di Paolo Di Marco
Nel mio articolo e negli articoli e nei commenti di Merlo e Agamben si parla di scienza, ma non parliamo della stessa cosa.
Nel mondo allegorico di Agamben scienza, religione e capitalismo sono sullo stesso piano, tutte e tre ridotti forse a ideologie; e la scienza ha vinto tutti. Ma i rapporti sociali di produzione non si piegano alle ideologie, le usano; ma anche così una scienza ridotta a ideologia è mero fumetto, come anche quel poco di scientismo che si ritrova in fumosi retrobottega è del tutto inadatto al controllo delle menti. E forse la religione sta scomparendo, ma certo non è la scienza che ne prende il posto.
E non scambiamo l’autorità conferita ai medici in questa fase per ruolo generale: sarebbe come in spiaggia ipotizzare che i bagnini sono i dominatori del mondo.
Dice Merlo che la scienza è autoreferenziale: forse, ma solo nella stessa misura in cui qualsiasi nostra conoscenza lo è. E probabilmente assai meno, perché nella ricerca scientifica c’è una spinta continua a capire la realtà, dentro ma anche fuori da noi stessi. La realtà esce dai nostri occhi? Vero forse nel senso che come dice anche Parmenide tutta la nostra conoscenza è illusione; ma sempre Parmenide ci incita a ricercare lo stesso la conoscenza, e questo processo permanente, questo cammino (la via della conoscenza, φιλοσοφια) è scienza. Una ricerca a cui manca solo il ‘sensato esperimento’ di Galileo per diventare scienza moderna.
Il bambino che impara a rapportarsi al mondo, che tocca, fa ipotesi, controlla, si scotta, ricontrolla, fa scienza (se ne sono accorti anche gli americani, v. Alison Gopnik, teorica di teorie a Berkeley, ‘The Scientist as Child’ ,1996); lo sciamano che usa rituali consolidati per attivare le capacità di autoguarigione del corpo cura, esattamente come il medico, ma entrambi non fanno scienza, la applicano; l’omeopata che vende acqua e zucchero a peso d’oro non cura ma truffa, anche se poi l’effetto placebo (nelle giuste condizioni, come con lo sciamano, assai potente) ci pensa a fare effetto lo stesso; fa scienza il ricercatore che inietta LSD ai gatti e poi ne apre il cervello per vedere i cambiamenti; non fa scienza chi fabbrica LSD. Fa scienza chi scrive E= mc2, non fa scienza che la usa per costruire bombe.
Ma spesso l’atteggiamento negativo verso la scienza è dovuto alla mancanza di controllo sulle affermazioni e sugli effetti. E questo è anche una delle cause del proliferare di un frenetico fai-da-te, alla ricerca di verità nascoste in piena luce su internet o di rimedi magici, immersi in paesaggi dove si combattono energie positive e nefaste. E, come diceva Jung, nei periodi di crisi si moltiplicano gli avvistamenti di dischi volanti.
Ma non solo: molti anche in buona fede si scoprono salvatori dell’umanità, e non si soffermano a controllare se quello che gli è appena uscito dal mortaio era un miracolo o un abbaglio; ma gli altri si bevono volentieri tutte le pozioni magiche, danno retta a tutti i venditori di olio di serpente soprattutto se arrivano tramite video di vuot’sap, non controllano direttamente i numeri dei tassi di mortalità…Non è un problema della scienza né dello scientismo, altrimenti anche i venditori di auto usate sarebbero santificati.
Nel mio articolo sul metodo scientifico ho cercato di dare qualche ricetta per vedere meglio, per controllare meglio, ma poi ognuno deve usare le proprie capacità scientifiche, come i bambini.
Riprendendo il discorso su realtà ed illusione, le due immagini sopra (che traggo da un mio recente articolo tecnico su tutt’altro argomento, l’Aikido) sembrano echeggiarsi reciprocamente.
Eppure una è la simulazione di un movimento quantistico in un pozzo infinito, l’altro il fondatore dell’Aikido in meditazione. Ma come si diceva con Carlo Rovelli in un’intervista apparsa su Poliscritture (ancora stampata nel n.11 2015 scaricabile qui), c’è una curiosa somiglianza tra la Fisica moderna, e in particolare le teorie della gravità Quantistica, e il pensiero buddista: il reticolo di relazioni che struttura l’universo nella Gravità Quantistica a Lacci (LQG di Ashtekar, Smolin, Rovelli) richiama il concetto buddista di impermanenza, la vacuità buddista rimanda all’assenza di una materia autonoma, anche alla sparizione dalla scena dello stesso spaziotempo.
Ma quando si medita il mondo esterno sparisce? E dai nostri occhi esce l’immagine che poi chiamiamo mondo? Da quel poco che conosco penso che il buddismo sia più scientista di così: sparisce il mondo in quanto non esiste una sua sostanza autonoma, così come non ha sostanza autonoma la mente; esistono solo relazioni, ma non c’è un punto di vista privilegiato, un io creante; in questo senso mi piace pensare il buddismo come relazionale e relativista insieme. E insieme, un punto di vista che non si sofferma su uno schema rigido ma sviluppa una moltitudine di modelli della realtà, del corpo, della mente (e classifica decine di migliaia di stati mentali, come sottolinea Thurman nei suoi commenti col Dalai Lama nell’Harvard Mind Science Symposium).
La mancanza di dialettica del pensiero di Parmenide – “ciò che è non può non essere” (quindi c’è solo l’essere e non può esistere un non essere) si ritrova anche nel buddismo, ed è questo quello che forse l’allontana di più dal marxismo classico e dalle vie rivoluzionarie.
Certo, una delle meditazioni più diffuse è sulla compassione: e il suo cardine è l’unione con gli altri, la non separatezza tra il singolo e il mondo sociale (anche poi nel samsara).
Ma tutto questo si lega al vecchio dibattito su elevamento spirituale del singolo e affrancamento sociale; non sono certo incompatibili ma lunghi dibattiti sono però stati spesi e ancora sarebbero in corso se qualcuno parlasse di rivoluzioni se viene prima l’uno o l’altro o…
quando Ennio critica Merlo di fatto riprende questo dibattito, che oggi varrebbe la pena riaprire ma su tutt’altro piano..ma questo è un altro discorso
Non so se ho ben compreso le intenzioni di questo articolo.
Scrivo ugualmente qualcosa, forse fuori argomento.
«quel poco di scientismo che si ritrova in fumosi retrobottega è del tutto inadatto al controllo delle menti».
Lo scientismo è la vulgata della scienza. Essa, di per sé non si pone a valore assoluto. Tuttavia dalla discendenza illuminista-razionalista – un passo umano della ricerca – ci resta lo strato mistificato del suo valore assoluto rispetto ad altre forme di conoscenza. Sebbene già Decartes avesse già disgiunto l’intero, per eccellenza, è la scienza analitica che diviene – culturalmente parlando dominatrice del pensiero moderno. Retrobottega o aule magne non cambia di una virgola l’elaborazione del pensiero da parte di coloro che impiegano il concetto di scienza. In ambo le sedi si sta citando la miglior verità, quella a cui attenersi.
«E forse la religione sta scomparendo, ma certo non è la scienza che ne prende il posto».
La scienza in quanto tecnologia ne ha preso il posto. Il credito che essa gode è incontrastato. Essa rappresenta il progresso e il futuro. In essa si ripongono speranze e e preghiere. Per essa si è – anche consapevolmente – disposti a sacrificare parte della tradizione. La tecnologia è eletta sempre, senza mai indicarne il lato B. Quello dell’assuefazione, della dipendenza, dell’alienazione. Quello della sicurezza che, sempre più delegata ad essa, impesce di coltivare la sicurezza che possiamo produrre dall’interno di noi stessi quando, in relazione col mondo sottile possiamo anche divenire chiaroveggenti.
«la scienza è autoreferenziale: forse, ma solo nella stessa misura in cui qualsiasi nostra conoscenza lo è».
In problema non è l’autoreferenzialità della scienza o di qualunque nostra posizione. È che per cultura l’autoreferenzialità della scienza è taciuta. Èssa è la verità. La scienza si è fatta le sue regole e ora si ritiene che siano le sole a fare testo per giocare al gioco della conoscenza.
«l’atteggiamento negativo verso la scienza»
L’atteggiamento scientifico è un atteggiamento odinario della comunicazione. Quindi nessun atteggiamento negativo. La critica è nei confronti della cultura che ne è derivata come ho cercato di esprimere qui sopra.
In questa cultura tutte le altre forme di conoscenza, che assai gioverebbero alla formazione compiuta degli uomini, sono completamenti assenti e quando considerate, sono denigrate. La scienza non ha i mezzi per riconoscere in un rimedio omeopatico la sostanza riginale? Bene! Si trata di fuffa. Questa è la questione. Dove lei non arriva, il mondo sparisce.
Nella scienza la realtà è data, nella realtà nella relazione invece abbiamo l’opportunità per non dimenticare mai la nostra responsibilità nei confronti del mondo che stiamo maneggiando.
La scienza è idonea a gestire il mondo bidimensionale, la sua dimensione amministrativa. Se estesa – per cultura – alla gestione del mondo relazionale, inziano i problemi.
1.
Ma si può mettere sullo stesso piano scienza e scientismo? Lo scientismo è deformazione e snaturamento del metodo scientifico. Tanto il primo è rozzo e dogmatico ( e crede appunto di possedere “la migliore verità”, come fanno le religioni) tanto il secondo è aperto e problematico. (Ho in mente tutta la querelle attorno al legame tra Marx e i marxismi. Il legame c’è in superficie ma non nella sostanza).
2.
La scienza non è assimilabile totalmente alla tecnologia. E l’ideologia della scienza (progresso, etc.) non è assimilabile alla scienza. E’ lo scientismo che “si è fatto le sue regole e ora si ritiene che siano le sole a fare testo per giocare al gioco della conoscenza”. E l”atteggiamento or dinario della comunicazione” NON E’ quello scientifico.
Lo scientismo è la vulgata della scienza.
Esso viene dopo la scienza.
Elegge a sola verità quanto la scienza afferma.
Il metodo è solo il metodo.
È ritenere che sia il solo adatto alla conoscenza che rende scientisti anche molti scienziati.
La comunicazione come la cultura sono su base scientista.
Così come le università che producono soldatini allineati e coperti.
@ Merlo
Ma dai! Dopo il dogma della beata concezione tu stabilisci il dogma del gemellaggio scienza/scientismo. Ma se TUTTA la comunicazione e TUTTA la cultura “sono su base scientista” e TUTTE le università “producono soldatini allineati e coperti” tu, con questo sapere dissidente, da dove spunti?
Nessun gemellaggio.
La scienza analitica scompone la realtà che i suoi strumenti sono in grado di mettere sotto il vetrino.
Lo scientismo intende ciò che essa afferma come la sola modalità di conoscenza.
Tutti possono emanciparsi dal brodo di cultura nel quale sono nati.
Quando Merlo dice che se non troviamo i principi attivi nei preparati omeopatici è colpa della scienza non so a cosa si riferisca: quale altra forma di conoscenza usiamo? Mistica, onirica, carnale…?
Quando il dr prof Hahnemann dalla sua cattedra all’Università di Lipsia (dove preparava i soldatini sassoni direbbe Merlo) enunciò nel 1811 il principio del simile contrasta il simile e ne cercò l’applicazione pratica stava facendo una ricerca scientifica; che, come spesso accade, creò preparati inefficaci; quando nel 1988 il dr Benveniste pubblicò su Nature un tentativo di giustificare quella che ormai era diventata una fiorente industria inventando un principio (scientifico) magico come la memoria dell’acqua (per giustificare la presenta attività di sostanze che a quelle diluizioni erano inesistenti, seguito nel 2011 dal Nobel Montagnier) fecero un gran buco nell’acqua (risultati inconsistenti o inventati)..ma sempre usando l’unico modo a loro conosciuto, la scienza, per quanto con un pò di condimento di cialtroneria…
Anche quando il Dalai Lama vuole capire meglio gli effetti fisiologici della meditazione manda i monaci a sottoporsi a esperimenti scientifici; quello che forse non è chiaro a Merlo è che la scienza non è qualcosa di esterno a noi e separato, capace quindi attraverso i suoi ideologi-gli scientisti- di accecarci e opprimerci. Come dicevo nel breve saggio, è quello che fanno anche i bambini. Che le università siano spesso pessimi luoghi per una ricerca scientifica libera e aperta è fin troppo vero, ma che produca solo soldatini? Lo possiamo immaginare solo dopo un’indigestione.
Se poi spostiamo il fuoco sulla tecnologia è un discorso affatto diverso, e, per mantenere l’analogia culinaria, non è il caso di fare minestroni.
Se vogliamo avere qualche idea concreta (scusate il bisticcio di parole) di cosa significa affrontare scientificamente questa fase..e non essere soldatini..consiglio questo video che viene dalla Normale di Pisa: https://www.youtube.com/watch?v=DOgbjp7LMU4 dove Maserati e Zagni parlano di Pandemia, Big Data e Fact Checking (quello che si chiama anche controllo)
Ci sono altre forme di conoscenza oltre a quella materialista.
Non sarà certo un mio elenco a soddisfare la domanda di quali siano.
La sarà invece l’eventuale necessità di andare oltre la modalità della conoscenza analitica.
Non c’è nulla contro la scienza, tranne la sua lezione a sola modalità di conoscenza, a sola depositaria del vero. Tranne la cultura scientista che ne è derivata.
La concezione comune della realtà corrisponde ad un format che semplicemente non è il solo.
Essa non è data ma è nella relazione quindi in noi.
La reazione a queste considerazioni è spesso scocciata, come si percepisce anche in questa occasione.
Quando il giudizio non ci prevarica più, si apre lo spazio per chiedersi in che termini una certa affermazioni tanto incomprensibile può sussistere? Da lì ad avviare la ricerca che riproduce la necessarietà di quell’affermazione il passo è accorciato.
Ma è un processo non comune a chi ha definitivamente separato il vero dal falso.
Diversamente si può arrivare a riconoscere in che termini è vero che il Cristo abbia camminato sulle acque e tutte le altre – per molti cosiddette – ciarlatane, sciamaniche stregonerie.
Lorenzo Merlo insiste nel proporre i suoi argomenti con un linguaggio religioso, ma non da teologia razionale bensì da teologia soggettiva, iniziatica, basata su un reale o presunto “risveglio” soggettivo e personale. Con questo procedere non c’è base per una proficua discussione, ma il dialogo è solo un rimbalzare di equivoci ora linguistici ora sostanziali.
Ad esempio Merlo scrive: «Ci sono altre forme di conoscenza oltre a quella materialista».
Mi piacerebbe comprendere che cosa vuol dire l’aggettivo “materialista” applicato alla conoscenza. Posso capirlo applicato a una particolare ideologia, ma non alla conoscenza, quando la conoscenza è davvero conoscenza.
Si può dire che le conoscenze matematiche o le teorie fisiche o quelle chimiche siano materialiste piuttosto che idealiste o spiritualiste? Che senso ha? Nessuno. Una scrittura matematica semplicissima come «2+2=4» è materialista? o è idealista? o è spiritualista? Oppure affermare che, in determinate condizioni ambientali, l’acqua bolle alla temperatura di cento gradi Celsius o dire che una molecola d’acqua è formata da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno? E come dovrebbero essere queste conoscenze per non essere materialiste?
Il linguaggio e gli argomenti di Merlo sono zeppi di equivoci lessicali e di fallacie logiche; egli confonde e mescola cose che non sono da confondere e tanto meno da mescolare.
Ciò che rifiuta non è la conoscenza scientifica, ma semplicemente la normale logica argomentativa. Tutto ciò che non rientra nel suo modo di vedere diventa scientismo materialista e usa i termini “scientismo” e “materialismo”, come tanti altri, a modo suo, rendendo impossibile intendersi.
In sostanza egli confonde la conoscenza, intensa sia nel senso comune sia in quello scientifico come consapevolezza e comprensione di fatti / fenomeni e possibilità di narrarli /esporli in maniera che siano comprensibili e condivisibili all’interno della comunità linguistica. Ciò richiede che la conoscenza di A sia trasmissibile a B e che B possa condividerla facendola sua attraverso la ripetizione, se vuole, della medesima esperienza conoscitiva. Linguaggio, metodo, conoscenze che fanno parte di una comunità, quindi, e che non siano proprie e solo della biografia di un individuo.
Confonde questa conoscenza con la conoscenza / credenza non condivisibile se non per fede o per esperienza individuale non ripetibile.
Se io affermo: «Credo in Cristo perché io stesso ho beneficiato di un miracolo che ho ottenuto pregandolo», affermo di conoscere un fatto che però sfugge a ogni controllo e che pertanto non è parte di una conoscenza scientifica. Ma si tratta di due conoscenze diverse e non mescolabili e affermare che la seconda è superiore alla prima e svalutare la prima accusandola di materialismo non ha senso, ma è solo confusione logica e propaganda ideologica.
La conoscenza scientifica non è né materialista né spiritualista, è semplicemente una forma di conoscenza condivisibile e, in genere, ripetibile, documentata e provata da specifiche procedure che formano il metodo scientifico. Metodo seguito da centinaia di ricercatori atei o cattolici o luterani o musulmani, materialisti o spiritualisti ecc. La qualificazione religiosa e/o filosofica non è pertinente a questo tipo di ricerca e di conoscenza. L’accertamento dei fatti, anche in sede non strettamente scientifica (ad esempio in sede storica, sociologica, giuridica, geografica) prescinde dall’ideologia di chi opera l’accertamento. E se ciò non avvenisse, non si avrebbe accertamento ma distorsione dei fatti.
La seconda forma di conoscenza è invece una presunta conoscenza perché, di fatto, è una forma di credenza basata sulla fede. Anche la fede può essere basata sull’accertamento dei fatti e sull’esperienza personale, ma di fatti e di esperienze che possono avere diverse spiegazioni ne privilegia una e la fa propria, e la fa propria per fede non perché tale accertamento sia avvenuto tramite una procedura condivisibile dalla comunità. In sostanza questa forma di conoscenza non “spiega” perché qualcosa è avvenuto e come è avvenuto, ma crede che sia avvenuto e lo spiega con l’intervento di volontà o forze o energie che non è possibile sottoporre a un accertamento vero e proprio.
La conoscenza scientifica non spiega tutto, e affermarlo è banale, sia affermarlo in senso positivo sia come accusa contro i limiti della scienza. Gli scienziati conoscono e ammettono i limiti della scienza. Da questo punto di vista Merlo muove accuse ridicole quando sono rivolte alla scienza, fondate quando sono rivolte all’ideologia scientista, cioè a una forma di non conoscenza, di non vera conoscenza, analoga alle presunte conoscenze filosofiche e religiose, che consiste nell’estendere oltre il confine a cui arriva la scienza idee e credenze erroneamente desunte dalla conoscenza scientifica.
Lo scientismo parte dalla scienza e ne fa un uso strumentale per arrivare all’ideologia o a certe forme di metafisica o a certe forme di pensiero religioso. Ma un errore analogo e forse maggiore, in termini di conseguenze sociali e interpersonali, è quello di chi parte dalle presunte conoscenze religiose per arrivare a una concezione della scienza del tutto diversa da quella condivisa. In questo caso è il pensiero religioso che si sostituisce alla scienza e che pretende che “vera” scienza sia solo quella che non ignora, non mette da parte, ma usa nella sua pratica le “verità” profonde, “antimaterialiste” ecc. ecc. della propria fede, che però rimane verità non accertabile, non condivisibile da tutti, non dimostrabile.
Con questa operazione i tipi come Lorenzo Merlo ci riportano indietro di decine di secoli. Certo, vivono in questo 2020 e usano tutti i prodotti della tecnologia e conoscono il sapere scientifico che vi è incorporato, ma vivono secondo principi e idee che svalutano questo mondo e che fanno riferimento a un altro mondo e ad altre verità. Ciò è legittimo e di per sé non comporta nessun male. Finché il loro antiscientismo non diventa una ideologia di regressione che vorrebbe imporre a tutti procedure sociali, politiche ed economiche studiate in linea con il loro modo di pensare.
A questo punto non si tratta più di ragionare di scienza, di filosofia e di religione, ma di politica e di organizzazione sociale, e quindi di valutazioni che hanno una forte componente soggettiva e che possono e devono essere decise solo con procedure che si basino su principi di volontarietà, di scelte personali, di libertà, di non violenza, di bene comune, di interessi prevalenti ecc., procedure a cui dare una forma giuridica che prescinda il più possibile dalle credenze ideologiche, filosofiche e religiose.
Quando Lorenzo Merlo parla di una realtà più vera di quella comune e apparente, come è proprio del pensiero religioso, deve però porsi in modo serio, logico e concreto il problema della convivenza fra le due realtà e della non ingerenza di quella considerata più vera in quella comune, se non a livello di convinzioni soggettive e personali. E quando auspica un “risveglio” generalizzato si comporta di nuovo come un religioso in cerca di proseliti, sebbene affermi il contrario. Può farlo, ma non può evitare di venire giudicato, soppesato, per quello che dice e che fa, perché la vita della comunità è sempre anche un giudizio, una “pubblica opinione”, che si forma, che evolve, che cambia, ma che non può distaccarsi dalla vita concreta e dalle verità condivisibili.
Ma dagli interventi scritti che si leggono in più sedi sembra che Lorenzo Merlo non voglia fare il testimone delle sue verità, cioè il mistico e l’asceta, ma piuttosto l’apostolo o il guru, il sacerdote e il maestro, attività che richiedono un pubblico, che richiedono discepoli, ascoltatori, e che mira a fare proseliti. Sarebbe pertanto bene che anche la sua “teologia” venisse comunicata con metodo e linguaggio più comprensibile e condivisibile. Insomma, un poco più “razionale”. O anche la razionalità è materialista e scientista?
Georg Cantor ha dato un importante contributo alle conoscenze matematiche e alla definizione di “infinito”, e non lo si può certamente definire materialista visto che come terzo contesto in cui, a suo parere, si presenta l’«infinito attuale» è quello in cui si realizza «nella forma più completa, in un’essenza mistica completamente indipendente, in Dio, che io [Cantor] chiamo Infinito Assoluto o, semplicemente, Assoluto». Con ciò è passato dalla matematica alla religione, ma ha conservato una adeguata razionalità che ci permette di capire che cosa intendesse con il suo concetto di «Assoluto».
Kurt Friedrich Gödel, matematico, logico e filosofo, ha addirittura elaborato due teoremi per dimostrare l’esistenza di Dio, senza naturalmente riuscirci perché la premessa di partenza è un punto al quale o si crede per fede o non si crede, per cui i teoremi non dimostrano altro che ciò che essi stessi pongono come contenuto di partenza.
Ma non si può certo dire che la sua razionalità fosse materialista.
E se Lorenzo Merlo mi citasse sant’Anselmo quando dice: «lo stolto afferma che Dio non è», riprendendo il Salmo 53 attribuito a Davide, io direi: «È vero, alcuni stolti dicono in cuor loro che Dio non esiste, ma altri stolti dicono che Dio esiste». Perché, come può una persona dotata di intelligenza dire che Dio esiste o che non esiste se non mi precisa esattamente di che cosa stiamo parlando? La letteratura religiosa e filosofica ci offre diverse decine di accezioni del termine “Dio”, e già questo è un grosso problema, ma quel che è peggio è che tutte le accezioni sono contraddittorie e non definite in modo preciso per cui non si può esprimere un giudizio di esistenza o non esistenza non essendo il giudizio verificabile (e tanto meno falsificabile).
Se invece per “Dio” intendiamo una qualche realtà del tutto indefinibile, come affermano le forme di «teologia negativa», che è «altra» da ciò che conosciamo e che in qualche modo è la causa diretta o indiretta dell’universo fisico in cui viviamo, possiamo concordare che una realtà non conosciuta esiste, ma non possiamo certo dire che si tratti di realtà materiale o ideale o spirituale, proprio perché completamente sconosciuta e indefinibile, e non possiamo attribuirle qualità e volontà concepite a immagine e somiglianza di quelle umane.
Ma la scienza e gli scienziati questo lo sanno e, con gli strumenti che possiedono, cercano (alcuni, in qualche caso e ambito di ricerca) di spostare il confine fra ciò che è sconosciuto e ciò che è inconoscibile. Confine imprecisabile e sul quale hanno tanto discusso sia i positivisti dell’Ottocento e del Novecento, sia una lunga tradizione di filosofi e teologici e di mistici e asceti. Con la differenza che la scienza si ferma al confine raggiunto con la ricerca e l’accertamento dei fatti, tutti gli altri cercano di oltrepassarlo ricorrendo ai trucchi più diversi della ragione discorsiva basata sull’opinione e sulla fede.
Confermo, al pesce non si può chiedere cosa pensa dell’acqua.
Finché non ci si emancipa dai confini nei quali crediamo di esistere (questa è la sola fede in questione) nessuna ossevazione alternativa ha spazio per scaturire.
Certo, prima bisogna averli riconosciuti, diversamente non si può chiedere al pesce cosa pensa dell’acqua.
Caro Merlo, continui a discutere per equivoci e per falsi, o meglio, a non discutere, ma a ribadire i tuoi dogmi.
Scrivi: «Confermo, al pesce non si può chiedere cosa pensa dell’acqua».
Errore: al pesce si può benissimo chiedere cosa pensa dell’acqua e lui risponde con il suo linguaggio. Se l’acqua è come dev’essere ci vive bene, se no ci vive male o ci muore.
Vi è una stretta relazione fra ogni essere (minerale, vegetale o animale) e l’ambiente in cui si trova e vive. Il pensiero, nel caso più evoluto dell’uomo, riflette su questa relazione, studia, ricerca, formula teorie e dottrine. L’uomo è un pesce che pensa all’acqua in cui vive e dice in tantissime forme quello che ne pensa.
Ma nella sua forma diversa anche un qualunque pesce lo fa e lo esprime, magari agli altri pesci della sua famiglia e meno direttamente all’uomo che si chiede che cosa il pesce pensi dell’acqua in cui vive.
L’acqua in cui noi viviamo è l’universo che conosciamo parzialmente e che cerchiamo di conoscere di più. Non possiamo emanciparci concretamente da questi confini, gli unici che conosciamo. Possiamo però farlo fittiziamente, e magari anche un poco psicologicamente, con l’invenzione letteraria, con la poesia e con altre cose. La religione che tu proponi è una di queste invenzioni, ma ha due torti: di essere meno ricca e interessante della letteratura e della scienza e di pretendere di essere vera. Perché, anziché coltivare sia la scienza sia la letteratura sia la filosofia sia la religione, ognuna nel proprio ambito, dovrei impoverirmi e ischeletrirmi rinunciando a chiedermi che cosa il pesce pensa dell’acqua e a sostituire la ricchezza e bellezza dell’universo in cui vivo per uscire dai suoi confini e, anziché emanciparmi, cadere schiavo di dogmi privi di reale conoscenza e così poco interessanti?
Ne ho un altro: l’esperienza non è trasmissibile.
Molto caro e incomprensibile, quindi dogma, per chi crede che il pesce sappia in cosa viva.
Ovvero di poter chiedere di calmarsi chi è in preda a un’emozione.
Anche sul Manifesto di oggi si parla, recensendo il libro ‘Teocrazia e Tecnocrazia’ di Chiodi e Maciori, dello scientismo e dei suoi pericoli.
Non ho letto il libro e l’articolo non mi è sufficiente se non per due provvisorie osservazioni: la tecnocrazia è da sempre una casta, ma da sempre serva; e le parate che si vedono di questi tempi sono più teatrini dei pupi che non esibizioni di potere.
La scienza assunta nei cieli, a dominare le menti del volgo? No, non oggi, nè ieri nè domani; sono intuizioni parziali non suffragate da sufficienti dati, direbbe uno scienziato. Epperò fanno rimpiangere il lavoro di costruzione di paesaggi virtuali a più dimensioni nelle cui valli la storia scorre, generando nel suo percorso politica e cultura, come faceva Braudel nel suo Filippo II.
Non so quanta fatica abbia fatto poi Merlo a raggiungere il suo livello di conoscenza superiore; ma se il risultato dell’applicazione di cotesto sapere è la scoperta che in Giappone hanno trovato cure miracolose per il Covid19, che la pandemia non è poi così grave come dicono, e riesce a vedere i principi attivi delle diluizioni a un miliardesimo dei preparati omeopatici, devo dargli una brutta notizia: gli stessi risultati li hanno ottenuti milioni di creduloni usando solo un pò di succo di vuot-sap.
Non so se Merlo lo fa per rispondere al mio commento o per regalarci altre perle della sua sapienza, quando scrive:
«Ne ho un altro: l’esperienza non è trasmissibile. Molto caro e incomprensibile, quindi dogma, per chi crede che il pesce sappia in cosa viva. Ovvero di poter chiedere di calmarsi chi è in preda a un’emozione».
Ma devo constatare che torna a sbagliarsi grossolanamente, almeno secondo il normale senso delle parole e delle frasi nella costruzione linguistica in italiano.
1) L’esperienza è trasmissibile e lo constatiamo tutti i giorni. Gran parte della nostra conoscenza è fatta di conoscenze che ci vengono trasmesse da altri e non frutto di esperienza diretta. Dalle cose più difficili alle cose più facili e quotidiane. Da quelle delle scienze che imparo studiando i resoconti di esperienze altrui a quelle che mi trasmette la vicina di casa quando mi informa di avere acquistato una cosa che cerco da tempo nel tal negozio dove mi reco subito e finalmente trovo ciò che cercavo. O quelle di un buon recensore che mi parla di un libro convincendomi ad acquistarlo e leggerlo. La trasmissione di esperienze ha un grosso ruolo nella vita umana.
In una certa misura sono trasmissibili anche le esperienze del tutto soggettive e che non si traducono direttamente in azioni o in suggerimenti di vita. Quante esperienze psicologiche, sentimentali, emotive, apprendiamo e in qualche modo facciamo nostre e riviviamo nella nostra interiorità tramite l’esperienza indiretta della lettura, della visione di film e documentari, del racconto orale di altri? E ci sono anche esperienze mistiche e ascetiche, quando sono raccontate in forma adeguata.
L’esperienza è trasmissibile e dà vita a forme di esperienza indirette che producono conoscenza.
2) «Ovvero di poter chiedere di calmarsi chi è in preda a un’emozione». E perché no? Anche questa è un’esperienza che si verifica di continuo. Una persona è agitata per una qualche emozione (paura, lutto, arrabbiatura ecc.) e le parole di un amico, un abbraccio, un approccio giusto servono a diminuire l’emozione e a ritrovare la calma.
Ci sono anche forme specifiche di addestramento psicofisico per mantenere la propria calma e ridurre al minimo l’impatto delle emozioni. Le emozioni, come qualunque stato psicofisico indotto dall’esterno o dall’interno, possono essere gestite.
3) Non capisco pertanto che senso abbiano le frasi di Merlo che vorrebbero negare delle verità e delle esperienze talmente banali e quotidiane da essere innegabili.
Forse hanno un significato recondito che si rivela solo a chi ha vissuto un particolare “risveglio”? E a chi non si è “risvegliato” vengono solo comunicate in forma dogmatica?
Per dogma si intende un principio o una convinzione che è parte integrante di una dottrina e che va accettato così come viene proposto senza possibilità di discuterlo, sia che appaia ragionevole sia che appaia del tutto irragionevole.
Merlo parla per dogmi, cioè per affermazioni in gran parte irragionevoli, e contrarie all’esperienza quotidiana, che lui pretende che vengano accettate per fede. Ma compie l’errore grossolano di non limitarsi a pochi principi non verificabili e non falsificabili, come in genere fanno le religioni più tradizionali, ma di estendere il dogma ad affermazioni banali verificabili e falsificabili benissimo, pretendendo di dare ad esse un significato diverso da quelle comune. Ma il diverso significato, se c’è, rimane nascosto, rimane suo personale e, a me, appare solo frutto di un cattivo uso della ragione e della lingua in cui scrive.
4) Ben diverso è il linguaggio di autentici mistici i quali, pur pieno di riferimenti ai dogmi della loro religione, è comprensibile secondo il normale contesto storico e religioso e linguistico all’interno del quale operano. Si legga, ad esempio, l’incipit del «Trattato della Divina Providenza» di santa Caterina da Siena:
«Levandosi un’anima ansietata e di grandissimo desiderio verso l’ Onore di Dio, e la salute delle Anime , viene ad esercitarsi per alcuno spatio di tempo nella Virtù abituata & abitata nella cella del cognoscimento di sè, per meglio cognoscere la Bontà di Dio in sè : perchè al cognoscimento seguita l’Amore, & amando cerca di seguitare, e vestirsi della Verità . Ma in veruno modo la Creatura gusta tanto, & è illuminata di quella verità, quanto col mezzo dell’Oratione umile, e continua , fondata nel cognoscimento di sè, e di Dio».
5) Nel “risveglio” predicato da tanta tradizione mistica non vi è pressoché nulla di controfattuale né inutili polemiche contro la comune conoscenza umana. Mentre i contenuti del “risveglio” predicato da Lorenzo Merlo restano oscuri, inutilmente polemici contro la realtà comune, infarciti di linguaggio incomprensibile e incontrollato sotto il profilo logico e semantico.
Perché Merlo, anziché intrattenerci in questo modo incomprensibile, non ci parla di che cosa succede dopo il “risveglio” da lui predicato? Di che cosa fanno i “risvegliati” nella loro vita quotidiana, quali sentimenti hanno, quale atteggiamento nei confronti dei problemi sociali, quali relazioni fra di loro ecc. ecc.?
SEGNALAZIONE/RILETTURE AD HOC
Mythos/logos in Enciclopedia Einaudi 9, 1980
Anche mia mamma diceva “l’ha detto il telegiornale”.
Poi c’è l’identificazione.
Non aver coscienza in cosa ci identifichiamo esclude di poterne prendere le distanze.
Diversamente siamo disposti ad uccidere e a essere uccisi.
Tuttavia, identificarsi in una prospettiva, marca di essere pienamente in campo dualista.
Un ambito che a sua volta esclude la possibilità di dare dignità all’idea “opposta”.
Essa è una lama che divide il mondo in giusto e sbagliato.
La morale che fanno i suoi paladini naturalmente non è riconosciuta come autoreferenziale.
Lo dicono anche gli americani quando a petto in fuori vanno ad esportare democrazia.
Da qui le guerre, anche quelle sante.
Tutte obbligate dalla verità.
@ Merlo
«Anche mia mamma diceva “l’ha detto il telegiornale”».
***
Questa tua frase mi fa rabbrividire. C’è ironia e disprezzo verso tua madre.
C’è ironia e disprezzo verso la gente comune e considerata poco colta.
Eppure, tua madre, colta o non colta che fosse, se diceva «l’ha detto il telegiornale¨, vuol dire che sapeva che l’informazione si può trasmettere, cosa che tu assurdamente neghi.
E tiri in ballo l’identificazione. Ma con chi puoi identificarti? Se non ritieni che sia trasmissibile l’esperienza, come puoi ritenere possibile addirittura l’identificazione? Ti identifichi con Galileo o con Newton o con Stephen Hawking, con Omero o con Dante o con un altro scrittore, o con un pittore, o con qualunque altra persona? Cosa vuol dire identificarsi?
Da quello che scrivi sembra che voglia semplicemente dire aderire a una ideologia e crederci al punto tale da essere disposto a morire o uccidere per essa. Cioè, per te, identificazione è sinonimo di esaltazione fanatica? O è l’unione mistica con la divinità o con qualsiasi cosa sostituisca la divinità?
Cose vecchie e cose sciocche, da sempre. E cose pericolose se applicate a ideologie criminali.
NB. Merlo scrive:
«Poi c’è l’identificazione. […] Diversamente siamo disposti ad uccidere e a essere uccisi. […] marca di essere pienamente in campo dualista. Un ambito che a sua volta esclude la possibilità di dare dignità all’idea “opposta”. Essa è una lama che divide il mondo in giusto e sbagliato. La morale che fanno i suoi paladini naturalmente non è riconosciuta come autoreferenziale. Lo dicono anche gli americani quando a petto in fuori vanno ad esportare democrazia. Da qui le guerre, anche quelle sante. Tutte obbligate dalla verità».
***
Il tuo discorso ora è più scoperto, e più vicino alle fonti che ho ipotizzato già in un intervento precedente: Julius Evola e il nazismo «transpolitico», cioè quello magico-esoterico del richiamo alla purezza originaria delle tradizioni.
Mi puzza di guerra di religione.
Io: non credo al dualismo, ma alla complessità più che dualista: tre, quattro, cinque diverse opinioni.
Io: non escludo la possibilità di dare dignità alle idee opposte alle mie, purché non siano criminali, non predichino guerre e violenze, non feriscano diritti fondamentali delle persone.
Io: non divido il mondo in giusto e sbagliato. Le sfumature intermedie sono pressoché infinite.
Io: non esporto la democrazia, e nemmeno la religione e niente altro. Sono favorevole agli scambi volontari, a reciproco vantaggio delle persone e delle comunità in comunicazione fra loro, non alle imposizioni , ai proselitismo e alle missioni che si autodefiniscono umanitarie ma che non rispettano la condizione di parità.
Io: aborro tutte le guerre, anche quelle sante. Non esistono guerre sante. Casomai, in qualche caso, esiste la triste necessità della legittima difesa, a cui ricorrere solo in casi estremi.
Io: non credo alle guerre «obbligate dalla verità». La verità non obbliga mai alla guerra, ma sono i fanatismi di chi crede di possedere la verità che portano alla guerra.
E temo che tu sia uno di questi fanatici.
In un mio commento sotto il primo racconto di Merlo pubblicato su Poliscritture (https://www.poliscritture.it/2020/05/05/la-recita-o-la-vita/)avevo scritto: “Il racconto di Merlo mi ha riportato ad un clima culturale del passato, quello del trapasso dal “primato della politica” al cosiddetto “riflusso” o “ritorno al privato” o alla propria “interiorità” o del “recupero del Religioso”. Eravamo alla fine degli anni ’70. E lo registrò bene Fortini in due brevi scritti: “Gli ultimi gnostici” e “I fratelli Amorevoli” in “Insistenze” (1985) che inviterei a rileggere. “.
L’andamento del confronto rende ancora più utile la lettura di quegli scritti. Sono riuscito a fotografare il primo. Spero sia leggibile.(Ci si può aiutare con lo zoom). [E. A.]
“La scienza assunta nei cieli, a dominare le menti del volgo? No, non oggi, nè ieri nè domani; sono intuizioni parziali non suffragate da sufficienti dati, direbbe uno scienziato.” (Di Marco)
“Merlo parla per dogmi, cioè per affermazioni in gran parte irragionevoli, e contrarie all’esperienza quotidiana, che lui pretende che vengano accettate per fede” (Aguzzi)
Al di là delle intenzioni di Lorenzo Merlo, dell’area culturale a cui fa riferimento e dei modi concreti – dialoganti o dogmatici – con cui sta presentando le sue posizioni o commentando su Poliscritture (o altrove), a me preme tener presente e approfondire i problem razionale/irrazionale, mito/scienza che in questo confronto sono emersi.
Io li vedo meglio posti nei due scritti di Fortini o nella voce “Mythos/logos” della vecchia Enciclopedia Einaudi che ho suggerito. E inviterei tutti a leggerli e a discuterne. Altri potranno proporre testi più aggiornati o riformulare in autonomia le questioni anche con proposte di articoli.
Veramente non disprezzavo mia madre né le persone non colte, tra le quale mi riconosco. (Suppongo sia una bugia visto che in verità come dite, la disprezzo)
La quantità di equivoci che leggo e la loro dimensione ha una portata che mi travolge.
Generalizzando posso dire che niente di quanto mi attribuite ha a che vedere con la mia posizione.
Una di queste è che l’informazione non è l’esperienza.
Un altra che la comunicazione, come questi “scambi” “dimostrano” non ha nulla a che vedere con la dimensione razionale quando le origini sono tra loro estranee.
Suppongo a questo punto d’aver pronunciato altri dogmi, d’aver espresso posizioni religiose e così via come da vostri elenchi.
Gentile Lorenzo Merlo,
non parli al “mucchio”. Qui ognuno ha un nome e cognome e risponde delle proprie posizioni o singole affermazioni.
Singole e proprie mi pare solo formalmente.
Per il resto il “mucchio” mi pare omogeneo.
Oltre a essere dogmatico posso sbagliare.
Pardon
@ Ennio e altri
Accolgo l’invito a commentare i due estratti da te pubblicati: l’articolo sul mito dell’Enciclopedia Einaudi e l’articolo di Fortini.
Sugli aspetti storici e culturali in senso lato dei due testi non c’è nulla da dire, in questa sede. Fanno parte, e fanno propria, una tradizione culturale consolidata che, per me, è del tutto condivisibile. Ci sono invece due punti dell’articolo di Fortini suscettibili di domande di approfondimento o di chiarimento.
***
1) Su Cacciari che recupera Heidegger e Nietzsche da sinistra. Ricordo che già negli anni Settanta ne discutevo con i miei studenti di liceo. Erano appena usciti i suoi saggi
«Krisis» (1976) e «Pensiero negativo e razionalizzazione» (1977) e nel 1976, dopo anni di militanza nella «nuova sinistra», era stato eletto alla Camera nelle file del Pci.
Consideravo legittima l’operazione di recupero di alcuni aspetti della filosofia di Heidegger e di Nietzsche alla storia della filosofia in senso lato, al di fuori di distinzioni di sinistra e di destra, ma interessante anche per la sinistra; mentre ritenevo sbagliato un recupero da sinistra sia della totalità della filosofia di quei due autori sia del loro stile e sia della loro personalità. Insomma, mi pareva che ci fosse qualcosa di nuovo e di buono nella sua impostazione, ma che nel complesso andasse oltre il bersaglio e incamerasse fra il buono e il nuovo anche posizioni che non mi parevano accettabili, soprattutto dal punto di vista della militanza di sinistra.
Con le sue opere successive e con l’attività politica Cacciari ha completato la costruzione di un paradigma culturale e politico nuovo, abbandonando completamente, da un lato, una tradizione marxista, a favore di una cultura più moderna e varia e più dialogante con il mondo moderno, dall’altro una tradizione di militanza ideologica bloccata su punti dogmatici, a favore di una militanza più pragmatica e priva di riverenza per gran parte del bagaglio tradizionale della sinistra.
In ciò c’era e c’è del buono. Spesso Cacciari riesce a vedere e dire “da sinistra” cose che la sinistra non vuole vedere e tanto meno ascoltare. Tuttavia la sua operazione complessiva mi è parsa, e mi pare ancora, non veramente radicale e nuova, né nelle sue posizioni filosofiche che si sono stemperate nel tempo né nelle sue posizioni politiche che via via hanno perso novità ed efficacia. Insomma, la facciata ha prevalso sulla sostanza.
È stato – dicono – un buon sindaco di Venezia. Ma di buoni sindaci di sinistra ne abbiamo avuti altri, in altre città, fin dagli anni precedenti la Prima guerra mondiale (a Milano, ad esempio), con diverse ascendenze culturali ma in pratica analoghi programmi di riformismo sociale e di buona e onesta amministrazione. Ecco, dopo il precoce, brillante, originale e per qualche aspetto paradossale inizio, Cacciari è diventato un onesto amministratore sia della cultura sia della politica, ma le promesse di un radicale rinnovamento sono rimaste promesse. I suoi libri sono sempre interessanti, ma non più di tanto; spesso sono infarciti di un compiaciuto discorrere culturale che divaga qua e là e non si capisce dove vuole arrivare, che cosa vuole concludere, e dove i dettagli sono spesso più interessanti dell’insieme. Lo stesso per le sue prese di posizione politica: acuto critico (da sinistra) dei miti e dei trasformismi e delle mancanze della sinistra, non si riesce mai di capire quale sia la reale alternativa da lui proposta, se ce n’è una che non coincida con la semplice buona amministrazione dell’esistente.
Non è mai stato un uomo di destra, ma forse nemmeno di sinistra, pur non avendo mai compiuto il salto radicale per uscire dalle secche del dualismo destra-sinistra. Oggi, da illustre pensionato (ha esattamente la mia età; è appena più anziano di 70 giorni), mi pare una persona che è rimasta a metà del suo programma, non per mancanza di tempo, ma per mancanza dell’altra metà del programma.
***
2) Dell’articolo di Fortini mi paiono deboli i passi in cui parla delle élite e quello sulle “differenze”. Non sbagliati, ma deboli, forse per troppa e obbligatoria concisione, ma forse anche per prevenzioni proprie della cultura a cui si riferisce. In Italia le élite sono state studiate soprattutto dal punto di vista delle scienze politiche, da Mosca a Pareto e a tutti i loro seguaci della «Scuola delle élite», nei diversi sviluppi che per approssimazione possiamo dire di destra, di centro democratico e anche di sinistra. Per molti studiosi di scienze politiche (politologia, sociologia della politica, psicologia della politica, storia delle dottrine politiche) oggi appare scontato che la lotta politica è lotta fra élite, mentre le masse entrano in gioco in modo autonomo molto raramente. La spiegazione di molti eventi anche relativi alla storia del Partito comunista sovietico e dell’Urss diventa più chiara e convincente se si studiano le élite in gioco, cioè le lotte interne ai gruppi dirigenti, alla ristretta classe politica del partito e dello Stato. Ma la storiografia (e la cultura politica in genere) di sinistra è sempre stata diffidente nei confronti della teoria delle élite (e dell’elitismo nelle sue varie accezioni), non solo rispetto ai fondatori, cioè a Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, considerati, a torto, fascisti o parafascisti, ma anche rispetto ai seguaci dell’elitismo democratico, fra i quali anche gli italiani Guido Dorso, Filippo Burzio e Giovanni Sartori. Magari in parte recuperati strumentalmente solo come critici del sistema democristiano o, per Sartori, del sistema berlusconiano.
Ma il nocciolo dell’elitismo non è mai stato accettato e, direi, nemmeno studiato sul serio dai “pensatori” della sinistra, giudicandolo comunque di destra.
In questa prevenzione culturale è da vedere uno dei tanti aspetti del ritardo culturale della sinistra, dei pregiudizi dell’ideologia, dell’attaccamento a vecchi cascami della tradizione rivelatisi troppo spesso errati.
Questa insufficiente valutazione dell’elitismo si riflette su un altro tema tipico dell’ideologia di sinistra: quello dell’uguaglianza. È abbastanza chiaro il significato di uguaglianza politica e di uguaglianza giuridica (di ascendenza liberale e democratica), e anche di uguaglianza rispetto ad alcuni diritti considerati fondamentali. Ma il pensiero socialista e comunista parla di un’uguaglianza molto più spinta e completa della quale si capisce la domanda (come istanza morale e psicologica) ma non se ne capisce la possibilità di gestione effettiva sul piano della politica e dell’amministrazione e nemmeno l’effettiva estensione sul piano concreto, codificato nel sistema giuridico.
Di fatto, in tutti i Paesi del «socialismo reale» non si è andati oltre, anzi si è rimasti indietro, rispetto al concetto liberal-democratico di uguaglianza. E non si va oltre nemmeno in tutte le realtà gestite da governi di tipo social riformista e socialdemocratico. O, quando si tenta qualcosa che vada oltre, ne seguono conseguenze negative su diversi piani (economico, di libertà politiche, di reale accettazione e soddisfazione da parte del popolo, cioè di consenso).
***
3) Da questo punto di vista appare poco chiaro il passo di Fortini in cui leggo: «L’elitismo intellettualistico non può vivere senza le “differenze”. Da quelle naturali vengono i razzismi, da quelle storiche le colonizzazioni, da quelle sociali le discriminazioni e i sistemi dei privilegi. […] Voler trasformare le differenze in distinzioni è sempre stato uno dei punti di onore delle sinistre e non vuol dire abolire i criteri di selezione e valutazione e neanche quello di autorità, se è autorità introiettata come verità irrespingibile che paia parlarci con la nostra voce medesima. Ma questo, il democratismo delle sinistre non sa pienamente accettarlo. Vuol dire anche affrontare l’ininterrotto conflitto storico necessario perché quella trasformazione avvenga. Invertire l’ordine fondato su differenze e privilegi, porre le condizioni per una crescita di più sottili e precise amorevoli distinzioni fra gli uomini e all’interno della vita di ognuno di loro, fra età e doni naturali, fra conoscenze e coscienze, fra coscienza e inconscio, tra simboli e linguaggi».
Potrei tentarne un’interpretazione che si accorda con le mie idee e così concludere che sono d’accordo con Fortini, ma temo che Fortini non intenda le stesse cose. Tutto il brano è un po’ campato nell’aria della teoria e suscettibile di diverse interpretazioni; manca della concretezza che ne determinerebbe l’esatto significato. Risulta chiaro il rifiuto del razzismo e del colonialismo, meno chiaro che cosa dovrebbe essere un sistema senza discriminazioni e privilegi.
Ad esempio: che differenza c’è fra “differenza” e “distinzione”? Forse, di fronte ad effettive e reali disuguaglianze fra le persone, si crea differenza se l’ineguaglianza produce ineguaglianza sociale (discriminazione) mentre si crea solo distinzione se non produce ineguaglianze sociali? Cioè, esemplificando, il sesso è una differenza se le donne sono pagate meno degli uomini per lo stesso lavoro, se quindi vengono discriminate, mentre si tratta solo di distinzione se vengono pagate allo stesso modo e se la diversità sessuale non crea discriminazioni? Ma se cerco di replicare l’esempio ad altri tipi di diversità “naturali” il problema si complica: come distinguere fra differenza e distinzione quando si tratta di diverse età, di diverse capacità fisiche ed intellettuali e quindi capacità di lavoro e di produzione, e persino diverse capacità di sopravvivenza (quando, cioè, ci sono persone incapaci di sopravvivere senza l’aiuto di altri)?
A quale soglia giuridica, effettiva nell’organizzazione sociale, si pone il confine fra differenza e distinzione? Fra giusta diversità e discriminazione e privilegio? Questa è data dal termine «amorevole»? Quindi per scelta volontaria ed etica? Ma come può la necessaria norma giuridica essere volontaria e amorevole e insieme condivisa da tutti o almeno da una buona maggioranza dei cittadini?
Mi pare che Fortini ponga dei problemi la cui soluzione rimane oscura. E oscuri restano tanti problemi posti dalle dottrine socialiste e comuniste ma mai tradotti in pratica in modo coerente ed efficace.
Questo punto della gestione delle diversità fra gli individui a me pare piuttosto complesso e coinvolge problemi etici, politici, sociali, economici di grande impatto, fra i quali quello della libertà, quello della meritocrazia (le dottrine comuniste oscillano dalla totale abolizione alla giusta riconoscenza dei meriti, ma non si sa a che punto si collochi la giusta riconoscenza quando non venga affidata a meccanismi autonomi di mercato né quali alterazioni subisca in dipendenza di tali meccanismi), quello della libera scelta del lavoro (negata in Urss, a Cuba e in quasi tutte le esperienze di comunismo reale) e della libera scelta del luogo dove vivere e dell’ambiente sociale in cui collocarsi, o almeno tentare di farlo.
E comporta l’accettazione di (o almeno la necessità di confrontarsi seriamente con) quell’affermazione fondamentale sancita dalla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 7 giugno 1776:
«Consideriamo verità evidenti per sé stesse che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono stati dotati dal loro Creatore di taluni diritti inalienabili; che, fra questi diritti, vi sono la vita, la libertà e il perseguimento del benessere. Che per garantire questi diritti, vengono istituiti fra gli uomini dei governi che derivano dal consenso dei governati il loro giusto potere. Che ogni qualvolta una forma di governo diviene antagonistica al conseguimento di questi scopi, il popolo ha diritto di modificarla e abolirla, e di creare un governo nuovo, ponendo a base di esso quei principi, e regolando i poteri di esso in quelle forme che offrono la maggiore probabilità di condurre alla sicurezza ed alla felicità del popolo medesimo».
Tutte le carte costituzionali dei vari Stati che si sono definiti socialisti e comunisti non hanno mai fatto un passo avanti rispetto alla Dichiarazione del 1776. Né l’abolizione della proprietà privata (ma di fatto solo parziale e trasformata in proprietà dello Stato e non della comunità dei cittadini, quindi falsa abolizione) ha permesso di fare meglio.
Si tratta di grossi problemi che, se non si affrontano e non si risolvono in modo coerente, in pratica restano solo tre vie e tutte e tre perdenti e deludenti: a) Quella dell’utopia a parole senza nessuna traduzione in pratica. b) L’errata traduzione in pratica sotto forma di Stato totalitario che nega completamente ciò che ammette in teoria. c) La parziale o totale rinuncia in pratica nella forma dei governi di sinistra riformista che di fatto gestiscono anche gli aspetti peggiori del capitalismo in forme capitalistiche, in mancanza della possibilità o capacità di fare meglio.
Per Fortini il comunismo è già nella lotta per il comunismo. Per me questa è una grossolana deviazione movimentista, perché il comunismo sta solo nei risultati comunisti. E per avere risultati comunisti bisogno sapere che cos’è il comunismo, che tipo di comunismo si vuole e come organizzarlo realisticamente e concretamente.
Un problema relativo all’organizzazione sociale non può mai dirsi formulato chiaramente se non si è in grado di dargli una coerente, positiva e funzionante formulazione giuridica (come legge o come contratto fra individui o come statuto di una associazione, cioè come norma primaria [sovrana] o secondaria).
@ Luciano
A. Cacciari, Heidegger, Nietzsche
Per un inquadramento della figura di Cacciari (e non solo) nel fenomeno della “Rinascita” heideggeriana e nicciana che si è avuta nella filosofia accademica le cose più ragionate e condivisibili in questi anni le ho letto in alcuni scritti su CONSECUTIO RERUM di Roberto Finelli, che non ho trovatoPERò il tempo di riassumere e “tradurre” in Poliscritture:
– Un parricidio compiuto. Il confronto finale tra Marx e Hegel
http://www.consecutio.org/2014/11/un-parricidio-compiuto-il-confronto-finale-tra-marx-e-hegel/
Qui, tra l’altro, si accenna anche al ruolo positivo svolto da Fortini:
“Valga per tutti il nome, ancora, di Franco Fortini, che qui viene citato non tanto per la ricchezza delle soluzioni proposte, certamente presenti ma in modo assai spesso gracile e problematico nella sua opera, quanto per il forte valore simbolico della sua figura intellettuale, costruita sull’incrocio tra un marxismo critico da un lato, alimentato dalla partecipazione ai «Quaderni rossi» di R. Panzieri e dalla frequentazione dei francofortesi, e dall’altro una filosofia, non dell’esistenzialismo, ma dell’esistenziale. Quale cura, dignità e valorizzazione teorica data a tutto quel mondo emozionale ed affettivo dell’individuo umano, corporeo e mortale, che non è riducibile alle trame egualitarie della ragione illuministica ed emancipativa ma che costruisce invece proprio il fondo di quanto rende quel singolo unico e irripetibile, per questo verso né eguagliabile né omologabile agli altri esseri umani.
– Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano
http://www.consecutio.org/2011/05/panzieri-tronti-negri-le-diverse-eredita-dell%e2%80%99operaismo-italiano/
O in questo video di una conferenza sul 68 alla Fondazione Micheletti:
https://www.facebook.com/FondazioneMicheletti/videos/385548291985822/
B. Fortini
Conosco le tue riserve su di lui. Ne abbiamo discusso nel 2017, quando riproposi in vari articoli un mio commento sul suo “Comunismo” (https://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/ e successivi).
Condivido le tue critiche alle varie esperienze di socialismo (socialdemocrazie, socialismi “reali”). E posso anche concordare con questa tua affermazione: “Mi pare che Fortini ponga dei problemi la cui soluzione rimane oscura. E oscuri restano tanti problemi posti dalle dottrine socialiste e comuniste ma mai tradotti in pratica in modo coerente ed efficace.” O con la conclusione che ne trai: “Si tratta di grossi problemi che, se non si affrontano e non si risolvono in modo coerente, in pratica restano solo tre vie e tutte e tre perdenti e deludenti: a) Quella dell’utopia a parole senza nessuna traduzione in pratica. b) L’errata traduzione in pratica sotto forma di Stato totalitario che nega completamente ciò che ammette in teoria. c) La parziale o totale rinuncia in pratica nella forma dei governi di sinistra riformista che di fatto gestiscono anche gli aspetti peggiori del capitalismo in forme capitalistiche, in mancanza della possibilità o capacità di fare meglio.”
Non credo però che la posizione di Fortini, con tutti i suoi limiti di astrattezza, possa essere condannata come ” grossolana deviazione movimentista”. Lo smentiscono le sue prese di posizioni sui movimenti che si ebbero negli anni Settanta.
Quanto alla tua tesi: “Un problema relativo all’organizzazione sociale non può mai dirsi formulato chiaramente se non si è in grado di dargli una coerente, positiva e funzionante formulazione giuridica (come legge o come contratto fra individui o come statuto di una associazione, cioè come norma primaria [sovrana] o secondaria)” ho molte riserve, che ti espressi sempre in occasione di quella discussione del 2017.
Sono però problemi giganteschi e controversi. E non credo di saperli affrontare su un piano dottrinario, come sai fare tu. Su di essi poi molto si è scritto ancora e da varie posizioni. E non essendoci più una redazione di Poliscritture, è saltata anche la possibilità di organizzare un lavoro collettivo di approfondimento attorno ad una tesi con saggi e discussioni coerenti. Credo che continueremo a discutere soltanto sulla base di spunti occasionali o di recensioni di libri che qualcuno volesse proporre qui su Poliscritture. E’ poco, ma fatto con rigore, può servire.
@ Ennio
Sì, credo anch’io che continueremo a discuterne. E, senza esagerazioni, lo si fa da oltre 2.500 anni. Penso alla «Politica» di Aristotele in cui già si criticava l’astrattezza e la contraddittorietà delle formulazioni del concetto di eguaglianza.
Ma di tanto in tanto, nei tempi lunghi, è necessario che la discussione, in un certo senso, riparta da capo, ritrovi nuove radici e smetta di appoggiarsi su vecchie tradizioni.
Mentre leggo questo tuo ultimo commento e aggiungo quest’altra mia nota, interrompo per una pausa il mio principale lavoro di queste settimane di chiusura: la catalogazione e sistemazione dei miei libri. Sono arrivato a una serie di volumi degli anni 1971-1976 pubblicati da Gabriele Mazzotta, e in particolare, ora, alla collana «Storia e classe» che comprende volumi di Pietro Secchia, di Charles Bettelheim, di Manlio Dinucci, di Mario Capanna, di Pietro Grifone, di Lelio Basso, di Emilio Lussu, di Adriano Guerra e altri. Ottimi libri, ancora oggi per qualche aspetto, soprattutto di documentazione storica, usufruibili, ma dannatamente superati se si volesse cercarvi suggerimenti per l’attualità e per il futuro che non siano semplici istanze morali o generici auspici. E, a mio parere, già superati negli anni in cui sono stati scritti. In questi e in migliaia e migliaia di altri libri ci sono tante versioni di socialismo e di comunismo ma tutte (a parte, ovviamente, i libri contro il socialismo e il comunismo) a partire da Marx. Poi c’è il marxismo, gli aggiornamenti al marxismo, i superamenti del marxismo, le correzioni del marxismo, gli sviluppi del marxismo, i ritorni a Marx senza marxismo, i ritorni al marxismo, le nuove letture del marxismo, le analisi dei fallimenti del marxismo, l’attualità del marxismo (il ciò che è vivo e ciò che è morto di Croce rimane un modello, esplicito o no, di tante letture), ecc. ecc.
Leggere Marx può ancora essere utile, com’è utile leggere tanti “classici”, da Parmenide a Emanuele Severino, passando per Platone, per Kant, per Hegel, ecc., ma credo che sia assolutamente necessario trattarlo come un classico, non come un padre o un fratello maggiore da cui partire. È necessario leggere la realtà storica, l’attualità e le prospettive per il futuro fondandosi su diverse radici e non su Marx e il marxismo. Da Marx a oggi c’è stato un ampio sviluppo di scienze sociali che i marxisti non hanno ancora recepito, se non parzialmente e spesso in modo distorto. È necessario guardare il mondo senza gli occhiali di Marx, se lo si vuole vedere liberandoci da ormai antiche distorsioni ottiche.
Tu hai più volte ripreso positivamente articoli di Pierluigi Fagan, che rappresenta un esempio di nuova e diversa e non marxista impostazione di analisi. Non si tratta di essere sempre d’accordo, per carità. Ma di utilizzare un metodo di ricerca libero da vecchi e dannosi condizionamenti.
Gli scritti di Marx sono oggi più un prezioso documento storico che un ricettario pratico. Tolta questa funzione di documentazione, e tolti i contenuti relativi alla psicologia, all’autobiografia e all’utopia, tutto quel che resta, cioè la parte che Marx considerava scientifica, è stato meglio detto e in modo più scientifico e più corretto da altri autori, che sono giunti a (provvisorie) conclusioni molto diverse.
Del resto l’autentico marxismo è morto con Marx e con Engels, perché già il leninismo è una dottrina molto diversa in parecchi punti fondamentali. E molto diversi sono lo stalinismo, il maoismo, il bordighismo, il gramscismo e così via.
Oggi non c’è più nessun paese o partito o movimento che conti qualcosa che si richiami davvero a Marx e al marxismo (e ciò vale, a mio parere, per la Cina come per Cuba), a parte qualche omaggio rituale.
Ma, terminata la lunga stagione della ricerca, della politica e dei miti marxisti, anche i concetti sottintesi di utopia, di rivoluzione, di socialismo, di comunismo, di uguaglianza, di lotta di classe ecc. vanno radicalmente rivisti, abbandonati o riformulati in termini più convincenti.
Io affermo questo da cinquant’anni, e ne fanno fede i miei scritti degli anni Settanta e seguenti. Ma la mia voce è debole. Studiosi più capaci e autorevoli hanno scelto altre strade: o quella della ripetizione del vecchio con tentativi di aggiornamento che non hanno mai portato a qualcosa di concreto, o quella della demolizione del marxismo senza nessun programma alternativo, che non sia il ricadere nelle consuete forme di statalismo liberaldemocratico, più o meno autoritario.
Qualche spezzone di programma alternativo non manca (Adriano Olivetti, Aldo Capitini, libertarismo, federalismo comunale e altro ancora), ma non hanno mai superato, appunto, il livello di tentativi parziali e abbastanza isolati, trovando un fronte avversario compatto nello statalismo centralistico delle correnti liberali, democratiche, socialiste e comuniste, che, avversarie in molte cose, si trovano poi sempre d’accordo nelle politiche centralistiche e statalistiche.
Se ne continuerà a discutere, finché si potrà.
“. È necessario leggere la realtà storica, l’attualità e le prospettive per il futuro fondandosi su diverse radici e non su Marx e il marxismo”
Può darsi che tu abbia ragione. Ma di sicuro più per il marxismo che per Marx. E, infatti, se lo classifichi tra i classici, vuol dire che una sua efficacia resta. L’accento – sono d’accordo – va posto però su ciò che nel mondo d’oggi non capiamo più che su quello che capirono Marx e gli altri dopo di lui. Ho sempre diffidato delle scolastiche (marxiste e non) ma ho anche seguito con attenzione particolare (non fideistica, non gregaria) quanti – fedelmente o “creativamente” – hanno continuato a fare i conti con l’opera di Marx.
Anche se sei più per l'”oltre Marx”, mi piacerebbe confrontarmi con te sulle varie riflessioni. Ad es. a partire dal dibattito sulla “crisi del marxismo”. Almeno di quella degli anni ’70 in poi. Se ci stai, potremmo concordare i dettagli per mail. Buona giornata.