di Angelo Australi
– Il nostro caro Spartaco… Hai fatto una bella levataccia per trovarti il primo della lista.
Il dottore aveva sorriso distrattamente, dalla scrivania dov’era impegnato a compilare alcune ricette.
Gli dava del tu perché conosceva molto bene la sua famiglia. Era stato amico del nonno e lo era ancora di suo padre. Fino a tre anni prima, con Rutilio ancora in vita, il dottore accettava volentieri i suoi inviti a cena perché la madre di Spartaco aveva la fama di essere un’ottima cuoca. Nel corso dell’anno il nonno aveva la consuetudine di organizzare delle cene a casa di suo figlio, oltre al medico di famiglia che adesso stava per visitare Spartaco c’era un avvocato, il proposto dell’insigne collegiata che tutti chiamavano Monsignore, il direttore della banca dove teneva i suoi risparmi, il maestro della banda musicale Gioachino Rossini e due fratelli proprietari di una fabbrica di abbigliamento maschile, ai quali proprio lui aveva insegnato il mestiere di sarto finita la seconda guerra mondiale. Il proposto veniva da solo, come anche l’avvocato che era scapolo, e il maestro di musica, gli altri erano accompagnati dalle rispettive mogli. Nei pensieri del nonno chi dava lustro a quelle serate era il maestro della banda musicale che per finire la serata in una perfetta armonia di suoni, invece della moglie si presentava in compagnia della sua adorata fisarmonica. Nel caso non fosse stato disponibile per un precedente impegno preso, tutti di comune accordo rinviavano l’occasione della cena alla data che lui avrebbe suggerito. Il maestro si era diplomato al conservatorio in pianoforte e nella direzione d’orchestra, e il piacere di ascoltarlo suonare la fisarmonica lo concedeva solo in rare occasioni private. Oltre a dirigere la banda spesso si esibiva al pianoforte con dei concerti programmati nei paesi della valle sorti lungo il corso del fiume durante un millennio, e ogni domenica suonava l’organo dell’insigne collegiata, alla messa cantata delle undici. Quello strumento folkloristico lo armeggiava per un diletto personale, lo spassoso diversivo non doveva pregiudicare la sua carriera, suonarla a cena con gli amici era il massimo che si concedeva e il nonno di Spartaco capiva l’importanza di quel dono. Per il compleanno di Rutilio che cadeva di novembre nessuno si sarebbe mai sognato di mancare, soprattutto da quando aveva superato gli ottant’anni. Mentre per partecipare a quelle cene una condizione la mettevano anche gli invitati: che Giulia cucinasse le pappardelle nel suo inimitabile sugo di coniglio. «Inimitabile, …proprio così» diceva l’avvocato. Il resto del menù poteva essere una sorpresa, si fidavano ciecamente delle sue qualità culinarie, ma le pappardelle nel sugo di coniglio non potevano mancare. Nel periodo di apertura della caccia, se un amico gli portava della selvaggina, il nonno organizzava una cena extra che metteva in agitazione la nuora. Per far perdere alla cacciagione quell’odore di selvatico bisognava curare molto bene la frollatura della carne, e nonostante tutto ci voleva un’attenzione particolare a nascondere un gusto troppo marcato nel condirla con le spezie, e una certa dose di pazienza per farla cuocere al fuoco lento della stufa a legna, perché alla fine risultasse morbida. In una cena in particolare lei si era superata strabiliando tutti a cucinare l’istrice in umido, un piatto così elaborato che in paese ormai non preparava più nessuno. Fino a quando Spartaco era solo un ragazzo, si divertiva moltissimo a vederli impegnati in quelle accese discussioni che finivano dopo mezzanotte, con il nonno che recitava alcune sue poesie e cantava qualche romanza accompagnato alla fisarmonica, nel quieto sollazzo delle pance piene e i sensi allentati dal vino. Anche se non coltivata, Rutilio aveva una discreta voce tenorile, e poi i difetti di tenuta e di limpidezza li sapeva mascherare il maestro della banda musicale suonando la sua bella fisarmonica. Crescendo però Spartaco aveva cominciato a sentire in quelle cene come un obbligo che gli procurava solo il fastidio di un’insopportabile e noiosa insofferenza, aveva cominciato a rendersi conto che in quella sorta di rito dove si celebrava la figura del nonno fosse sottintesa l’idea che qualcuno, in un determinato giorno in cui si sentiva particolarmente ispirato, avesse deciso di sospendere il tempo a nome di tutti gli altri commensali. Invece con il padre di Spartaco il dottore condivideva la passione della pesca, sicché spesso s’incontravano al fiume. Nei giorni di festa, al mattino di buon’ora, mentre aspettavano che abboccassero e il sole dissolvesse la nebbiolina che saliva dall’acqua, per non allontanare i pesci si perdevano a parlare sottovoce della loro vita. Nei due mesi di agonia del nonno, senza che nessun familiare glielo avesse chiesto, il dottore si presentava al mattino e alla sera per verificare le sue condizioni. Non aveva mai saltato una volta. Magari arrivava più sul tardi, specie la sera, quando si tratteneva in ambulatorio a causa dei troppi pazienti, ma si era sempre presentato a verificare il suo stato di salute. In quella notte del decesso il padre di Spartaco gli telefonò alle tre e il dottore, dopo avergli tastato il polso e scrollato la testa con rassegnazione, si era intestardito per stare al capezzale con i familiari fino al suo ultimo respiro. Rutilio era morto alle sei, quando, nel mese di gennaio, la notte cominciava appena a schiarirsi. Dopo un sorriso stentato aveva scaricato il fiato in due scoregge lunghissime, fissando i suoi occhi velati in una lontananza che gli altri non potevano raggiungere.
– Buongiorno a lei, dottore.
– Entra pure, finisco in un minuto, …poi sono a tua disposizione.
Spartaco appoggiò il libretto della mutua sulla scrivania, accanto alle ricette già scritte.
– Stamani ci sono molte più ricette del solito. Ho maturato anche un ritardo esagerato, trattenendomi per aspettare l’ambulanza da un paziente che si è sentito male all’improvviso. Gli è preso un infarto proprio mentre si stava sedendo sul letto per farsi visitare.
– È morto?
– No, ma stava molto male. Per fortuna ero lì, perché lo abbiamo ripreso per i capelli.
Spartaco fece un sorrisetto, senza altri commenti, e il dottore continuò.
– Accidenti ai cretini, …sai da quanto gli suggerisco di smettere di lavorare così tanto nella sua fabbrica di borse, di porsi davanti al fatto che invecchia e deve entrare nella logica di fare una vita più tranquilla? Sono anni che glielo dico. A settant’anni non si può lavorare quanto un giovane, anche se lo fai per te stesso.
– Anche lei ne ha quasi settanta, se non sbaglio.
– Hai ragione, dovrei decidermi ad andare in pensione… Tu come stai?
– Mica troppo bene, dottore. Nonostante la stanchezza che sento addosso da diversi giorni, non ho chiuso occhio tutta la notte.
– Adesso vediamo…
– Sento un gran dolore alla testa.
– Dove, di preciso?
– Qualcosa come dentro il cervello, dottore, …che poi arriva a pressarmi sulle tempie.
– Finisco di scrivere le ultime ricette e ti visito.
Come al solito il primo paziente della giornata che entrava per un controllo più approfondito, doveva attendere la conclusione di certe formalità. Dalle otto alle dieci del mattino il dottore sbrigava le visite a domicilio, per le quali era stato contattato telefonicamente dai pazienti la sera precedente, al rientro in ambulatorio compilava le ricette dei medicinali che la sua assistente gli faceva trovare sulla scrivania. La sala d’aspetto dell’ambulatorio veniva aperta dal dottore alle sette e mezzo, quando usciva a fare le visite. La sua assistente arrivava alle otto e mezzo in punto, intercettava tra i presenti le persone che volevano solo rinnovare la richiesta di medicinali, ritirava i libretti con all’interno le confezioni schiacciate dei farmaci da richiedere e lui rientrando salutava i pazienti e si chiudeva nell’ambulatorio a compilare le ricette.
Non è mai piacevole stare nella sala d’attesa di un ambulatorio medico, la stanza è piccola, l’aria pesante, carica di microbi e di odori, anche se hai voglia di conversare finisce che diventi impaziente, ti fai conquistare dall’uggia. L’avviso con gli orari e il programma dei giorni in cui ricevere era affisso all’ingresso della sala d’attesa e sulla porta dell’ambulatorio, secondo quanto riportato, martedì e giovedì era aperto al pubblico nel pomeriggio dalle sedici alle venti, mentre il lunedì, mercoledì, venerdì e sabato, le visite avrebbero dovuto cominciare alle dieci del mattino. Avrebbero, perché poi c’era sempre un ritardo almeno di mezz’ora. Alle pareti della sala d’attesa erano affissi una serie di quadri ad olio fatti da un anziano artista naif che in paese tutti chiamavano Veicolo perché nella fretta di parlare storpiava la maggior parte delle parole. Veicolo perché veloce, frenetico nella vita in generale, non solo conversando con gli altri. Nei quadri, almeno tra quelli collezionati dal dottore, c’erano dipinti sempre gli stessi scorci del paese, fissati in quell’ora del pomeriggio che i ragazzi uscivano a giocare in strada. Cambiava il tipo di gioco, il numero dei ragazzi e l’alternanza fra maschi e femmine, ma gli scorci avevano come la funzione di una scenografia teatrale che veniva ricollocata sul palco per ogni genere di recita.
Quel lunedì mattina invece la sua assistente aveva fatto entrare la prima persona dopo le undici. Un ritardo davvero esagerato. Spartaco si trovava seduto vicino al termosifone e quell’aria calda e ferma gli faceva l’effetto di un sonnifero, si era così intorpidito che se non fosse entrato dal dottore lo avrebbe conquistato il sonno più profondo. La sera prima, dopo aver visto un film d’arti marziali con Bruce Lee come attore principale, Spartaco aveva accompagnato un amico pittore al suo studio. Non era intenzionato a fare troppo tardi, ma mentre camminavano Vincenzo gli aveva chiesto di salire un attimo a vedere un paio di quadri astratti appena terminati, dove gli sembrava di essere riuscito ad esprimere qualche nuova idea su cui sviluppare una ricerca davvero originale, e quando chiese di salire per conoscere il suo giudizio, Spartaco non aveva saputo dire di no. Pensava di trattenersi un’oretta, non di più, ma con l’arrivo a sorpresa di Vasco e Elio si era sviluppata una divertente discussione sulle arti marziali, stimolata dal film Dalla Cina con furore che avevano appena visto tutti insieme, e così aveva finito per restare. Poi, con l’arrivo di Pietro, le loro chiacchiere dal kung fu si erano spostate su di una strana guaritrice di nome Celestina che aveva anche il dono di entrare in contatto con l’aldilà. Dopo che i medici dell’ospedale, per un ginocchio maledettamente gonfio, gli avevano diagnosticato il principio di un cancro che stava vincendo la resistenza del suo fisico, Pietro si era rivolto a questa donna per avere una pomata medicamentosa fatta a base di erbe che nascevano spontaneamente in campagna. Una pomata che in pochi giorni aveva riportato l’arto alla sua dimensione naturale, facendo sparire anche quel dolore così intenso una volta per tutte. In un paio di occasioni, preso dalla curiosità, Pietro aveva chiesto di partecipare alle sue sedute spiritiche e quella notte si era messo a fare il resoconto di ogni più piccolo dettaglio sul significato del manifestarsi di un defunto che comunicava con i vivi. Si era alzato il tavolo, un lumicino posto sopra l’immagine della Madonna aveva cominciato a tremolare insistentemente quando Celestina era entrata in una sorta di catalessi, prima di mettersi a parlare con un certo Rodolfo, marito di una delle donne presenti alla seduta spiritica che era morto d’incidente stradale da appena un anno, in circostante non ancora chiarite dai periti dell’assicurazione. Il motivo dell’incontro era farsi raccontare l’accaduto direttamente dalla voce del defunto, e grazie a quella testimonianza la moglie avrebbe capito come comportarsi nei riguardi della compagnia di assicurazione che ancora non aveva sborsato un soldo. Al centro del tavolo rotondo c’era una candela che alle domande della sensitiva il defunto spostava in senso antiorario, suggestionando i partecipanti che formavano una catena tenendosi per mano. Sembrava un racconto del mistero, che li aveva costretti a discutere animatamente per ore intorno al senso della vita in rapporto al nulla che poteva esserci o meno dopo la morte. Per questo motivo Spartaco non si era reso conto di come il tempo fosse passato velocemente. Rientrando in casa aveva cercato di non far rumore, altrimenti i suoi genitori si sarebbero svegliati per fargli il terzo grado, ma in effetti tra spogliarsi e poi rivestirsi, prima di recarsi al lavoro non gli restava da dormire neppure un’ora. In quel gruppo era l’unico che doveva alzarsi presto, Vincenzo lavorava nel suo studio sempre di notte e si svegliava solo nel primo pomeriggio, Vasco e Elio studiavano all’università e quando non avevano lezione potevano dormire indisturbati. E poi c’era Pietro, il fotografo che ormai non esercitava più la professione, ma lui arrivava sempre dopo la chiusura del bar, dove s’intratteneva a giocare a carte fino a quando qualcuno era disposto a farlo di soldi. Quando il proprietario abbassava la saracinesca del locale, anziché vagare nelle strade vuote si recava allo studio per aspettare l’alba insieme a Vincenzo. Ogni venerdì e sabato anche Spartaco restava volentieri in compagnia di Vincenzo fino al sorgere del sole, visto che non doveva alzarsi per andare al lavoro. Negli altri giorni della settimana, dopo aver visto un film, s’intratteneva con gli amici al bar del cinematografo, poi accompagnava l’amico fino alla porta del suo studio. Mentre camminavano Vincenzo parlava con Spartaco delle sue idee sull’arte, perché dopo essersi diplomato all’Accademia di belle Arti nell’indirizzo di pittura, nella vita desiderava fare l’artista. Lo sapeva benissimo, altrimenti, se fosse salito, a forza di parlare, Spartaco avrebbe fatto così tardi che dopo non poteva più sopportare il ritmo di una giornata di lavoro. Solo Vincenzo discuteva così intensamente di arte, lui non ne capiva niente, però aveva una passione per il rock progressivo che si suonava in quegli anni, così anche se la musica non è come la pittura, con l’amico poteva fare un tentativo di stare a discutere di qualcosa da rapportare alla vita quotidiana in modo diverso dal solito congestionamento di frustrazioni. Non avendo dormito neanche un’ora, Spartaco stava quasi per assopirsi. Aveva il volto smunto, gli occhi arrossati, il carnato pallido, qualche ruga che gli circondava la bocca, nonostante fra meno di un mese compisse solo diciannove anni. Dei suoi amici, visto che aveva ventisei anni, il più grande era Vincenzo, mentre Vasco e Elio, che affrontavano il primo anno di università, erano dello stesso millesimo di Spartaco. Pietro, indicativamente, poteva aver passato la sessantina. Non è che lo considerasse un vero e proprio amico, era un tipo a cui piaceva far tardi e avendo conosciuto Vincenzo, da un po’ di tempo passava dal suo studio per non stare più da solo. Visto che lui durante la notte preferiva dipingere in compagnia di qualcuno, la visita di Pietro a una cert’ora, nell’ultimo periodo era sempre ben gradita. Pietro odiava a morte la sua famiglia, sia i due figli che la moglie. Per questo, da quando aveva cessato la sua attività, durante il giorno faceva delle interminabili passeggiate per il paese, camminando a testa bassa e con le mani incrociate dietro la schiena assomigliava a un delinquente appena uscito dal carcere che meditava di vendicarsi su qualcuno che non riusciva mai a trovare. Appena cenato andava al bar, se non giocava a carte di denaro sedeva in disparte, fumando una sigaretta dietro l’altra.
– Siediti pure, …ho davvero finito.
– Grazie dottore.
Nonostante avesse chiuso, dalla porta alle loro spalle si sentiva il brusio delle persone che in sala d’attesa si lamentavano di un ritardo così esagerato. Nel sedersi di fronte al suo medico si perse con lo sguardo a fissare il soffitto, in un atteggiamento così annoiato da sembrare un vecchio che non gli resta più niente da imparare dalla vita. Aveva diciannove anni, da tre non andava più a scuola. Ma neanche gli piaceva lavorare, era stufo e indeciso su tutto. Certi giorni avrebbe voluto essere invisibile perché nessuno si accorgesse di lui. In tre anni, prima di essere assunto in quella fabbrica di lampadari, aveva cambiato almeno quattro lavori e ogni volta che si licenziava si sentiva un po’ più leggero, era come se si fosse scrollato di dosso un peso di qualche tonnellata.
In un silenzio appena disturbato dal bisbigliare che giungeva da dietro la porta, Spartaco cominciò a spiegare il motivo di quella visita.
– Sto male, … mi gira la testa ogni due secondi, e poi mi sento appesantito sulle gambe. Non mangio quasi niente, perché se mangio mi vengono gli urti di vomito. Come posso fare, mi dica lei dottore?
– Comincia a metterti a dorso nudo, che ti visito. Ho l’impressione che fumi troppo, prima o poi dovrai smettere – disse il dottore, continuando a tenere la testa china per compilare l’ultima ricetta.
– Ma in questo caso mi fa solo male la testa. Non ho tosse, e non c’è catarro …
– E ti sbagli a minimizzare, il fumo influisce sull’organismo in generale. Sul cuore, sulla circolazione del sangue, …sull’appetito. Hai diciott’anni…
– Diciannove, … dottore.
– Quante ne stai fumando, si può sapere?
– Non più di un pacchetto.
– Sono troppe, dio buono!
– C’è chi ne fuma sessanta, senza mai denunciare un disturbo.
– Vuoi battere il record, allora?
– No, assolutamente; … facevo tanto per dire.
– Insomma, faresti meglio a smettere. Oggi sei giovane e ti senti immortale, ma le conseguenze del fumo non sono immediate… Togli la camicia e sdraiati sul lettino.
Un minuto dopo gli stava già tastando il polso. Mentre gli auscultava il torace gli chiese di tossire e di fare dei profondi respiri, lo stesso quando appoggiò l’orecchio alla schiena. Poi gli osservò la gola e si preparò a misurargli la pressione.
– La testa ti gira quando fai dei movimenti bruschi?
– Oh, sì …Per esempio, se mi alzo da seduto ho come l’impressione di perdere l’equilibrio. E lo stesso mi succede quando faccio una rampa di scale.
Non era vero niente, ma lui doveva pure accusare qualcosa, se intendeva procurarsi un certificato di malattia.
– Il battito del polso è un po’ rallentato. Nonostante il fumo, bronchi e polmoni sono liberi. Adesso ti misuro la pressione.
– Grazie, dottore, …perché mi sento addosso una stanchezza fisica davvero insopportabile.
Il dottore gli posizionò il bracciale di plastica sul braccio destro, sopra le piega del gomito, che iniziò a gonfiarsi quando lui premette ripetutamente con la mano la pompetta ad esso collegata.
– Uhm… è un po’ bassa… Fammi provare di nuovo.
L’operazione fu ripetuta dal medico con la massima cura. Anzi, a Spartaco la seconda volta sembrava che il bracciale fosse stato gonfiato ancora di più, visto che sentiva un certo formicolio arrivargli fino alla mano.
– Sì, novanta la massima, sessanta la minima, … hai la pressione davvero bassa.
– È da un po’ che mi sento addosso questa spossatezza.
– Per almeno otto giorni dovrai prendere dei ricostituenti.
– Certo, dottore.
– Quanti giorni vuoi stare a casa?
– Non so, …faccia lei.
– A superare lo stress, una settimana può bastare.
– Dottore, sono ormai due settimane che mi strascico in queste condizioni anche sul lavoro.
– Devi mangiare però, anche se non hai appetito.
– Lo farò senz’altro.
– Mi raccomando, soprattutto carne e verdure. E mangia poca pasta. Lo so, in casa tua siete dei pastaroli, tuo padre non camperebbe d’altro – disse il dottore ridendo, – ma è giustificato, visto come cucina Giulia… Sarebbe bello ritrovarsi a casa vostra con i vecchi amici, per ricordare Rutilio davanti a un bel piatto di pappardelle cucinate da tua madre.
– Sì, certo, … anche i miei genitori ricordano con piacere quelle belle tavolate dove il nonno faceva l’istrione.
– È una cuoca così esperta che potrebbe aprire un ristorante.
– Lo dirò a mia madre.
– Bene, nel certificato ci scrivo otto giorni. Prima di rientrare al lavoro, il prossimo lunedì, ti fai vedere qui in ambulatorio.
– Non so che dire, dottore. Avrei preferito qualche giorno in più.
– Otto giorni per adesso e, se serve, prorogheremo di un’altra settimana. Hai solo un abbassamento di pressione, non è giustificabile farti un certificato di malattia più lungo.
– Sinceramente pensavo a una quindicina di giorni, dottore.
– Non più di due mesi fa, per una semplice bronchite ti sei fatto dare tre settimane di malattia.
– Ma sono veramente malato.
– Stai attento, altrimenti finirai per perdere il posto di lavoro.
– Non è così, dottore.
– Mi domando perché hai smesso di studiare addirittura prima di conseguire il diploma di maturità. Non te lo immaginavi quanto fosse faticoso lavorare in fabbrica?
– Il lavoro manuale non mi disturba mentalmente, per questo ho lasciato la scuola.
– Tuo padre e tuo nonno non se ne facevano una ragione, lo sai vero?
– Se lo so!… Mi hanno gonfiato la testa di minacce per un anno.
– Ti conosco da quando sei nato, ecco perché sento il dovere di parlarti in questo modo. Con te è come se avessi davanti uno dei miei figli.
– Lo so, dottore.
– Ti segnerei delle punture, se vuoi guarire in fretta.
– Preferirei di no.
– Ma non sono dolorose, vedrai.
– Lo sa benissimo che ho il terrore degli aghi – disse Spartaco.
– Non sei più un bambino, questo è solo un pregiudizio.
– Ho paura lo stesso, dottore. Anche se non sono più un bambino.
– Come preferisci. Allora, …ti prescrivo delle pasticche di vitamina. Ne devi prendere tre al giorno, subito dopo i pasti: colazione, pranzo e cena. E poi un cucchiaio di sciroppo al mattino. È un po’ amaro, ma se non vuoi curarti con le punture, non ci sono alternative.
– Ingoierei tutto, anche il cianuro, …pur di non fare le punture.
– Sei ridicolo…
Mentre il dottore sorrideva, Spartaco gli porse la mano.
– Arrivederci…
– Ciao Spartaco…Mi raccomando, saluta Giulia e Renato. È molto tempo che non si fanno vivi in ambulatorio.
– Significa che sono in salute. Meglio così, non le pare?
– Comunque accenna a Renato che adesso la domenica non vado più a pescare nel solito posto, …sopra la pescaia. Mi sono spostato nel punto dove c’è la foce del torrente che nasce sul Monte Acuto, qui l’acqua è leggermente più limpida. Oramai pescare un’anguilla è come mettersi a cercare le pepite d’oro, e stanno diventando rari anche i barbi, le lasche, i cavedani; con il fiume sempre più inquinato non ci vivono che carpe e pesci gatto, così quando li tiro su, poi li lascio a morire sulla riva. Ce ne sono così tanti di questi pesci dannosi che a toglierli di mezzo faccio solo un gran favore al fiume. Di sicuro li mangerà qualche animale selvatico, durante la notte. Anche se è una magra consolazione, puoi dire a tuo padre che resta sempre la soddisfazione di vederli abboccare…
– Da quando lavora in città, ha perso tutte le sue vecchie abitudini, non ha mai voglia di far niente.
– E stare all’aria aperta a pescare, lo chiami fare qualcosa? Si parla, tutto qui.
– Va bene, glielo dirò senz’altro.
– Se ha intenzione di tornare a pescare, può chiamarmi anche a questo telefono dell’ambulatorio, così passiamo insieme qualche ora.
– Sarà fatto, dottore.
Uscito dall’ambulatorio Spartaco fu abbagliato da un sole così luminoso che sembrava distruggere il suo intorpidimento, era stanco, ma in quella bella giornata primaverile adesso doveva solo telefonare in ditta per informare della malattia e che gli avrebbe fatto avere la copia del certificato tramite un collega che sarebbe passato a prenderlo da casa sua la sera stessa. Non si preoccupava minimamente di quello che il padrone avrebbe potuto pensare, se la sua incazzatura per quella improvvisa malattia lo invogliasse a licenziarlo. Era rimasto deluso dai pochi giorni prescritti dal medico, si sarebbe aspettato come minimo due settimane, anche se non ricordava fosse passato così poco tempo dal precedente periodo in cui era stato in mutua.
Il sole proiettava sulle vetrine dei negozi piccoli bagliori che sembravano uniformare l’aria dei portici con la luce riflessa al centro della piazza. Per tornare a casa aveva deciso di attraversare la piazza e poi di fare un percorso leggermente più lungo, così aveva modo di trattenersi un po’ di tempo a riflettere, a trovare gli argomenti per parlare con i genitori di questi nuovi giorni di riposo per malattia che certo non avrebbero gradito vedergli fare. Quell’aria primaverile era così mite che nel momento stesso usciva dall’ambulatorio aveva modificato la stanchezza fisica di non aver dormito in un eccitante vuoto mentale che centrifugava tutti i suoi pensieri. Per commisurare le sue aspettative con meno astrazione si mise a guardare il cielo, dove degli insignificanti bioccoli di nuvole in un punto si concentravano in una strana formazione diretta verso la montagna. Quella striscia, quella sorta di scia che brizzolava l’azzurro sembrava formare un tappeto sul cielo terso di luce.
Arrivato ad un certo punto si trovò davanti una fila di auto in sosta perché la strada era stata interrotta dai lavori di un cantiere dove si stava rinnovando la rete fognaria. Dal terreno rimosso per far passare le nuove tubature al posto delle vecchie, usciva un cattivo odore che lasciava basiti. Qui le auto facevano inversione di marcia, creando un parapiglia incredibile nell’infilarsi di traverso sulla carreggiata. Qualche autista più impaziente degli altri aveva un’espressione irritata, altri imprecavano contro chi non aveva messo un avviso che indicava l’interruzione per lavori all’inizio della strada. Alcuni agitavano le braccia come dei forsennati, scagliando ingiurie senza senso, altri bestemmiavano e basta. Invece un cane, infastidito dal suono dei clacson, abbaiava lanciandosi verso un conducente alla guida di un’auto che suonava in modo particolarmente aggressivo, così il suo padrone lo ingiuriava tenendo il guinzaglio teso fin quasi a strozzarlo.
Mentre tentava di allontanarsi da quella confusione gli venne spontaneo di pensare che in fabbrica le settimane sono come fulminate dal tempo, si parte in salita il lunedì, al mercoledì si scollina, poi inizia quella breve discesa per raggiungere il sabato e la domenica. Se va bene in questi due giorni ti riposi, altrimenti sei più stanco di quando ti trovi al lavoro. Così alla fine si riparte da capo ad aspettare quei giorni di riposo che carichi di troppe aspettative che poi saranno immancabilmente deluse. E sarà sempre così, per il resto della vita. Si fa presto a dire che il lavoro è importante, che devi trovare il modo di fartelo piacere. Questa era la posizione di suo padre, forse anche del dottore, ma a lui questa forma di competizione non sembrava una cosa naturale, per accettarla bisognava rifiutare i desideri più profondi. Era assurdo lavorare a queste condizioni, quando in fabbrica si sentiva vuoto, demotivato. Il piacere si trova con il gioco, mentre per il momento la fabbrica gli suscitava solo una sensazione di assuefazione all’indifferenza di una ripetitività calcolata da altri allo scopo di produrre il più possibile. Il paradigma poteva cambiare solo se trovava un mestiere che gli piaceva fare, solo così il lavoro poteva avvicinarsi a un’idea molto simile a quella che era stata fin’ora la sua esperienza. Da quello che ricordava della sua infanzia il gioco era quasi più bello immaginarlo disponendo tutti gli elementi, pensare la scena nell’insieme, prima di lasciarsi coinvolgere nel divertimento vero e proprio. Ma per il momento questo avvicinamento non si era manifestato e il lavoro diventava solo un modo come un altro per subire certe condizioni di adattamento fisiologico a un vissuto quotidiano in cui credeva sempre di meno. Aveva smesso di studiare non perché pensava di essere uno stupido a prendere dei brutti voti, ma perché gli sembrava anche questo un lavoro dove non c’era spazio per coltivare i propri interessi. Molti dei suoi compagni di classe già al secondo anno che frequentavano l’istituto tecnico industriale, avevano deciso quale strada intraprendere dopo il diploma. Sembrava non avessero una mente che ragionasse in modo diverso dai loro genitori. Non su tutto, ma in quel paese dove le abitudini riuscivano a cristallizzare il tempo, qualcosa che rispecchiasse almeno il loro stato d’animo di giovani potevano tentare di dirlo. Che non ci fosse stato questo piccolo scatto di reazione nei suoi compagni di classe, un tempo gli aveva fatto davvero paura. Adesso quella sensazione era scomparsa del tutto, quando gli capitava di incontrare qualcuno di loro, appena si salutavano. In attesa di trovare una ragazza di cui innamorarsi preferiva frequentare delle amicizie come quella di Vincenzo e, per assurdo, stare a contatto con il pessimismo di Pietro, uno che vedeva tutto nero all’orizzonte. Se per giustificare la richiesta di un certificato di malattia al dottore avesse risposto in questi termini, senz’altro lo avrebbe scambiato per un pazzo. Troppo lungo, troppo complicato raccontargli tutti quei pensieri che adesso gli nascevano in testa, senza trovare da ricostruirli nei dettagli di una sensazione in cui il gioco diventa parametro di giudizio con l’idea del lavoro che faceva per vivere. La causa prima era la sua mancanza di convinzione. Camminando pensava alla notte precedente, al racconto di Pietro su Celestina e le sue sedute spiritiche, gli sembrava così ridicolo, così assurdo e gratuito quello che lui diceva, ma al tempo stesso ne era stato suggestionato al punto di restare a parlarne fino alle cinque del mattino. Superata ormai la stanchezza del mancato riposo, gli sembrava di avere nella testa come un fantasma che ogni tanto lanciava un messaggio non traducibile in quella lingua dei ricordi che gli procurava il solito senso di colpa verso il quale, prima o poi sperava fortemente di riuscire a non avere più degli obblighi. Sentiva il bisogno di separarsi definitivamente da certi legami, anche se ancora non aveva trovato uno scopo che lo motivasse a fare un passo così decisivo.
Angelo Australi, maggio 2020
(disegno di Nilo Australi)
Un altro capitolo dell’avventura di Spartaco, e di tutti noi. Il protagonista non sguazza più nella giovinezza, ma si sta arrampicando a fatica in cima all’adolescenza, da dove dovrà ammirare la maturità e scegliere una strada per inoltrarvisi. L’autore non lo dice, ma lo lascia presagire: quella strada, benché caricato dei pesi della vita, sarà quella libera e liberatrice della scrittura. Il racconto, questa volta, ha anche aspetti simbolici: la malattia e il gioco. La prima rappresenta ogni gravezza, prima fra tutte il lavoro che non realizza; la seconda la leggerezza, fra cui il ricordo prospero dell’infanzia. Proprio la scrittura avrà l’incarico di unire i due simboli in una fatica felice che appaghi. Proprio lì l’alter ego Spartaco, “meta-letterariamente”, troverà la sua maturità. Lo stile, sempre tra poesia e realismo, ha il compito di fondere e forgiare ulteriormente tale simbologia.
…nel racconto di Angelo Australi, attraverso ricordi vividamente ricostruiti, il personaggio di Spartaco rivive un periodo di crisi profonda vissuto durante gli anni della sua adolescenza, quando non riusciva a trovare un’attività in cui significato e ritmo gli fossero congeniali, non si adattava ad adeguarsi a quelli che via via i genitori, gli insegnanti o i datori di lavoro gli prospettavano…così apparentemente non combinava nulla di “buono”, alla ricerca di una passione come quella del suo instancabile dottore di famiglia, che conciliasse piacere e dovere…Spartaco in più punti della narrazione mi ha ricordato il personaggio di Pinocchio e le sue disavventure: in particolare quando va dal medico per strappargli un certificato di malattia, ma non sta poi così male visto che rifiuta le punture di ricostituenti, come Pinocchio la “medicina amara” della fatina dai capelli turchini…le bugie “infantili” sono un altro aspetto comune, come il comportamento “trasgressivo”, tra desiderio di conoscenza di sé, del mondo attraverso gli amici più disparati, di libertà e di divertimento…
Bello e giusto il paragone tra Spartaco e Pinocchio.
Non ci avevo davvero pensato a Pinocchio, ma ci sta tutto.
Grazie
…Spartaco “ci sta” ma non tutto nel personaggio di Pinocchio, anche se entrambi sono geniali nel crearsi inventarsi, costi quello che costi, quello spazio vitale necessario a portare avanti la propria irrinunciabile ricerca
… ho tagliato una canna di bambù alla mia altezza.
Spartaco si pone sempre delle domande; non è nuovo, vista la sua presenza costante nella ormai quasi epica narrazione di Angelo Australi, a stabilire contatti con la realtà che lo circonda. L’ipotesi che le cose siano giuste per come le si vedano, a Spartaco non piacciono e ce le elenca; talvolta ne coglie una parte, in altri casi le sue descrizioni sono talmente evidenti che non si può dargli torto. Viene particolarmente alla memoria, la stanchezza, l’alienazione, tipici dei nostri tempi, che attraversano il mondo del lavoro: anche un quasi vero certificato di malattia, può ridare un po’ di sollievo a chi difficilmente riesce a sognare, pur avendone diritto.
Caro Alessandro, ormai siamo dei pensionati, sappiamo per certo che il lavoro non è mai un piacere. E in qualche modo ci siamo salvati pensando che si poteva vivere anche la letteratura, pur lavorando. Ma non per tutti è così, lo sai benissimo. Anche un certificato di malattia a volte serve, per staccare la spina, appunto, O illudersi di farlo.
Spartaco è figura interessante, incentrato in una vita di paese che ha il sapore dell’intimità che gli abitanti della città hanno quasi sempre perduta o mai assaporata. Il dottore, amico del padre e del nonno e avvezzo agli inviti alle cene, grazie alle abilità culinarie di mamma Giulia ci regala uno scenario di convivialità dal profilo mitico, mentre la storia del ginocchio di Pietro sconfina in un soprannaturale perfettamente normalizzato e funzionale nella sua stranezza. I 19 anni di Spartaco sono all’insegna della maturità del lavoratore, che sa per esperienza che la vita si divide tra giorni feriali e festivi, ma soprattutto si caratterizzano per il desiderio di non voler ripetere il cliché imposto dai genitori: una personalità in controtendenza, un messaggio di indipendenza di un certo mondo giovanile che fa riflettere per la sua ricerca di autenticità e per l’ allontanarsi dalla scontatezza delle altrui scelte.
Cara Teresa, in quella controtendenza a cui accenni c’è il bisogno di essere sinceri con se stessi. Non è detto che ci riusciamo sempre, ma quando avviene ti senti parte di un tutto più grande, che non dipende solo da te.
Ciao Angelo,
al piacere di ritrovare Spartaco, si aggiunge quello della tua scrittura così ricca di tanti rimandi a certi rapporti umani che ogni giorno vanno scolorando sempre più inghiottiti da un quotidiano frenetico e monotono assieme.
Il diciannovenne di cento anni fa partiva per la Grande Guerra. Era un giovane costretto a crescere in fretta, spesso a vedere la morte in faccia. Spartaco, alla stessa età, ci appare poco più di un adolescente con i suoi timori e tremori, comprese certe furbizie che caratterizzano l’età, ma anche con l’incognita del mondo che gli si spalanca davanti e in fondo gli fa paura.
Uno spaccato di vita e un ventaglio di opportunità. L’importante è saperle cogliere.
Un abbraccio.
Lucia
Cara Lucia, le opportunità vanno costruite, … in provincia come in città.