di Lorenzo Merlo
Questo intervento di Lorenzo Merlo segue quello precedente, che ha già prodotto numerosi e polemici commenti (qui) e contrasta in maniera abbastanza netta con le considerazioni critiche sulla scienza contemporanea che Paolo Di Marco va svolgendo su Poliscritture nella rubrica ” Il guaio col metodo scientifico”. Spero in un confronto serrato e senza censure o autocensure. [E. A.]
Brandelli di relitto
Diciamo spesso di imparare dalla storia. Accade ogni volta che assistiamo a qualche sprovvedutezza protetta al petto come fosse un bene grande. Altrettanto spesso osserviamo che l’occasione della sua lezione è andata perduta una volta ancora.
Evidentemente c’è una forza che ci impedisce di sfruttare le opportunità che la sorte ci offre per ridurre la vulnerabilità generale, per recuperare la cultura umanista, per liberarci dalla dannazione alla quale ci costringe quella tecnicista, nella quale siamo immersi.
Se una parte di noi se la gode nuotando soddisfatto, l’altra, di maggioranza, arranca in cerca di un brandello di relitto qualunque che lo tenga a galla. Quando ne trova uno, nonostante tanti altri come lui galleggino con fatica e siano in difficoltà, nonostante molti non ce la facciano e vadano giù, è disposto a tutto pur di appropriarsene, pur di non condividerlo. La lotta è per la sopravvivenza. Il mors tua vita mea si compie sotto gli occhi soddisfatti del regista della realtà che viviamo.
La lotta tra poveri non è un dramma per chi l’ha generata. È qualcosa di più importante. È la dimostrazione del successo del progetto, della regia. Dare tutto per sé e contro gli altri, pur di non affogare, non permette di occuparsi di altro: il gioco è fatto. È stato fatto innumerevoli volte. Ogni volta che serviva sottrarre all’attenzione qualcosa sotto i riflettori dell’interesse comune.
Sceriffi della verità
Dopo le contraddizioni governative di queste ultime settimane viralizzate, è questa è l’impressione che resta nell’animo di molti: qualcosa non è chiaro. Oltre al problema della salute, il virus pare abbia infettato le sorgenti pure dalle quali ognuno di noi si avvia verso la valle della vita e il grande mare della morte.
Tutto va al rovescio.
Il monito ufficiale per la gestione della cosiddetta pandemia giungeva a noi come pioggia scrosciante dalla quale alcun riparo poteva proteggerci. Spruzzi di paura venivano lanciati a raggiera a tutte le ore, come sale nei giorni di neve. La falda si inquinava, e noi con essa. La chiaroveggenza dell’umanismo aveva perso la luce.
Il martello della paura ha battuto il ferro della conoscenza deformandolo fino alla forma orrifica della medicina. Quella velenosa, destinata a curare i comportamenti senza curarsi delle persone che li esprimono. Destinata perciò ad alienare tutti noi dal nostro stesso corpo ovvero dal nostro stesso sentire.
Per strada e nel mondo si incontravano livelli vari di delatori. Da quello che cambiava marciapiede a quello che insultava se considerava fuori norma il comportamento di qualcuno. Invettive lanciate in nome e a sostegno dei burocrati della scienza e della vita dai quali avevano preso il modello. Più di prima si vedranno sicofanti, impeccabili come il quaderno di un ragioniere, denunciare gli untori della loro misera e ottusa concezione etica del mondo. E ancora si vedranno accanimenti contro poveretti qualunque, eletti a capri espiatori di malefatte ridicole per spostare l’attenzione da questioni e responsabilità ben più gravi.
L’offerta della storia
Eppure la storia ci aveva posto il solito piatto d’argento dal quale avremmo potuto scegliere prelibati temi, fortemente nutrienti. Quelli sì da sviluppare senza soluzione di continuità. In sostituzione dei precetti avrebbero potuto raccontare in lungo e in largo cosa sia il sistema immunitario, volendo anche con argomenti di fisiologia, di biochimica, di anatomia. Avrebbero potuto mostrare i dati relativi alle controindicazioni delle medicine, alla loro tossicità e causa di malattie. Avrebbero potuto parlare diffusamente sulla vera missione delle case farmaceutiche (non tutte) sul loro interesse a provocare e ad alimentare uno stato di salute precario e il relativo bisogno di cura. Avrebbero potuto raccontare in lungo e in largo l’importanza dell’assunzione della Vitamina C e D. O, almeno che assumere molti cereali e zuccheri, soprattutto se insieme, è fortemente sconveniente nel momento e nel tempo. Avrebbero potuto precisare quanto quelle due sostanze siano in buona misura le responsabilità di molti malesseri e malattie che perciò, di fatto, creiamo noi attraverso l’alimentazione. E dunque, che la malattia non è un caso; che in essa c’è molta nostra responsabilità e che è arrivato il momento di prenderne coscienza. (E non è la prima volta).
Di questo avrebbero potuto e dovuto parlare notte e giorno al divano dove gran parte degli italiani era inchiodata, ansiosa di sapere cosa, fare, cosa dire, cosa pensare. Avrebbero potuto darci conforto affermando che lo stato vuole partecipare al rinnovo culturale implicato in certe consapevolezze. E che, diversamente da quanto abbiamo spesso sentito dire, non si tratta di credere alla voce dello Stato, piuttosto di verificarla per ottenere solo da se stessi, dal proprio corpo, la risposta su quanto è vero che certi cibi, sentimenti, e inattività ci nuociano o ci aiutino. Avrebbero potuto battere il maglio su cosa aiuta e ciò che indebolisce il sistema immunitario. Avrebbero potuto dialogare per tutto il tempo che serviva per integrare le conoscenze tra ricercatori piuttosto che dichiarare ciarlatani quelli che, con altre modalità, avevano i loro risultati da proporre e valutare. Avrebbero potuto argomentare quanto è vero che siamo noi i primi distruttori della nostra salute così come ne siamo i primi autori, che perciò, gli agenti esterni colpiscono le difese più deboli, non chiunque. Che muoversi, fare attività motoria è necessario a tutto il nostro essere, che respirare aria buona – e ora la si poteva trovare anche in città – è fondamentale per la salute. Che allontanarsi dalle fonti di elettromagnetismo era un’abitudine da acquisire. Che essere costretti, perché senza alternative, a vivere sotto un elettrodotto o dormire sopra la centralina dell’impianto elettrico erano abitudini da abbandonare. Che la rete di campi elettromagnetici non è solo il vantaggio del wifi e di tanti altri ma è, anche un prezzo elevato di cui ancora non sappiamo con quanto sangue pagheremo il conto. Avrebbero potuto dire che portare rancore e avere cattivi sentimenti – lo sostengono ormai tutti gli psicologi della terra – è fortemente velenoso; che in quegli aspetti fioriscono le patologie. Che la crisi del virus sebbene abbia piegato le gambe all’economia, ci da il tempo per rivisitare le modalità smodatamente tossiche della vita che lo stesso virus ha obbligato ad interrompere.
Ma quanto avrebbero potuto fare, invece del napalm alla paura che hanno sparato in tutte le direzioni?
L’obbligo della biografia
Sul piatto d’argento c’era l’occasione d’oro?
No. Per niente. Non c’era neppure il piatto d’argento. Le possibilità che possiamo contare non esistono nella realtà. In essa si dispiega solo e soltanto il filo che la nostra biografia ci permette. Tutto il resto sono illazioni, congetture, superstizioni. Guitto senno di poi da bacchettoni sulla cattedra della vita. Non c’è alcuna libera scelta, quantomeno finché la dipendenza da ciò che si crede di essere sussiste, ovvero finché l’emancipazione dalla propria struttura culturale e personale non è realizzata.
C’è però permanentemente lo spazio libero che le nostre affermazioni occupano rivelando tutto di noi. Mentire è impossibile.
Così, in tempo di altissimo ascolto e interesse, di massima motivazione per provocare certe consapevolezze ed educazioni è stato gettato come da intento di qualche scienziato scientista – la peggior specie di uomo dogmatico – e di qualche cosiddetto competente suo accolito. Ancora una volta, alle ortiche l’opportunità di crescere una generazione che avrebbe beneficiato di questa crisi. E i suoi padri, invece di dannarsi per aver lasciato alla loro progenie un mondo peggiore di quello che avevano ereditato, avrebbero potuto liberarsi dal senso di colpa ed essere fieri di se stessi.
E invece? Non si è assistito ad alcun cambio di paradigma se non in peggio, c’è da presumere. La rincorsa al ritorno dell’economia perduta non si vede come non possa proseguire con i vecchi sfaceli e comportarne di nuovi.
Dunque, i giovani, che nella loro vita avrebbero potuto consolidare ed arricchire le consapevolezze che il virus ci aveva in potenza donato, e i loro genitori gli avrebbero servito, resteranno lettera morta.
Il contorno
E la guarnitura? Non è mancata. Non manca mai.
La censura non si è limitata a denigrare ed escludere, nel dibattito e nelle scelte dell’emergenza, le voci, anche ortodosse, ma con prospettive differenti. Essa si è viralmente estesa a tutto ciò che gli scienziati di Stato e la loro cricca ritenessero opportuno abbattere. Quindi esclusione, epurazione, censura, scomunicazione, radiazione anche di tutta l’informazione – che avrebbe dovuto essere libera secondo la Costituzione e ben accetta secondo la Scienza – portata da menti, sì libere e pensanti. Non guitte e ubbidienti, soddisfatte nel riferire i dispacci e le veline governative. Inconsapevoli – lasciamogli la buona fede, come agli attori del mulino bianco che sono felici dei propri sorrisi – della spinta di lobby d’interesse industriale, commerciale, finanziario, ricattatorio. E tutto ciò caricato fino al grottesco se si allineano i gravi inciampi della loro versione unica e ufficiale.
L’assurdità della scienza come verità sola e definitiva sussiste. Ha retto il colpo. Una cultura gravemente contagiosa, infetta il suo popolo una volta di più.
L’officina alchemica è rimasta vuota di garzoni e apprendisti anche stavolta. Statuari dogmi legalizzati, armati e cattivi, ne hanno impedito l’accesso.
Il piombo resterà piombo, nessuna sublimazione può avvenire senza che la negra materia nel crogiolo non sia caricata del bianco spirito delle cose. L’oro che siamo, ancora una volta rimarrà esclusiva dei ciarlatani.
Le spie, gli informatori, i probiviri sapranno denunciarli all’autorità competente.
Ci stiamo abituando? Colpa delle scienze? O della nuova “Religione della scienza”?
SEGNALAZIONE
1.
L’accelerazione di Igino Domanin
(http://www.leparoleelecose.it/?p=38352)
Stralcio:
Ben ovvio che nessuno potrebbe pensare di romanzare la pandemia. Solo un cattivo scrittore potrebbe arrischiarsi a farlo; di solito sono di quel genere fastidioso che tiene diari personali e che spaccia minutaglie per verità universali, che sale sul palcoscenico mediatico per dire il senso del proprio tempo e rivolgersi ai politici, agli scienziati, all’intera umanità. È vero: esiste questo ridicolo corteo, ma perché occuparsene? Al massimo basta sedersi, abbandonandosi all’arte di godere della folla e della sua bestialità. Ma seguendo Houellebecq in questo suo passo leggero, occasionale, smaccato e bugiardo, ho avvertito un’altra scossa, che arrivava dritta a urticare quello stato di coscienza già irritato in cui mi trovo fatalmente da inizio anno. Houellebecq dice apparentemente che col Coronavirus non cambia nulla del corso delle cose, forse solo un qualche peggioramento della situazione, ma null’altro. Nihil novi sub soli. Cosa potrebbe, infatti, dire un pessimista schopenhaueriano nutrito di positivismo, come lui stesso si è dichiarato in un libretto parafilosofico qualche tempo fa? D’altra parte come si potrebbe intendere sul serio la storia se non dal punto di vista dell’eterna ripetizione dell’uguale: solo così possiamo restare nell’immanenza dei fatti e non lasciarci sedurre dall’illusione fraudolenta di qualsiasi rivestimento di senso e allontanare la puzza della trascendenza.
[…]
Già Musil, evocato da Houellebecq, a proposito del “virus senza qualità”, indicava nella formazione del luogo comune la genesi dello spiazzamento delle nostre abitudini linguistiche. Quando tutto cade nella banalizzazione, nell’ordinario, nel senso comune stiamo dentro il vortice, dentro la cosificazione più feroce. In fondo mi aggiravo già dentro la mia condizione di animale sofferente, vulnerabile, in cerca di cura. Allo stesso tempo sdegnoso di consolazioni affettive, solitario e ben contento di risolvere il rumore e il fastidio dell’interazione umana attraverso dispositivi comunicativi che posso manipolare, filtrare, e dietro i quali schermarmi. Ho già imparato a vivere secondo le agevolazioni e le compensazioni di questa forma di vita. Sono da tempo un suo abitante e non nutro altre illusioni di significato. L’obsolescenza delle relazioni umane può addirittura essere una paradossale utopia, morbida e accettabile, senza slanci o patemi, ma comunque una forma di emancipazione e liberazione da un sovraccarico emotivo che la vita non può reggere. Passo il tempo ad ascoltare canzoni del passato su Spotify, guardo varietà televisivi delle Teche Rai, ordino la cena peruviana su Glovo, faccio ricerche su Wikipedia, apprendo tecniche per i cocktails sui tutorials di Youtube….Esco, ma non troppo, vedo gente solo in base a un’agenda selettiva e programmata, mi tengo in contatto con amici e colleghi su Whatsapp. Nel frattempo mi tengo in vita, sto attento alla salute del mio cuore, prenoto visite in accoglienti grandi ospedali privati della Lombardia, provo perfino gusto a leggere voci on-line di enciclopedie mediche e seguo così a distanza anche la salute dei miei genitori. Ultimamente ci siamo rivisti anche in video sul cellulare. In fondo, non era poi così diverso dal vederli da vicino. Loro stessi, all’inizio erano un po’ come l’essere umano che scopre l’esistenza del fuoco, ma già alla seconda o terza volta si sono abituati. È stato velocissimo. Anche per loro.
[…]
Tutto sta accelerando. I miei genitori passano dalla preistoria alla attualità in pochi istanti. La possibilità della storia e della consapevolezza umana del suo accadere era basata sui ricordi. C’era uno spazio di esperienza, una serie di cose che sapevi che erano state il tuo passato, lo sfondo rispetto al quale poter stabilire se qualcosa di nuovo era possibile e stava accadendo. Ma cosa avviene se la memoria diventa inutile, cancellata, bruciata rapidamente e in modo istantaneo. Nutro l’impressione che i nostri ricordi di vita non servano più ad orientarci. Troppo rapido è il cambiamento, fino al punto di retroagire sul passato, ridurlo solo a una mole impressionante di dati, di tracce d’archivio e null’altro; ma del tutto slegate, senza connessione con l’istante accecante del presente accelerato ed estremizzato.
2.
La medicina come religione
di Giorgio Agamben
(https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-la-medicina-come-religione)
Stralcio:
Che la scienza sia diventata la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono di credere, è ormai da tempo evidente. Nell’Occidente moderno hanno convissuto e, in certa misura, ancora convivono tre grandi sistemi di credenze: il cristianesimo, il capitalismo e la scienza. Nella storia della modernità, queste tre «religioni» si sono più volte necessariamente incrociate, entrando di volta in volta in conflitto e poi in vario modo riconciliandosi, fino a raggiungere progressivamente una sorta di pacifica, articolata convivenza, se non una vera e propria collaborazione in nome del comune interesse.
Il fatto nuovo è che fra la scienza e le altre due religioni si è riacceso senza che ce ne accorgessimo un conflitto sotterraneo e implacabile, i cui esiti vittoriosi per la scienza sono oggi sotto i nostri occhi e determinano in maniera inaudita tutti gli aspetti della nostra esistenza. Questo conflitto non concerne, come avveniva in passato, la teoria e i principi generali, ma, per così dire, la prassi cultuale. Anche la scienza, infatti, come ogni religione, conosce forme e livelli diversi attraverso i quali organizza e ordina la propria struttura: all’elaborazione di una dogmatica sottile e rigorosa corrisponde nella prassi una sfera cultuale estremamente ampia e capillare che coincide con ciò che chiamiamo tecnologia.
Non sorprende che protagonista di questa nuova guerra di religione sia quella parte della scienza dove la dommatica è meno rigorosa e più forte l’aspetto pragmatico: la medicina, il cui oggetto immediato è il corpo vivente degli esseri umani. Proviamo a fissare i caratteri essenziali di questa fede vittoriosa con la quale dovremo fare i conti in misura crescente.
Non condivido l’accondiscendenza nei confronti del cosiddetto progresso, genitore degli argomenti di Domanin e Agamben.
Accettare l’assise unica dalla quale traguardare l’avvento dei disumani equilibri e riconoscerne la portata incontrastabile, non è che un punto di accelerazione di quello tsunami che ci sta travolgendo, ontologicamente inidoneo a risparmiare qualcosa.
Non è che complicità.
L’utopia è solo per chi non ha la visione che ne permette il perseguimento.
“Accondiscendenza nei confronti del cosiddetto progresso” in Domanin e Agamben?
Dov’è? Sarebbe il caso di indicarne almeno le tracce nei due stralci o negli articoli completi….
Domanin: «Tutto sta accelerando. I miei genitori passano dalla preistoria alla attualità in pochi istanti. La possibilità della storia e della consapevolezza umana del suo accadere era basata sui ricordi. C’era uno spazio di esperienza, una serie di cose che sapevi che erano state il tuo passato, lo sfondo rispetto al quale poter stabilire se qualcosa di nuovo era possibile e stava accadendo. Ma cosa avviene se la memoria diventa inutile, cancellata, bruciata rapidamente e in modo istantaneo. Nutro l’impressione che i nostri ricordi di vita non servano più ad orientarci. Troppo rapido è il cambiamento, fino al punto di retroagire sul passato, ridurlo solo a una mole impressionante di dati, di tracce d’archivio e null’altro; ma del tutto slegate, senza connessione con l’istante accecante del presente accelerato ed estremizzato».
Leggo parole di consapevolezza di ciò che stato annegato nella società liquida, ma non di reazione e contrasto, né di critica.
Agamben: «Che la scienza sia diventata la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono di credere, è ormai da tempo evidente. […]. Proviamo a fissare i caratteri essenziali di questa fede vittoriosa con la quale dovremo fare i conti in misura crescente».
Leggo parole di consapevolezza di ciò che è avvenuto, che seguita ad avvenire e che seguiterà. Come sopra, alcuna critica strutturale alla tecnocrazia tout court.
Sì, ma non vedo in azione in queste parole l’idea di progresso….
Progresso in quanto attualmente corrispondente a scienza, al valore assoluto che oggi le si attribuisce.
Fin dall’inizio avrei dovuto scrivere così: Non condivido l’accondiscendenza nei confronti “della cosiddetta scienza”, genitore degli argomenti di Domanin e Agamben.