LETTURE IN QUARANTENA (3)
di Donato Salzarulo
- Un manuale per non filosofi
La filosofia non appartiene ai professori di filosofia. Tutti gli uomini sono filosofi. Lo diceva Gramsci, Lenin e anche Diderot. Adolescente, ho imparato questa verità sui Quaderni dal carcere e non l’ho dimenticata più. È ovvio che non sarà la filosofia di un Platone o di un Aristotele, di un Kant o di un Hegel. Non sarà neanche quella di un professore. Si tratta di una filosofia “naturale”, di un modo di “vedere le cose” sull’origine del mondo, ad esempio, o sulla morte, sulla sofferenza, sulla politica, l’arte, la religione. È una filosofia che serve al singolo da orientamento per la propria esistenza. Combina un certo sapere (più o meno fondato) sulla necessità delle cose con un suo certo modo di servirsene nei vari momenti della vita, cioè con una certa saggezza. Per dirla col filosofo statunitense Wilfrid Sellars: «capire come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, stanno insieme, nel senso più ampio possibile del termine» e comportarsi di conseguenza.
Chi può negare che queste non siano già idee filosofiche?… Non lo nega sicuramente Louis Althusser che, partendo da queste filosofie “spontanee”, nel 1975, progettò un suo originalissimo manuale di iniziazione dei non filosofi alla filosofia. Rimasto inedito, è stato pubblicato postumo in Francia nel 2014 e tradotto in Italia nel 2015 dalle Edizioni Dedalo col titolo di «Filosofia per non filosofi».
Come Gramsci, il filosofo marxista francese, è stato uno dei miei amori giovanili. Non appena si presenta l’occasione, mi è difficile rinunciare alla lettura delle sue pagine. Difficile non provare a reinterrogarmi sui pensieri con cui in parte penso oppure ho pensato.
2. Contraddittorietà e paradossalità delle filosofie “spontanee”
Perché non si può rinunciare all’assunto del “tutti gli uomini sono filosofi”? Perché senza di esso non si capirebbe neanche la nascita della filosofia dei filosofi.
Le filosofie “spontanee” o “naturali” con cui vivono e pensano le persone ordinarie non sono sistemi di pensiero coerenti, privi di contraddizioni o di aspetti paradossali. Possono essere caratterizzate da passività, conformismi, rassegnazione (un lato religioso, per così dire); ma possono essere anche il germe di una presenza attiva nel mondo, di una visione che mette al centro la produzione e l’azione sociale. L’uomo, in fondo, è un animale che lavora e vive in società. Il lavoro produce conoscenze e anche la società ne offre abbastanza.
3. Filosofie “spontanee” e religione
«Si possono raddrizzare le gambe dei cani?…» Si sente spesso dire da chi giudica ormai velleitario qualsiasi tentativo di cambiamento dell’ordine sociale esistente. Se il “legno storto” dell’umanità non si può raddrizzare, come dimostrano i tanti tentativi falliti di “assalto al cielo”, meglio “prendersela con filosofia”. Ossia, con una certa rassegnazione. In effetti, ci sono cose (eventi, situazioni…) che il singolo è costretto a subire: un terremoto, ad esempio, un uragano, il “salto di specie” di un virus, la malattia o la morte improvvisa di un familiare; ma anche lo scatenarsi di una guerra o la dichiarazione di “stato d’emergenza” di un governo, il dogma liberista in economia, e così via. Sono fatti, stati di cose, situazioni che al singolo appaiono imprevedibili, incontrollabili, al di là delle proprie umane capacità. In questi casi, è facile che le filosofie “spontanee” assumano una forma religiosa, una forma che è sociale e che rappresenta un’eredità ancora vivente della nostra storia umana.
La religione è nata prima della filosofia e molte filosofie, in un certo senso, sono sue figlie. Essa si è posta domande sull’Origine del Mondo e sulla sua Fine, sul perché l’uomo è sulla Terra, sul suo destino, sul Senso della sua esistenza e della sua storia, sullo scopo di questa storia, sul perché esiste la morte e la sofferenza, sull’esistenza o meno di una vita nell’aldilà, ecc.
Siccome molte questioni filosofiche provengono dalla religione, è bene esercitare una grande attenzione a questo rapporto, tutt’altro che semplice. «La filosofia non è sempre e solo Ragione pura, e la religione non è sempre e solo irrazionalità e impostura sociale. E questo non soltanto perché la religione, in certe circostanze della lotta sociale, a dire il vero abbastanza rare fino ad ora, può essere altro che semplice rassegnazione, ma anche perché la filosofia non è determinata unicamente dal suo rapporto con la religione, dalle questioni religiose: dietro a questo rapporto, infatti, essa è caratterizzata da prese di posizione propriamente filosofiche, sia idealiste che materialiste, che hanno anche altri scopi, e che le fanno accettare o rifiutare le domande religiose sull’Origine del Mondo e sul Senso dell’esistenza e della storia umane.» (pag. 31).
4. Domande che non hanno senso
Per Althusser, che fa sua una presa di posizione materialista in filosofia, vi sono domande che non hanno senso. Una di queste è quella sull’Origine del Mondo. Impossibile che sia stato creato dal Nulla. Da sempre c’è già qualcosa, da sempre c’è già della materia, sottomessa a certe leggi, da cui può aver avuto inizio, non “origine”, il Mondo.
Anche la domanda sul Senso dell’esistenza e della storia umana è senza senso. Perché non c’è nessun Essere onnipotente che abbia stabilito in anticipo quale Senso debba avere il Mondo. Siamo noi ad introdurre del senso nel mondo, attraverso il lavoro, la conoscenza, la lotta, il confronto e il dialogo sociale…
Ma poi c’è la morte che domina la scena. È vero. Anche questa, però, non ha alcun senso. «Si tratta di affermare che nel mondo esiste una moltitudine di cose che non ha alcun senso e che non serve a niente; in particolare che la sofferenza e il male possono esistere senz’alcuna contropartita, alcuna compensazione né in questo mondo né altrove. Si tratta di riconoscere che esistono delle perdite assolute (che non saranno mai risarcite), delle sconfitte senza appello, degli eventi senza alcun senso né seguito, delle imprese e perfino delle civiltà intere che crollano e si perdono nel niente della storia, senza lasciarvi alcuna traccia, come quei grandi fiumi che spariscono nelle sabbie del deserto.» (pag. 34)
Pensieri simili sono duri da accettare per gli esseri umani. La religione è allora lì, da millenni, pronta a soccorrerci, a consolarci. «Oppio dei popoli», sì. Ma anche «sospiro della creatura oppressa», «anima di un mondo senza cuore».
5. Funzioni della religione
Che cosa è la religione e quali siano le sue funzioni in una società divisa in classi è materia di studio di discipline varie. Nel suo manuale Althusser si limita ad indicarne alcune: a) di unificazione dei gruppi sociali nei loro rapporti (tutt’altro che pacifici) con la Natura; b) di organizzazione e regolazione delle pratiche di produzione sociale (si pensi ai re-sacerdoti); c) di coordinamento e guida negli eventi fondamentali della vita degli individui: nascita, pubertà, iniziazione sessuale e sociale, matrimoni, morti, ecc.
La loro compresenza, la prevalenza dell’una rispetto alle altre, la residualità di qualcuna dipendono da variazioni storiche e geografiche. Anche se, ad esempio, non meraviglia che in questi giorni il Papa abbia invocato spesso l’Altissimo e alcuni Santi per allontanare o far cessare la pandemia (funzione a). L’importante è comprendere che la religione, oltre a spiegarci miticamente l’Origine del Mondo, esiste e sussiste per affrontare e dare un senso a inquietudini e angosce degli esseri umani. Quelle legate alla nostra riproduzione biologica e al nostro destino mortale sono le più rilevanti. Giustamente Epicuro riteneva che fosse la nostra paura della morte ad aver creato la religione. Saperla affrontare per quella che è, con coraggio e lucidità, è un grande tema tragico.
6. Religione e filosofia dei filosofi
«Filosofare significa imparare a morire» diceva Platone, l’idealista. Liberare gli esseri umani dalla paura della morte è uno dei compiti che il filosofo si assegna. Del resto, anche il materialista Epicuro si muove per lo stesso obiettivo: «Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più» (Epistola a Meneceo). Fra le tante differenze tra i due è che il primo sostiene la religione, mentre il secondo la critica. Tutti e due, però, sono d’accordo nell’emanciparsi dalla visione religiosa. Forse non sono convincenti. Così come probabilmente non sarà convincente Spinoza quando, parecchi secoli dopo, risponde a Platone che «l’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte: e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita» (Etica, libro IV, proposizione LXVII). Ciò che è certo è che la filosofia si distacca dalla religione perché avanza delle ragioni, cercate e ricercate attraverso un laborioso lavoro razionale, così da produrre un discorso logico e coerente. Tutt’altra cosa rispetto al discorso religioso basato su verità rivelate e dogmi indiscutibili.
7. Lavoro, tecnica e scienza
«Proprio perché sei mortale, lavora!… Datti da fare!…» Quante volte abbiamo sentito incitazioni simili da persone comuni?… «Aiutati, che Dio ti aiuta!…Non puoi passar la tua vita a pensare alla morte…» diceva mia zia che la domenica, quasi sempre, andava a sentir messa. Rassegnata sul suo futuro mortale, trascorreva i suoi giorni coltivando la vigna e sbrigando i vari affari sociali. Mio padre, invece, metteva i piedi in Chiesa soltanto per funerali e matrimoni. Per il resto, lavorare era la sua religione, ascoltare i telegiornali e imprecare contro i governi democristiani dell’epoca.
«Il vero umano – diceva Vico – è ciò che l’uomo, mentre conosce, compone e fa». È dal lavoro e insieme al lavoro che nascono tecnica e scienza. Queste pratiche sociali rafforzano una concezione materialista del mondo, una filosofia attiva, non rassegnata. Da qui una domanda cruciale di Althusser:
«Se è vero che gli uomini passano la maggior parte della loro vita lavorando, confrontandosi con la necessità delle cose della natura, e lottando, o essendo sottomessi, dunque confrontandosi con la necessità delle cose della società, come si spiega che la prima delle grandi filosofie dei filosofi sia stata una filosofia idealista (Platone) e che l’idealismo ha rappresentato, in tutta la storia della filosofia, la tendenza dominante, visto che il materialismo è stato rappresentato solo da pochi filosofi che ebbero il coraggio di andare controcorrente?» (pag.40)
Per rispondere a questa domanda, occorre capire perché nel V secolo a. C. è nata in Grecia la filosofia dei filosofi.
8. Una congettura sulla nascita della filosofia dei filosofi
L’ipotesi di Althusser è che sia nata come risposta alla prima vera scienza sorta nella storia della cultura umana, ossia come risposta alla geometria e alla matematica. Intendiamoci bene: non è che prima di Talete, verso il VI secolo a.C., gli esseri umani non sapessero contare buoi, misurare distanza e superficie dei campi, costruire case, navi e templi. Lo facevano sulla base di osservazioni e pratiche empiriche. Quando dalle pratiche degli agrimensori o dei costruttori di ponti e di templi si passò al ragionamento su degli oggetti astratti chiamati numeri pari o dispari, angoli, triangoli, quadrati o rettangoli, ecc. ci fu una vera e propria rivoluzione. Sette, tanto per fare un esempio, può riferirsi a sette buoi, sette alberi, sette mele, sette giorni…Gli oggetti concreti ai quali si riferisce non hanno nessuna importanza perché astrae da essi. Oggetti mentali “puri”, figure geometriche e numeri vennero trattati con metodi di ragionamento (dimostrativi e deduttivi) che si rivelarono prodigiosamente fecondi. «Le dimostrazioni – avrebbe detto Platone – sono gli occhi dell’anima» e riescono a vedere assai più lontano degli occhi del corpo.
Questo “salto qualitativo” della conoscenza umana mise a dura prova la religione che, in quanto ideologia dominante, si sentiva minacciata nella sua pretesa di vedere più lontano di tutti e di detenere ogni Verità.
La filosofia dei filosofi, che fino a quel momento ristagnava nelle cosmologie, fu costretta ad operare una svolta definitiva. Platone ne fu il protagonista. «Egli concepì il progetto “inaudito” di restaurare l’unità delle idee dominanti minacciate dall’avvento della matematica. Non lo fece combattendo la matematica in nome della religione, e neppure contestando i suoi risultati e i suoi metodi, ma, al contrario, riconoscendone l’esistenza e la validità, e traendo da essa ciò che apportava di nuovo: l’idea di oggetti puri ai quali è possibile applicare un ragionamento puro.» (pag. 43)
Restaurare può far pensare ad un semplice e banale passo indietro. No. C’era bisogno di un discorso nuovo che si servisse di un “mondo delle Idee” (oggetti astratti, puri) e di un nuovo metodo basato sulla dimostrazione razionale e sulla dialettica. Lo scopo era quello di inglobare la matematica per farla rientrare nei ranghi e subordinarla all’ordine dei valori morali e politici minacciati.
«Ecco perché possiamo affermare, a giusto titolo, che la filosofia platonica non ha fatto altro che spostare nel campo della razionalità “pura” i problemi e il ruolo della religione. Se la filosofia appare, è per scongiurare la minaccia della scienza e perché tutto rientri nell’ordine: nell’ordine della religione. Con la sola differenza che il Dio della filosofia sarà […] un Dio diverso dal Dio dei semplici credenti: sarà “il Dio dei filosofi e degli scienziati”» (pag. 44).
9. Il doppio Giro Lungo di Althusser
Dopo averci introdotto alla filosofia dei filosofi, che si emancipa da un lato dalla religione, reinterpretandola, dall’altro tiene a bada e cerca di sottomettere le verità matematiche e tutte le pratiche materialiste che costituiscono l’esistenza umana, Althusser comincia il suo doppio Giro Lungo: il primo attraverso la storia della filosofia per confrontare la propria filosofia con quella dei filosofi vicini e lontani, il secondo per allontanarsi dalla filosofia dei filosofi e analizzare le pratiche concrete degli uomini e delle donne. È un doppio giro che lo porterà a mettere a fuoco l’operazione naturale dell’“astrazione”, un’operazione che compiamo tutti, distinguendola da quella “tecnica e scientifica” e da quella “filosofica” e, infine, dopo aver chiarito il significato del termine “pratica”, lo impegnerà nell’analisi di alcune importanti pratiche sociali: produttiva, scientifica, ideologica, politica, psicoanalitica, artistica e filosofica. Non perché, oltre a queste, non ve ne siano altre, ma perché ritenute, in qualche modo, esemplari.
Per quanto mi riguarda, mi limiterò in questa lettura ad accennare ai concetti di “astrazione”, “pratica” e “ideologia”
10. L’astrazione
L’astrazione è un’operazione radicata nell’esperienza pratica delle grandi masse umane. Fare astrazione significa isolare una parte di realtà, prescindendo dal resto. «Generalizzando, possiamo affermare che ogni pratica specifica (il lavoro, la ricerca scientifica, la medicina, la lotta politica) fa astrazione da tutto il resto della realtà per consacrarsi alla trasformazione di una parte di essa. Astrarre significa “separare” una parte della realtà dal resto della realtà. L’astrazione è innanzitutto questa operazione e il suo risultato. L’astratto si contrappone al concreto, così come la parte separata dal tutto si contrappone al tutto.» (pag. 54-55).
Ma questa astrazione, per quanto importante, non ci porta molto lontano. Non è quella che vediamo all’opera nei numeri o nelle figure geometriche. Può aiutarci, allora, l’immaginazione di un pittore: prende il corpo di una donna, gli artigli di un leone e la testa di un’aquila, dipinge il tutto e viene fuori una Chimera; qualcosa che proviene dalla natura, ma non esiste in natura. Quindi compone e vi aggiunge qualcosa. Interessante, ma non ancora soddisfacente.
Cosa accade, invece, quando parliamo? Separiamo, ad esempio, la parola “gatto” dall’insieme dei rumori esistenti in natura e l’associamo a quell’animale che miagola e insegue i topi. L’associazione è completamente arbitraria e convenzionale, come ha dimostrato Ferdinand de Saussurre, ma istituisce un rapporto necessario, per cui tutte le volte che diciamo “gatto” evochiamo quell’animale e non un altro. Di più. Se in casa chiedo “dov’è il gatto”, è chiaro che intendo “il mio gatto”. Così la parola più astratta, più generale, indica l’animale concretissimo che gira per casa.
Conclusione: tutti i parlanti si servono “naturalmente” dell’astrazione e questa astrazione serve a designare il concreto più concreto tra le cose.
Ci si può appropriare del concreto anche attraverso il corpo: mangiare una banana, baciare una donna, guidare una macchina…Sono atti che si possono compiere soltanto se c’è un riconoscimento sociale e pubblico: la banana è stata regolarmente comprata, la donna è la mia consorte, la macchina è di mia proprietà. È il linguaggio del diritto che consente questa appropriazione concreta. Quindi ancora una volta delle regole generali, astratte.
Anche quando si lavora si seguono delle regole generali che dipendono dai processi lavorativi e dalla forma del lavoro.
A voler essere obiettivi, ciò succede pure quando si ama, perché il “discorso d’amore”, come ha insegnato Roland Barthes, prevede parole e gesti determinati e convenzionali: gli amanti parlano un linguaggio che li parla. Tante idee raggruppate che costituiscono un’ideologia pratica.
L’astrazione è altro dal concreto e aggiunge qualcosa al concreto. «Che cosa aggiunge? La generalità di un rapporto (linguistico, giuridico, sociale, ideologico) che riguarda il concreto. Diciamo meglio: questo rapporto domina il concreto a sua insaputa e costituisce il concreto in quanto tale.» (pag. 64).
Concreto-astratto-concreto. Il circolo è questo. Noi siamo immersi letteralmente in un mare di astrazioni, navighiamo tra parole, codici, rapporti sociali di produzione, rapporti ideologici che ci consentono di appropriarci del concreto di cui abbiamo bisogno o che desideriamo.
«C’è una storia di Oscar Wilde che racconta a modo suo della Creazione del mondo, del Paradiso e di Adamo ed Eva. Dio, a quel tempo, era distratto e aveva dimenticato di dare loro il linguaggio. Wilde spiega che Adamo ed Eva non si sono mai incontrati, e a causa di questo mancato incontro niente ha funzionato: né il Serpente, né il frutto dell’albero del Bene e del Male, né dunque il peccato, e neppure tutta la serie di catastrofi successive, comprese l’Incarnazione e la Redenzione del Mondo. E per quale motivo non si sono mai incontrati, pur essendosi tuttavia incrociati? Non sapendo parlare, non potevano vedersi.» (pag. 64).
11. L’astrazione tecnica e quella scientifica
Tra l’astrazione in cui viviamo quotidianamente e quella tecnica e scientifica non c’è una differenza di valore e di dignità. Ogni pratica possiede una sua propria natura e specificità. Prestiamo attenzione, ad esempio, alla pratica produttiva di un contadino che possiede un po’ di terra e un gregge e di un grande agricoltore capitalista che possiede centinaia di ettari di terreno e un imponente parco macchine. I due non hanno la stessa pratica di produzione. A maggior ragione non ce l’ha un grande proprietario terriero che non lavora e vive di rendita e di investimenti in Borsa. Un’altra pratica ancora possiede un operaio dipendente che lavora alla catena di montaggio.
Se prescindiamo da ciò che fanno o non fanno nell’immediato e consideriamo la pratica che viene realizzata con i loro arnesi, macchine, procedimenti (compresi quelli finanziari), ci rendiamo conto di avere a che fare con una competenza tecnica messa al servizio dei loro lavori o investimenti. L’astrazione presente in tale competenza tecnica è quella di un sapere registrato in Trattati (di produzione agricola, di costruzione di macchine, di organizzazione del lavoro, di investimento dei capitali, ecc.), competenza e saperi astratti che possono essere insegnati, comunicati e certificati nella pratica.
«Nelle nostre società, dove la scienza occupa un ruolo fondamentale nella produzione, questo sapere tecnico è, per alcuni, l’”effetto” del sapere scientifico, nella misura in cui un’intera parte delle sue realizzazioni dipende dall’applicazione dei risultati scientifici. Dico “per alcuni” perché certi filosofi idealisti, tra cui Kant, hanno sostenuto che la tecnica è unicamente la conseguenza della teoria scientifica, una pura teoria, dunque, e non una pratica a sé stante. Questo però equivale a ignorare, a vantaggio di una “teoria pura”, contenuta in un’astrazione “pura”, la materialità della competenza e del sapere tecnici, l’opacità e la resistenza del loro oggetto (che non si riduce alla trasparenza della teoria “pura”). Significa, infine, trascurare che una competenza e un sapere tecnici o pratici esistevano ben prima della comparsa delle scienze.» (pag.67)
Scoperta del fuoco, uso degli strumenti in pietra, scoperta dei metalli, della ruota, dell’energia dell’acqua e del vento, del grano, della coltivazione della terra, ecc. tutto un sapere e una competenza tecnico-pratica costellano la storia dell’umanità, derivati dal lavoro secolare degli uomini e dalle loro scoperte, a volte, anche casuali; una conoscenza pratica che presenta una sua propria specificità e che ha preceduto la scienza. Anzi, senza queste molteplici pratiche umane, la scienza non avrebbe potuto fare la sua apparizione nella storia.
Questa conoscenza tecnico-pratica non è “pura empiria” come vorrebbero le filosofie idealiste. Gli esseri umani intrattengono sempre dei rapporti pratici con le cose, rapporti che permette loro di conoscerle e utilizzarle e che, proprio per questo, sono sempre accompagnati da idee. Sapere e ideologia si fondono in modo indiscernibile. Non esiste nessuna conoscenza “empirica pura”. Ogni conoscenza è accompagnata sempre dall’ideologia. Spinoza antepone alla conoscenza scientifica (di secondo genere), quella di primo genere dovuto all’”immaginazione”. «È quest’ultima che genera tutte le percezioni, è per il suo tramite che ogni cosa è nominata, è grazie ad essa che ogni cosa, percepita e nominata, è collocata nel sistema dell’immaginazione, nell’ordine delle cose che sono rappresentate in quest’illusione necessaria. Tale illusione non proviene da una “facoltà” psicologica (Spinoza respinge la nozione di facoltà), bensì da un mondo che è sempre sociale. Soltanto con l’avvento di Marx è stato possibile penetrare più a fondo nella teoria di quella realtà, l’ideologia, e scoprire che anch’essa è costituita da rapporti astratti.» (pag. 70-71)
La conoscenza scientifica si produce sulla base di un sapere tecnico-pratico anteriore e di una determinata congiuntura ideologica che, dopo la scoperta della matematica, è anche filosofica e scientifica.
L’avvento di una scienza produce una “cesura”, un “cambiamento di campo” nel sistema delle domande e dei problemi. Il triangolo su cui riflette Talete non è più quello disegnato sulla sabbia, il movimento su cui ragiona Galileo non è quello della fisica aristotelica, i corpi dei chimici non sono quelli degli alchimisti. Fra le due conoscenze si produce un salto dalla generalità all’universalità. La conoscenza tecnico-pratica «si concentra su oggetti concreti, empirici, e sulle operazioni che permettono di ottenere risultati concreti. Ma, visto che si tratta di una conoscenza, essa aggiunge qualcosa agli oggetti concreti di cui parla. Che cosa aggiunge? Un’astrazione che riveste la forma della generalità, vale a dire che ha per oggetto solo e unicamente l’insieme finito degli oggetti concreti numerabili, o delle proprietà osservate. Semplicemente, tramite la pratica è stato stabilito che una certa regola valeva in generale per tutti i casi osservati, ma soltanto per quelli.
La conoscenza scientifica, al contrario, si concentra su oggetti direttamente astratti, e dotati, quindi, di un’astrazione che non è più la generalità, ma l’universalità.» (pag. 72). Il che significa che la conoscenza prodotta non si limita ai casi osservati, ma si estende a tutti i casi possibili nel suo genere.
Il fatto di muoversi sul terreno astratto non libera la scienza dal suo rapporto con il “concreto”. Si tratta pur sempre di una pratica che, avviata con un “concreto sperimentale” (cioè, un concreto “purificato”, definito e prodotto in funzione del problema da porre), perviene ad una conoscenza o “concreto di pensiero”. In fondo, nessuno incontrerà mai per strada la “legge di gravità”, ma se incautamente si sporge troppo su un balcone ne subirà l’effetto. Una contadina che coltiva una vigna può anche continuare a credere che la terra sia piatta. Difficile che possa farlo un pilota d’aereo.
Avere a che fare con un concreto significa essere impegnati in una pratica non priva di astrazioni e teorie di vario genere. Perciò il circolo concreto-astratto-concreto può corrispondere a quello di pratica-teoria-pratica, un circolo senza fine che caratterizza tutta la storia dell’umanità.
12. L’astrazione filosofica
Per Platone il filosofo è colui che “vede il tutto”. Per Kant: «I sistemi [delle scienze] […] sono tra loro riuniti opportunamente, come membri di un tutto, in un sistema di conoscenza umana, e permettono un’architettonica di tutto il sapere umano, che allo stato attuale […] non soltanto sarebbe possibile, ma non sarebbe neanche tanto difficile». (Critica della ragion pura, Laterza, 1975, t. II, pag. 631). Per Hegel, “il vero è il Tutto” e compito della filosofia è pensare questo Tutto come risultato del suo sviluppo logico e storico. Per Sartre «una totalizzazione intelligibile e senza appello» è il progetto filosofico più profondo dell’essere umano. Per Leibniz, che si pone dal punto di vista di Dio, il mondo creato è soltanto uno dei possibili mondi, anche se, bontà sua, è il migliore. Questo per affermare che «il possibile precede di diritto il reale, e che un filosofo che avesse l’intelligenza infinita di Dio concepirebbe non soltanto il mondo reale, ma anche il “calcolo” della combinatoria divina, e dunque “l’origine radicale delle cose”: il tutto dell’infinità dei mondi possibili, a partire dal quale è stato scelto “il migliore dei mondi possibili”» (pag. 79).
In sostanza, per spiegare il “tutto” degli esseri reali, si deve raggiungere un livello di astrazione tale da doverlo pensare in funzione del tutto dei possibili (o delle loro condizioni di possibilità).
Per dirla con la semplicità di un mio indimenticabile professore di filosofia: per spiegare le realtà esistenti occorre ricorrere a delle “cose” inesistenti. Il “vuoto” per Democrito ed Epicuro, il “nulla” per Platone, Hegel e Sartre, la “cosa in sé” per Kant, ecc.
Queste dichiarazioni ci fanno capire chiaramente come l’astrazione filosofica non assomigli per nulla a quella della conoscenza tecnico-pratica che, con le sue generalità, si applica a un numero limitato di casi realmente osservati. Né assomigli all’astrazione scientifica che è universale, ma nel suo genere: nel senso che il teorema di Pitagora è valido per tutti i triangoli rettangoli di qualsiasi perimetro o area, ma non è certo valido per tutte le cose del mondo.
Quella filosofica è, invece, un’astrazione che ha una bella pretesa: dovrebbe valere per ogni essere al mondo, per la “totalità” degli esseri reali o possibili. È un’astrazione “totalizzante”. Le conoscenze scientifiche sono universali, ma si concentrano su un oggetto limitato, finito. La filosofia, al contrario, è caratterizzata dalla tentazione del Tutto infinito. La filosofia, soprattutto quella idealistica, ha bisogno del supplemento di un Dio inesistente – il “Dio dei filosofi e dei sapienti” come lo chiamò Pascal – per poter formulare tesi e proposizioni filosofiche che sfuggono alla finitudine di ogni scienza e di ogni conoscenza.
«Per questo aspetto, l’astrazione della filosofia si avvicina all’astrazione dell’ideologia dominante, a prescindere se assuma la forma della religione o una qualsiasi altra forma (giuridica, politica). Nella “conoscenza” ideologica […] facciamo astrazione del carattere finito delle scienze, delle conoscenze, perché l’ideologia è anch’essa “totalizzante”, ha la pretesa di rendere conto di tutto quello che esiste al mondo, e darne la Verità e il Senso, fissarne il ruolo, la funzione e la destinazione (come la religione). E l’ideologia può esistere e funzionare solo a patto di consacrarsi, anch’essa, a degli esseri immaginari che non siano subordinati ad alcuna condizione dell’esistenza finita: per esempio, Dio (nella religione), la “persona umana” (nell’ideologia giuridico-morale), o ancora il soggetto della conoscenza, del desiderio e dell’azione (nell’ideologia filosofica).» (pag. 82)
13. Che cos’è la pratica?
Althusser fa sua la distinzione aristotelica fra poiesis e praxis. La prima designa «l’azione o il processo tramite cui la forza-lavoro e l’intelligenza di un uomo (o di un gruppo), utilizzando degli strumenti di lavoro (attrezzi, macchine), trasformano una materia prima (grezza o già lavorata) in un oggetto prodotto artigianalmente o industrialmente» (pag. 91); nella seconda «non è più l’oggetto ad essere modificato da un agente e da mezzi esterni, ma è il soggetto stesso che si trasforma nella propria azione e pratica. In questo senso Aristotele parla della praxis del medico che cura se stesso, o del saggio che si trasforma da solo.» (pag. 92).
La differenza fra le due accezioni del termine riguarda soltanto la natura dell’oggetto da trasformare: nel primo caso è esteriore, nel secondo interiore. In ogni caso, una pratica indica un rapporto attivo con il reale, un rapporto caratteristico degli esseri umani perché, a differenza delle api, stabiliscono prima nella mente il piano della loro azione. Quest’idea di pratica riecheggia in senso inverso l’idea di teoria.
«Non dobbiamo credere che la teoria sia appannaggio unicamente dei “teorici”. La loro teoria (quella degli scienziati e dei filosofi) non rappresenta che la forma più astratta, più purificata, più elaborata di una capacità propria di ogni uomo. Il termine “teoria” viene da una parola greca che significa “vedere, contemplare”, sottintendendo senza metterci le mani, lasciando dunque le cose come sono. Alla mano che “maneggia”, che “manipola”, che lavora si oppone quindi l’occhio che vede a distanza, senza toccare né modificare il suo oggetto. Il termine “teoria” contiene pertanto in sé una nozione di distanza presa e mantenuta rispetto al reale immediato: nel suo principio, esso esprime ciò che definiamo comunemente la coscienza, vale a dire la capacità di raccogliere e conservare le percezioni del reale e, grazie a tale distanza e al “gioco” che permette, di collegarle nonché di anticiparle. In questo senso tutti gli uomini sono dei teorici. Il contadino che parte la mattina con il proprio trattore ha già in mente il programma della sua giornata e vede ben al di là di quella sola giornata, altrimenti non potrebbe gestire la sua azienda.» (pag. 93)
Ci siamo riferiti alla coscienza, ma se avessimo tirato in ballo il linguaggio, il risultato sarebbe stato lo stesso: gli esseri umani sono dei “teorici” perché parlano. Abbiamo visto, infatti, che il linguaggio è costituito da astrazioni. Questo per dire che nella realtà concreta del rapporto degli uomini con il mondo, non avremo mai la “pratica” da un lato e la “teoria” dall’altro. Le pratiche umane anche quelle più individuali, eccetto forse quelle “singolari” della follia, hanno un carattere generale e “astratto” perché sono tutte pratiche sociali. Anzi, possono essere individuali nella misura in cui sono innanzi tutto sociali. Ogni pratica, mettendo in gioco una complessità di elementi, è impossibile concepirla come un semplice atto o una semplice attività. Va pensata, invece, come «un processo sociale che mette in contatto attivo degli agenti con il reale, e che produce dei risultati di utilità sociale.» (pag. 95). Naturalmente in una società esistono molte pratiche umane distinte e relativamente autonome.
Domanda filosoficamente cruciale: esiste una pratica che è determinante per tutte le altre?…
Per la filosofia idealista deve essere ricercata fra quelle più teoriche: ideologia, scienza e filosofia.
Per la filosofia materialista marxista, che accetta il circolo pratica-teoria-pratica e difende il primato della pratica sulla teoria, a determinare in ultima istanza tutte le altre pratiche è quella produttiva. Ossia, una unità dei rapporti di produzione con le forze produttive (mezzi di produzione + forza-lavoro) secondo i rapporti sociali di produzione.
Definito il concetto, Althusser dedica nel suo manuale pagine chiare ed essenziali alla pratica produttiva, a quella scientifica, ideologica, politica, psicoanalitica, artistica e filosofica. Lo seguirei volentieri in questo suo Giro Lungo. Ma, al momento, il mio obiettivo è più modesto: è quello di mostrare le radici della filosofia dei filosofi. Esse ricevono nutrimento dalle pratiche sociali in cui sono quotidianamente impegnati gli esseri umani. La filosofia stessa è una pratica caratterizzata, come si è visto, da una particolare forma di astrazione “totalizzante”. La sua posta in gioco è sempre, in qualche modo, politica. Perché non solo cerca di tenere “nei loro ranghi” le scienze e le conoscenze tecnico-pratiche, ma sostiene l’intero fronte di tutte le altre pratiche umane: reinterpreta la religione, si differenzia dall’ideologia, categorizza l’esperienza artistica, inscena il teatrino delle “persone giuridiche”, ecc. All’interno di questo fronte un ruolo importante viene svolto dalla “pratica ideologica”, sulla quale ora mi concentrerò.
14. La pratica ideologica
Oggi il termine “ideologia” è usato prevalentemente in senso negativo. Infatti, se a un malcapitato gli si attribuisce una posizione “ideologica”, tradotto vuol dire che si ha a che fare con un “dottrinario”, un dogmatico, uno che ha contatti assai scarsi con la realtà, e così via. Esattamente ciò che Napoleone pensava degli “ideologi” del suo tempo.
Chi vince pensa sempre che i perdenti abbiano avuto un senso deficitario della realtà. Perché altrimenti avrebbero perso?… Stavano dalla parte del torto. La Ragione, infatti, sembra prender posto volentieri al tavolo dei vincenti.
Da qualche decennio, soprattutto dopo la caduta del Muro e dell’URSS, i candidati al ruolo di “ideologi” dottrinari sono i comunisti e quelli in odore di esserlo ancora.
Louis Althusser, quando scriveva questo manuale, era un filosofo comunista. Siccome all’ideologia e agli apparati ideologici di Stato ha dedicato un’attenzione straordinaria – il suo primo saggio che ho letto sulla questione apparve sul n.5 di Critica Marxista del 1970 – ritengo utile rimettere in circolo alcuni frammenti del suo discorso.
Per cominciare: «L’uomo è per natura un animale ideologico» (pag. 137). Quindi non ci sono gli ideologi e altri che ideologi non sono. Come siamo tutti filosofi, siamo tutti ideologi. Con buona pace di tanti liberali odierni che considerano ideologi i comunisti, mentre loro non lo sarebbero.
Avere una o più idee non significa avere delle conoscenze. Si può avere un’idea di Dio o della Natura, ma non per questo si conosce Dio o la Natura. Molto più banalmente se si ha idea di una rosa, non vuol dire che si sappia come nasce, come cresce, come si coltiva, come si riproduce, ecc. Idea in questo caso è sinonimo di “nozione”, ma fosse anche sinonimo di “opinione”, come quando si invita una persona a dire la sua idea, non vuol dire che si abbia a che fare con delle conoscenze. L’idea o l’opinione può essere benissimo priva di fondamenti. Come quando, ad esempio, si sostiene che non esiste più la lotta di classe (chissà cosa sta facendo in questi giorni il neo presidente della Confindustria!…) o non esiste più la destra e la sinistra (infatti, esistono tante destre, la sinistra è ridotta a uno stato quasi larvale e occorre aspettare Papa Francesco per sentire qualche pensiero contro il capitalismo predatorio dei nostri giorni…).
Un’ideologia è un sistema di idee (o di rappresentazioni) solamente perché è un sistema di rapporti sociali. «In altre parole, dietro le sembianze di un sistema di idee che agisce su un altro sistema di idee, per modificarlo, si nasconde un sistema di rapporti sociali che agisce su un altro sistema di rapporti sociali, per trasformarlo. E tale lotta che avviene “nelle idee”, o piuttosto, “nei rapporti sociali ideologici”, non è che una forma della lotta di classe in generale.» (pag.134).
Ma come può la “coscienza” di un individuo concreto essere dominata da un’idea o da un sistema d’idee?… La risposta sembrerebbe facile: quando quell’individuo riconosce come vera quell’idea. Ora come si fa a sostenere che un’idea è vera?… La sua “verità” non è raggiungibile col semplice riconoscimento. Infatti, si può riconoscere qualcosa soltanto perché la si nomina, ma nominare qualcosa non vuol dire che la si conosca. Così, ad esempio, continuare a ripetere che lo Stato non deve essere imprenditore, porta le persone a credere che il divieto abbia chissà quali fondamenti reali o storici. Invece è soltanto un divieto ideologico imposto dal neoliberismo dominante dopo aver sconfitto, horribile dictu, lo statalismo. Un divieto tradotto, niente di meno, che in leggi statali. Ora questa idea si impone come se fosse evidente, come se non avesse bisogno di ulteriori verifiche: “Ehi, tu, fammi capire di che si tratta, fammi capire se sei vera o no, in quali condizioni e perché…” Assolutamente.
L’ideologia interpella le “coscienze” libere delle persone. Lo fa costringendole a riconoscere la verità del suo insieme di idee. E, attraverso questo riconoscimento – che non è, insisto, un lavoro di conoscenza tecnico-scientifico – costituisce le persone come soggetti.
«Questo è, sostanzialmente, il meccanismo che si attua nella pratica ideologica: il meccanismo di interpellazione ideologica che trasforma gli individui in soggetti. E siccome gli individui sono sempre già dei soggetti, vale a dire sempre già assoggettati a un’ideologia […], dobbiamo dire, se vogliamo essere coerenti, che l’ideologia trasforma il contenuto (le idee) delle “coscienze” interpellando i soggetti in quanto soggetti, ossia facendo passare gli individui concreti (già soggetti) da un’ideologia dominante a un’ideologia nuova, che lotta per raggiungere il predominio sulla precedente attraverso gli individui.» (pag. 137-138)
Gli esseri umani vivono sempre sotto il dominio di “rapporti sociali ideologici” perché la loro azione è inconcepibile senza il linguaggio e il pensiero. Infatti, nessuna pratica umana può esistere senza un sistema di idee rappresentate in parole. La vita sociale è un insieme di pratiche differenziate, il che significa divisione e organizzazione del lavoro, rapporti fra i vari gruppi sociali esistenti, ecc. Quando si parla di ideologie, nel senso di un corpo di idee stabilite, non ci si riferisce a questa o quell’idea individuale, ma a quelle idee che hanno una capacità di azione sociale.
Le pratiche coesistono nella vita sociale, ma alcune di esse – le pratiche della divisione e dell’unità sociale, della coesione e della lotta sociale – hanno la meglio su tutte le altre…Ecco perché nelle società divise in classe le ideologie portano sempre un’impronta di classe o della tendenza dominante o di quella dominata…
Le ideologie non esistono solo nelle coscienze degli individui…Esse sono inscindibili dalle istituzioni che le promuovono coi loro statuti, codici, linguaggi, costumi, rituali, riti, cerimonie. Sono queste istituzioni (sistema mass-mediale, scuola, chiese, partiti, sindacati, confindustria, ordini, esercito, polizia, ecc.) ad assicurare alle ideologie le loro condizioni materiali di esistenze. E sono esse a costituire gli “apparati ideologici di Stato”.
14ì5. De Bortoli e la «deriva neostatalista»
Althusser ha scritto questo libro quasi mezzo secolo fa. Immergersi nelle sue pagine ha un effetto straniante: frasi, pensieri, concetti, categorie sembrano appartenere ad un periodo storico, culturale e filosofico irrimediabilmente trascorso. Oggi nessuno più parla di filosofia come “lotta di classe nella teoria”, perché la lotta di classe non esisterebbe più. La borghesia sarebbe scomparsa e il proletariato pure.
Meraviglia, però, che a un certo punto si possono leggere editoriali come quelli di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera del 17 maggio. Di fronte alla crisi sanitaria, economica e sociale prodotta dal coronavirus «richiama la responsabilità nazionale della classe dirigente privata, della parte più ricca e agiata, dell’imprenditoria maggiormente avveduta e internazionalizzata. Quel che rimane della cosiddetta borghesia produttiva […]» Scrive proprio così: borghesia, classe dirigente, imprenditoria. E col suo editoriale vorrebbe che questa classe si facesse carico di un «progetto per il Paese», un progetto centrato sulla formazione del «capitale umano» (sintagma stracarico di ideologia) perché soltanto così si può «contrastare una deriva neostatalista e contraria all’impresa che fa leva sulle disuguaglianze crescenti. Contrastando poi la sensazione popolare che chi vive in una dimensione internazionale, ha spesso sede legale e fiscale all’estero (e non esita a chiedere prestiti con garanzia dello Stato) [allude chiaramente alla FCA], oltre a mandare i figli a studiare fuori, non abbia a cuore i destini dell’istruzione pubblica. Al pari di quello che è accaduto con la sanità pubblica.» (Corsera, pag. 32).
In soldoni, de Bortoli ci fa capire che la “lotta di classe” esiste, che negli ultimi decenni l’hanno vinta questi imprenditori che mandano i figli a studiare fuori e, insieme a loro, tutti i medi e piccoli padroncini legati agli “internazionalizzati” attraverso le cosiddette “catene di valore”; questi signori, secondo l’illustre intellettuale de Bortoli, dovrebbero capire che non è più il caso di dedicarsi soltanto alla filantropia (i milioni offerti, ad esempio, alla Regione Lombardia per un ospedale costato 21 milioni e di assai dubbia utilità sanitaria…) perché essa «oggi non basta e a volte non sfugge alle regole del marketing», ma di realizzare qualcosa di più per il loro Paese, se vogliono evitare la “deriva neostatalista” e la messa in stato d’accusa per come hanno ridotto (o contribuito a ridurre) l’istruzione e la sanità pubblica grazie alle politiche di austerità propugnate in questi decenni.
De Bortoli è un ottimo “intellettuale organico”, come avrebbe detto Gramsci, alla borghesia produttiva ancora esistente in questo nostro Paese e a questa classe di imprenditori ricchi e agiati, internazionalizzati, più o meno avveduti, ecc. So che leggendo “intellettuale organico” arriccerebbe il naso perché lui rivendicherebbe di essere organico soltanto alla sua testa. Ma l’ideologia funziona proprio così. Interpella la “coscienza” e permette di sentirsi dei “soggetti”. Soggetti di che?… Perché quest’ottimo ed onesto intellettuale non ha scritto un bell’editoriale per rendere più consapevoli dei loro diritti gli immigrati, i lavoratori di Amazon che recapitano pacchi, i disoccupati, ecc. ecc?…
Le ideologie non sono inscindibili da istituzioni. E quel giorno che sul giornale-istituzione Corriere della Sera leggerò un editoriale a favore del proletariato immigrato, precario, disoccupato, ecc. sobbalzerò sul divano: cosa sta succedendo?…
Ma come mai de Bortoli teme così tanto la “deriva neostatalista”? Perché, mentre io negli anni Settanta leggevo Althusser, lui, che è di qualche anno più giovane di me, si convinse che la narrazione neoliberista fosse “vera”. Come funzionò (e funziona) questa narrazione? Ecco come la descrive Salvatore Biasco, professore ordinario di Economia Monetaria Internazionale
«Si cominciò a dire che la crescita mondiale si era fermata per eccesso di statalismo e regole, che i sindacati creavano disoccupazione e che lo stato sociale richiedeva troppe tasse. Furono messaggi semplici che portarono ad affidarsi al mercato e a destrutturare il lavoro riducendo le protezioni. Un’intera classe politica se ne appropriò, Thatcher e Reagan per primi. Per oltre trent’anni si è andati avanti con l’idea che la legittimazione del sistema si fondi sullo slogan there is not alternative». (Robinson, il supplemento culturale de La Repubblica del 23 maggio 2020, pag. 36)
Questa narrazione, questo impasto di convinzioni comuni e scelte ideologiche fu irradiato soprattutto dalle Università americane (le ideologie hanno sempre bisogno di istituzioni!).
Il suo punto focale è che lo Stato e la politica, in nome della libertà, non devono interferire con l’autonomia dei soggetti economici, come se non ci fosse nessuna differenza tra “libertà dell’individuo” e “libertà del mercato”. L’ideologia funziona esattamente così. Riconosce come “vere” idee che andrebbero sottoposte a verifiche e a seri processi di conoscenza tecnico-pratica e scientifica.
15. Conclusione
Non so se la crisi sanitaria, economica e sociale in cui siamo immersi si possa superare con l’assunzione di responsabilità da parte di una classe dirigente imprenditoriale che negli ultimi decenni ha contribuito a ridurre questo nostro Paese nello stato in cui si trova. Il nostro è un capitalismo predatorio, internazionalizzato.
Ciò che de Bortoli teme, sta accadendo: la crisi riporta con forza lo Stato al centro della scena. Ma quale Stato e dalla parte di chi? Con quali soggetti e favorendo quali trasformazioni?… Se la borghesia, più o meno produttiva e più o meno internazionalizzata, ha le sue istituzioni e i suoi apparati, con la sua filosofia, la sua ideologia, la sua religione; il proletariato (dagli immigrati che lavorano nei campi all’operaio che lavora alla catena) è diviso e frammentato. Ha scarsissime organizzazioni e istituzioni che diano espressione diretta alla sua voce e ai suoi bisogni. Per le sue istanze è costretto ad affidarsi spesso ad una generica sinistra democratica o alle organizzazioni di volontariato.
Leggendo questo manuale, semplice e ben concepito, non si trovano risposte a questi drammatici problemi. Si capisce però che i non filosofi non possono adagiarsi sulle loro filosofie “spontanee”. Hanno bisogno anche di filosofia. Perché la lotta di classe è sciopero, agitazione, ribellione, pratica sociale e culturale, ma è anche lotta di classe nella teoria. Politica.
Impossibile rinunciare a questa vocazione politica della filosofia. Dalla parte di chi, per me ed Althusser non c’è bisogno di dirlo.
25 maggio 2020
Si può contestare ad Althusser che la religione corrisponda alla ‘passività’; niente di più falso e contrario alla realtà, sia sul piano individuale (le esperienze dei singoli credenti) che su quello collettivo (le conseguenze che le religioni hanno determinato nel corso della storia, sia nel bene che nel male).
Se Papa Francesco, come si denuncia alla fine di questo interessante articolo, è l’unico a preoccuparsi della condizione dei più deboli, lo fa perché la sua fede religiosa lo ‘attiva’ in questa direzione.
QUALE STATO E DALLA PARTE DI CHI?… CON QUALI SOGGETTI E FAVORENDO QUALI TRASFORMAZIONI?
«Ciò che de Bortoli teme, sta accadendo: la crisi riporta con forza lo Stato al centro della scena. Ma quale Stato e dalla parte di chi? Con quali soggetti e favorendo quali trasformazioni?… ». Ecco le domande che mi rivolgevo concludendo la mia lettura di «Filosofia per non filosofi».
Sono contento che le stesse domande sono al centro di un articolo di Aldo Bonomi apparso oggi sul Manifesto. Titolo: “La domanda non è quanto Stato ma quale Stato”.
Suggerisco caldamente di leggere quest’articolo. Si può compiere uno straordinario viaggio con la mente. Si passa da un’idea di “formazione sociale” come quella proposta da Althusser con le sue “pratiche sociali”, pratiche impregnate di “teoria” e attraversate dalla “lotta tra le classi”, ad una formazione sociale immaginata come “società del frammento” (altri sociologi parlano di “società degli individui”), che si trova “sotto la pelle dello Stato”. Bonomi nel 2010 ha scritto un libro intitolato appunto “Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità”. Ovviamente è una metafora. Che lo Stato sia “pelle” di una società, è tutto da dimostrare. Comunque, «il condensarsi del rancore si fa sovranismo, l’irrompere dei bisogni del corpo malato chiede sanità e welfare state, le imprese e le economie chiedono aiuto.» Rancore, cura e operosità diventano così «fenomenologie comunitarie che stanno sotto e chiedono più Stato».
Nelle trasformazioni che incombono, Bonomi rovescerebbe il paradigma. «Chiedendomi quale welfare, quale impresa, quale modello di sviluppo viene avanti, quale Stato vogliamo: più che sul quanto Stato occorre interrogarsi su quale Stato.» Benissimo. Sono d’accordo con questo rovesciamento di paradigma. Vediamo di capire, allora, quale stato.
a) Non deve essere il «nudo potere amministrativo prevalso nella lunga stagione neoliberista […]. Anche perché ciò che stiamo vivendo mostra l’incapacità degli interventi pubblici di arrivare alle filiere degli invisibili nei meandri di una composizione sociale molecolare alla base della piramide dove nascondiamo, come polvere sotto il tappeto, la società dello scarto». Quindi, non si può continuare con un’economia che pretende di dettare leggi allo Stato. Anche perché è questa economia che produce quotidianamente “scarti”, sotto varie forme, a cominciare da licenziati, disoccupati, ecc.
b) Non si può avere «memoria e nostalgia del secolo breve dove la radice etico-umanistica comune tra élite produttive, lavoro e welfare state era espressione di una società dei produttori». “Da sfruttati a produttori” era il titolo di un libro di Bruno Trentin. In realtà, non è mai esistita soltanto una “società dei produttori”. In ogni formazione sociale, oltre alle “pratiche produttive”, sono indispensabili quelle “riproduttive”.
c) «La questione di quale Stato va posta dentro il salto d’epoca segnato dall’antropocene e dal tecnopocene […]», nell’epoca in cui, secondo Bonomi, “l’innovazione obbliga”. Ossia, in un’epoca in cui l’impresa (e non solo) sopravvive soltanto innovando. «Mai come oggi l’innovazione obbliga a riflettere sulla pervasività della società automatica e digitalizzata nella vita quotidiana, nei lavori e nelle forme di convivenza. L’innovazione produce reddito, profitto e consenso, mette al lavoro il nostro sentire, pensare, ricordare e comunicare da parte dell’infrastruttura tecnologica e dei “padroni dell’algoritmo”. Anche nell’affrontare l’emergenza pandemica il potere di sorveglianza diffusa della Silicon Valley, si presenta come deus ex machina del futuro. Qui vedo un vuoto di statualità che non rimanda solo alla tassazione dei big tech, ma alla sovranità sui giacimenti dei big data. Tanti saranno i remotizzati al lavoro per riprodurre la società automatica dell’algoritmo sentendosi sulla plancia di comando. Immemori di quelli in basso al lavoro nelle polveri sottili dei lavori di riproduzione e non coscienti che smart working può anche assomigliare al vecchio lavoro a domicilio.»
Tradotto, ci sono dei settori dell’attuale capitalismo nei confronti dei quali si avverte un “vuoto di statualità”, una mancanza di “sovranità sui giacimenti dei big data”. Insomma, se i padroni dell’algoritmo, se i capitalisti delle piattaforme fossero messi un pochino più in riga e contribuissero al superamento della crisi sanitaria, economica e sociale non sarebbe male. Anche perché sono quelli che stanno guadagnando più di tutti.
d) Nel momento in cui il rapporto tra lavoro e salute torna centrale nelle diverse unità produttive, secondo Bonomi, occorrerebbe forse «rimettere in mezzo l’icona del nostro umanesimo industriale: Adriano Olivetti. Che allora, ragionando più di comunità concrete che di Stato, sapeva che umanesimo d’impresa significava coinvolgere la comunità per arrivare alla questione della cogestione dentro e fuori la fabbrica. […] ». Il che significa vedere «l’impresa come un istituto della poliarchia sociale oltre che un’organizzazione funzionale alla produzione di merce. Da qui la visione di un’altra statualità diffusa, che accompagna ed innerva le piattaforme territoriali con scuola, università, medicina di territorio, infrastrutture dolci, le città sino ai piccoli comuni tenendo assieme smart city e smart land.
La pandemia ha reso evidente che non c’è tenuta senza i saperi sociali in grado di percorrere l’ultimo miglio della filiera degli invisibili. Non ha retto né il fantasma del welfare state del ‘900 né la retorica del welfare aziendale, entrambi incentrati su una sussidiarietà dall’alto che delegava al basso, quando non privatizzava, con esternalizzazioni caritatevoli al terzo settore. L’impianto piramidale dei flussi induce una gara per pochi verso l’alto e per i tanti verso il basso, delegati agli uomini dei sussurri della comunità di cura. Che deve prendere voce ricostruendo welfare dal basso, case della salute, non ghetti per anziani o per il disagio psichico in una società della competizione, assieme alla medicina di territorio e di fabbrica, mai così attuale.»
Richiamandosi all’umanesimo industriale di Olivetti, la proposta di Bonomi è quindi quella di una “statualità diffusa”. Ma dove sono i soggetti di questa “statualità diffusa”? Chi sono coloro che vogliono impegnarsi per ricostruire “welfare dal basso”?
e) Bonomi è consapevole che oggi le “tracce di comunità di cura e di operosità”, come le chiama lui, sono ancora deboli e queste sono «esperienze destinate a rimanere oasi se non si fanno comunità larga per attraversare il deserto facendo società e dandosi risposta alla domanda di “quale Stato”.». Una risposta che è necessario darsi perché «solo con le comunità si fa testimonianza, non società, se non iniziamo a tessere e ritessere almeno una società di mezzo in grado di frapporsi tra flussi e luoghi e per ridisegnare statualità.»
Tessere e ritessere una società di mezzo. Questa mi pare la parola d’ordine. Ma queste “società di mezzo” un tempo coprivano le varie pratiche sociali: a cominciare da quella politica, rappresentata dai partiti. Nel momento in cui vengono distrutti e si crede illusoriamente che la storia la fanno le élite, ci si ritrova a far i conti coi “popoli” mobilitati dal leader di turno contro altre élite. Populismi da un lato, leaderismi dall’altro.
f) Secondo Bonomi, questo discorso del “tessere e ritessere una società di mezzo” «vale per la Confindustria che mi pare più guardare all’indietro al partito del Pil senza nemmeno tracce del Bes (Benessere equo e sostenibile) da incorporare per andare altrove. Per le rappresentanze del capitalismo molecolare falcidiato dal lockdown ed in affanno nel ripartire. Per il commercio con la sua prossimità rivalutata e negata dalle astronavi simil Amazon e in affanno a ridisegnare servizi nelle città, sul territorio e per il turismo. Per le rappresentanze dell’agricoltura nei campi per il lavoro, come abbiamo visto, nelle filiere e in rapporto con la grande distribuzione. E vale per il sindacato, che questa volta si trova a cogestire l’introduzione di tecnologia in alto, a negoziare, si spera, con i padroni dell’algoritmo, a dar voce alla frammentazione dei lavori dentro le mura, sul territorio e nelle case del lavoro a distanza facendo anche sindacato di comunità di cura per gli invisibili.»
g) Conclusione di Bonomi: «Marco Revelli mi ha fatto giustamente notare quanto sia debole questo mio disegnare una comunità larga tra gli uomini e le donne delle oasi e le forze sociali del ‘900 che ho appena tratteggiato sperando nel venire avanti di una società di mezzo che si metta in mezzo dando voce interrogante e conflittuale nella metamorfosi che ci aspetta. Ma qui siamo e qui ci tocca ricominciare ad andare verso un altrove, sperando di riuscire a metterci in comune.»
Il linguaggio di Bonomi è quello di un sociologo che ama in maniera forse spropositata le metafore. Al di là di questo vizio o virtù (dipende dai punti di vista), il discorso mi sembra chiaro. Oggi i nostri avversari principali dovrebbero essere i padroni dell’algoritmo, i capitalisti delle piattaforme. Sono quelli che nella trasformazione in atto guadagnano più di tutti. Gli altri capitalisti – quelli della Confindustria, quelli delle piccole e medie fabbriche diffuse, quelli del commercio falcidiati da Amazon e quelli delle filiere agricole – insieme col sindacato dovrebbero impegnarsi in un lavoro di costruzione di una “società di mezzo”, cioè un modello di statualità diffusa «che accompagna ed innerva le piattaforme territoriali con scuola, università, medicina di territorio, infrastrutture dolci, le città sino ai piccoli comuni tenendo assieme smart city e smart land. ». Non male come idea. Sicuramente discutibile. Che ne pensate?…
28 maggio 2020
Caro Casati, penso che relativamente alla religione, Althusser usi il termine “passività” in un doppio senso a) è passiva (ossia subalterna) nei confronti degli interessi dei gruppi o della classe dominante; b) è passiva, nel senso che induce una certa rassegnazione nei confronti delle pratiche conoscitive perché conoscenza e verità sono rivelate una volta per tutte…
Ciò non toglie, ed è Althusser stesso a sottolinearlo, che «la religione, in certe circostanze della lotta sociale, a dire il vero abbastanza rare fino ad ora, può essere altro che semplice rassegnazione».
Al di là, comunque, di queste precisazioni, lo sviluppo dell’argomentazione althusseriana è quello di mettere a fuoco il rapporto da un lato delle filosofie “spontanee” con la religione, dall’altro della religione con la filosofia dei filosofi.
Per il resto, sono d’accordo con lei: sul piano storico non esiste “la religione” ma “le religioni” ed esse hanno avuto in molte congiunture un ruolo decisivo.
Quanto a Papa Francesco, al quale vanno il mio rispetto e simpatia, ho scritto: «la sinistra è ridotta a uno stato quasi larvale e occorre aspettare Papa Francesco per sentire qualche pensiero contro il capitalismo predatorio dei nostri giorni…». Le mie parole non fanno diventare “comunista” il Papa, come vorrebbero i Salvini e i cardinali al suo seguito che predicano “Dio, Patria e famiglia”.
Pur con creatività e sensibilità nei confronti delle condizioni del pianeta Terra, credo che le posizioni di Papa Francesco si muovano all’interno della dottrina sociale della Chiesa: no al comunismo e no al capitalismo selvaggio.
Gentile Salzarulo, concordo con lei sulle sue pacate e logiche riflessioni. Volevo solo far presente che la presa di coscienza del ‘sacro’ (al di là delle filosofie) induce verso un attivismo mentale e una dimensione esistenziale a confronto del quale, poniamo ad esempio la Logica, è ben poca cosa. A titolo polemico, visto che non se ne parla mai, segnalo anche un marcato attivismo ‘musulmano’, che pochi si prendono la briga di contestare, visto che il prezzo da pagare sarebbe alto, contrariamente a quando si sbeffeggia il cristianesimo.
Gentile Salzarulo, voglio aggiungere in chiusura che concordo con lei anche sul fatto che Papa Francesco non sia tanto sprovveduto da essere comunista o dalla parte del capitalismo. In quanto a Dio, Patria e Famiglia, se depurati dalla connotazione negativa che vuole imporgli a tutti i costi la Sinistra, restano dei valori. Personalmente sono felice di sentirmi Cristiano, di amare la Patria e la mia Famiglia.
Caro Casati, mi pare che Althusser stesso riconosca ciò che lei sostiene: «La filosofia non è sempre e solo Ragione pura, e la religione non è sempre e solo irrazionalità e impostura sociale».
Per quanto mi riguarda, vado anche al di là, per me non esiste un’unica forma di razionalità. E, soprattutto, non esiste soltanto la logica formale. Come amante di poesia, mi è capitato di scrivere versi come questi: «Questo mondo ha bisogno di cura. / È in preda al cattivo infinito. / Curare è mestiere impossibile. / Che sia possibile l’impossibile, / ecco la scommessa, la vera fede / del futuro in cantiere.»
Che Papa Francesco passi per comunista agli occhi dei cristiani conservatori (e non soli) è opinione confermata dalle sue stesse parole: «È strano, ma se parlo di questo [cioè, di terra, casa e lavoro] per alcuni il Papa è comunista. Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa.» (Discorso ai partecipanti all’incontro mondiale dei Movimenti popolari. Aula vecchia del Sinodo, martedì, 28 ottobre 2014). Comunque, sono d’accordo col Santo Padre. Lui non fa che richiamarsi alla dottrina sociale della Chiesa. Ciò detto, come per tutte le dottrine, richiami e interpretazioni non sono “neutri”.
“Dio, Patria e Famiglia”. Senza entrare nel merito sull’origine dello slogan – problema che affido volentieri agli storici -, direi che è uno slogan molto amato dalla destra e da chi fa di questi valori una spada e un cemento identitario. Nel 1987 ho scritto un verso che dice: «Tu che conosci me che non conosco». Non sono, insomma, un amante di identità “essenzialiste”. Per me la relazione fra Io e Tu, fra Noi e Voi, ecc. viene prima di tutto.
«Personalmente sono felice di sentirmi Cristiano, di amare la Patria e la mia Famiglia.» va benissimo. Purché non pretenda la stessa “felicità” e lo stesso “amore” da chi non la pensa come lei.
Grazie per i suoi commenti.
Gentile Salzarulo, nel leggere l’articolo su Althusser ho considerato come lei sia uno storico della filosofia di sicura competenza, capace altresì di esprimersi con molta chiarezza (merce rara e preziosa di questi tempi). Non ho contestato, infatti, niente del suo apprezzabile intervento limitandomi, da credente, a contrastare la convinzione di Althusser che le religioni portino alla passività ( leggendo ciò mi sono venuti in mente i martiri cristiani del passato e del presente…). L’amico Ennio Abate potrà confermarle che io sono solo un modesto narratore, cresciuto nell’alveo della letteratura e dell’arte. Perciò i nostri linguaggi, filosofico e letterario, sono diversi; ma credo che la diversità possa diventare ricchezza, con un po’ di buona volontà.
Nell’ultima risposta alla mia contestazione ho toccato con mano la sua onestà intellettuale e condivisione nei miei confronti, oltre al significativo valore culturale e poetico dei versi che lei mi ha citato ( a chiusura di questa mia ricambio il suo dono). Proprio per questo sono rimasto male (e per ciò le rispondo senza tuttavia volere avviare una polemica, né per il presente né per il futuro) nel leggere l’ipotesi che io possa pretendere dagli altri la mia stessa felicità (sofferta). Le posso confidare, a garanzia, che ho 72 anni, e che il mio percorso interiore è stato lungo, difficile e problematico, a partire più o meno dall’età della ragione. Al momento, lo ritengo ancora come una scommessa che voglio vincere. Se devo cadere, cado in piedi. Se volessi imporre agli altri felicità e amore ne vanificherei l’oggetto.
So benissimo, inoltre, che ‘Dio, Patria e Famiglia’ è uno slogan della Destra, quando pensa di mettere in campo dei carrarmati contro la fanteria. Ma rilevo altresì la pressione della Sinistra, per motivi storici legati all’ideologia comunista, affinché questi valori vengano azzerati (vedi, ad esempio, l’oblio nei confronti della Storia del Risorgimento). Io li difendo, se qualcuno pensa che non lo siano sono affari suoi. Mia madre, nata e cresciuta in Francia, mi ha insegnato ad essere di fede repubblicana. Da ciò più in là non mi spingo, pur assecondando una certa dialettica politica.
Concludo con un’osservazione critica su Papa Francesco, visto che lei lo cita, rilevando come nel suo operare con esclusiva cristiana ispirazione, stia anche generando il dubbio di spingersi oltre la Dottrina Sociale della Chiesa.
Gentile Salzarulo, spero di non rubarle altro tempo. Di sicuro ho imparato qualcosa di più dal suo significativo articolo. Qualche volta anch’io mi prendo il diritto-dovere di dire la mia, senza la pretesa di convincere nessuno.
Con tanta cordialità e stima.
ORAZIONE
Brezza sottile, vento
leggero del Signore,
timorosa e incerta
chiama la Tua presenza
la mia voce, nella speranza
di sentirti viva,
nell’anelito di Te operante
contro l’immobile silenzio
che grava sulla terra,
perché la Tua anima grande
investa e agiti l’aria vuota
e immota
che ci sta attorno
e ci circonda,
affinché torni lo sguardo
a puntare verso il cielo,
senza paurose ombre
di fredda, oscura morte.
“Concludo con un’osservazione critica su Papa Francesco, visto che lei lo cita, rilevando come nel suo operare con esclusiva cristiana ispirazione, stia anche generando il dubbio di spingersi oltre la Dottrina Sociale della Chiesa.” (Franco Casati)
So che parlare di questo Papa senza ripetere banalità e luoghi comuni è difficilissimo, ma viene da chiedersi cosa sta succedendo a lui e alla Chiesa.
Si veda questa vicenda su cui è calato un silenzio di tomba:
AL VOLO/ ESTROMISSIONE DI ENZO BIANCHI DALLA COMUNITA’ DI BOSE
“Più facile che su Bose si stia giocando una partita importante, che riguarda gli assetti della Chiesa cattolica: esperienza anomala che va ricondotta ad un più rigido controllo romano?” (Luca Kocci, il Manifesto)
“Nessuno può impedirci di pensare che siamo in presenza di una operazione di normalizzazione in cui purtroppo è coinvolto anche papa Francesco, mentre rimbomba l’assoluto silenzio della Chiesa italiana, forse nel tentativo di ridurre tutto a fatto personale di giornata. Parlare di “normalizzazione di Francesco”, fino a prova contraria, può voler dire che ne è il soggetto, ma può voler dire anche che ne è l’oggetto” (Alberto Simoni, Koinonia forum).”
(DA https://www.glistatigenerali.com/religione/cosa-succede-a-bose/?fbclid=IwAR3rhCA6LhA338AvqFZaLmuyARJnK8dHRDJQM8JRQx5LQ0TWHrezy24PWPc)
Caro Casati, ci siamo intesi. Il che di questi tempi non è facile. Vorrei solo precisare che non sono uno storico della filosofia. Ho fatto per 17 anni il maestro di scuola elementare, per 2 anni il professore di lettere nella scuola media e per 25 anni il dirigente scolastico. Sono laureato in pedagogia e ho avuto la fortuna di studiare e preparare la mia tesi con Francesco De Bartolomeis. Quando non mi va di precisare molto, semplifico dicendo che sono un “uomo di scuola” o un “educatore”. La filosofia (-pedagogia) è soltanto uno dei miei tre amori, il secondo è la poesia (-letteratura) e il terzo è la politica (ho fatto per una quindicina d’anni l’assessore all’istruzione a Cologno).
Apprezzo la sua sentita e profonda Orazione. Avendo scoperto di aver a che fare con una voce “timorosa e incerta” che invoca il “vento leggero del Signore” per vivificare “l’immobile silenzio che grava sulla terra” e “l’aria vuota e immota che ci sta attorno”, non ho alcun dubbio sul suo modo di vivere lo slogan “Dio, Patria e Famiglia”. È una felicità e un amore che appartengono soltanto a lei e alla sua storia. Fortini diceva: “la fede opaca di che vivo / è solo mia”.
Naturalmente se, oltre al proprio, lo sguardo che punta verso il cielo è anche quello di altri, tanto meglio. Il bisogno di “ecclesia”, del Noi è di tutti.
Grazie per la stima che ricambio. Cordialmente.
«Dio, Patria e Famiglia» è uno slogan della destra? Le parole e le frasi sono strumenti che si possono usare in diversi modi e da diverse persone, fazioni, movimenti e partiti e Stati, ma in definitiva hanno una storia che travalica gli usi strumentali del momento.
Questo trinomio di valori, in questa stessa formulazione o in altre simili, è molto più antico del Fascismo di Mussolini. Andando a ritroso, lo troviamo come titolo di un corso per le scuole elementari del 1928, ma nel 1908 è già nel titolo di una raccolta di poesie per bambini e nel 1897 in un libro di Augusto Conti. Più indietro ancora, lo troviamo in Giuseppe Mazzini, in Giosue Carducci, in poeti minori dell’Ottocento. Con Mazzini siamo a un uso di “sinistra” di quei tre valori della tradizione europea cattolica, in chiave repubblicana e antimonarchica (Dio e Patria sono ricordati anche nei testi fondamentali di fine Settecento degli Stati Uniti e in altre carte costituzionali e dei diritti). L’uso della formula fa parte anche del bagaglio ideologico, programmatico e propagandistico del movimento Vandeano contro la Rivoluzione francese (che, contro i Vandeani, ha perpetrato il primo genocidio moderno, modello per i successivi genocidi nazisti, stalinisti, turchi ecc.: sono stati massacrati oltre centomila vandeani colpevoli di essere cattolici e di volerlo restare, come, fra l’altro, testimonia e denuncia un protagonista non sospetto di simpatie conservatrici: Gracco Babeuf).
Ma l’origine del tris di nomi è ancora molto più antica e ha le radici nei trattati di teologia morale dove la ripartizione dei doveri, da ormai quasi due mila anni, segue questa scansione: 1) doveri verso Dio; 2) doversi verso gli altri (che comprendono i doveri verso la famiglia considerata la comunità naturale di base e anello di congiunzione fra l’individuo e la società; verso la società e quindi la propria patria, intesa però ancora in modo diverso da come verrà intesa dal nazionalismo romantico ottocentesco); 3) doveri verso se stessi; 4) doveri verso la natura, cioè verso le cose che Dio ci ha dato per aiutarci, non perché vengano distrutte.
Al di fuori di formule e slogan, la divinità, la patria e la famiglia sono valori che ritroviamo anche nei trattati di filosofia morale del mondo antico non cattolico (Platone, Aristotele, Cicerone) e nei libri di tante religioni di altre tradizioni culturali.
Quindi, “Dio, Patria e Famiglia”, nel suo significato tradizionale, vuol dire “religione, comunità sociale e comunità familiare”.
Il nazionalismo mazziniano, ma non il suo repubblicanesimo anticlericale, venne ripreso dal fascismo che si richiama agli “apostoli della Patria” e a Mazzini in particolare. Si pensi agli scritti che Giovanni Gentile ha dedicato a Mazzini, al mito del fascismo come conclusione e trionfo del Risorgimento italiano e anche a quanti mazziniani, repubblicani e anticlericali, si riconobbero nel fascismo e diventarono fascisti convinti, passando proprio attraverso i valori della “Patria” messi a prova nel periodo interventista e nel corso della Prima guerra mondiale. I repubblicani interventisti, in grande parte, si schierarono col fascismo e con Mussolini e integrarono il rozzo socialismo nazionalista, elaborato da Mussolini come prima base del fascismo, con tutta una serie di apporti Mazziniani. Mazzini venne considerato dai fascisti uno dei loro, un loro precursore, e, come sempre avviene con la categoria dei precursori, avevano in parte ragione e in parte torto.
Ma i tre valori non sono estranei nemmeno alla tradizione socialista, che si divide in innumerevoli correnti. Non tutti i socialisti dell’Ottocento (ma anche del Novecento) sono d’accordo con l’idea del superamento della famiglia, della comunanza delle donne, delle unioni libere, dei figli considerati figli di nessuno e di tutti. Questa impostazione del problema della famiglia già presente in autori antichi (Platone, esperienze di Sparta ecc.) e in molte utopie comuniste fra Cinquecento e prima metà dell’Ottocento, non trova d’accordo i socialisti e comunisti hegeliani e tanti socialisti più moderati rispetto gli estremi dell’utopia comunista e dell’Internazionale prima, seconda e terza.
Del resto anche il comunismo del Novecento, da Lenin a Stalin a Togliatti e così via, sostituito Dio con il Partito e con il culto della personalità del Capo, non ha certo abbandonato la “patria”, anzi si è sviluppato come dottrina nazionalista e specifica e adattata nei diversi Paesi, pur nel quadro di una dichiarata collaborazione internazionale. E nemmeno ha abbandonato la famiglia. Conquistati certi valori di emancipazione della donna (il voto, una certa eguaglianza nel lavoro, il diritto di divorzio e poi di aborto), i comunisti, fino a pochi decenni fa e dove sono al potere ancora oggi, non incoraggiano affatto il divorzio e le unioni libere, continuando a vedere nella famiglia una utile e talvolta indispensabile cellula sociale.
Cambiato profondamente il quadro complessivo di riferimento, scesi dal cielo alla terra, certi valori della tradizione, contestati a parole, sono poi recuperati in altre forme.
Per cui, quando Giovanni Battista Giuriati, gerarca fascista e presidente della Camera dei deputati, nel 1931 lancia lo slogan «Dio Patria e Famiglia» non fa altro che richiamare in forma, appunto, di slogan, una formula già da lungo tempo conosciuta e collaudata. Il fascismo, affamato di riconoscimenti e alla ricerca delle proprie radici, reali o presunte, lo ha fatto proprio e lo ha scolpito e dipinto sui muri d’Italia. Il 1931 viene dopo il 1929 dei Patti lateranensi, della riconciliazione fra Stato e Chiesa, dell’abbandono da parte di Mussolini e del fascismo di ogni velleità anticlericale e del ripiego nell’appoggio del cattolicesimo più tradizionalista: quello che aveva obbligato don Sturzo a chiudere il Partito popolare e ad andare in esilio.
Quindi, concludendo, al di là degli usi strumentali del momento, lo slogan si riferisce a valori propri della millenaria tradizione dell’Europa cattolica e li ritroviamo in diverse correnti politiche, anche non cattoliche. Solo il movimento anarchico, fin dal suo sorgere, ne ha contestato tutti e tre i termini: né Dio né padrone, scrisse Bakunin; e tanto meno Patria e Famiglia.
Ma anche gli anarchici non sorgono dal nulla e hanno dei precedenti. Non solo in Stirner che è dell’Ottocento, ma in atei e materialisti del Settecento come il prete Jean Meslier e il barone D’Holbach e, soprattutto, nella tradizione del libertinismo colto che parte dal Medioevo e ha molti esponenti noti o rimasti ignoti, operando nella clandestinità per non fare la fine di Giordano Bruno e di Giulio Cesare Vanini. Come gli ignoti autori delle diverse versioni in latino e in francese del libro «I tre impostori» (che secondo loro sono Mosè, Cristo e Maometto). Libro di piatta propaganda, di nessun valore storico né dottrinale, eppure fortunatissimo e diffuso largamente. Ancora oggi ogni tanto viene ripubblicato, o dagli anarchici che lo considerano ancora un’arma utile alla propaganda, o da editori che ci vedono una «chicca» curiosa che può sempre essere venduta. Libro leggendario, la cui più antica versione risalirebbe a oltre mille anni fa, mentre la versione più conosciuta e ristampata sarebbe del 1775.
Dio Patria e Famiglia da un lato, né Dio né Patria né famiglia dall’altro. È storia e lotta vecchissima e ancora attuale. Con l’opposizione comunista e ex comunista che, a parte le escandescenze della Cirinnà e dell’ala radicale che sembra dimenticare i diritti sociali e politici individuali per premere l’acceleratore sui diritti “civili” che girano intorno alla gestione delle pratiche sessuali e del corpo, ha lasciato perdere molto della sua originaria avversione alla Patria e alla Famiglia. Anche la sinistra più radicale, in Italia, non è contro, ma anzi promette più aiuti alle famiglie. E della comunanza delle donne non se ne parla più da oltre un secolo e nemmeno dei figli che dovrebbero essere dello Stato e non dei genitori.
Parole, idee, dottrine, comportamenti, programmi. Tutto cambia nello svolgersi della storia. Chi è attaccato all’attualità spesso dimentica cosa c’è alle spalle, perché tanto gli interessa solo il presente e ciò che ha di faccia, amici e nemici. Ma chi ama la storia e ne misura il tempo lungo cerca di vedere oltre, verso il passato e verso il futuro.
E non può fare a meno di sorridere nel vedere che, non nella forma dello slogan ma nella forma sostanziale dell’affermazione di valori, la Patria e la Famiglia restano al centro dei discorsi ufficiali dei nostri presidenti della Repubblica, compresi i più amati dalla sinistra, come Ciampi e Napolitano (e anche Mattarella è ben visto dal PD, come si sa). Sembra che manchi solo Dio, visto che non è più di moda da quando il pluralismo religioso ha sostituito la religione di Stato. Quindi, non è che manchi davvero, si è solo moltiplicato e dichiarato indipendente.
Questo excursus storico sulla triade in questione mi fa sentire erede di una tradizione che non ho la forza di sostenere, perciò cerco di semplificare: di Dio non conosco il nome altrimenti morirei, la Patria per me si chiama Italia, la Famiglia Alda, Mario e Marco. Ringrazio Luciano Aguzzi per il suo impegnativo intervento e Donato Salzarulo per l’attenzione dimostrata nei miei confronti.