del gioco, della voglia di scherzare, deformare, riutilizzare, nascondere. Il catalogo, in ultima di copertina, ha il disegno di un animale somigliante a un tapiro. Lo si ritrova nel quadro Tempo rovesciato, a pag. 88. Sul suo dorso è scritto in corsivo, come scriverebbe un bambino di prima elementare, Piripicchio.

10. – Tornato nella sua città, Gigi si butta a capofitto nel lavoro artistico. Se si guarda il lungo elenco delle sue mostre personali in fondo al catalogo, si nota che, a partire dal 1977, organizza quasi due mostre all’anno. Lavora con la Galleria Ferro e con la Galleria Rafanelli di Genova, con la Schubert di Milano e nel 1980 espone alla George Gallery di Londra. Nel 2000 vince un concorso nazionale e realizza, nella piazza antistante la Capitaneria del porto di Genova, un mosaico calpestabile di 365 mq, raffigurante la Storia della Marineria. Particolari del mosaico si trovano nel catalogo. 

Mosaico per la Capitaneria del porto di Genova – 2000

«Fu un periodo di grande lavoro e di sperimentazione grafica…Non nego, però, che separatomi da Anna, il mio obiettivo era vendere per poter campare…Cercavo perciò di realizzare prodotti artistici moderni, freschi, semplici ma geniali…Facevo acqueforti, incisioni, punte secche, serigrafie, cera molle…C’era mestiere, ma c’era soprattutto il mio mondo interiore. Io credo che il lavoro dell’artista sia fortemente intimista e individualista… Tutto in me parte dall’emozione…Al di là dei vari temi affrontati, questo io credo sia l’elemento unificante del mio lavoro: il partire sempre da fattori di carattere emotivo…Credo che Picasso sia l’artista che più abbia ispirato il mio metodo di lavoro…L’emotività è un dilatatore della coscienza…Ogni emozione è legata a un oggetto o a un’idea… Certo Picasso, ma anche Chagall…E poi certi film, certi registi: ad esempio, mi è sempre piaciuto Fellini, E la nave va…Sono un uomo molto socievole, ma nel mio lavoro mi isolo…Immerso nel mio quadro, al massimo mi tiene compagnia la radio…Avrei potuto insegnare all’Accademia, ma quando realizzai che avrei dovuto insegnare al settanta per cento di donne, me ne tenni ben lontano…Il mondo femminile mi attrae, m’innamora smisuratamente…»

Le ultime battute sono scherzose. Ma è indubbio che l’arte di Gigi ha una forte componente erotica. È conatus spinoziano, desiderio, voglia di vita. Affettività primaria che regala gioia, allegria, felicità mentale.

11.- La nostra conversazione è finita ed io porto il catalogo a casa. Lo sfoglio e risfoglio innumerevoli volte. Le opere antologizzate rappresentano soltanto una parte del mondo artistico prodotto in tutti questi anni dal mio amico. Una parte essenziale, ritenuta comunque idonea, se non a comprendere, a farsi un’idea della sua personalità artistica e delle sue modalità espressive. 

Il catalogo è diviso in nove sezioni: Personaggi, Alberi totem, Animali, Mandala, Nature morte, Sculture ceramiche, Paesaggi, Mosaico, Altri lavori.

Le tavole dei Personaggi sono venti. La loro presentazione non segue un criterio temporale; nel senso che la tavola più lontana nel tempo, come si apprende dall’Indice e dalla data sulle singole opere, è Sciamano del 1978, quella che, invece, viene presentata per prima è La notte del marinaio del 2000. A chiusura della sezione, come in un cerchio che torna su sé stesso, c’è un’altra tavola con uguale titolo del 2008. A chi si inoltra nel suo catalogo, l’artista perciò suggerisce di partire dal marinaio; un personaggio essenziale che apre, chiude la sezione e quasi a metà si rifà vivo con un’altra opera intitolata I messaggi del marinaio del 1999

La notte del marinaio – 2000

Inutile anche solo accennare all’importanza di un simile personaggio nell’immaginario collettivo, nella letteratura, nella filmografia, nei fumetti…Braccio di Ferro è un marinaio. Lo è anche Corto Maltese di Hugo Pratt. Umberto Eco diceva: «Se voglio divertirmi leggo Hegel, se voglio impegnarmi leggo Corto Maltese». Gigi, il genovese, ha tutto questo nel sangue. Per questo conosce benissimo il lato oscuro dei marinai, la loro notte. 

Che volto hanno i suoi marinai?…Il primo, quello che ci viene incontro nella tavola del 2000, è un mezzo busto di profilo, un uomo serio, rude. Col berretto rosso, il naso adunco, i baffi neri, il collo lungo, i capelli bruni, la maglietta marrone e, sulla parte alta del braccio, i tatuaggi di un’ancora e di un cuore trafitto da Cupido. 

Questo, se guardi il quadro da lontano, se t’avvicini scopri che il berretto è un pappagallo rosso con la coda azzurra, che sotto c’è il disegno di un pesce (una triglia?…Un’orata?…Chissà!…) e sotto ancora, in tutta la calotta cranica, il bel profilo di un volto femminile, col collo filiforme e il seno. L’occhio del marinaio quasi coincide col pube di una donna che mostra le sue gambe grassottelle. E sotto le gambe una lumaca marina, e poi il tentacolo di un polpo. L’orecchio ha quasi la stessa spirale della lumaca e il naso, non sai bene, se è un embrione accovacciato in grembo; tra i capelli bruni sulla nuca si profila la silhouette di un’altra donna e a fianco, sopra l’orecchio, ha le ali aperte una farfalla; il mento sembra ricavato dalla testa di una civetta o da una conchiglia. Insomma, una bella scorpacciata di quel “principio sostitutivo” notato nel disegno dell’omino (cfr. sopra, punto 4). E, conseguentemente, un serio problema d’identità. Fossero pure soltanto oggetti interiorizzati, il marinaio non sa quanto la sua vita mentale (e non solo) coincida con tutto questo: è pappagallo (voglia di esotismo e compagnia), è donna da cercare in ogni porto (ne ha in testa almeno tre e il pube ce l’ha negli occhi), è mare coi suoi animali…Ma è anche voglia di sognare, di esplorare, di appassionarsi come bambini ad una conchiglia e all’immensità del mare, è volubilità, incostanza, è contraddizione sperimentata quotidianamente tra la grandezza e apparente illimitatezza del mare e la prigionia del proprio naviglio sulla cui prua o sulla cui poppa o nella propria cabina si consuma poi davvero la vita. 

Durante la nostra conversazione, nel ripercorrere la sua formazione, mi ha colpito l’insistenza di Gigi sulla necessità della disciplina e del metodo; sulla necessità, cioè, di star dentro certi schemi, certe prevedibili rigidità. È ciò che nelle sue opere chiamerei l’elemento geometrico, l’amore per quelle forme. Un’altra cosa mi ha colpito: l’amore di Gigi per i profumi della carta stampata, delle erbe, del legno, delle pietre. Più che il mare, forse il cuore del suo marinaio è la terra come i colori del suo volto, dei suoi capelli della sua maglietta. Per quanto deformati, surreali e caricaturati, insomma, questi marinai mi sembrano il prodotto di una coscienza inquieta, tutt’altro che tranquilla e pacificata.

La notte del marinaio del 2008, la tavola che chiude la sezione, è realizzata con acrilico ed olio su tela, la stessa tecnica di quella del 2000. L’opera ha lo stesso titolo, una serie di invarianti (ripetizioni), ma anche diverse differenze e cambiamenti. 

La notte del marinaio – 2008

In tutte e due i casi la rappresentazione è quella di un marinaio a mezzo busto disegnato di profilo. Nella tavola del 2000 la testa è rivolta a sinistra dell’osservatore, in quella del 2008 punta a destra. Nella prima, il mezzo busto è abbastanza visibile, nella seconda il busto è meno visibile e il profilo del volto e del collo del marinaio sono più in primo piano. Anche in questo quadro viene impiegato ampiamente e più visibilmente il “principio sostitutivo”, ma qua e là cambiano gli elementi: l’occhio del marinaio coincide con quello di un pesce, nella calotta cranica c’è sempre una donna, ma questa volta è ben più appariscente ed ha per capelli un corpo di pesce e una faccia di civetta. Ha sulle labbra il rossetto, il seno è scoperto, e sotto il capezzolo vola una farfalla tra l’ocra e l’arancione. Sotto l’orecchio una lunga conchiglia a forma di cono e di fronte una lumaca marina con la sua spirale. Il naso è adunco e sembra quasi un muso di delfino. Mentre nella forma del mento s’intravede una testa di un’anatra marina.

Oltre a questi, mutamenti espressivi molto forti sono rappresentati dai colori. Il volto di questo marinaio è quasi tutto sul blu-violetto, salvo l’ocra del viso femminile e della farfalla. Le forme sostitutive (pesci, nuca, mento, ecc.) sono contornate d’ocra e punteggiate. Fatta eccezione per i colori caldi del girocollo della maglietta (rosso mattone, ocra ed arancione) e il semicircolo rosso della spalla, la figura ha colori prevalentemente freddi. La striscia marina è molto ridotta rispetto al quadro del duemila, il cielo occupa quasi tutto lo sfondo, rimane verde scuro e si accende dei colori del crepuscolo verso la linea dell’orizzonte.

Al di là della comune matrice surrealista dei due quadri, il primo forse appare più empatico agli occhi dell’osservatore; il secondo è sicuramente più raffinato, lavorato, elegante; ma, a ben vedere, appare anche più arzigogolato.

I messaggi dl marinaio – 1999

Restando al tema-personaggio, rimane infine I messaggi del marinaio. È un quadro del 1999. Tecnica: acrilico e olio su tavola. Anche questo è un mezzo busto ed ha per sfondo per larghissima parte il cielo, un cielo bianco-celeste per l’addensarsi di nuvole che non sembrano portatrici di pioggia, e un rettangolo di mare piatto con onde biancheggianti. 

Il marinaio, visto di fronte, è un giovanotto robusto con muscoli da super-culturista. Ha il braccio sinistro alzato e una bandierina chiusa in mano; il braccio destro è piegato quasi ad angolo retto sulla pancia (appena un po’ sopra l’ombelico). La mano stringe una bandierina italiana e si trova in linea verticale con l’altra. Dalle due punte estreme delle asticine delle bandiere partono due linee oblique che disegnano in cielo un angolo acuto, la cui ampiezza viene tratteggiata dal pittore. Sulla nuvoletta bianca si può leggere la lettera “a” in stampatello minuscolo. In pratica, il marinaio sta emettendo dei messaggi probabilmente secondo il codice internazionale nautico.

Ma questi messaggi sono poca cosa rispetto a quelli che si possono leggere guardando i tatuaggi sul suo corpo. Sul petto, sotto il collo robusto, c’è un bel veliero sulle onde di un mare disegnato. Il veliero va verso un cuore e un palloncino rosso. Lo schizzo di un’ombra marrone sullo sterno, la pancia ed i lombi mette il veliero in prospettiva. Sul muscoloso braccio destro che, piegato, copre buona parte di quest’ombra, vediamo una bella sirena coi lunghi capelli marroni, a fianco una stella e una falce di luna nera; nell’avambraccio si trovano i tatuaggi di un pesce con la testa rossa, di un’ancora, di un serpente colorato come una striscia pedonale giallo-nero-bianco, un dado, un palloncino verde e delle freccette simmetriche. Lungo il braccio sinistro, quello alzato verticalmente, vediamo un elefante e una lumaca con le sue spirali; verso la piegatura del gomito c’è un uccello marino con le ali azzurre, il becco lungo e giallo s’appoggia sulla testa rossa di un pesce grigio tratteggiato che occupa tutto l’avambraccio.

Su un corpo così muscoloso, s’impianta un viso roseo non proprio perfetto: col naso camuso, le grandi orecchie tutt’altro che simmetriche (quello sinistro ha un anello appeso), gli occhi aperti senza sopracciglia, due accenni di rughe sulla fronte, il cranio quasi calvo coperto da un tipico berretto da marinaio.

In pratica questo personaggio ha sul corpo un mondo, un mondo fantastico, reale e surreale, che si porta dietro. Più che le posizioni delle bandierine con i suoi numeri bianchi a fianco 1 e 3, più che la lettera “a”, è il suo corpo che emette messaggi e, in un certo senso, si fa messaggio e messaggero. L’identità di questo corpo rimane, per certi versi, intatta. Non è “sostituita” o mimetizzata con i suoi oggetti interiori o interiorizzati: il pappagallo al posto del berretto, la donna al posto della calotta cranica, ecc.. È tatuata, segnata da questi oggetti portati sempre con sé perché rappresentano larga parte del proprio mondo interiore. 

Altre opere in questo catalogo seguono questo “principio del tatuaggio”: ad esempio, I desideri di una signora del 2002. Sulla propria gonna rossa ci sono i disegni di un uomo che chiama un cane e quello, fatto in modo fanciullesco, di una casetta orizzontale col fumo che esce dal comignolo; mentre sulla propria camicetta verde scuro si vede il mezzo busto di una donna rovesciata che scende da un seno e una spirale rossa che parte dal capezzolo dell’altro. I disegni sono sugli indumenti e non sul corpo. Esprimono, comunque, desideri e storie. Tra l’altro, la testa di questa signora sembra volare via dal suo corpo. 

Guerriero Maori – 2007

Poi c’è Il guerriero Maori del 2007. Popolo polinesiano, i Maori praticano comunemente il tatuaggio come rito sacro per rappresentare e ricordare il loro passaggio all’età adulta, i loro simboli sacri e gli avvenimenti più importanti nella storia di ognuno. Il corpo del singolo, diventa, quindi, un unico tatuaggio. Il guerriero di Gigi è così. Occupa quasi tutto lo spazio della tavola alta 60 cm e larga 50. È un colosso multicolore geometrizzato, con una testa piccolissima e sul petto un grande faccione che mostra la lingua.

Infine, Saraghina del 2008. Tecnica: Acrilico e olio su una tavola di cm. 70 per 60. La saraga è un pesce. La saraghina, un piccolo pesce. A dispetto del suo nome, è una gigantessa, una donnona felliniana che piacerebbe a Botero. Tanto per intenderci, il cerchietto della testa con i suoi occhioni neri, il suo nasino, le sue labbra rossa e i suoi capelli ricci è più piccolo del cerchio di uno dei suoi seni. Insieme sono due grandi bocce vitree che contengono il disegno di un mezzobusto maschile e di una testa di donna (quello di sinistra) e di un altro mezzo busto maschile e della testa di un gatto (quello di destra). Questi sono solo alcuni personaggi della vita di Saraghina, altri sono disegnati sulla gonna e sulla maglietta. Anche lei, un po’ come il guerriero Maori, si porta la sua storia (o un pezzo della sua storia) dietro.

Saraghina – 2008

Gigi se la porta rappresentando personaggi simili che esprimono sicuramente gusti, desideri, voglie, pensieri, fantasie, attenzioni, curiosità… In breve, un mondo attraversato da conoscenze, attrazioni, amori, simpatie, emozioni consce e inconsce.

12.- Un gesto ripetuto non è mai del tutto uguale al precedente. Può essere peggiore o migliore. Comunque, differente. Un po’ come l’accoppiamento, il fare l’amore…il disegnare. Gigi conosce questa regola e la sfrutta per ripetere e variare, per dare avvio al processo creativo, per innestare la spirale dell’apprendimento. Così la seconda tavola presentata nel catalogo e intitolata 4 PERSONAGGI – scritta proprio così, in stampatello maiuscolo, e con la O toccata sopra e sotto da due lineette oblique, come certe volte fanno i bambini per animare le lettere – è ripetuta nella pagina successiva. La prima è a colori ed è una tecnica mista su tavola, la seconda, invece, è un disegno sulla carta di colore grigio. Tutte e due sono quadrati della stessa dimensione, 36 cm per 36, suddivisi in quattro quadrati. In ognuno di essi è rappresentato un personaggio.

Quattro personaggi 2010

Nel primo quadrato della tavola a colori c’è il faccione, più cereo che roseo, di un personaggio che mostra i denti, non so se per incutere timore; ha un taglio di capelli alla mohicana, occhi a palla, sopracciglia marcate e per naso un lungo rettangolo colorato a strisce arancione. Il collo quasi non si distingue dalle spalle. Forse è un indiano delle tribù dei nativi americani, forse è un punk o, più semplicemente, un personaggio dei tanti fumetti amati da Gigi. 

Nel secondo si trova un Topolino con le sue orecchie nere e rotonde, tutt’altro che sorridente. Anzi, ha labbra quasi rosse e ben appuntate. Con i suoi occhietti a spillo sembra attento e silenzioso, mentre guarda in faccia, con un certo distacco, l’osservatore. Il buon umore sembra tutto trasferito nel vestitino a strisce angolari di vario colore: blu, roseo, arancione, marrone chiaro, verde. Vuole forse rubare qualcosa ad Arlecchino?…

Nel terzo è ritratto il volto di una donna “picassiana”. Nel senso che Gigi compie qui un esplicito richiamo alla lezione del maestro spagnolo: i due occhioni, le ciglia e le lunghe sopracciglia, il naso in movimento, le labbra rosse e carnose, i lunghi capelli vinaccia…

Nel quarto, infine, abbiamo di fronte la testa rotonda, come quella di Topolino, di un bel gatto grigio. Lunghe orecchie a punta, occhi biancastri, a spirale, dentro due quadratini, baffi lunghi, labbra semi-rosse e per corpo una torre che ricorda quella degli scacchi. Altre due torri, a destra e a sinistra, sembrano fargli da sentinella.

Da notare: i due quadrati a sinistra rappresentano degli esseri umani (un uomo sopra e una donna sotto), quelli a destra due animali (Topolino sopra e il gatto sotto). Domanda: se il gatto mangia il topo, la donna mangia l’uomo?…

La seconda tavola, quella disegnata su carta, è speculare rispetto alla prima. Allora il primo quadrato è occupato da Topolino, il secondo dal faccione dell’uomo punk, il terzo dal gatto sulla torre e il quarto dalla donna “picassiana”.

Quello della specularità è un altro dei principi di composizione delle opere di Gigi. Più avanti si incontra un’opera intitolata proprio Danzatori speculari. Specularità significa anche simmetria, corrispondenza caratterizzata da inversione dei rapporti, opposizione. Ma significa prima di tutto personaggi che si guardano allo specchio. È il tema fondamentale del “doppio” che ha caratterizzato tanta arte, letteratura e riflessione psicanalitica e filosofica novecentesca. È un capitolo che mi guardo ben bene dall’aprire. Dico soltanto che il doppio del Topolino colorato è il grigio. Lo stesso dicasi del Faccione punk, della Donna e del Gatto. Un grigio in rilievo e punteggiato che appiattisce le stratificazioni dei mille colori dell’esistenza. È vero che tante volte si dice che la vita non è bianca o nera perché ci sono le mille sfumature di grigio. Ma per un artista, così come forse per qualsiasi altra persona, non c’è modo di sfuggire alle domande del “chi sono”, “cosa desidero davvero”, “cosa devo cercare di essere” e “come mi vedono gli altri”. 

Porre i propri personaggi di fronte allo specchio è come domandare indirettamente a sé stessi i punti di mediazione raggiunti fra i diversi livelli della propria storia e della propria realtà psichica. È come chiedersi quale “formazione di compromesso”, quale nuovo equilibrio è stato raggiunto tra la propria personalità conscia e inconscia e la cultura appresa con la sua disciplina e le sue regole. Il punk un po’ spaventa, Topolino è attento ma distaccato, il Gatto è seduto sulla sua torre degli scacchi, la Donna “picassiana” è più calda è in movimento…

13.- Guardando, riguardando e interpretando singoli quadri, ho cercato finora di individuare alcuni principi compositivi utilizzati da Gigi per costruire il suo “mondo interiore”. Che poi, tanto interiore non lo è più, dal momento in cui si è oggettivato in tavole, disegni, sculture. 

Finora si è visto all’opera: il principio di sostituzione, quello del tatuaggio e quello di specularità. Principi che si avvalgono tutti dell’elemento geometrico nelle sue varie forme: ad esempio, più linee curve e cerchi in Saraghina; più linee rette e oblique, più angoli, triangoli, rettangoli, ecc. nel Guerriero maori.

A questi aggiungerei quello d’inclusione e quello dell’ibrido o della metamorfosi. Il primo è ben visibile nella serie dei Cavalli di Troia (e varianti come gli Elefanti di Troia); il secondo nei Tavoli antropomorfi della sezione Nature morte.

La raffigurazione del cavallo ha una lunga tradizione nella storia dell’arte, quella del “cavallo di Troia” mi pare un po’ meno. Il suo significato è chiaro: è quello dell’insidia, del tranello, dell’inganno dissimulato abilmente. Ma come sono fatti e cosa nascondono i cavalli di Troia di Gigi?…

Nel catalogo ce ne sono tre: il primo, ad acrilico e olio, è del 2000 ed è raffigurato su una tela di un metro per un metro e trenta; il secondo, del 2010, sempre ad acrilico e olio, è dipinto su una tavola di cm. 60 per 70; il terzo, ancora del 2010 e con la stessa tecnica, è una tela quadrata di un metro per un metro. Tutti e tre sono statuari, nel senso che sembrano poggiare le zampe su un basamento. Il primo e il terzo hanno la zampa anteriore sinistra alzata, il secondo le ha tutte e quattro appoggiate.

Cavallo di Troia -2000

Il primo è un cavallo sul nero, abbastanza proporzionato, con la criniera a strisce bianche e nere. Ha un’aria fiera ed è visto di lato. Al suo interno ha un elefantino che, a sua volta, ha all’interno una faccia col collo, delle braccia, una maschera. Insomma, qualcosa che ricorda un quadro più o meno cubista. Anche il terzo cavallo, simile al primo, ma di colore biancastro, ha al suo interno un animale non ben definito. Ha una proboscide e delle corna da toro o da bisonte. La parte anteriore con le due zampe coincide col disegno geometrico di una figura d’uomo con le mani alzate. Così dicasi della parte posteriore. La figura questa volta ha una mano all’insù e un’altra all’ingiù. Dall’articolazione del ginocchio della zampa alzata di tutti e due cavalli parte una barretta a strisce colorate. Come se si suggerisse di avere a che fare con cavalli di legno. Tutta la fierezza di questi due cavalli è apparente? Tutta la loro potente muscolatura e tutta la focosità della loro criniera sono soltanto un bluff? Tutta la loro forza vitale, la loro energia pulsionale sono ben poca cosa?…Il primo cavallo ha al suo interno la tradizionale saggezza di un elefante, la sua prodigiosa memoria che può addomesticare il quadro semi-cubista delle sue figure interne; il secondo ha un ibrido, un po’ toro e un po’elefante. che si umanizza anteriormente e posteriormente. 

Cavallo di Troia 2010

Da dove viene l’insidia?…Dovrebbe venire da quello che c’è dentro. In fondo, nel mito del cavallo di Troia è così. Ma questa insidia verso chi o verso cosa viene esercitata? Nel cavallo di Troia i soldati achei dovevano espugnare la città di Priamo. In questo caso quale città bisogna espugnare? Quali difese occorre aggirare dall’interno? È un cavallo di Troia per l’autore o per le cittadelle dell’arte contemporanea?…Per l’autore l’insidia viene dall’inconscio o dai colori caldi dello sfondo (giallo e rosso) su cui i due cavalli si stagliano?…Domande legittime se si presta attenzione al “significante” o al “contenente” che il sintagma “cavallo di Troia” rappresenta.

Cavallo di Troia – 2010

Il secondo cavallo, quello con le quattro zampe appoggiate sul basamento, è ritratto dentro una cornice. Ha la coda lunghissima, intrecciata quasi come una sciarpa, una criniera immobile come quella di un elmo e la testa alzata come se volesse nitrire. È un cavallo di Troia, ma è tutto il suo “dentro” ad essere occupato: dal collo fino ai ginocchi delle zampe. Sembra il quadro istoriato di una battaglia di antichi guerrieri; una composizione gremita, un intreccio di linee, rombi, quadrati, rettangoli, strisce di colori alternati tra varie sfumature di marrone e grigio. 

A partire dal collo, in successione, si vedono: un tempio greco, un avambraccio, una casa che potrebbe essere, però, la testa di un guerriero, un collo, un’altra faccia, il corpo di un guerriero che imbraccia uno scudo rotondo, i volti di due signori: uno con la mano alzata e un altro che guarda lo scudo, tra le gambe del guerriero c’è un’altra faccia; nella pancia del cavallo c’è un profilo di testa da antica egizia; poi verso la groppa, ci sono le facce di due uomini camuffati con teste di animali che sembrano azzuffarsi, in fondo si vede il profilo aggressivo  di un altro volto…È una raffigurazione indubbiamente molto intricata e movimentata di stampo cubista. 

Problema: per definizione, il contenuto del cavallo di Troia è nascosto. Altrimenti l’inganno non si potrebbe consumare. L’autore, invece, sceglie di rendercelo visibile, come se la pancia del cavallo fosse trasparente. Lo fa anche per gli altri due cavalli e per le varianti elefante di Troia (pag. 37, pag. 40) e rinoceronte fagocitante (pag. 42).  Perché lo fa?…Forse per aprire un altro spazio di rappresentazione, una sorta di nicchia in cui il corpo del cavallo fa da cornice supplementare. 

Del resto, in questo secondo “cavallo di Troia” il problema della cornice è chiaramente evocato. C’è una cornice più grande che fa da soglia ai listelli di cornice che delimitano lo spazio di rappresentazione dell’animale. Questo, a sua volta, offre l’interno del suo corpo per la raffigurazione di un’antica scena guerresca. 

Una cornice dovrebbe delimitare lo spazio di rappresentazione dell’opera da quello del mondo reale in cui vivono pittore e spettatore.  In questo quadro, così come in molti altri, Gigi sembra dirci che essa ha uno statuto dinamico ed occupa uno spazio ambiguo perché non funziona più come “finestra aperta sul mondo”, in questo caso… sul cavallo. Il cavallo stesso, infatti, essendo di Troia, è un non-cavallo naturale ed ha un interno vuoto che può essere aperto e reso visibile. Come sarebbero stati contenti i Troiani se avessero potuto vedere i soldati che c’erano dentro!…

Al di là degli scherzi, mi pare che qui il mio amico pittore erediti la riflessione svolta sia dai cubisti che dai surrealisti (ma anche dai ready-made di Marcel Duchamp e dagli “oggetti di affezione” di Man Ray) sulle funzioni dell’incorniciamento dell’immagine. 

Figurativo, ma lontano da qualsiasi idea di rappresentazione che possa darci anche minimamente l’”illusione” della realtà, in questi quadri tutto può diventare cornice: la facciata di una casetta, la nuvola di sogno di un gatto, la spirale di un mandala, ecc. Le immagini possono essere raddoppiate, opposte, rovesciate, arrampicate, ibridate, sostituite con figure geometriche, affacciarsi ad una cornice…in un continuo gioco inventivo e in un piacevole sbrigliarsi della fantasia. 

14.- Che cos’è un’immagine? Vien da chiedersi guardando le quattro Nature morte del catalogo. 

La prima è una “natura morta antropomorfica cubista” così recita il titolo all’interno. E, infatti, i piedi del tavolo, nello spazio in basso, sono attribuibili all’uomo di cui si vede in alto il volto di profilo col cappello. Un volto contornato, il cui collo coincide con la paletta e un pezzetto di manico di una chitarra. Il suo braccio destro è all’ingiù, quello sinistro, invece, è orizzontale e quasi segue le ondulazioni del corpo di un’altra chitarra. Stringe in mano una bandierina coi colori di quella italiana, ma non lo è perché il primo colore vicino all’asta è il rosso. A destra dell’osservatore, sul tavolo, coincidente col tronco dell’uomo, c’è una fruttiera a forma d’anfora con dentro mele, pere, uva…

L’intero spazio pittorico è geometrizzato con varie tonalità di bianco, di giallo, di rosso. Ad un certo punto, in basso, una linea obliqua, prodotta da due diverse tonalità di bianco, sembra generare una separazione prospettica dello spazio, distinguendo un piano-terra da quello di una parete. La figura rappresentata è un ibrido: non è un uomo, non è un tavolo. È l’uno e l’altro insieme, una raffigurazione unitaria, un nuovo organismo frutto forse di una metamorfosi in atto.

Anche il secondo è un tavolo antropomorfo, come si legge su un foglio disegnato in alto. Ma qui la figura è meno visibile. Forse la sua testa è nascosta dietro al libro. Forse il tavolo si sta innalzando ed è pronto per mutarsi in altro da sé; nell’immagine potrebbe esserci l’intenzionalità, ma al momento lo spettatore è incerto. 

Non lo è, invece, per la terza e quarta natura morta. Il tavolo della terza, oltre che antropomorfo, è anche cubista come il primo. La testa dell’uomo si vede ben bene e le gambe del tavolo coincidono con le sue. L’ultimo, non solo è antropomorfo, ma, addirittura, si muove. Come quelli spiritici. Pur appartenendo alle nature morte, il titolo del quadro, infatti, è: “A volte i tavoli si muovono”, come si legge, in stampatello maiuscolo, sui fogli disegnati sotto il manico della chitarra. 

A volte i tavoli si muovono – 2010

Rispetto agli altri tre, questo quadro ha colori assai più vivaci e caldi ed è pieno di frecce direzionali. Il tavolo è rotondo, come quello della seconda natura morta, e l’uomo ha un cappello a cilindro in testa, due occhi ben aperti e un naso che è una freccia. Braccia e gambe sono in movimento, come se dovessero marciare; ha scarpe lunghe e ben adatte allo scopo Sul piano del tavolo ci sono una fruttiera, una chitarra, dei libri…

Ciò che salta subito all’occhio è la caduta dell’aggettivo “cubista”. Giustamente. Questo quadro è del 2010. Il primo tavolo antropomorfo cubista, simile a questo per la rotondità dell’arredo, è del 1990, il secondo, diverso da questo perché il piano d’appoggio è rettangolare, è del 1993 e il terzo del 2003. 

Mi pare che l’autore colga correttamente nel suo lavoro una certa “emancipazione” dalla rappresentazione cubista. Almeno nell’atmosfera complessiva, nella vitalità e vivacità dei colori e nella tentazione prospettica di delineare l’interno della stanza in cui il tavolo-uomo sta. A destra del quadro è disegnata perfino un’entrata. Questo, probabilmente, senza modificare una delle regole di fondo della rappresentazione cubista: quella della fusione e/o giustapposizione dello spazio pittorico con i contorni dei corpi degli oggetti rappresentati. La parete bianca, in fondo alla stanza, un po’ si confonde con la tovaglia velata del tavolo. Così come il rosso del fondo della chitarra, disegnata col suo volume, si prolunga su tutto il piano come fosse la sua ombra prospettica. Un’ombra irrealistica. Surreale. 

14.- Concludendo, mi pare di aver dato un’idea di quanto sia ricco e complesso il mondo espresso e rappresentato da Gigi; un mondo vario, fantasioso, surreale,  gremito di personaggi (il marinaio, l’uomo punk, la donna “picassiana”, Topolino, il gatto, lo sciamano, lo scienziato-poeta, il leader, il guerriero maori, l’esclusa, ecc.); di oggetti (gli scacchi, i dadi, la palla, le bandierine, l’ancora, la chitarra, la bicicletta, il tavolo, ecc.); di relazioni (gli amanti, gli arrabbiati, i danzatori, spirali, simmetrie, ecc.); di alberi-totem con la loro nutrita schiera di abitatori (dai vari tipi di pennuti ai vermiciattoli); di animali (il gatto, il pappagallo, la farfalla, il cane, i pesci, il lupo, l’elefante, il cavallo, il rinoceronte, ecc. ),  di sculture, ceramiche e mosaici; di paesaggi (Genova a volo e alcuni suoi luoghi: spianata del Castelletto e Sottoripa)…

Un mondo attraente e vitale, pieno di linee, di figure, di colori, costruito con alcune di quelle regole che ho cercato di individuare, e fotografato, solo in parte, nel suo catalogo. Un mondo delineatosi negli anni e abitato con agio e gioiosa consapevolezza. Gigi sa che i suoi marinai vivono contraddizioni, ma chi non li vive? Sa che la sua Saraghina è grottesca e ridicola, ma chi non lo è un po’? Il guerriero maori si riempie di tatuaggi sul corpo per raccontare la sua storia, meglio chi li fa su una tela o su una tavola. Questo con tutta la curiosità, la comprensione e il rispetto che si può avere nei confronti suoi e del suo popolo. 

Non è un mondo pacificato perché ci sono “gli arrabbiati” punk, con creste e teste rasate che digrignano i denti, e in una tavola, poverina, c’è anche “l’esclusa” da una coppia di amanti avvinghiati, ma sono conflitti che rientrano nella circolarità e simmetria delle relazioni interpersonali. C’è pure un leader con le articolazioni da burattino e con alcuni bamboccetti adoranti ai suoi piedi, ma al pittore interessa poco il suo bla-bla. È un fenomeno umano e sociale come altri. Meno interessante forse dello sciamano che coi suoi travestimenti e i suoi rituali cerca di guarire quel volto ammalato disteso nella parte laterale del quadro. Sicuramente meno interessante dei cantori, dei danzatori speculari e degli amanti.

In questo mondo conta il rapporto con gli alberi in quanto totem. Totem vuol dire sacri, perché anelli di congiunzione tra la profondità della terra e la spiritualità del cielo; e poi, come credevano gli indiani degli amati fumetti, sono punti d’incontro e contengono le anime e gli spiriti amici. Un albero può uscire dall’anonimato e diventare un preciso individuo come quel “Castagno illuminato dalla luce della notte” e come può esserlo un pittore che giudica illuminante la notte dei marinai, i loro lati oscuri.

Castagno illuminato dalla notte – 1994

Anche gli animali sono molto importanti in questo mondo. Non soltanto perché esprimono la nostra animalità e sognano come noi, ma anche perché ci aiutano a realizzare i nostri bisogni e i nostri intenti. Se il “cavallo di Troia” consenti agli Achei di conquistare la città assediata, i cavalli di Troia di Gigi, ma anche i suoi elefanti, il suo rinoceronte, il suo gatto, il suo lupo con luna, i suoi galli cedroni, potrebbero aiutarlo a conquistare la cittadella dell’arte contemporanea. Gli animali insieme agli oggetti della propria infanzia e della propria storia, gli oggetti che si ibridano e si antropomorfizzano, che ora stanno fermi, ora si mettono in movimento.

Uomini, donne, animali, oggetti… tutto può finire nella perfetta circolarità di un mandala, simbolica rappresentazione dell’universo, che aiuta la concentrazione e la meditazione. E nei vari settori del mandala il sopra e il sotto, la destra e la sinistra sono molto relativi. Si può essere dentro, fuori, ai margini, comunque, si vive e si gira per il cosmo. Teatrino magico. Se il cerchio si trasforma in spirale, il tutto si mette in un movimento che può rendere le figure dei burattini…

Forse allora si ha bisogno di tornare ai paesaggi consueti. Gigi, allora, immerge gli occhi nella Spianata Castelletto, in quel paesaggio che conosce da ragazzo e che il professore gli aveva fatto disegnare. O si mescola tra le persone, dai nasi e dalle fattezze improbabili, in uscita dal Gran Ristoro nei portici di Sottoripa; o guarda dall’alto piazza Caricamento con la statua a Raffaele Rubattino o impegna, infine, la sua mente in un volo per Genova, una città quasi tutta azzurra, come il suo cielo e il suo mare, ammirata da un terrazzino, da dietro un tavolo. Sul piano una natura morta: un grappolo d’uva, una mela rossa, una pera giallastra e un vaso di fiori fra cui spicca una margherita e un papavero.

15.- Mi piacerebbe vivere in questo mondo?…Nei paesaggi di Genova sicuramente. E volentieri salirei a bordo della nave fenicia del mosaico o vorrei essere Ulisse che probabilmente saluta una delle sue donne incontrate nel viaggio di ritorno a casa. Mi piacerebbe anche passeggiare nel bosco o arrampicarmi sui rami di un albero-totem per dialogare con una civetta o rifare il verso al gufo. Andrei pure a sedermi ad uno dei due teatrini magici perché da tempo ho imparato, come diceva Shakespeare, che «tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti.»

Lupo con luna – 2007

I personaggi delle opere di Gigi queste “diverse parti” le portano sul corpo o nel corpo: perché hanno una donna al posto della calotta cranica, perché ce l’hanno tatuato o raddoppiato, perché hanno oggetti e vere e proprie battaglie interiorizzate e, infine, perché sono degli ibridi e disposti a metamorfosi. Sotto questo profilo, sono opere di sicura intelligenza e razionale comprensione del mondo. Di quello vero, non disegnato o rappresentato. Psicanalisi, surrealismo e cubismo gli hanno insegnato ad abbandonarsi, a lasciar libero il suo Es, come è scritto in fondo al catalogo, «di raccontare le verità più profonde». Ma l’Es ringhia come quel Lupo con luna dell’omonima tela, aggredisce l’antilope come la tigre dell’Omaggio a Rousseau, o fa il Grande gallo o il Gallo cedrone. L’Es è l’animale che abbiamo dentro. È l’insieme delle nostre pulsioni erotiche, aggressive ed auto-aggressive. Gigi costruisce un mondo surreale e fantasioso, creativo e grottesco, piacevole e leggero, gioioso e vitale. Quanto sia onirico non lo so. La razionalità della geometria insieme all’alternarsi di ripetizione e variazione dello stesso tema svolgono un ruolo fondamentale in queste opere. E tutto ciò è sintomo di controllo, è volontà di non abbandonarsi, di mettere l’Es al servizio dell’Io e, in parte, anche del Super-Io se solo si pone mente al confronto con culture e ritualità varie: dallo sciamanesimo al totemismo, dal buddismo all’induismo. Non è un’opera “selvaggia”, quella di Gigi. È opera colta. Sublimante.

Mi piacerebbe vivere nel suo mondo?…Beh, un po’ ci ho vissuto e un po’ l’ho respirato. Non mi sono trovato male. Ho cercato di capirlo. Non so quanto ci sia riuscito. Del resto, come tutti i mondi simbolici e sovraccarichi di sensi, è il risultato di tante frecce direzionali, di tante spinte contraddittorie su cui è quanto mai difficile pronunciare parole definitive.

7 maggio 2020

3 pensieri su “Cavalli di Troia nell’arte contemporanea

  1. Una lettura criticamente appassionata, analitica, riflessiva, che ricrea lo sfondo culturale di un artista che ha voluto ispirarsi al meglio della tradizione pittorica, fumettistica e grafica del XX secolo, con originalità, in una visione della vita che ha saputo simboleggiare attraverso gli strumenti dell’arte, in un cammino di ricerca e di introspezione.

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