di Adriano Barra
Ho chiesto ad Adriano Barra (già in passato ospitato su Poliscritture qui) di poter pubblicare l’intera collezione di citazioni da lui dedicate al “Caso Pavese”. Nei mesi scorsi le ho lette man mano che uscivano a manciate sulla sua pagina Facebook. Mi pare importante rileggerle insieme. Non perché io pretenda di ricomporre in un disegno unitario questo mosaico di tessere a tema ch’egli ha raccolto da giornali, riviste (e negli ultimi anni anche dal Web) tra il 27 febbraio 1984 e il 30 dicembre 2019. So, infatti, che la forma-diario, che ha dato a questo suo “trattato” (o abbozzo di trattato) sul “Caso Pavese”, è fondamentale quanto l’argomento. Un lettore paziente, se ha letto qualcosa di Pavese (magari in gioventù come noi vecchi) o ha orecchiato il “mito Pavese”, si trova qui in ottima compagnia. Barra è un investigatore particolare: svagato, ironico, antisentimentale, apparentemente snob, attentissimo al degrado della lingua e della memoria, mai onnisciente o specialista, meticoloso cronista dei tic altrui (e dei propri). Ha affrontato il “Caso Pavese” quasi impersonalmente, riportando le opinioni altrui (Herling, Brancati, Moravia, Calvino e tanti altri) con rari e veloci commenti suoi. La scelta delle citazioni, però, non è mai occasionale (ce ne sarebbero altre diecimila possibili). Egli ha mirato al dettaglio, ai fatti minimi della vita di Pavese, persino ai “pettegolezzi”. Eppure a muoverlo è un pensiero forte, l’annuncio di un disastro: la letteratura è morta. Lo dice chiaro e tondo nell’appunto di Mercoledì 29 aprile 2009 : “io non faccio altro che aggirarmi intorno alla vecchia questione irrisolta, la questione delle questioni, quella de « la morte della letteratura ». Che non è un convenzionale, astratto, accademico modo di dire, ma un evento reale, che è accaduto realmente, in un momento storico e biografico , all’incirca mezzo secolo fa. Nel mio diario io ne ho parlato spesso, così spesso che quell’evento potrebbe essere considerato come il contenuto, l’argomento, il tema essenziale del mio quotidiano scrivere ormai da quasi un quarantennio – cioè, anno più, anno meno, da tutta la vita. “. Non so dire quanto sia esatta e senza appello la sua diagnosi. Ma è bene chiedersi che effetto critico può avere questo suo “grido di dolore” oggi che il mito letterario (da cui anche le nostre gioventù furono sfiorate proprio attraverso la figura di Pavese) è giunto all’annacquamento, allo sbriciolamento, al pillolismo . [E. A.]
Pavese ritrovato ” [*] / All’usato. [*] (Titolo del Venerdì di Repubblica)
Fra i molti “ casi “ di cui sarebbe il caso di occuparsi mi ero dimenticato quello che forse è il più interessante, o, se non altro, il più “ italiano “. Dico il “ caso Pavese “. Quello che, nella storia letteraria d’Italia per così dire recente, ha più “ fatto epoca “, quello che si potrebbe persino dire che è il “ caso dei casi “. Insomma, cerchiamo, nel nostro più che discutibile modo, di scriverlo, questo famoso, diciamo pure famigerato, “ caso Pavese “.
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“ 27 febbraio 1984 – I capelli di Pavese, o quelli di Leone Ginzburg. O quelli di Gobetti. O di Montale. Anche a/per quei tempi quegli uomini avevano delle facce strane. “.
“ 16 giugno 1985 – Il caso Bianciardi è importante non meno per il coté scrittura che per quello dell’attività di traduttore. Bianciardi faceva parte di quella generazione post-autarchica che, forse nella sua componente maggiore (Pavese, Vittorini… ), aveva scelto di dare all’antifascismo una connotazione letteraria: la letteratura americana contro quella di casa nostra. La tragedia Bianciardi consiste nel fatto che negli anni Sessanta si andavano ricostruendo le basi per un nuovo autarchismo, stavolta europeo, con la riscoperta (professorale) delle avanguardie. Un’operazione che dava per scontato l’esaurimento della funzione rivoluzionaria della letteratura post-avanguardistica e forse di ogni letteratura. “.
“ 27 settembre 1988 – Morto Spriano. Pare che volesse scrivere un libro su Pavese. “.
“ 6 gennaio 1989 – « Perché una cosa sola (fra le molte) mi pare insopportabile all’artista: non sentirsi più all’inizio. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950) “.
“ 30 agosto 1990 – « La concentrazione di ultratrentenni è altissima davanti ai venticinque pannelli della mostra biografica dedicata a Cesare Pavese, uno degli autori più citati dal fondatore di Cielle, don Giussani. “ Nel dramma di Pavese ci ritroviamo tutti. C’è solo da sperare che qualcuno ci tenga una mano sulla testa perché non finiamo come è finito lui “, dice Maria Antonietta Maino, biologa di Busto Arsizio, anche lei al Meeting on la famiglia. » (Dai giornali) “.
“ 8 agosto 1991 – « Cuneo – Non c’è pace per Santo Stefano Belbo, il paese di Cesare Pavese. Ma se un anno fa era stata polemica sulle commemorazioni del più illustre dei loro concittadini a dividere gli abitanti del piccolo centro ora è un oggetto meno illustre. Gli abitanti del paese in provincia di Cuneo sono infatti divisi sull’opportunità di inserire nei festeggiamenti del patrono San Rocco, in programma nella settimana di Ferragosto, anche l’elezione di Miss Culetto d’oro. » (Dai giornali) “.
“ 8 ottobre 1992 – « Perché una sola cosa, tra le molte, mi sembra insopportabile all’artista: non sentirsi più all’inizio. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere) “.
“ 22 dicembre 1993 – « Che dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, diari di scrittori siano apparsi, pur se sparutamente e senza riscuotere molta attenzione, nella nostra letteratura è avvenimento da considerare come un avvento delle “ cose “ e un mutamento della società civile; come un insinuarsi e prender spazio – per dirla con una espressione del Tommaseo, che a queste cose dedicò grande e vibratile attenzione – della storia civile nella storia letteraria. E ricordiamo i diari di Alvaro, di Cajumi, di Longanesi, di Pavese, di Delfini, di Flaiano, di Fausto Pirandello (quel tanto che ne è apparso su qualche rivista lascia intravederne l’intera ricchezza); quello in versi di Montale e che si può dire trabocchi dal volume propriamente intitolato Diario del ‘71 e del ‘72; le memorie di De Chirico… e questo Diario romano di Brancati… » (Sciascia dice) “.
“ 3 marzo 1994 – Dante, Leopardi, Foscolo, Carducci, Pascoli… Queste erano le mie letture: i Classici italiani. Ma non solo: leggevo anche Dürrenmatt, leggevo anche Papini, leggevo anche Sartre, leggevo anche Bianciardi. E Mastronardi. E Dickens. E Cassola. E Buzzati. E Malaparte. E Camus. E Piovene. E Pavese… Leggevo anche gli americani, i gialli, la fantascienza. Fino a diciottanni come ho letto? Il problema è come sia stato possibile che da un certo momento non abbia più letto niente, in un certo senso, in quel certo senso. Subentrata la « realtà ». Dissolto l’atteggiamento estetico. La catastrofe. (Né è pensabile che ricominci da lì. Dovrei voltare pagina, farmi presente a me stesso. Perché la « catastrofe » è anche la mia vita. Non sarò mai un professore) “.
” 19 maggio 1994 – Spinto da un articolo su «Paragone» riprendo in mano i Diari di Delfini. Quello che cerco non è però Delfini, ma Garboli. Occuparsi degli scrittori sfigati (cfr. Penna papers), occuparsi degli scrittori: a che titolo? a che scopo? Non lo capisco più. (« Eravamo l’uno per l’altro due finti padri e due veri figli », dice Garboli. Mi sembra una frase bugiarda o perlomeno insincera) (Questi Diari usciti nell’’82 volevano essere la replica dell’« operazione Pavese » di trent’anni prima?) (Oppure: non c’è problema) “.
“ 3 giugno 1994 – Me ne fotte qualcosa se in quella nuova libreria inaugurata, dice la giornalista, alla presenza di Pietro Ingrao, si trovano libri di « quindici – venti anni fa » ? No, non me ne fotte niente. Io cerco libri più vecchi, molto più vecchi (e poi che c’entra « il suicidio di Pavese »? Sarà perché il primo suicidio non si scorda mai…) “.
“ 22 giugno 1994 – Cajumi, Brancati, Longanesi, Alvaro, (ma anche Pavese) (o Brecht): i diari sono un genere letterario che « andava » cinquanta e più anni fa (durante e dopo il fascismo). Non ci saranno diari degli anni Settanta e Ottanta (e Novanta). (I diari di Andreotti?) “.
“ 7 luglio 1994 – « 13 settembre 1936 – Tra i segni che mi avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro più libri con quella viva e ansiosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo. Leggo e vorrei leggere sempre più, ma non vivo ormai come un tempo le varie esperienze con entusiasmo, non le fondo più in un sereno tumulto pre-poetico. La stessa cosa mi accade passeggiando per Torino; non sento più la città come un pungolo sentimentale e simbolico alla creazione. Già fatto, mi viene da rispondere ogni volta. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950) “.
“ 7 luglio 1994 – Bisogna riuscire a chiarire come stanno le cose e questo Pavese arriva alla fine proprio a puntino. Bisogna chiarire che la letteratura ha rinunciato da un bel po’ di tempo a scrivere. La letteratura ha proceduto alla propria autoesclusione esasperando la funzione critica, gli « strumenti critici » (anni Sessanta). Lo scrittore si è fatto professore e in tal modo ha salvato la pelle. “.
“ 9 luglio 1994 – « 8 gennaio 1938 – Non è affatto ridicolo o assurdo chi, pensando d’uccidersi, si secchi e spaventi di cadere sotto un’automobile o di buscarsi un malanno. A parte la questione del maggiore o minor dolore, resta sempre che volere uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia una suprema scelta, un atto inconfondibile. È perciò naturale che il suicida non tolleri il pensiero di cadere per caso sotto un veicolo o crepare di polmonite o qualcosa d’altrettanto insensato (meaningless). E dunque, occhio ai crocicchi e ai colpi d’aria. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950) “.
“ 22 luglio 1994 – Perché non dire che la letteratura, se non morta, era già moribonda quando l’ho conosciuta, facciamo un quarant’anni fa? Si potrebbe far data dal suicidio di Pavese, anno 1950 (vedere a questo proposito la cronologia di Calvino). Per quanto riguarda la mia generazione, morta lo era abbondantemente fin dall’inizio. I « fumetti » di Nicolini erano già « prevalenti » quarant’anni fa. Gli anni Sessanta e ss. sono stati soltanto il coup de grâce. “.
“ Giovedì 2 maggio 1994 – La letteratura, invece, non è più nemmeno un mito. È stata un mito ai tempi di Proust, il mito del quale puoi leggerlo, già cotto-e-mangiato, nel numero speciale della NRF del ‘23, a pochi mesi dalla sua morte. È stata un mito ancora ai tempi di Cesare Pavese, ai tempi della morte di Cesare Pavese, e della pubblicazione del suo diario. Anche Gadda il suo bravo mito se l’è guadagnato, mito lillipuziano, mito romano del Gran Lombardo. Anche Pasolini un po’ « mitico » è stato, specialmente perché faceva i film e perché poi è morto come è morto. Anche Calvino, volendo, anzi Calvino’s. Ci hanno provato anche con Tondelli. Ci hanno provato anche con Di Lascia. Ci provano sempre, i mitografi, i mitomani, ma non abbocca più nessuno. Senza mito la letteratura si sente sola e non sa che fare. Non sapendo che fare tira a campare. “.
“ 21 giugno 1995 – Stamani volevo scrivere qualcosa su che cosa significa fare il professore o almeno che cosa significava per me, avrei preso spunto da quel preside che dice che i ragazzi scrivono male perché la televisione li ha rovinati ma poi sembra anche che scrivano tronfio in ogni caso lui ha avuto un professore di antiretorica che faceva leggere maestri di antiretorica come Pavese e Calvino etc., ma poi avrei finito per parlare dell’odore dei ragazzi della mia classe, forte odore di infanzia, di campagna, io più che insegnare annusavo, e sudavo, e toccavo, era un happening, altro che scuola, era una jam session, un sabba etc., ma siccome stamani mi sento serafico, e anche il benzinaio a cui ho sorriso un po’ troppo per un solo pieno di super lo può dire, decido di no e così non lo scrivo. “.
“ Domenica 9 giugno 1996 – All’inizio di questo lunghissimo dopoguerra che forse è finito e forse no, c’è anche un diario. È quello di Cesare Pavese, pubblicato all’indomani della sua morte con il titolo Il mestiere di vivere. Cesare Pavese non era un diarista, era un poeta. Un poeta che ha scritto un diario, che è anche un taccuino di lavoro, una riflessione sul suo mestiere che, naturalmente, non era quello ovvio e comune a tutti di vivere ma quello, un po’ più « personalizzato », di scrivere. Io, che non sono un poeta, qualche poeta, quando ce n’erano ancora, l’ho conosciuto. Qualche poeta… : non nel senso di « tipo bislacco », « capa vuota », « sognatore » o « fesso », ma poeti poeti, di quelli che scrivono poesie, con la rima o senza, e non c’è niente da ridere. Per esempio questo di cui ora faccio l’esigua fatica, dati i potenti mezzi elettrocinici – ho scritto proprio così – di cui dispongo, di trascrivere un testo: « Come è noto non esistono che diari pubblici: e se non c’è motivo di vergognarsi delle parole scritte più di quanto si faccia di quelle dette, perché non scrivere quel che si dice, perché non accettare la leggerezza, l’improntitudine, o la serietà, di quanto si pensa e si dice in fretta, nella vita breve che regaliamo al giornale, al libro, all’incontro con un amico? Una conversazione val bene un articolo. […] Perché non scrivere quel che si dice? Devo correggermi: ci sono, in realtà, le cose che si dicono e quelle che si scrivono. Quando si scrivono le cose che si dicono, queste perdono, è ovvio, il carattere parlato, perché la scrittura, qualunque essa sia, non è una trascrizione, ma una tradizione, un sistema di referenze. Decidere di lasciar documento d’una lettura, d’una impressione, d’una conversazione val quanto crederlo degno d’una funzione pedagogica, val quanto prendersi sul serio, laccio predestinato del dilettante. L’umiltà rinvia all’orgoglio. Per questo le note e i diari e gli appunti sono sempre, moralmente, postumi e si giustificano solo con l’opera omnia. Bisogna dunque confessar l’equivoco: la scrittura dell’appunto, la pubblicazione della lettera o della pagina di diario non hanno giustificazione se non in due casi, quello di un eccezionale esperimento stilistico o quello del tentativo d’una conversazione. Il valore della conversazione consiste nel fatto che la presenza fisica fa risparmiare automaticamente (e magari ipocritamente) una quantità di premesse, di precisazioni, e trova il suo rigore proprio nel rifiuto del rigore, nella vaghezza dei sottintesi; ogni conversazione, almeno in potenza, fonda un linguaggio iniziatico, un vincolo. Ora, da noi, è fortissima la cesura fra linguaggio specializzato e quello degli articoli prefazioni; nel mezzo, fluttuano le conversazioni, le parole volanti. Rischiare di affidarne una parte al piombo (metter loro, come si dice, piombo nell’ala) può disegnare il profilo d’una solidarietà. Ma, certo, bisogna esser più d’uno, il monologo ostinato non può trovar grazia. » (Franco Fortini, Cronache della vita breve, 1954) “.
“ Sabato 29 giugno 1996 – « Prendere per il culo » è una locuzione di uso assolutamente comune che significa all’incirca « portare in giro », « coglionare », « gabbare », « fare fesso », « ingannare ». Ma, a osservarla più da vicino, si nota quel « per il culo » che equivale a « dalla parte del culo » e, poiché, come è noto, il culo, nel corpo umano, maschile e femminile, sta, rispetto alla faccia – relazionale, sociale, dipinta o naturale, facciosa o feroce, d’angelo, di bronzo, da galera, da schiaffi, da scemo, incatramata o ingenua – dietro – anche alla faccia di culo -, « per il culo » significa « da dietro », e quindi « prendere per il culo » qualcuno significa « prendere da dietro » qualcuno. Ora, per prendere « da dietro » qualcuno, bisogna che quello stia « davanti ». Ma: « davanti » in che senso? Per esempio: fra un romanzo e un film, chi è « davanti » e chi è « dietro »? Se un film viene « liberamente tratto » da un romanzo, si può dire che, in un certo senso, il romanzo viene « preso per il culo » dal film? Anche perché tutti vanno al cinema e il romanzo non lo legge più nessuno, tutt’al più dopo che hanno visto il film, per senso di colpa, per scaramanzia, per piaggeria, per compassione, per carità (pelosa) di patria. E perché non succede mai il contrario, che un romanzo venga « tratto » da un film, « liberamente », allegramente? E poi vanno tutti dal regista e gli chiedono: « Che ne pensa? Si riconosce in questo romanzo? ». E lui farfuglia qualche cosa, senza convincere nessuno, e qualcuno, anche, ride. Come si fa a mettersi « dietro » a un film, o a evitare che si metta sempre « dietro » lui? Se fossi uno scrittore queste domande me le farei, e forse qualcuno se le è già fatte. Per ora mi basta chiarire che io non ho mai « preso per il culo » nessuno. Se non in quel senso che a qualcuno/a piace e a qualcun altro/a meno, ma che comunque è sempre senza conseguenze. Perché « prendere per il culo » è anche bello. Se è estate, per esempio, se fuori è tutto fermo sotto il peso del sole, se il culo splende come un sole nel quasi buio della stanza, se è fresco, quasi gelido, quasi ti scotti, quasi dormendo, quasi sognando, quasi avendo paura, a tu per tu con un culo, ma è solo un culo, ulo, ulo, ulo, ulo. E un bel giorno ti viene da ridere. Invece quelli che dicono: « Meglio comandare che fottere », e il sospetto che abbiano ragione loro, ma non è vero, ma è vero che forse c’è qualcosa di meglio che fottere e questo meglio, per esempio, è scrivere. Prima, ogni tanto, arrivava qualcuno che diceva: « La mia vita è un romanzo ». Faceva ridere anche allora, però restava la curiosità di saperne qualcosa di quella vita sedicentemente romanzesca. Se poi si faceva l’errore di « approfondire », si scopriva che il « romanzo » consisteva soltanto in qualche banale ancorché spiacevole disavventura famigliare, economica o giudiziaria. Erano tutte vite che, casomai, somigliavano a film – diciamo alla Raffaello Matarazzo -, e, chiamandole romanzi, i legittimi proprietari rivelavano soltanto di essere vittime, non solo della malasorte, ma anche della più opaca consuetudine linguistica. Vite-romanzo è un bel po’ che non se ne vivono. L’ultima forse è stata quella arcinota di Marcel Proust. Un’altra, un po’ più vicina a noi, è quella, senza lieto fine, di Cesare Pavese, mentre quasi ieri si è conclusa, ancora peggio, quella – mezza romanzo e mezza film – di Pier Paolo Pasolini. Tutti questi scrittori che ho nominato, un risultato, nelle loro sfortunate esistenze, l’hanno tuttavia ottenuto. Quello di non farsi « prendere per il culo » dal cinema. Anche Pasolini, sì, che, non sapendo che fare di meglio, si sforzava di « prender[si] per il culo » da solo. Forse ormai si vivono solo vite che sono un film. E a qualcuno gli va anche bene. Quello che crede di essere Citizen Kane, quella che giura di essere Rossella O’ Hara, quello che è convinto di essere l’imperatore di Capri, quella che balla, sempre, da sola. Io per me, quando ho pensato di stare vivendo una vita-film, mi sono accorto che al massimo era La stangata, e in una parte che non mi piaceva per niente. « Prendere per il culo » può essere un vizio. E anche essere presi. Bisognerebbe smettere, lo so, ma chi comincia per primo? E poi l’ozio è un padre instancabile, che ripete sempre la stessa cosa: « Sempre meglio che lavorare… sempre meglio che lavorare… ». In ogni caso, per essere « presi per il culo », bisogna avere un culo. Che è quella cosa che ancora non si sa bene che cosa sia. Ma non è detta l’ultima parola. “.
“ Lunedì 22 luglio 1996 – Gli scrittori, tendenzialmente, muoiono. Ha cominciato Pavese, quasi cinquant’anni fa. Poi, fra i Sessanta e i Settanta, morirono Vittorini, Delfini, Buzzati, Bianciardi, Flaiano… Morì anche Ripellino, perché me l’hanno detto. Morì anche Gadda, ma era piuttosto vecchio. Morì l’anno della zia Olga, che era più vecchia ancora, o forse era l’anno dopo. Poi morì, in quel modo in cui morì, Pasolini. Poi morì la Morante, dopo una lunga agonia. Più meno in quel tempo morì anche Mastronardi, che però appartiene agli anni Sessanta. Poi morì anche Moravia che sembrava non dovesse morire mai. Prima di morire fece a tempo a dichiarare al settimanale Penthouse: « Se rinascessi vorrei fare un lavoro manuale, magari il pittore. Si rinuncia a troppe cose facendo lo scrittore ». Poi morì Calvino, e la cosa fece scalpore. Un po’ prima o un po’ dopo era morto Cassola, ma non se n’era accorto nessuno. Morirono anche Sciascia e Manganelli, e Arpino, e Caproni, e Contini, Filippini, e Masini. In quell’anno, che è l’anno in cui morì il babbo, scoprii anche che una decina d’anni prima era morto Gatto, credo in un incidente d’auto. Poi sono morti un po’ di scrittori « giovani » – Porta, Costa, Vicinelli – e qualcuno lo conoscevo anche, come Spatola, che però aveva fatto a tempo ad andare al Maurizio Costanzo Show a fare Aviation Aviateur. Poi la Rosselli si è buttata dalla finestra (Primo Levi si era buttato dalle scale). Poi è morto Bellezza. Poi è morto – si può dire ieri – Bufalino. Una volta scrissi anche un epigramma sui morti, questo: « Morto Moravia / morto Pasolini / è rimasto / a portata / di mano / Siciliano ». Quando è morto Fortini – già, dimenticavo: è morto anche Fortini – ho scritto quest’altro epigramma: « Fortini non c’è più / resti tu / e i telefonini ». Mi sono limitato agli italiani e qualcuno sicuramente mi sfugge, ma credo di avere dimostrato che gli scrittori, tendenzialmente, muoiono. (Io l’ho sempre saputo. Per questo non volevo scrivere) “.
“ Martedì 3 settembre 1996 – Dice: « Vuoi venire a vedere La calda estate di Cesare Pavese? » – che è uno spettacolo di quell’attore che di solito canta le canzoni napoletane. No, senti, stasera non ho voglia di ridere. “.
“ Mercoledì 16 ottobre 1996 – « Vogliamo i vostri diari », dice Musica, il supplemento rock di Repubblica. (C’è anche un intervento di Mina che dice che Pavese ha fatto bene a suicidarsi, ma forse voleva dire qualcos’altro, ma non l’ha saputo dire, magari se scriveva un diario ci sarebbe riuscita, e uno di Saverio Tutino che, oltre a fare la collezione di diari, scrive un diario anche lui, dice) “.
“ Giovedì 17 ottobre 1996 – Ma veniamo alle cose serie: il giorno dopo che Mina ha tirato in ballo il diario di Pavese, oggi Repubblica pubblica quello – ma non è un diario – di tale Tina Pizzardo, « la donna fatale che distrusse Cesare Pavese ». Titolo: « “ Poveretto / guaiva / come un cane “ ». Facce ride. “.
“ Giovedì 17 ottobre 1996 – « Non si è tenuto abbastanza presente che questo diario non coincide affatto con la vita privata (o artistica) di Pavese, registrata giorno per giorno in tutte le sue direzioni: quando gli presiede invece una così assoluta scelta moralistica, e ogni osservazione è racchiusa in una struttura che in certo modo è fissata a priori e segue comunque alcune rigorose leggi interne. La differenza che passa tra la trascrizione di una vita e la costruzione simbolica di un destino Pavese la conosceva benissimo, e lo dimostrò annotandosi amorevolmente l’Antologia di Spoon River. D’altra parte, l’esercizio dell’autoanalisi, questo ambiguo terreno d’incontro dove dalle Confessions al Journal, la razionalità tocca il suo contrario, la lucidità l’equivoco, la crudeltà la cautela, viene tenacemente perseguito nella direzione dei due estremi, la metafisica e la storia, l’assoluto e il giudizio, che di norma la generazione della N. R. F. o di Solaria non raggiungeva. Anche se assorbita dalla disgregazione, la sua vita interiore si chiude così in grandi filoni interiori, in fari metafisici, che escono dal fluire del tempo psicologico a foggiare un “ destino “ : e d’altra parte tende a collocarsi quotidianamente entro un tempo storico, nelle coordinate dell’età che gli era toccata di vivere, e a risolversi in un dispiegato giudizio. Così la psicologia, aggredita ai due estremi, si distrugge come terreno autonomo di ricerca, e la persona può testimoniarsi durevolmente al momento stesso che esce, si libera da sé medesima. » (Pietro Citati, Fine dello stoicismo, in «Paragone letteratura», 68, agosto 1955) “.
“ Venerdì 29 novembre 1996 – Stamani penso anche che il fatto che il diario di Cesare Pavese si intitoli Il mestiere di vivere è, come penso, una cosa « scorretta » – poiché ciò di cui si tratta più che il mestiere di vivere è quello di scrivere -, ma fino a un certo punto. Perché gli scrittori, a differenza dei critici, che preferiscono occuparsi degli scrittori, non hanno paura di occuparsi della vita. Di starle così vicino da rischiare di essere scambiati per persone normali, da sfidarla « sul suo stesso terreno », facendole il verso, camuffandosi da vita, spacciandosi per realtà, rischiando di brutto, perché la vita magari s’incazza e per gli scrittori finisce male. Un critico invece è uno che non rischia niente, tantomeno di ammalarsi, lui è per la prevenzione, per il sesso sicuro, per il preservativo o condom che dire si voglia. Come questi che ora fanno il convegno su Croce e la letteratura dialettale. Come se la letteratura non fosse sempre un dialetto, anche se non è quello milanese di Carlo Porta o quello romanesco di Giuseppe Gioachino Belli. Che mi ricordo piaceva tanto al mio amico, ma ora penso che fosse un modo per fare finta di capire la letteratura, lui che la letteratura non la capiva. Perché amando un dialetto si capisce che quello che conta è amare una lingua che non si parla più, oppure che si parla fra amici, in famiglia, fra gente a cui si vuole bene, una lingua un po’ misteriosa, un po’ maliziosa, che non è quella né dei giornali né degli atti ufficiali. Una lingua precisa che non pretende di valere per tutti anche perché « tutti » non esiste. Una lingua dal sapore forte, che può anche non piacere. Una lingua che si è sempre parlata, che è piena di ricordi. Una lingua che si è imparata subito, ascoltandola sulle labbra di chi si amava. Una lingua piena di « paroline dolci », sussurrate all’orecchio. O di buffi modi di dire, ripetuti migliaia di volte. O di amichevoli, tenere « parolacce ». (Quando sto con una donna, dopo un po’ parlo come lei. Cioè non proprio, ma certe parole buffe, se le dice, le imparo subito e poi mi piace ripeterle. Così come non scordo mai la sua voce, e più strana è e più mi piace) “.
“ Domenica 12 gennaio 1997 – Anche stamani sono andato a fare fotografie. Ma, nonostante la giornata fosse bella, le luci favorevoli, la città fotogenica, non ho fatto belle foto. Forse tutto è dipeso dal fatto che, piuttosto che scattare foto, io pensavo alle foto. Delle foto io so quasi tutto, ormai, e per questo posso azzardarmi a dire che esiste un perdonismo delle foto, nel senso che le foto vogliono sempre ottenere un perdono, far perdonare, anzi farsi perdonare, ed è proprio questo nascosto movente, questo « interesse privato » che induce a parlare, piuttosto che di perdono, di « perdonismo ». Che cosa vogliono farsi perdonare le foto, pensavo mentre davanti a me scorrevano i palazzi della zona occidentale di Roma, alcune volte francamente brutti, ma non sempre, non le periferie orride e terrificanti di Pasolini ma agglomerati piccolo borghesi, né belli, né brutti, tutto sommato decenti, e anche piuttosto allegri, nella rilassatezza del giorno festivo? Oppure l’EUR, che è restato lì, dopo Mussolini, bianco, geometrico, fotograficamente divertente, come tutta l’edilizia del razionalismo di epoca fascista, molto visibile, inconsueto, largo, spazioso, luminoso, così che le stupide scritte sul marmo nemmeno viene in mente di leggerle? E, ho notato, c’è anche una « via C. Pavese », poco distante da « via dell’Umanesimo », ma, in tutta quella luce, in mezzo a quel traffico, il nome di un poeta morto quasi mezzo secolo francamente significa poco. E anche il nome di quell’altro poeta morto quasi mezzo mezzo secolo fa. Significano poco le ceneri, penso, di Gramsci, di Pavese, di Pasolini, le ceneri in genere, i morti in genere, dico dal punto di vista delle foto che non si occupano di chi non c’è. E forse è proprio questo quello che le fotografie vogliono farsi perdonare, di non avere memoria, di non avere rimpianti, di rappresentare sempre solo quello che c’è, nel presente, « oggi come oggi », come direbbero i giornalisti, o « sotto gli occhi di tutti », come insisterebbero a dire. La fotografia è sempre un « partito preso delle cose », nel caso della fotografia, delle cose visibili, in quanto visibili, voluminose, spesse, illuminate o nell’ombra, vicine o lontane. È l’epopea dell’occhio, le sue peripezie, la sua continua avventura. E una fotografia tanto più è « buona » quanto più riesce a dimostrare che quello che c’è è « bello »; cioè che, anche se è disgustoso, orribile, pauroso, è « bello » nel senso che c’è qualcosa che lo fa esistere, lo tiene insieme, lo anima, gli dà forma. E questo qualcosa che è nelle cose, nelle facce, nei corpi, lo è anche nella fotografia, cioè nell’occhio del fotografo che è uno che perdona, ma soprattutto vuole farsi perdonare. La gioia di vedere, la gioia di approvare. La gioia di esserci. In un certo, fotogenico, assurdo, normalissimo modo. Beate loro. “.
“ Mercoledì 12 novembre 1997 – Su Repubblica di oggi Paolo Mauri riprende Sebastiano Vassalli che, motivando il suo abbandono della casa editrice Einaudi, ha scritto che Cesare Pavese si è sparato. No, si è impasticcato, precisa il giornalista. Comunque si è ammazzato, concludo io. “.
“ Giovedì 13 agosto 1998 – « Si tratta della cosidetta “ legge Blanchot “. » (Marìa de Las Nieves Muñiz Muñiz, La vita come mestiere: il Diario di Pavese, in « Journal intime » e letteratura moderna, 1989) “.
“ Giovedì 24 settembre 1998 – « Supposta così l’esistenza (al modo dei critici figurativi e stilistici) di una scuola “ morale “, resta inteso che per essa l’esercizio autobiografico e psicologico, fin nelle sue possibilità più oscure e irrazionali, è una tentazione continua: visto che la stessa letteratura non è che una sempre aperta confessione e ricerca, o una sua velata traduzione fantastica. ma è anche un pericolo – e a cedervi si rischia di crollare biologicamente, di ridursi al proprio scomposto precipitato sentimentale. Sicché all’atto poetico non converrà mai avvicinarsi indifesi, ma anzi protetti da cautele, da “ coperture “ vitali di cui il lavoro e la durezza sono appena le più semplici, che volta a volta dovranno assicurare il modo dell’incontro e trasportare una materia così difficile e amata su una rigida costruzione razionale, in modo da evitare ogni compiacenza o sconfitta. A questo punto si comprende benissimo come mai Il Mestiere di vivere abbia detto la parola definitiva per una tradizione che vuole concedersi l’esercizio psicologico senza indulgere alla psicologia. Non si è tenuto abbastanza presente che questo diario non coincide affatto con la vita privata (o artistica) di Pavese, registrata giorno per giorno in tutte le sue direzioni: quando gli presiede invece una così assoluta scelta moralistica, e ogni osservazione è racchiusa in una struttura che in certo modo è fissata a priori e segue comunque alcune rigorose leggi interne. La differenza che passa tra la trascrizione di una vita e la costruzione simbolica di un destino Pavese la conosceva benissimo, e lo dimostrò annotandosi amorevolmente l’Antologia di Spoon River. D’altra parte, l’esercizio dell’autoanalisi, questo ambiguo terreno d’incontro dove dalle Confessions al Journal, la razionalità tocca il suo contrario, la lucidità l’equivoco, la crudeltà la cautela, viene tenacemente perseguito nella direzione dei due estremi, la metafisica e la storia, l’assoluto e il giudizio, che di norma la generazione della N. R. F. o di Solaria non raggiungeva. Anche se assorbita dalla disgregazione, la sua vita interiore si chiude così in grandi filoni interiori, in fari metafisici, che escono dal fluire del tempo psicologico a foggiare un “ destino “: e d’altra parte tende a collocarsi quotidianamente entro un tempo storico, nelle coordinate dell’età che gli era toccata di vivere, e a risolversi in un dispiegato giudizio. Così la psicologia, aggredita ai due estremi, si distrugge come terreno autonomo di ricerca, e la persona può testimoniarsi durevolmente al momento stesso che esce, si libera da sé medesima. » (Pietro Citati, Fine dello stoicismo (In risposta a Italo Calvino), in «Paragone letteratura», 68, agosto 1955) “.
“ Giovedì 24 settembre 1998 – Vorrei solo sapere perché Citati non ha messo fra virgolette il primo « destino », che, così, suona « un destino Pavese ». Come dire « un destino Rossi » o « un destino Bianchi », ma in ogni caso non « un destino Citati »? “.
“ Lunedì 19 ottobre 1998 – Poi, quando in «Autografo» (36, gennaio-giugno 1998) leggo: « Cara Pierina, ogni tuo ballo è un giorno di meno nella mia vita. Me ne restano pochi. P. » (Cesare Pavese, Lettera a Romilda Bollati di Saint Pierre, agosto 1950), mi sembra giusto anche questo. « Ma che cosa? » Che i balli siano il contrario dei giorni « Ma in che senso? » Veramente i sensi sono due « E quali, dimmi, ti prego, e alla svelta, ti prego, quali? » Lo spazio e il tempo « Nel senso di Raum e Zeit? » Ecco, bravino. “.
“ Domenica 25 ottobre 1998 – « Sono un popolo nemico le donne, come il popolo tedesco. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, in Folco Portinari, Lo « Zibaldone » di Cesare Pavese, in «Aut aut», 12, 1952) “.
“ Domenica 25 ottobre 1998 – «Ilmestiere di vivere, dunque, trae la sua occasione da momenti d’estrema tensione (“ imbarazzo o dolore “) e vi s’impernia quasi contrapponendosi così all’altro aspetto, sereno e tutto dedicato al suo lavoro di sceverare nel passato e penetrare nel presente stabilendo un rapporto vitale tra i due termini, la ricerca, voglio dire, e l’affermazione d’una poetica, il mestiere di scrivere. » (Folco Portinari, Lo « Zibaldone » di Cesare Pavese, cit.) “.
“ Mercoledì 28 ottobre 1998 – Mi sembra di intravedere un nesso Eco-Pavese quando trovo, in Opera aperta (1962), citato il Ritratto dell’artista da giovane di Joyce nella traduzione di Pavese – Eco cita l’edizione Frassinelli del ‘51, ma la prima, sempre Frassinelli, è del ‘33. Chissà. Ah, se avessi studiato da giovane, come diceva quello. (Franco Fortini, L’ospite ingrato, cit.) “.
“ Mercoledì 28 ottobre 1998 – « 19 febbraio 1938 – Quei filosofi che credono all’assoluto logico della verità, non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con una donna. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, cit.) “.
“ Martedì 10 novembre 1998 – « Stupido come un antif. Chi è che lo diceva? [1943] » (Cesare Pavese, Taccuino segreto, in «La Stampa», 8 agosto 1990) “.
“ Mercoledì 2 giugno 1999 – « Andare al confino è niente; tornare di là è atroce. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, in Oreste Del Buono, Pavese postumo, in «Inventario», 5, n. 1-4, 1953) “.
“ Domenica 6 giugno 1999 – Appena sveglio – sì, ho dormito meglio anche stanotte – ripenso a quel Citati sul diario di Pavese che ho letto ieri (in «Belfagor», 1953). Citati dice le stesse cose che due anni più tardi avrebbe scritto a proposito di Calvino (Fine dello stoicismo, in «Paragone Letteratura», 1955). Dice anche che Il mestiere di vivere non è un diario come gli altri, e questo è vero. È così tanto vero che si dovrebbe dire meglio che genere di diario sia; anzi si potrebbe cogliere l’occasione per dire che cosa è o può essere veramente un diario. “.
“ Lunedì 7 giugno 1999 – « Dragonea, 11 agosto 1973 – Ho cercato di spiegare alla poetessa piemontese C., che fu amica e continua a essere un’entusiastica ammiratrice di Cesare Pavese, perché non mi piace il suo diarioIl mestiere di vivere. In generale non mi piacciono i diari troppo intimi. Quasi sempre impongono all’autore le proprie regole di gioco sulle quali, gradualmente, passo dopo passo, prende il sopravvento il suo futuro lettore. Questo mi dona? E quest’altro? Meglio lamentarsi ad alta voce, o soffocare il gemito? Ma si noterà? Impegnarsi di più? Una volta detto “ a “, bisogna dire anche “ b “? E in una circostanza così che figura ci faccio? Nell’uomo esiste, e dovrebbe esistere, una zona dove nessuno, a parte Dio, ha la possibilità o il diritto di entrare. Paradossalmente un diario è buono, o perlomeno vale la pena di leggerlo, quando l’autore tira fuori le antenne dalla sua conchiglia solo di tanto in tanto. E subito le ritrae. Se esce tutto quanto dalla conchiglia, allora rimane completamente indifeso, viene raccontato tutto dagli altri. La massima sincerità nella letteratura è immaginabile finché ci si serve della terza persona, o di una prima persona convenzionale. Nel diario questo equivale ad ammettere dei suggeritori, oppure una sincerità da attore. Dal che deriva che attribuisco al diario uno status speciale, alla periferia della letteratura. Con un’eccezione: quando il diario accetta consapevolmente e in anticipo le regole del gioco, facendone un proprio tema. Allora si trasforma in un particolare duello fra lo scrittore e gli altri: contro la deformazione dall’esterno, in favore della propria “ nudità “ o “ autenticità “, che comunque non viene mai mostrata fino in fondo, perché, in primo luogo, è nota solo in modo vago, e, in secondo luogo, teme ogni definizione. Non era questo il caso di Pavese. Il suo diario è letterario nel senso più pericoloso della parola: nel senso che l’autore si lega al “ personaggio “ che è dentro di lui, esposto agli sguardi del pubblico, e domina la propria vita attraverso la letteratura. Pavese fu la vittima di questo dominio e lo pagò con la vita. Il titolo del suo diario inganna, induce in errore, esprime più un’aspirazione che una realtà. Non tanto Il mestiere di vivere, quanto Il mestiere di scrivere… » (Gustaw Herling, Diario scritto di notte) “.
“ Martedì 8 giugno 1999 – « [G]ià i modi della costruzione autobiografica rappresentano una rottura con la pratica corrente della riflessione diaristica. E all’origine c’è proprio quel gobettiano inibirsi il conforto della confessione in nome di “ una chiusa e severa austerità “. Proprio il dilettantismo romantico, la compiacenza per l’autoanalisi, la sospensione nel ricordo, sono esclusi a priori da un atteggiamento diaristico dove il gobettiano calvinismo dell’azione si è scaricato tutto sui fatti della vita privata. Il risultato è duplice. Da un lato, i dati dell’analisi si raccolgono, attraverso uno sforzo di riduzione e di unità, in grandi « filoni » interiori, e si riassumono in uno scarno destino, fatalmente ma liberamente fissato. Dall’altra, un’esperienza totalmente metastorica, vissuta sotto il segno di un assoluto morale, scissa in antitesi irrimediabili di bene e di male, di colpa e di virtù, aspira a risolversi e a concludersi interamente in giudizio razionale (persino il suicidio come atto di conoscenza) e, soprattutto, in storia. Non poteva darsi frattura più netta e radicale con il diarismo che ci è consueto; eppure i temi psicologici sono in parte gli stessi, eppure la sua esperienza era altrimenti indifesa e complessa (e compromessa con l’irrazionale) del gobettiano dramma della volontà. […] Si tratta, in altri termini, della tentazione di una vita dissolta e abbandonata nei singoli “ momenti “ e “ frammenti “, come in qualcosa di assoluto e di estatico. Toglieteci la possibile apertura mistica, lo scatto religioso, e avrete la traduzione personale di quel clima di psicologia e di poetica che si usa chiamare “ di Solaria “ o di “ aura lirica “: non vissuto come mito letterario, ma esasperato e patito tragicamente come limite psicologico della propria vita. […] I termini di un gioco dialettico, che Pavese condusse con foga così disperata, sono poi quelli stessi del Diario: opporre ai rancori, alla solitudine, al “ frammentismo psicologico “, la netta coerenza di un “ mestiere di vivere “; la vita come mestiere, come tecnica e soprattutto come autocostruzione. » (Pietro Citati, recensione a: Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, 1962, in «Belfagor», 8, n. 3, 1953) “.
“ Domenica 27 giugno 1999 – « Non è morto, è sparso », diceva lo studente all’amico. Mi camminavano davanti, nei vicoletti della città vecchia, della vecchia città. Parlavano di letteratura, parlavano di Pavese. Aveva parlato come un contadino: « sparso » voleva dire « sparito », « scomparso ». Ed è cominciata una notte di avventurose ricerche, non di Pavese però, ricerche e basta. Prima avevo sognato che il dentista giovane, un po’ per sbaglio e un po’ per cattiveria, mi aveva fatto a pezzi la dentiera. Poi ho sognato la tromba d’aria a Castiglione della Pescaia, poi la comunità di ex drogati al convento dei Cappuccini – ce n’era uno che era scomparso -, poi… In generale, come sempre quando sogno, ho dormito meglio. “.
“ Martedì 13 luglio 1999 – « Ecco finalmente la guerra di Troia veduta da un americano. Il campo di battaglia è come un campo di calcio; i guerrieri la sera fanno la doccia e discorrono con l’allenatore; i tassì arrancano alla volta del locale notturno dove suona l’orchestra dei “ Myrmidon Boys ”; la radio sbraita nelle case e sulle piazze le ultime notizie di ciò che succede fuori mura; i Greci stringono il blocco, gli economisti crollano il capo e uno di loro, il dottor Calcante, passa al nemico, avendo letto nei suoi grafici che la partita è perduta. Tutto ciò, e ben altro ancora, ci è narrato in uno stile di ripresa cinematografica: a sequenze rapide, a primi piani e dissolvenze, a sbalzi netti e coloriti, che un dialogo spumeggiante d’immediatezza e d’estro accompagna come una musichetta sincopata. » (Cesare Pavese, Nota del traduttore (1940) a Christopher Morley, Il Cavallo di Troia (1937)) “.
“ Lunedì 9 agosto 1999 –Stamani, svegliandomi come al solito male – troppo presto, troppo eccitato, troppo triste, troppo sveglio -, mi sono ricordato che quella cosa che tentai di scrivere, anzi scrissi, venticinque anni fa, si intitolava – qualunque cosa fosse – L’Amore. L’amore è una parola grossa, lo so, anche da scrivere. Comunque non erano francobolli. (Amore è il palindromo – si dirà così? – di Roma, cioè, per spiegarsi, il contrario. Lo dico perché ieri sera mi ha colpito che quel sociologo che stranamente sapeva tutto di Pavese – stranamente si parlava di suicidi – all’inizio non si ricordava il nome dell’albergo di Torino in cui Pavese si suicidò, ma poi l’ha detto: Roma. Lo dico perché ieri sera l’ex redattore della Laterza raccontava che tanti fa, preparando un’antologia della letteratura italiana di Giuseppe Petronio, quando arrivò alla voce Ariosto si accorse che era stata scritta in modo tale che non si capiva niente e allora lo disse a Petronio e Petronio disse: no, no, l’ha scritta un giovane che ha un grande futuro, e il giovane era Asor Rosa, ma poi la tagliarono perché proprio non si capiva niente, però, diceva l’ex redattore, Asor Rosa – che sarebbe anche lui un palindromo – scrive male, non ha mai saputo scrivere) (Comunque non sono mai francobolli) “.
“ Mercoledì 6 ottobre 1999 – « Cesare… Cesare… Cesare Pavese? » No « Allora Cesare Zavattini? » No « Allora Cesare Cases » No « Allora Cesare Segre » No « Allora Cesare Garboli » No « Allora Cesare De Michelis » No « Allora Cesare Viviani » No « Allora Cesare Maldini » No, Dino Zoff « Povero Cesare » Volevi dire Dino « No, volevo dire Cleopatra » E Cesara? « Anche peggio » Volevi dire meglio… « Anche » Tanto peggio tanto meglio? « Tanto basta » E avanza? « Sì, continua a avanzare ». “.
“ Sabato 16 ottobre 1999 – Poi leggo che c’è uno che ha scritto un libro dal titolo: L’Immense solitude, avec Friedrich Nietzsche et Cesare Pavese, orphelins sous le ciel de Turin. (Leggo anche che Nietzsche diceva – quando era matto: « Sono morto perché sono scemo » e che Pavese scriveva – quando era vivo: « Le donne sono un popolo nemico, come il popolo tedesco ». « Sarà la solitudine… » O il cielo di Torino… « Mah… » Oppure i giornali « Boh… ») “.
“ Venerdì 26 novembre 1999 – In fondo, penso, se non ho viaggiato, è anche perché mi piace leggere. Leggere tutto, anche i giornali. Per esempio stamani c’è un divertente articolo di Paolo Mauri sulla polemica che dice è scoppiata a Torino intorno al fatto che un attore vuole leggere quello che scrisse la Ginzburg sul suicidio di Pavese e vuole farlo proprio nella stanza d’albergo in cui Pavese si suicidò. L’articolo è divertente perché Mauri coglie l’occasione per fare una specie di elenco di suicidi di scrittori in albergo. A parte quello di Pavese – in un giorno che non ricordo dell’agosto 1950, all’Hotel Roma, stanza 49 – oggi 346, puntualizza Mauri -, c’è quello di Raymond Roussel, il 14 luglio 1933, a Palermo, Grand Hotel des Palmes, stanza 224, e quello di Ernst Toller, il 22 maggio 1939, a New York, Hotel Mayflower, stanza 572. E poi chissà quanti altri. Si potrebbe farci un libro. Anzi una guida turistica. Mi sembra strano che non l’abbiano già fatto. “.
“ Venerdì 21 gennaio 2000 – « “ Alla fine mi disse: hai letto troppo Pavese e troppo poco Giamburrasca. Non mi fece ridere, non lo vidi più per qualche anno. Aveva ragione, comunque: ho letto troppo poco Giamburrasca “ » (Claudio Martelli intervistato da Repubblica) “.
“ Lunedì 20 marzo 2000 – Poi mi ricordo che, qualche ora fa, poco prima di uscire dalla biblioteca, frugando, come sempre faccio, fra le riviste già lette dai lettori, ho trovato due o tre cose che, per una strana coincidenza, come, per una strana coincidenza, ogni volta succede, vengono perfettamente « a bomba », « a fagiolo » o magari « a puntino », se si preferisce dire così. Qualcosa sui Dialoghi con Leucò di Pavese, dove mi è parso si parli del carattere inevitabilmente monologante della scrittura, qualcosa sui Novissimi, in cui mi è parso di avere letto un “ Nuovissimi “ che non so se è o no un refuso, ma che comunque mi sembra assai promettente, qualcosa – di Enrico Falqui? – sul Taccuinetto faentino di Campana, che è un’altra cosuccia che non mi è sconosciuta. Comunque, visto che si parla di Campana, mi sono ricordato anche che, più o meno negli anni di Torino io sono diventato pazzo. Ovvero mi sono accorto di esserlo. La mia pazzia consisteva e consiste in una immensa fatica a stare con gli altri, qualsiasi altro, sempre più altri, così che, in questi trent’anni, non ho fatto altro che allontanarmi sempre di più, fuggendo e fuggendo, anche solo in maniera mentale, anzi solo in maniera mentale da quando, da qualche anno, ho deciso che non potevo più farlo fisicamente. Cosicché se in quella camera d’albergo torinese – dove per la verità io non avevo nessuna intenzione di morire ma solo di dormire moltissimo – mi accorsi di essere, già allora, immensamente lontano da tutto e da tutti, ora so di esserlo anche di più. Anche se non si vede. Anche se non c’è nessuno così vicino da poterlo vedere. Ma non è detto che, uno di questi giorni, qualcuno – o io stesso – non se/me ne accorga. “.
“ Martedì 21 marzo 2000 – « Le “ monologue “ est un dialogue intériorisé formulé en “ langage intérieur “, entre un moi locuteur et un moi écouter. Parfois le moi locuteur est seul à parler; le moi écouter reste néanmoins présent; sa présence est nécessaire et suffisante pour rendre signifiante l’énonciation du moi locuteur. » (Emile Benveniste, Problèmes de linguistique générale II, 1974, in Filippo Secchieri, Il monologismo essenziale del dialogo letterario. Sui « Dialoghi con Leucò » di Cesare Pavese, in «Lingua e stile», 26, n. 3, 1991) “.
“ Giovedì 30 marzo 2000 – Ripenso alla gladiomania. Ripenso a quel Pavese che ho trascritto ieri. Penso che, dopotutto, il gladio è un « ferro corto ». Penso che forse aveva ragione Dario Bellezza – cfr. il diario di ieri. Penso che i morti hanno sempre ragione. Dopotutto. “.
“ Mercoledì 3 maggio 2000 – « Il monaco Cerati ti squaderna davanti il suo Breviario, che poi è il catalogo, ed intima: “ Non puoi comprendere Pavese senza la sua collana Viola “. » (Dai giornali) “.
“ Venerdì 14 luglio 2000 – « Fateci caso: c’è sempre un orfano, nelle storie più belle di Pavese: è colui che guarda tutto ciò con lo sguardo di uno che non ha radici, eppure ha dovuto farsele, utilizzando quelle altrui. Una sorta di cieco, che, al ritorno, riacquista la vista solo quel tanto che basta per vedere tutto quel che c’è da vedere prima che il buio cali su tutto: un moderno Tiresia, veggente involontario di questa modesta, paesana, tellurica caduta degli dei. » (Alberto Asor Rosa, Cesare Pavese: che cosa rimane oltre il mito, in «La Repubblica», oggi) “.
“ Sabato 15 luglio 2000 – « Amore e morte? Ebbene sì: amore e morte ritornati a duello per l’ennesima volta sotto la ruvida scorza di un intellettuale raffinato rimasto paesano. Cesare Pavese, scrittore di un destino a cui non si sfugge. Anche questo, letterariamente parlando, è di rigore: non chiudersi gli occhi neanche quando fa male, molto male. » (Alberto Asor Rosa, Cesare Pavese: che cosa rimane oltre il mito, cit.) “.
“ Lunedì 14 agosto 2000 – Ho letto che in questi giorni era l’anniversario del suicidio di Pavese. Bella estate un cazzo. “.
“ Lunedì 28 agosto 2000 – Ieri, ricorrendo il cinquantesimo anniversario del suicidio di Cesare Pavese, ascoltando alla radio i commenti da Santo Stefano Belbo, dove è in corso un convegno etc., parlando di Pavese, ho creduto di doverlo ricordare citando un suo testo, credo nel Mestiere di vivere, dove, a quanto mi ricordavo, si dice: « Sono un nemico, le donne, come i tedeschi ». Forse mi sbagliavo, forse non dice così, forse le donne non sono un nemico, ma di una cosa sono sicuro: la guerra c’è, la guerra continua. Anche se quelli come Pavese l’hanno già persa cinquanta anni fa. “.
“ Lunedì 28 agosto 2000 – « Non più parole, un gesto », dice lui. Ecco, penso, ciò che si dice avere buona memoria. Ecco il Pavese giusto, quello che non riuscivo a ricordare, quello che ricordavano tutti. Tutto il Pavese rimasto: dopo-la-fine. Comunque sono d’accordo anche io: non più parole, un gesto, penso scattando un’altra foto. Non più parole, un clic. “.
“ Martedì 29 agosto 2000 – Poi mi ricordo che ieri ho sentito Roberto Cerati – che è quello che Pavese lo vende – che diceva che Pavese é il genius loci di Santo Stefano Belbo. L’affermazione mi è sembrata geniale. “.
“ Giovedì 30 novembre 2000 – Stamani sono stato a Roma. Anzi, per essere esatti sono stato a piazza dell’Orologio, alla Casa delle Letterature. Anzi, per dirla tutta, sono stato a un convegno: « Classicità di Pavese ». Però sono arrivato tardi – sono venuto con i « mezzi » -, ma, quando sono arrivato, non avevano ancora iniziato perché aspettavano l’assessore, che era più in ritardo di me. Fra quelli che aspettavano c’era uno che parlava con un ragazzo, gli diceva: sei un disertore… sei un disertore… , naturalmente diceva per scherzo, per fare lo spiritoso, comunque ho capito che il giovanotto era effettivamente un disertore di coscienza – « Volevi dire obiettore… » No, volevo dire che probabilmente è la stessa cosa – e che quello che faceva lo spiritoso probabilmente è un po’ stronzo. Infatti poi ho visto che è un giornalista, e so anche chi è: Gnoli Antonio, che scrive su Repubblica, che però oggi è in sciopero. Comunque poi hanno cominciato, ma non c’era assolutamente posto, e io ho detto: più che una Casa delle Letterature è una casetta. E subito un altro che era lì ha ripetuto: una casetta… una casetta… Poi ho sentito che parlava l’assessore – Borgna Gianni, quello delle canzoni -, e parlava del mito di Pavese. Poi siamo usciti perché tanto non c’era posto e non si sentiva quasi niente. E siamo andati alla libreria francese che è lì a due passi. Ci siamo stati poco, perché a me i libri nuovi mi danno l’ansia, ma ho avuto il tempo di fare alcune scoperte. Per esempio che il vecchio Lejeune Philippe ne ha fatta un’altra delle sue: ha scritto un libro che si chiama « Cher Écran » – sottotitolo, se ricordo bene: « Journal, internet, ordinateur », che tratta dei rapporti fra il diario e il computer, ho anche visto, en passant, che parla di « diskette intime », però costava troppo – £. 47.850 – e ho lasciato perdere. Poi ho visto che è uscito il secondo volume del diario di Thomas Mann, e ho pensato che io non ho letto neanche il primo, comunque costava anche di più – 80mila e passa – e non ho comprato nemmeno quello. Poi siamo tornati e parlava Mutterle Anco Marzio, sul tema Le bacche di Leucò, peccato non si sentisse niente, però affacciandomi sopra le teste ho potuto vedere che ha i capelli completamente neri, non vorrei dire, ma per me se li tinge. Poi mi hanno presentato a un altro dei relatori, cioè Guglielminetti Marziano, e ho pensato che mi piacerebbe conoscerlo perché sono sicuro che sa dove si mangia bene. Poi è arrivato uno che conosco meglio, e cioè Zeichen Valentino – « Vestito di nuovo? » No, di vecchio – e io ho detto: Valentino! e ho pensato che sono contento di conoscerlo, perché è uno simpatico. Comunque è fuggito via, nel suo cappottino stretto. E ce ne siamo andati un’altra volta. Peccato perché poi c’era il film, Un uomo da nulla, di Aldo Fegatelli Colonna, del ‘28, con la sceneggiatura di Pavese. « È – dice il catalogo – la storia di un inseguimento. Il protagonista bighellona per la città, perso negli sguardi di sartine e cocottes, fino a inseguire un’attricetta uscita da teatro, roso dalla gelosia per il codazzo di giovanotti e viveurs che l’accompagnano facendole una corte serrata. Il portone che la donna richiude alle spalle costituisce il muro, oggi diremmo virtuale, che separa il protagonista dal femminino. […] Il film può essere letto anche in chiave autobiografica. ». Comunque non l’abbiamo visto, peccato. Peccato anche per le altre relazioni: per esempio c’era Dolfi Anna che parlava del Mestiere di vivere. C’erano anche le letture, per esempio di brani del Mestiere di vivere in cui si parla di Roma. Mah, sarà per un’altra volta. Comunque poi mi sono incamminato verso casa e, in via della Scrofa, ho visto una strana scena. C’era una grossa auto metallizzata che ha urtato un tizio e gli ha fatto cadere il cappello. Però non è successo niente, ma quello del cappello gli ha detto: stia attento, qui siamo al centro storico. E ripeteva: qui siamo al centro storico, deve stare attento. E lo diceva in un modo che a me è sembrato peggio che se gli avesse dato un cazzotto. Comunque poi, facendo la solita strada, sono arrivato dove arrivo sempre e cioè dove vendono i libri vecchi, e ho visto subito che c’era un Cose viste (Seconda serie) di Victor Hugo, dell’Editrice Domus, 1944 – la stessa del Diario di Renard, tanto per capirsi. Costava 20mila lire e io, che cerco sempre di risparmiare, ho detto alla ragazza: ma sono proprio venti… ? ma lei ha detto: sì, e allora ho preso il portafoglio, ma, mentre tiravo fuori i soldi, lei ha detto: facciamo quindici. E io ho pensato che il centro storico non è sempre così centrostorico come lo si dipinge. Comunque sono tutte cose che non mi riguardano, cose che succedono a Roma. « Perché, tu dove abiti? » Io? sto fuori porta io, poco fuori, ma fuori… “.
“ Giovedì 30 novembre 2000 – « “ Non fate troppi pettegolezzi “. Con queste parole si chiudeva il messaggio che Cesare Pavese lasciò sul comodino del suo albergo prima di togliersi la vita. Da allora sono passati 50 anni, ma ne sono bastati molti di meno perché le sue ultime volontà fossero clamorosamente contraddette. Quel suicidio, infatti, è all’origine del “ mito Pavese “, un mito che per molti ha poco a che vedere con la qualità letteraria dello scrittore piemontese e si confonde, tanto per fare degli esempi, con quelli di un James Dean o di un Luigi Tenco. » (Gianni Borgna, Introduzione al convegno « Cesare Pavese 1908-1950 ») “.
“ Giovedì 30 novembre 2000 – « 1 gennaio 1950 – Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950) “.
“ Giovedì 28 dicembre 2000 – « Non si tratta, in realtà, neppure di un vero e completo “ diario “, ove si tengano presenti i due tipi classici del genere: quello in cui l’autore tenta di oggettivare la propria durata vitale, di dare un significato di continuità intelligibile al sano vortice che chiamiamo “ vita interiore “, e l’altro, che si esprime in un seguito di riflessioni au jour le jour sulla vita e sul mondo circostante, con cui l’autore aspira tendenzialmente a trasformarsi in un anonimo punto di osservazione. In questa serie di “ colpi di sonda “ gettati qua e là nelle sue giornate, sembra piuttosto che Pavese si adoperi ad isolare alcune giunture, a seguire alcuni filoni, trascurando deliberatamente il loro rapporto con l’intera dimensione, anche soltanto supposta, d’una esistenza. L’idea del “ diario “ ha avuto inizio da una riflessione auto-critica sulle sue esperienze, passate e attuali, di scrittore di poesie liriche, con le note scritte al confino a Brancaleone Calabro (1935-1936) su tale argomento. E, se anche subito dopo l’orizzonte si allarga, e alle meditazioni sul “ mestiere di poeta “ si alternano riflessioni morali, massime e note di paesaggio, il loro carattere scarnito, chiuso, isolato, permane. Più che al modello dello Zibaldone leopardiano e alla “ storia di un’anima “ in esso implicita, cui qualcuno a pensato, ci si può riferire ai quaderni intimi di Baudelaire, alle loro punte acide e frammentarie. In Leopardi vi è un interesse tutto spiegato alle cose della vita, una curiosità erudita per la storia e il costume, un impegno aperto che mancano in Pavese, tutto concentrato, come s’è detto, su quei nodi particolari, su pure in gran parte riguardanti la letteratura e le proprie esperienze di scrittore. » (Sergio Solmi, Pavese postumo, in «Lo spettatore italiano», 6, n. 3, 1953) “.
“ Venerdì 19 gennaio 2001 – Purtroppo quel Trent’anni con Cesare Pavese. Diario contro diario di Geno Pampaloni (Rusconi, 1981) di cui scriveva Ajello in biblioteca non c’è. E a me è rimasta la voglia. « Nel senso di fame? » No, forse era solo un po’ di appetito. “.
“ Venerdì 26 gennaio 2001 – Mentre – di fronte alla macchinetta, fra gli altri colleghi (mi fa sempre fatica chiamarli così, ma non c’è altro modo di chiamarli) – aspetto di uscire, ripenso a una cosa che ho letto nei giorni scorsi – non so quando, non so dove, non so di chi -, era un saggetto su Rimbaud. Diceva, a proposito della “ svolta “ di Rimbaud, che chi l’ha detta meglio è Pavese. Che scrisse: « Smise di scrivere e andò in Africa ». Però non sono sicuro di ricordarmi bene. Forse diceva: « Andò in Africa, smise di scrivere ». Oppure: « Smise di scrivere, andò in Africa ». Oppure: « Andò in Africa e smise di scrivere ». Comunque, almeno due cose sono sicure, una che quando si smette di scrivere, non si può smettere e basta, ma si deve fare qualcosa d’altro – è un po’ come fumare; l’altra, che quello che scrisse questa frase, smise anche lui di scrivere, ma non andò in Africa, però un’altra cosa la fece. Comunque io ho già smesso almeno una volta. « Però non sei andato in Africa » Però ho l’« impressione » di esserci andato. “.
“ Martedì 20 febbraio 2001 – « 16 febbraio 1936 – Utilizzare le cicche della sera prima, e convincersi che il tempo – il prima e il poi – è soltanto una fissazione. » (Cesare Pavese,Il mestiere di vivere / Diario 1935-1950) “.
“ Mercoledì 28 febbraio 2001 – Chissà, mi chiedo, dove avrà fatto le vacanze Enrico Falqui, chissà dov’era in quell’estate del ‘32, quando, esattamente il 13 luglio, Franco Antonicelli gli fece dono di questo Moby Dick che ho fra le mani – copertina color carta da zucchero, con silhouette della balena, bianca, ovviamente, e dedica autografa, n. 2 della collana Biblioteca Europea, diretta dal medesimo Antonicelli, edizione Frassinelli, « versione integrale di Cesare Pavese »? Falqui aveva trentun’anni, Pavese ventiquattro, la mamma ne aveva sedici, e so quasi per certo che era a Quercianella, forse a Chioma, quando nemmeno si immaginava di diventare un giorno Chioma Beach. Era una bella estate quella del ‘32? Chissà. Comunque era un’estate, e pensarlo mi fa sentire in vacanza. “.
“ Mercoledì 28 febbraio 2001 – « È la solita sorte dei grandi uomini su cui piace ai professori sparger tenera eloquenza, salvo poi a trattare anch’essi i contemporanei nell’antichissimo modo. » (Cesare Pavese, Prefazione a Hermann Melville, Moby Dick, Torino, Frassinelli, 1932) “.
“ Sabato 9 febbraio 2002 – « Febbraio [1953] – […] È la terza volta che un giovane torinese proclama con estrema sicurezza la superiorità del Diario di Cesare Pavese sul Journal di Gide: “ Le Journal de Cesare Pavese a obtenu un accueil très large et unanime auprès de la critique italienne. Dès maintenant il fait date dans la littérature européenne… Les essais autobiographiques que nous connaisons jusqu’ici – y compris le Journal de Gide – semblent dès lors palir… “(Pietro Citati, Journal de Genève, 22 dicembre) * Il Diario di Pavese, nonostante la finezza, la serietà di costumi, la drammatica vocazione alla poesia dell’autore, non proietta luce su nulla che non sia l’ingenuo arrovellio mistico-sentimentale di Pavese e non s’impone a nessuno con l’autorità dei suoi giudizi letterari. Come si fa, non dico a metterlo al di sopra, ma a confrontarlo con un’opera fondamentale per la cultura europea del Novecento qual è il Journal di Gide? » (Vitaliano Brancati, Diario romano) “.
“ Sabato 9 febbraio 2002 – Infine eccomi a casa. A casa c’è Pavese, povero Cristo, che era rimasto lì tutto solo, ad aspettare che tornassi. In fondo è uno che ha scritto un diario, non sarà Gide, ma è pur sempre un diario. Il minimo che possa fare a questo punto, mi sembra, è leggerlo. Leggo: « 13 luglio 1946 (Milano e Serralunga) – Quel che commuove nello spettacolo della distanza – per esempio una pianura collinosa vista da una collina più alta – è la coscienza che quelle plaghe di tinta neutra, quelle nubecole, quelle distese fumose e chiazze – quel colore azzurro di lontananza – sono altrettante cose, oggetti, campagne finite e nitidamente fatte. È ricca quella lontananza ch’è fatta di cose reali e perfette. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere / Diario 1935-1950) “.
“ Lunedì 11 febbraio 2002 – Poi penso a Pavese. Penso che il vecchio Cesare conosceva il mestiere. Di scrivere. Di farsi leggere. Di fare notizia. Di vendere. Anche da morti. “.
“ Mercoledì 13 febbraio 2002 – E, di diario in diario, trovo anche questo: « Lunedì 16 ottobre [1995?] – Trovo in Enrico Fulchignoni (Il cavallo a dondolo, 1970?): “ Lo stesso Chapelan mi racconta: « In uno dei miei diari, alla data del 19 agosto 1953, avevo scritto questo semplice suono: Pfutt!… Ed ecco che a pagina 168 del Mestiere di vivere, scopro che Pavese ha notato in tutto e per tutto, la – sera del 29 settembre 1940 -: pffff!… Lui, a causa di una donna. Io, a causa della vita. Eppure è lui che s’è ucciso. “. ». Questo Maurice Chapelan, scopro immediatamente dopo, è uno che ha pubblicato un’Anthologie du poème en prose nel ‘46. Il poema in prosa… , già. “.
“ Giovedì 13 marzo 2003 – Cara C., chiamando in causa Pavese hai colto più nel segno di quanto forse immagini. Non penso tanto allo scrittore, che ho anche letto, è vero, ma sempre meno di altri, e, soprattutto, non quando lo leggevano tutti – mi ricordo che i « pavesiani » militanti, fra i miei coetanei o quasi, alla fine degli anni Cinquanta, non erano pochi – io per me ricordo solo di esserlo stato per un breve periodo, verso i diciassette anni, quando lessi le poesie di Lavorare stanca, e scrissi, anche io, qualche poesia « alla Pavese » – quando ero un po’ triste, ma poi, come mi è sempre successo, voltai bruscamente pagina, con lo sport, con la politica, con gli amici, perché io sono sempre stato uno che non sopporta facilmente di essere triste – in generale io sono uno, ormai l’ho capito, che preferisce scappare. E non penso nemmeno al Mestiere di vivere, cioè al diario, anche se, per uno che scrive un diario, dovrebbe essere il minimo. No, penso al fatto – una coincidenza, ma, per essere una coincidenza, è davvero curiosa -, che trent’anni fa, quando giunsi all’apice del mio disastro – non avevo ancora trent’anni, ma avevo già « rovinato » tutto e soprattutto me stesso -, io ero a Torino. E, all’apice dell’apice, al ritorno da un’estate più disastrosa delle altre, io lasciai la casa che abitavo – l’ennesima in cui avevo tentato di vivere insieme a una donna – e me ne andai a stare, da solo, in albergo. In albergo, a Torino: più « pavesiano » di così… Ma, veramente, allora io non avevo intenzione di morire, ma, semmai, di ri-cominciare a vivere. In albergo non facevo niente: dormivo, anzi nemmeno: stavo disteso sul letto, lasciavo che la mente andasse dove voleva, e poi, soprattutto, scrivevo: quello che mi era venuto in mente, i sogni che facevo, ma anche soltanto frasi, parole, quel chiacchiericcio, quel parlottare, più o meno animato, che fa sì che nemmeno dentro di noi ci sia mai un assoluto silenzio. Sarà capitato anche a te, dico di voler stare sola. Già, perché era soprattutto quello, quello che facevo. Stare da soli è un modo di stare « lontani » – proprio come mi pare che dici tu. Io allora ero lontano da casa, ma anche dalle persone che avevo frequentato, dalle abitudini, dai discorsi, dalle cose che si ripetono prima che si abbia il tempo di accorgersi che, per noi, non significano veramente niente. Stando da solo in quel modo, mi sembrava come se il mondo che ero abituato a credere di vedere intorno a me si disfacesse, come un fondale di teatro, un castello di carte. In questo stato di « azzeramento » succedeva poi qualcosa di strano e di dolce: tornavano i ricordi. Piano piano, come sbocciando dal buio, si illuminavano le piccole certezze che avevo dimenticato, le cose che mi erano piaciute, gli odori, i nomi, le facce, le voci. Era un tornare, assolutamente, al principio, e io, allora, ci sono tornato. Poi sono successe molte altre cose, che sarebbe lungo e noiosissimo rievocare. Ma, da allora, io sono stato diverso. In generale posso dire che ho cominciato a subire tutto, probabilmente anche troppo, cioè a essere uno che non ha niente di sicuro con cui opporsi alle persone e alle circostanze. Che, piuttosto che parlare, ascolta. Ed è quello che faccio anche ora, anche se ormai so che ascoltare può essere un vero tormento e che, comunque, ascoltando non si risolve niente – ogni tanto mi dico che dovrei tornare a Torino, o da qualche altra parte, in un altro albergo, in un’altra solitudine, chissà, ma quante volte si può ricominciare da capo, senza avere il fondato sospetto che sia una mania? (Anche questo, fra l’altro, potrebbe essere un tema molto « pavesiano » – penso al quel brano del Mestiere di vivere che dice: « Perché una cosa sola (fra le molte) mi pare insopportabile all’artista: non sentirsi più all’inizio. » – il ché, per uno che va per i sessanta e non è nemmeno un artista – e non è nemmeno in pensione -, fa anche piuttosto ridere) “.
“ Mercoledì 23 aprile 2003 – Poi accendo la tv e vedo il cappello di Gassman in Riso amaro (De Santis, 1949). Per nascondersi se ne mette uno di paglia, da mondino, il suo rimane in testa alla Mangano. « Ballavi meglio tu », le dice la Dowling – è quella di Pavese? o forse la sorella? Doris? Constance? Mah. Boh. (Tutte a bucopunzoni. « Come musulmani? » « No, come mondine ») (C’è anche la lotta di donne nel fango, c’è anche Raf Vallone che fa il pischipìn, e dice: « Non lo sapevi che al mondo è sempre una questione di faccia? », c’è Gassman che dice: « Lo sai il proverbio arabo… perché parli se puoi stare zitto? » – conclusivamente: è molto più riso che amaro) (L’America: del Sud o del Nord? È quella del Nord che piace a Silvana: « È tutto elettrico », dice. « Sì, anche la sedia elettrica », replica il marmittone) (C’è anche Carlo Mazzarella che dice: « Lontano dagli occhi lontano dal cuore ») (Stupenda anche la mascherina nera – da Banda Bassotti – che l’ombra disegna sugli occhi di Gassman – Silvana gliel’aveva appena detto: « Ma tu porti la maschera? ») (Dal basso in alto: la fotografia – epica – degli anni Trenta e ss.) “.
“ Giovedì 15 maggio 2003 – « Pa tuti i dì l’è festa » (Cesare Pavese secondo Natalia Ginzburg secondo Enzo Biagi, La Ginzburg, in «La Stampa» /intervista/, giovedì 24 maggio 1973) “.
“ Giovedì 14 ottobre 2004 – « Un giorno, non ricordo come, seppi che teneva un diario. La cosa mi stupì perché mi pareva che il suo ideale letterario e umano, tutto concreto e schivo, fosse agli antipodi di quella preoccupazione per la propria interiorità che occorre per tenere un diario. Corsi subito a dirglielo: “ Tieni un diario? Sei matto? “. Lui mi rispose: “ Se si fa il letterato bisogna farlo fino in fondo, accettare tutte le conseguenze “. Poi aggiunse, come per rassicurarmi: “ Ma non è mica un diario di quelli dove si scrive: « Stasera sono tanto triste ». È un diario di riflessioni, di idee; quando mi viene un’idea la scrivo lì “. Mi pare anche che aggiungesse: “ Come lo Zibaldone di Leopardi “. Invece era un diario anche a quella maniera che tra noi era inteso non ci piacesse: con gli sfoghi delle sere tristi. Ma erano battuti nello stesso ferro incandescente della costruzione poetica e vitale. Per me il Pavese vivo resta più importante e presente del Pavese come lo si è visto dopo la morte. Ma non c’è contraddizione tra i due: questo è un rigoroso e tragico approfondimento di quello. » (Italo Calvino, 1959, in Album Calvino, 1995) “.
“ Giovedì 14 ottobre 2004 – Ogni tanto mi dico che sarebbe bello riaprire il « caso Pavese ». Per esempio scrivendo un libro con questo titolo: Il caso Pavese / Romanzo. In generale io mi sono interessato troppo poco al « caso Pavese ». Per esempio ho dimenticato troppo alla svelta che, verso i diciassette anni, io lessi Pavese, lessi le poesie di Lavorare stanca, ne scrissi anche qualcuna di mia, e si sentiva, credo, che avevo appena letto Pavese. Poi però ho smesso: di leggere Pavese, di scrivere poesie. Poi ho ricominciato, ed ero già grande. Poi sono diventato vecchio, e tutto quello che mi è rimasto del « caso Pavese » è un diario. A meno che il « caso Pavese » non sia un diario. “.
“ Giovedì 14 ottobre 2004 – « Ripenese[sic] is all » (Gianfranco Corsini, Cesare Pavese, in «Paese Sera», mercoledì 30 agosto 1950) “.
“ Giovedì 14 ottobre 2004 – « Pavese aveva intravisto fin dai primi anni la necessità di una rottura degli schemi romanzeschi che avevano culminato con Proust, Kafka e Soyee[sic] » (Gianfranco Corsini, Il « Diario » di Pavese, in «Paese Sera», 1 ottobre 1952) “.
“ Giovedì 14 ottobre 2004 – « Amara ironia dei suoi titoli! Se n’è andato proprio durante una di quelle “ ferie d’agosto “, quando nella deserta città canicolare, sospesa perfino la quotidiana consuetudine del lavoro editoriale, a cui dava con accanimento tanta parte di sé, venne a galla tutto l’amaro di quella difficoltà di comunicare con le creature, ch’era il male disperato di cui soffrivano i suoi personaggi. » (Massimo Mila, Ricordo di Pavese, in «Radio Corriere», 3-9 settembre 1950) “.
“ Giovedì 14 ottobre 2004 – « Nello scrittore Pavese avevamo apprezzato finora le qualità artistiche non comuni, mentre eravamo portati a considerare i toni decadentistici della sua opera come un limite che poteva essere superato da un contatto più diretto e profondo con la realtà del nostro tempo – che non è tempo, vivaddio, di decadenza, ma di lotta contro la decadenza (la decadenza – ci ha insegnato Giaime – non è mai un fatto écrasant per l’individuo, è sempre un fatto possibile che si tratta di subire o di respingere). » (Valentino Gerratana, Un fatto privato, in «L’Unità», mercoledì 22 ottobre 1952) “.
“ Domenica 17 ottobre 2004 – « L’interesse di questo giornale sarebbe il ripullulare imprevisto di pensieri, di stati concettuali, che di per sé, meccanicamente, segna i grandi filoni della tua vita interna. Di volta in volta cerchi d’intendere che cosa pensi, e solo après coup vai a riscontrare gli addentellati con giorni antichi. È l’originalità di queste pagine lasciare che la costruzione si faccia da sé, e metterti innanzi oggettivamente il tuo spirito. C’è una fiducia metafisica in questo sperare che la successione psicologica dei tuoi pensieri si configuri a costruzione. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950,citato in Cesare Cases, Introduzione, [2000]) (« Tutto MV è interpretabile in base all’interdipendenza tra la recursività e la progressione: la recursività ripresenta fatti, reazioni e riflessioni analoghi nel corso di una vita; la progressione registra mutamenti di accento in questo ripresentarsi. » (Cesare Cases, Introduzione, cit.)) “.
“ Giovedì 21 ottobre 2004 – « Alle 20. 30, finalmente, un cameriere si decide a bussare e poi a sfondare la porta: un gatto sguscia dalla stanza con un miagolio flebile e impaurito, mentre agli occhi del cameriere si presenta una scena agghiacciante » (Walter Mauro, Il messaggio di Pavese, in «La Stampa« (?), sabato 27 agosto 1960) “.
“ Giovedì 21 ottobre 2004 – « Il viaggio di due giorni, con le manette e la valigia, è stata una impresa di alto turismo. […] A Roma, una bambina che va ai bagni, chiede al padre: “ Papà, perché nelle manette non fanno passare la corrente elettrica? “ » (Cesare Pavese, Lettera alla sorella Maria, da Brancaleone, 9 agosto 1935, in Lettere 1924-1944, 1996) “.
“ Giovedì 21 ottobre 2004 – « Umile, dunque, anche questa morte dalle molte cartine di debole veleno, e in fondo anche così lucidamente spavalda, o bizzarra, e perciò anche “ letteraria “, che per associazione mi fece ricordare l’ungherese del quale parla Julien Green nel suo Diario; l’ungherese che, sparatosi un colpo alla testa davanti allo specchio, si insapona e incomincia a radersi sperando di rubare ancora un attimo alla morte, e accoglierla con la faccia pulita. » (Giose Rimanelli, Ricordo di Pavese, in «La Stampa» (?), 2 settembre 1955) “.
“ Venerdì 22 ottobre 2004 – « Lo rividi a Roma un giorno di pioggia, sul finire del ‘49, al Caffè Greco. Io ero con Rocco Scotellaro, Pavese con C., una ragazza quasi impersonale, dalla faccia piena di lentiggini, che gli parlava rapidamente e diceva in italiano “ se io sarei “ invece di “ se io fossi “. Io conoscevo C. da molti mesi, e la vidi lavorare bene in un film senza importanza, nel quale lei impersonava la figura di una giornalista straniera. » (Giose Rimanelli, Ricordo di Pavese, cit.) “.
“ Venerdì 22 ottobre 2004 – « Certo la distanza che corre fra un uomo al limite della tensione intellettuale e una povera ragazza di campagna è enorme. Ma anche lui covò il tetro disegno e continuamente lo rinviò quasi fosse un compagno dal quale era doloroso staccarsi. E la sua pratica dell’idea della morte fu così lunga e assidua, che questo Mestiere di vivere meglio sarebbe stato chiamarlo “ Il mestiere di morire “. » (Sandro De Feo, Il mestiere di vivere, in (?), giovedì 30 ottobre 1952) “.
“ Venerdì 22 ottobre 2004 – « All’albergo trova il portiere costernato, che gli bisbiglia: “ Terzo piano. È un professore “. » (Luciano Curino, Quel pomeriggio d’agosto, in «La Stampa» (?), agosto 1970) (« Il commissario di polizia Guadagno […] » (Ibid.)) “.
“ Venerdì 22 ottobre 2004 – « [Q]uel suo modo di esprimersi a spalle voltate, femmineamente (nonostante certa retorica di silenzio, durezza e virilità) » (Carlo Muscetta, Ricordo di Pavese, in «L’Unità» (?), giovedì 28 agosto 1952) “.
“ Venerdì 22 ottobre 2004 – « “ Pavese! Pavese! Pavese! Vogliamo vedere Pavese! “ strillavano le signore del bel mondo allorché l’autore di Dialoghi con Leucò fu proclamato dalla giuria vincitore del Premio Strega 1950. Pavese si scherniva, non sapeva dove guardare, gli occhiali non erano più sufficienti a nascondere i suoi occhi malinconici, velati, come per pudore, da uno spolvero d’ironia. Finché, con l’improvvisa audacia dei timidi, saltò su un tavolo e si offrì, in una posa volutamente comica, alla folla. C’era, in quel suo grottesco esibirsi, lo sforzo delle persone serie quando si concedono alla rumorosa indifferenza del pubblico. » (Giorgio Prosperi, Buio a mezzogiorno per Cesare Pavese, in «L’Elefante», 6-12 settembre 1950) (« Mi parve intelligente e discretamente colta. In un film di Bonnard recitò difatti appropriatamente la parte di una partigiana jugoslava. » (Ibid.)) “.
“ Venerdì 22 ottobre 2004 – « Il mestiere di sopravvivere » (Titolo dell’articolo di Moravia su L’Espresso del 12 luglio 1970) “.
“ Venerdì 22 ottobre 2004 – « Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza e d’ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene » (Cesare Pavese, Ritorno all’uomo, in «L’Unità», 20 maggio 1945, in Davide Lajolo, Pavese sì-Moravia no, in «Vie Nuove», 19 luglio 1970) “.
“ Venerdì 22 ottobre 2004 – Leggendo la ritaglistica su Pavese mi imbatto in Proust, cioè nel Proust di Einaudi. Fu Pavese a curare la traduzione della Recherche, a cominciare dal ‘43. Così mi viene in mente che forse sarebbe altrettanto interessante « occuparsi », invece che di Pavese, della Casa editrice Einaudi, quella dello struzzo, tanto per capirsi. “.
“ Sabato 23 ottobre 2004 – La storia di Pavese viene per lo più raccontata come il dramma di uno che, venuto dalla campagna, non si è mai trovato bene in città. La mia, penso, potrebbe essere raccontata come quello di uno che, venuto dalla città, non si è mai adattato a vivere in campagna. Perché quello che c’è, quella in mezzo a cui vivo, è una specie di campagna, diciamo così: una « cittagna ». “.
“ Martedì 26 ottobre 2004 – « [Brancaleone], 2 marzo [1936] – Cara Maria, quando un uomo invece di scrivere poesie, scrive lettere, è finito. » (Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, 1966) “.
“ Martedì 26 ottobre 2004 – « 10 gennaio 1950 – La poesia è ripetizione. È venuto a dirmelo allegro Calvino. Lui pensava all’arte popolare, ai bambini, ecc. Per me è ripetizione in quanto celebrazione di uno schema mitico. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, in « Cesare Pavese tra mito e storia », in «Avanti! », domenica 30 agosto 1970) “.
“ Martedì 26 ottobre 2004 – « Michel Leiris, scrittore esemplare della generazione attiva fra le due guerre mondiali, in un suo celebre saggio parlò di “ letteratura come tauromachia “, cioè del fare letteratura come di un combattimento che si affronta con la coscienza che esso può risolversi con la morte del torero-scrittore. Ecco: Cesare Pavese visse così la propria esperienza letteraria. » (Walter Pedullà, Un intellettuale contro corrente, in « Cesare Pavese tra mito e storia », cit.) “.
“ Martedì 26 ottobre 2004 – « Ho letto in questi giorni per la prima volta Il mestiere di vivere di Cesare Pavese. È un libro penoso » (Alberto Moravia, Pavese decadente, in [?], mercoledì 22 dicembre 1954) (« Uno scrittore può […] colare la propria cultura e la propria ispirazione nel linguaggio letterario, colto del tempo […] oppure può trasferirsi in un personaggio-schermo, in una voce, in un “ io “ tutto popolare […] Ma quello che non può assolutamente fare è colare la propria esperienza e la propria psicologia di uomo colto (nel caso di Pavese, una cultura di origine decadentistica e irrazionalistica) nel linguaggio popolare. E questo perché il linguaggio popolare è tale non tanto perché esso adoperi modi di dire colloquiali e dialettali, quanto perché con questi modi esso esprime una concezione della vita e dei valori tradizionale, ancorata al senso comune, strettamente limitata e determinata dalle varie necessità naturali e pratiche. Il linguaggio popolare, in altri termini, esprime non tanto un mondo fuori della storia, come Pavese supponeva, quanto un mondo nel quale la storia ormai morta e allontanata dai suoi motivi etici ha fatto a tempo a diventare abitudine, costume, proverbio, saggezza e anche, perché no?, cinismo e scetticismo. » (Id., ibid.) “.
“ Martedì 26 ottobre 2004 – « Il decadentismo trasmutato in patriottismo (D’Annunzio) o in comunismo (Pavese). » (Alberto Moravia, Pavese decadente, cit.) “.
“ Martedì 26 ottobre 2004 – « È agli antipodi in questo senso dal nitore intellettuale del diario di Rousseau, né passa attraverso lo stimolo e il pretesto del fervore di Gide. Si tratta per lui di trascrivere i moti di un’esistenza che si affida a una serie di movimenti ripetuti e ripetibili: di proiettar l’intero movimento della vita in una direzione unica, scelta vigorosamente, dove un “ a priori “ della volontà insistita collima con una ben più fonda e autentica necessità di nuove fonti su cui compiere l’innesto. Il bisogno espressivo coincide in Pavese col bisogno di chiarificazione di una complessa e talvolta caotica materia e con un punto fermo di giudizio che conceda all’esistenza di fermarsi naturalmente, di costruirsi e distaccarsi […] nel racconto o nel romanzo breve. » (Marco Forti, Diario di Pavese, in «La Gazzetta di Parma», s. d. [1952?]) “.
“ Martedì 26 ottobre 2004 – « 13 novembre 1938 – […] Proust è ossessionato dal pensiero che ogni speranza realizzandosi sostituisce appunto se stessa col nuovo stato e cancella perciò quello precedente (sogni di Swann che si sposerà. Sogni di Je che sarà ricevuto in casa Swann). Oltre l’incomunicabilità delle anime, anche quella degli stati d’animo tra loro. Di qui il senso che tutto è relativo e vano – a meno di ritrovare il temps perdu. Di qui il gusto per la fantasticheria e il sadico rilevare come negli scontri con la realtà essa di-le-gui e occorra quindi cercare una legge che serva a eternare ogni sogno. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, cit.) “.
“ Giovedì 28 ottobre 2004 – « A Pavese doveva essere molto caro questo suo Diario, se, ogni volta che andava via da casa per un qualche tempo, ricordo che lo raccomandava a noi come una delle cose più care e importanti, da salvare in qualsiasi evenienza. Lo teneva sul tavolo del suo studio, questo grosso pacco dalle pagine sgualcite e un poco ingiallite dagli anni » (Maria Luisa Sini, Era mio zio, [è la tesi di laurea discussa nell’anno accademico 1951-52], in «La Nuova Provincia», mercoledì 10 giugno [1964?]) “.
“ Giovedì 28 ottobre 2004 – Interessante anche il fatto che Pavese soffriva d’asma. “.
“ Mercoledì 3 novembre 2004 – Sfoglio il “ romanzo L’Amore (1975). Trovo questa « poesia »: « Venticinque anni / qualcuno ha vissuto / l’eredità / delle chiacchiere: / pettegolezzi di grasse / comari vedove / consolabili / tutrici avide / di dolciumi trine: / il tempo inerte / delle donne. // Ma c’è un erede / maschio, mesdames: / favorirete il grano. ». Si intitola: « Nel venticinquesimo della morte di Cesare Pavese – 26 agosto 1975 ». Non ricordavo assolutamente di averla scritta. Infatti è bruttissima, però è un documento insperato sulle origini del mio « Caso Pavese ». “.
“ Venerdì 12 novembre 2004 – « Milano, 9 settembre 1946 – […] Io piango sempre su quei litri che insieme non abbiamo bevuto » (Cesare Pavese, Lettera a Delio Cantimori, in Lettere 1945-1950, 1966) “.
“ Venerdì 12 novembre 2004 – « Torino, 8 ottobre 1947 – […] Tu non sai mica il tedesco? » (Cesare Pavese, Lettera a Franco Fortini, in Lettere 1945-1950, cit.) “.
“ Venerdì 12 novembre 2004 – « Attraverso dichiarazioni di poetica e lettere d’amore seguiamo le tappe di un viaggio senza ritorno verso le matrici oscure dell’arte e dell’esistenza. » (In Cesare Pavese, Lettere 1945-1950, quarta di copertina) (Dev’essere Calvino che ha scritto i risvolti) “.
“ Venerdì 12 novembre 2004 – « Torino, 9 dicembre 1947 – […] Einaudi vorrebbe vedere Semblances of a devoted past, giacché lui crede ai libri sui pittori e sulla loro arte (cosa che io aborro) » (Cesare Pavese, Lettera a Paolo Milano, in Lettere 1945-1950, cit.) “.
“ Venerdì 12 novembre 2004 – « Torino, 20 novembre [1947] – Il mio libro è nato da un interesse per il problema del mito e delle cose etnologiche che mi ha indotto e mi induce a molte strane letture […] ho ripreso grammatiche e dizionari (dopo una giovinezza tutta impegnata in problemi di narrativa nordamericana e anglosassone) di venti anni fa e vado, quando posso, rosicchiandomi Omero, col solo rimpianto di non poter procedere scioltamente come vorrei. È una lingua terribile – divina e terribile, come la terra secondo Endimione. » (Cesare Pavese, Lettera a Mario Untersteiner, in Lettere 1945-1950, cit.) [*] [*] Molto importante per la storia del “ caso Pavese “.
“ Venerdì 12 novembre 2004 – « Torino, 2 dicembre 1947 – […] Mi dispiace di non saperti né poterti recensire: ho sempre evitato di parlare dei versi altrui, per ragioni che risalgono alla mia stessa poetica ringhiosa e per serietà professionale. » (Cesare Pavese, Lettera a Sibilla Aleramo, in Lettere 1945-1950, cit.) “.
“ Sabato 13 novembre 2004 – « Torino, 25 novembre 1945 – […] Scherzando qualche volta ho detto che sono cattolico. » (Cesare Pavese, Lettera a un’amica, in Lettere 1945-1950, cit.) “.
“ Sabato 13 novembre 2004 – « Torino, 1 luglio 1948 – […] Dello Strega me ne infischio. » (Cesare Pavese, Lettera a Carlo Muscetta, in Lettere 1945-1950, cit.) “.
“ Martedì 16 novembre 2004 – Ripenso a Pavese. Ripensare a Pavese significa ripensare alla mamma. Perché alla mamma piaceva l’Antologia di Spoon River. Io dico sempre che a me piaceva di più il La Fontaine della nonna. Mah. Boh. Dovrei pensarci meglio. (Alla mamma piaceva anche Il cavallo di Troia di Cristopher Morley. Me lo fece leggere, e piacque anche a me) “.
“ Martedì 16 novembre 2004 – « Dorina stava su una piazza in capo a un ponte. “ È ponte Milvio “. Io camminavo e mi guardavo intorno. C’erano case a dieci piani e da ogni parte le colline illuminate. Non passava nessuno. “ Sembra d’essere a Torino nel centro “, dicevo. “ Invece siamo in barriera ” » (Cesare Pavese, Il compagno, 1947) [*] [*] C’è una dedica: « Caro Falqui ciascuno ha la sua Roma – Cesare Pavese – sett. 47 ») “.
“ Martedì 16 novembre 2004 – Oggi ho letto un articolo di Vigorelli che diceva che, anche se non lo dava a vedere, Pavese non faceva altro che pensare alla fica. Il « caso Pavese »: sono casi amari… “.
“ Venerdì 26 novembre 2004 – Dice che ai tempi di Strapaese e di Stracittà, Pavese e i suoi amici si inventarono Strabarriera. Avranno avuto anche le loro buone ragioni, ma Strabarriera è ridicolo. “.
“ Martedì 1 marzo 2005 – « In quest’epoca come la nostra in cui chi sa scrivere pare non abbia più niente da dire e chi comincia ad aver qualcosa da dire non sa ancora scrivere, l’unica posizione degna di chi pure si sente vivo e uomo tra gli uomini ci sembra questa: impartire alle masse future, che ne avranno bisogno, una lezione di come la caotica e quotidiana realtà nostra e loro può essere trasformata in pensiero e fantasia. » (Cesare Pavese in Confessioni di scrittori (Interviste con se stessi), 1951) “.
“ Sabato 12 marzo 2005 – Ieri sera, quando mi hanno detto che Azzurro è di Paolo Conte – forse lo sapevo già, ma non lo ricordavo – ho pensato che Paolo Conte è « coloniale » – proprio nel senso di « coloniali » – « sale tabacchi chinino di Stato »…: « Cerco un po’ d’Africa in giardino… ». Non dev’essere un caso nemmeno che Paolo Conte sia di Asti e Umberto Eco di Alessandria – la misteriosa fiamma, la misteriosa regina… Per non parlare di Pavese Cesare. E di Gozzano Guido Gustavo. Ma, soprattutto, di Salgari Emilio. Mari del Sud. Nel senso di mari. Nel senso di Sud. Soprattutto di Sud. I soliti Annitrenta. “.
“ Giovedì 16 giugno 2005 – Non vorrei insistere, ma quando, avuto fra le mani il volumetto, ho visto che sulla copertina de Il premio Strega di Maria Bellonci, nell’edizione Oscar Mondadori del 1995, c’è una – famosa – foto della medesima Bellonci che premia il povero Pavese, ho sussultato. Poi ho pensato che, pur di stregare, le streghe, talvolta, danno anche i premi. “.
“ Mercoledì 24 agosto 2005 – « “ L’allora sede del nostro centro – conclude Vaccaneo – venne investita dalla furia del Belbo, il torrente cantato da Pavese. E nel fango finirono libri, carte, quadri, fino alla copia dei Dialoghi con Leucò ritrovata nella camera dell’albergo Roma. In quelle sere, tornando a casa, ripensando a quel biglietto regalatomi da Maria, e a quelle parole di un viola sbiadito dal tempo, recuperavo la forza per non arrendermi e per tentare di ricostruire quanto l’alluvione aveva danneggiato o portato via. “. » (Dai giornali) “.
“ Mercoledì 12 ottobre 2005 – « 17 febbraio 1938 – I giudizi morali di Madame Bovary ignorano ogni principio, se non quello dell’artista che violenta e atteggia ogni gesto umano. Certi si ringalluzziscono del quadro che dell’amore dà Madame Bovary intendendolo una sana critica dei ciarpami romantici fatta da una robusta coscienza, e non vedono che la robusta coscienza non è altro che il guardar netto, lo sciorinare con foga i tristi moventi umani. Come si può vivere, secondo Madame Bovary? In un solo modo: facendo l’artista tappato in casa. Guardati bene dal prendere sul serio le critiche di Flaubert alla realtà: non sono fatte secondo altro principio che questo: tutto è fango, tranne l’artista coscienzioso. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere / Diario 1935-1950) “.
“ Mercoledì 23 novembre 2005 – « Era malato, e più ancora era stanco. Quando usciva dalla sua casa torinese e attraversava la strada, in via Po, sventolava un fazzolettino bianco, perché temeva che il viavai delle auto lo travolgesse con la sua Simone, la compagna di tutta la vita, che ancora si appoggiava al suo braccio. Chi l´ha amato racconta lo struggimento e la tenerezza che si provava nel vederli camminare lentamente, a piccoli passi, lungo piazza Vittorio: 95 anni lei, 82 lui, che arrancavano sotto il peso degli anni. Adesso che lo sguardo di Franco Lucentini non c´è più, quel fazzolettino bianco è il segno della sua resa: alla malattia, alla vecchiaia, alla vita. Lo scrittore s´è lasciato cadere dalla tromba delle scale ieri mattina, all´alba, divorato da un male e da un´angoscia che ha tenuto dentro fino all´ultimo. È uscito di casa in punta di piedi, senza disturbare la sua compagna, Simone Benne Darses. In pigiama, le scarpe di panno nere, il berrettino di pile che portava sempre in testa. È volato nel vuoto nella tromba delle scale stretta, uno spazio a cuneo tra le balaustre di ferro battuto, per quattro piani. Erano le cinque, ieri mattina, e il palazzo di piazza Vittorio 1 dormiva. È la piazza più grande della città. Quella i cui portici accompagnano nella discesa al fiume da un lato, ai palazzi del potere dall´altro. Le finestre della casa di Fruttero si aprono sul caffè Elena, dove Cesare Pavese scriveva i suoi libri, e sulla collina, dove si muovono le indagini del commissario Santamaria. È un palazzo color giallo Torino, una nobile e antica casa di ringhiera come quelle che raccontava nei suoi libri con Fruttero. Sui balconi, cascate d´edera e di gerani, vasi di salvia e di mentuccia. Nel cortile che si apre su un altro cortile, una piccola fontanella di pietra e una quindicina di biciclette, presidi del passato nella città delle auto. Ai piani, c´è ancora qualche gabinetto sui ballatoi. » (Dai giornali del 6 agosto 2002) “.
“ Sabato 3 dicembre 2005 – Poi c’è Alain Elkann che intervista Fernanda Pivano che racconta di quando Pavese gli fece conoscere l’Antologia di Spoon River. « Com’era? », gli chiede Elkann quando parlano di Hemingway. « Molto alcolizzato », risponde la vecchietta. Che, me ne accorgo quando l’inquadratura si allarga, ha ai piedi un paio di civettuole scarpette rosse. Quando poi parlano dei cantautori, a cominciare da De André, lui gli chiede: « Era un poeta? » « Caspita! », risponde lei – « Ho detto caspita perché c’è la televisione », si compiace di aggiungere. Comunque era molto alcolizzato anche lui, dico io. Che posso dire quello che voglio perché tanto non c’è nessuno. E comunque non bevo quasi niente (ho già bevuto anche troppo) “.
“ Martedì 31 gennaio 2006 – « Mi colpì che rideva in dialetto, come ridono le commesse, come rido qualche volta anch’io. » (Cesare Pavese, La bella estate, in Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana – Voce: « Dialetto », ) “.
“ Martedì 31 gennaio 2006 – « Io capisco che, secondo il mestiere che fa, la gente parli; ma come i pittori e tutti quelli che si sentono discutere nelle trattorie non c’è nessuno. Capirei se dicessero i pennelli, i colori, l’acquaragia – le cose che adoperano – ma no, questa gente parla difficile solo per gusto, e succede che di certe parole nessuno sa il senso, c’è sempre un altro che un bel momento si mette a litigare, dice che no, vuol dir così, cambia tutto. Sono parole come quelle dei giornali quando parlano di quadri. » (Cesare Pavese, La bella estate, cit.) “.
“ Martedì 7 febbraio 2006 – Poi penso che tutta la mia pena dipende dal fatto che non ho ancora deciso se mi piacerebbe di più toccare il bel culo di questa ragazza che mi sta di fronte o leggere questo bel libro che ho qui davanti: Per Mastronardi / Atti del Convegno di studi su Lucio Mastronardi, Vigevano, 6-7 giugno 1981, a cura di M. Antonietta Grignani (con saggi di Calvino, Orelli, Ferretti et al.), 1983. Per non parlare di quel fascicolo del «Ponte» del 1969 in cui ho appena visto che c’è una rassegna dall’intrigante titolo: « Pavese continua ». Insomma, quello che non ho ancora deciso è se voglio continuare o no. Come se toccare un culo fosse sempre uno smettere… “.
“ Martedì 14 marzo 2006 – « Ce livre s’adresse à tous: aux diaristes, occasionnels ou chevronnés, aux lecteurs de journaux, mais aussi aux passionnés d’histoire et aux curieux de l’âme humaine. Le regard porté sur tant de documents personnels n’aura rien d’indiscret : il doit renvoyer chacun à lui-même et nous faire méditer sur ce que Cesare Pavese appelait “ le métier de vivre “. » (Philippe Lejeune e Catherine Bogaert, Le journal intime. Histoire et anthologie [Prèface], 2006) “.
“ Lunedì 26 giugno 2006 – Quanto io valga poco come diarista, nel senso di cronachista, nel senso di fedele, possibilmente perspicace osservatore di ciò che accade, lo si capisce anche dal pochissimo spazio che ho concesso, nel mio diario, alla faccenda delle intercettazioni. Invece si tratta probabilmente della più grossa operazione cultural-politico-editoriale degli ultimi cinquant’anni, diciamo dai tempi della pubblicazione del diario di Pavese, tanto per fare un sempre opinabile esempio. Ma forse ciò a cui questa valanga di testi, acri, sporadici, oscuri, non di rado grotteschi si avvicina è alla « scoperta » feltrinelliana, agli albori degli anni Sessanta, dei Tropici di Henry Miller, quelli del povero Bianciardi etc. L’intento, in generale, è quello di scandalizzare, ma, soprattutto, di dare qualcosa da leggere. Perché la gente le ha lette, eccome se le ha lette. Io, invece, no, oppure pochissimo. Perché io sono pochissimo curioso, almeno di certe cose. Ma io, come ho già detto, valgo pochissimo, anche come curioso, soprattutto come curioso. “.
“ Domenica 9 luglio 2006 – Molto interessante anche Miss Italia (Duilio Coletti, 1949). Uno scrittore – bello e elegante e piuttosto « americano » – ha un sorriso a sessantasette bianchissimi denti e una macchina americana – va in giro per l’Italia a scoprire le candidate al concorso di Miss Italia. Fra le tante, di tutti i generi, c’è anche Constance Dowling – quella di Pavese – che, si noti, fa la troia di casino, ma intellettuale – ha letto Shakespeare. C’è anche la contessina, che, dice, ha le gambe paralizzate, ma a me sembra soprattutto piuttosto saffica. C’è anche Gina Lollobrigida, che è la Cenerentola che, naturalmente, diventa Miss Italia e si cucca lo scrittore, « Un tipo come quello avrà sempre un paio di pantaloni da stirare… » – i’ bbabbo, in tribuna, esulta, circondato dai cuochi. Nel frattempo la cortigiana laureata – « Bella e bionda » – si va a sfracellare con il cattivo ladro di gioielli, al 25esimo chilometro da Stresa (dev’essere dalle parti di Dongo) (C’è anche la scena della banda, praticamente la stessa che nel Gattopardo) (« È sempre pericoloso fare di una ragazza modello una modella » (Ibid.) (« ” Le vie del Signore sono infinite “ “ Sarà… “ » (Ibid.)) “.
“ Giovedì 29 marzo 2007 – « Per Cesare Pavese / I giorni le opere i luoghi ». Mi sono caduti gli occhi su un bel libro, dico bello anche perché vedo che è fatto, soprattutto, di – belle – fotografie. Le guardo – con piacere – e quando le ho guardate penso che, effettivamente, « per Cesare Pavese » non si può fare di più. Né di meno. Non si può fare niente, ecco. Almeno in un certo senso. Né per lui – che è morto da tanto tempo -, né per altri. Comunque di una di queste belle foto io ne faccio un Rossore. L’autore è Mario Dondero e il suo soggetto è la celebre camera dell’Hotel Roma a Torino dove Pavese si uccise. Il curioso della foto è che uno si aspetterebbe di vedere il letto, oppure la stanza nel suo insieme, invece vede il soffitto – come lo vedrebbe uno che stesse disteso. La mia didascalia è una specie di proverbio: « Dai nemici mi guardi Iddio che dai fotografi mi guardo io ». “.
“ Martedì 24 luglio 2007 – « Gavazzeni, si può dire, ha letto per antica passione tutti i possibili diari, i libri dei mercanti, i libri dei conti, i libri dei santi, i libri dei pellegrini, i libri dei viaggiatori, i diari di una vita e i diari di un momento della vita, i diari di guerra, i diari di un’avventura, i diari d’amore, i diari della malattia e della morte. I diari dei generali, degli uomini politici, degli artisti, degli scrittori: Montaigne, Samuel Pepys, Goethe, Alfieri, Stendhal, Byron, Dostojevskij, Baudelaire, Leopardi, Tolstoj, Rilke, Musil, Barbellion, Valery, la Mansfield, Thomas Mann, Dossi, Léautaud, Pavese, Gadda, Delfini, Alvaro, Virginia Woolf e tanti altri. Ma per Gavazzeni è il Journal di André Gide il gran modello, il diario totale, quello che più di tutti ha appagato il suo tarlo di lettore e di scrittore. » (Corrado Stajano, Introduzione a Gianandrea Gavazzeni, Il sipario rosso / Diario 1950-1976) “.
“ Sabato 25 agosto 2007 – « Della morte di Pavese, invece, parla la figlia del titolare dell’Albergo Roma, dove lo scrittore si uccise: “ Mio padre ha subito capito che si era tolto la vita. Il facchino ci ha poi raccontato che, dato che mio papà era calvo, l’espressione che gli è venuta è stata: « Fulatun, con cula bela testa ‘d cavei! » (Ma che scemo, con quella bella testa di capelli!). Era stato colpito da quella massa di capelli neri “ » (Da un articolo sul docu-film realizzato sulla vita di Pavese) “.
“ Domenica 26 agosto 2007 – « Il giorno dopo lo abbiamo saputo: “ È morto il dottor Pavese “. E siamo rimasti tutti male. » (Dai giornali) “.
“ Giovedì 13 dicembre 2007 – « Erano, d’altra parte, gli anni d’oro del neorealismo, quando parve a molti che il cinema (soprattutto italiano) contribuisse in maniera decisiva a illuminare gli aspetti più scottanti di una realtà inedita, e perfino a proporre rapporti umani più equilibrati, intervenendo (se non nella storia, nella cronaca) con quella violenza e quell’immediatezza che parevano invece precluse all’attività letteraria. » (Fabio Carpi, Il fascino [*] del cinema, in Terra rossa terra nera / Dedicato a Cesare Pavese, a cura di Laurana Lajolo e Elio Archimede, Asti 1964) [*] Avevo scritto « fascismo », giuro. “.
“ Venerdì 14 dicembre 2007 – « Fra l’altro, disse: “ Per me, il tempo utile per lavorare è sul punto di smettere: proprio gli ultimi cinque minuti, quando già mi hanno chiamato a tavola, o devo uscire, o sono aspettato da qualcuno. Così sollecitato e spazientito, trovo spesso quello che sarebbe stato inutile cercare durante ore e ore: soluzioni, passaggi, battute di dialogo. Il meglio di quel che ho fatto, è venuto così “. » (Gianna Manzini, Ricordo di Pavese, in Foglietti, 1954) “.
“ Giovedì 27 marzo 2008 – « Proprio in questa fase di trapasso, in questa momentanea pausa della sua accanita operosità intellettuale, lo colse il demone della solitudine, quella solitudine amorosamente vagheggiata come il minore dei mali, che poi d’improvviso ti mostra la sua vera faccia, e t’opprime come una condanna. La solitudine affocata della bella estate, della feria d’agosto, quando perfino il lavoro, che stanca, ma che salva, t’abbandona. » (Massimo Mila, Ricordo di Cesare Pavese, in «Radiocorriere», 3-9 settembre 1950) “.
“ Giovedì 3 aprile 2008 – Sfoglio «L’Europa letteraria», vedo – 5, n. 25, gennaio 1964 – la pubblicità della traduzione francese del libro di Lajolo su Pavese: « Davide Lajolo, Cesare Pavese “ Le vice absurde “ ». Penso che si potrebbe anche leggere come « Il vice assurdo » – al giornale lei mi diceva sempre che ero il suo « vice », e effettivamente ero un « vice »: vicecaposervizio…. C’è dell’assurdità, penso, nel fare il vice. Fare il vice: può diventare anche un vizio. Concetto di « vice ». “.
“ Lunedì 16 giugno 2008 – « Bullismo Pavese e morti bianche » (Titolo di Repubblica.it) “.
“ Venerdì 11 luglio 2008 – « Gli antichi romani pensavano che nel nome di una persona fosse indicato il suo destino. Ci si può credere o meno, però nel caso di Claudio Pavese il nomen omen non fa una grinza. È un gentile signore di Torino che, dopo essersi occupato per un certo periodo di comunicazione aziendale, ha scelto di diventare soltanto ciò che sentiva di essere: uno che ama i libri e che li colleziona, in particolare i testi delle case editrici italiane di cultura che hanno operato nella parte nobile del Novecento. Tutto questo con una predilezione speciale per l’Einaudi dei tempi eroici e per lo scrittore che della casa dello Struzzo è stato il simbolo, e che, in virtù di un’omonimia fatale, porta il suo stesso cognome: Cesare Pavese. » (Dai giornali) “.
“ Martedì 26 agosto 2008 – Nel mondo, ho pensato, c’è posto per tutti, e le notizie, grazie al cielo, non mancano, basta avere voglia di raccontarle. Le notizie, dopotutto, sono pettegolezzi: servono solo ad alimentare la curiosità della gente, che è illimitata. Di pettegolezzi si può vivere, anzi si vive: spettegolando spettegolando. Queste cose le ho pensate ieri sera, quando, avendo acceso la tv prima di andare a dormire, mi sono trovato di fronte le storie tragiche ma vere dei somali che fuggono nello Yemen morendo come mosche nel viaggio per mare, oppure quella del tizio che vive nei cessi pubblici perché la moglie l’ha cacciato di casa. Se poi, per parlare dell’Informazione, ho deciso di usare la parola « pettegolezzo », è perché oggi è, giorno più giorno meno, l’anniversario del suicidio di Pavese. Naturalmente, in questo modo, anche io contribuisco all’allungare la catena dei pettegolezzi. Spettegolo sui pettegolezzi etc. L’unica attenuante è che a me non mi legge nessuno etc. (E ora farò l’unica cosa che mi interessa davvero, quella per cui, dopotutto, ho scritto queste righe: troverò una bella iniziale da mettere lassù in cima, sotto la data. Una bella lettera colorata: per farmi credere che mi sto divertendo) “.
“ Lunedì 8 settembre 2008 – Oggi, dice, è l’anniversario della nascita di Cesare Pavese. A Santo Stefano Belbo fanno un convegno. Il professor Soria dice che quello del povero Cesare fu un « suicidio per amore ». Gli amori finiscono, i pettegolezzi continuano. “.
“ Martedì 9 settembre 2008 – « Certo, una parte dei lettori di Pavese sono anche quelli obbligati a farlo, ovvero gli studenti: eppure, anche se si tratta di un classico “ da programma “, il viaggio sui banchi spesso prosegue tra le colline, o nelle strade torinesi riconoscibili nei romanzi e nei racconti, ma anche nelle poesie, nel diario e nelle lettere. Per questo, leggere e studiare Pavese a scuola non è proprio come dover ingurgitare i Promessi Sposi in dosi massicce, quasi omeopatiche: quello che si legge per forza, in questo caso e quasi miracolosamente, poi si continua a leggere o rileggere. Per amore. », dice quello di Repubblica che di solito scrive di calcio. “.
“ Martedì 16 settembre 2008 – « PpP – Passeggiando per Pavese ». È il titolo del convegno in corso a Santo Stefano Belbo. [*] [*] Il passeggiare. Le passeggiatrici: erano le mignotte. I passeggiatori: erano i flaneur – che si potrebbe anche autarchizzare in « flanellatori » – quelli che vanno al casino a guardare e basta. “.
“ Sabato 31 gennaio 2009 – « Il Premio Grinzane Cavour e La Stampa-Tuttolibri, in occasione del centenario della nascita di Cesare Pavese, hanno promosso un concorso nazionale dal titolo “ Dialoghi con Pavese. Il tuo diario “, per promuovere la lettura e la scrittura creativa tra i giovani e i meno giovani ispirandosi a Il mestiere di vivere. I partecipanti, oltre 2000, sono stati invitati a colloquiare con Pavese sui grandi temi della società contemporanea, narrando il “ mestiere di vivere “ oggi, attraverso la forma del diario, del dialogo, del racconto breve. » (Da La Stampa di oggi) (Ecco un esempio: « Fino a ieri non sapevo che mia madre nascondesse un diario. Un quadernetto appassito di fogli sgualciti, di disordinate annotazioni, perduto nella polvere delle mura cadenti della nostra vecchia cucina, muffito in una fenditura, segretamente celata, tra le pietre sbrecciate dell’acquaio. Era finito nelle mani ruvide del capomastro. Me l’ha restituito, con la sua grifagna devozione, avvolto in un lembo sdrucito di una camiciola a quadretti. Sono tornato a Brancaleone per ritrovare la storia e le strette appassionate, che sanno di caponata e di sudore, della mia gente. Ho lasciato lacrime e fiori di campo sulle lapidi straziate. Della nostra casa è rimasto un cumulo di macerie, ne faranno una piazza di lampioni ed oleandri, affacciata alla riviera. Ho letto stralci di quelle pagine segrete con l’imbarazzo e la curiosità di un testamento e navigando tra le righe misurate della sua calligrafia, nel silenzio ammaliante di una notte odorosa d’estate, ho ascoltato, ancora una volta, la sua voce. “ … quando arrivò, fu l’anno della mattanza grossa e del mal degli ulivi. Dicevano, in paese, che il confinato venisse da lontano, obbligato tra le rocce e il mare. Il treno l’aveva lasciato solo, sul ciottolato seppioso di conchiglie della massicciata, con due valigie a terra e, addosso, una camicia stinta come il suo sguardo. Fu, nell’iniziale sfuggente indifferenza, un buon vicino. Credo non abbia mai disprezzato il nostro istintivo distacco, quel separare le cose, lo stare un po’ in disparte, segno più del riguardo che dell’intolleranza e lo considerasse parte della sua ineluttabile condanna. […] stava seduto, per ore, sugli scogli, con la schiena ossuta, appena arcuata, davanti lo schiumare cavernoso della risacca oppure saliva, a passo lento, sui sentieri alti, tra le macchie di ginestra e d’asfodelo. Solitario ed impensierito […] ho visto Cesare quando avevo sedici anni e me ne sono ingenuamente innamorata. Una passione impossibile, incosciente, soltanto immaginata. L’ho spiato, dalle persiane accostate di casa, mentre scriveva, riparato in un angolo dell’orto, lettere tormentate per una donna lontana che si era troppo presto dimenticata di lui. Un amore avvizzito e fatale […] avrei voluto Cesare per me e forse sarei stata la sua Concia, la serva sfacciata ed inafferrabile. Non sopportavo che avesse Elena, su letti sfatti di carnalità […] quando lasciò Brancaleone, piansi di nascosto per un’ intera settimana. Mi restò nella memoria la sua fragile figura, malinconica e sofferta, tra i vicoli di pietra ed i cortili, nell’abbaglio del mezzogiorno, una deriva […] mi rimasero i suoi libri e le sue poesie, la fine tragica dei suoi giorni, ammalato di vivere, e il rimpianto di un incontro svanito, di un’occasione buttata, di un addio…”. Mia madre fu la prima maestra del paese. A lei sarà intitolata la piazza davanti la marina e il corso principale porta il nome di Cesare Pavese e l’attraversa come un fiume in piena. » (Valter Ferrari, A Brancaleone tra lacrime e fiori di campo) “.
“ Mercoledì 18 febbraio 2009 – « Il momento della rinascita della cultura e della coscienza italiana è rappresentato da un film, non da un’opera di letteratura. “ Sì, è cosa nota che a narrare l’Italia sia stato, almeno nei primi anni del Dopoguerra, più il cinema della letteratura. Pavese (mi pare fosse lui) diceva che il più grande narratore italiano era il De Sica di Ladri di biciclette. Ma anche qui non bisogna esagerare, facendo di questa constatazione una specie di tesi ufficiale obbligata e trascurando troppo la letteratura di quegli anni “. » (Il professor Magris intervistato su Roma città aperta) [*] (« Come vede, oggi, le parti più melodrammatiche: per esempio la storia di Maria Michi, l’ex amante del comunista che poi fa arrestare?“ Credo che anche le parti più melodrammatiche tengano. In genere, sono molto critico nei confronti di ogni retorica melodrammatica, ma questo è proprio il banco di prova delle grandi opere classiche, le quali riescono a essere anche melodrammatiche (come l’opera lirica vera e propria, il « zum pa pa » che piaceva tanto a Saba) senza perdere la coerenza artistica. Nel mondo dell’arte c’è posto non solo per Kafka, ma anche per Victor Hugo. Non sempre Rossellini naturalmente sarà così “. » (Ibid.)) [*] Il fatto è che per capire Roma città aperta bisogna stare a Roma. “.
“ Venerdì 6 marzo 2009 – « C’è chi dice “ Proust “, chi sussurra “ Musil “, chi ammette “ Joyce “, chi confessa “ Tolstoj “, chi ancora “ Svevo “, chi, a mezza voce, aggiunge “ Flaubert, Eco, Pavese “. E poi: quante sono le case dove non esiste una Bibbia, il libro più venduto al mondo? Poche, almeno nell’universo occidentale, ma dall’acquistarla a leggerla il passo è lunghissimo. Benvenuti nel mondo dei lettori bugiardi, anzi dei “ non lettori “ che citano però con sicurezza incipit e risvolti di copertina di tomi mai aperti e consumati oltre la prima pagina. Con un bel po’ di cattiveria e di british humour, in vista della giornata mondiale del libro, un sondaggio inglese ha “ conteggiato “ quanti sono i lettori che confessano di aver mentito dicendo di aver divorato classici in realtà conosciuti soltanto per sentito dire. […] Si confessa invece “ leggermente bugiardo “ Paolo Villaggio, che ricorda con ironia: “ Una sera, a casa di Alberto Moravia, mentii sostenendo di aver letto Proust, era troppo ammettere in quel salotto, tra tutti quegli intellettuali, che la Recherche mi aveva sempre annoiato in modo insopportabile, per non parlare dell’Uomo senza qualità “. » (Dai giornali) “.
“ Mercoledì 29 aprile 2009 – Anche occupandomi del « caso Delfini » – dopo essermi occupato del « caso Lampedusa », del « caso Gadda », del « caso Vittorini », del « caso Buzzati », per non parlare del « caso Pavese », o « recentemente », del « caso Calvino » -, io non faccio altro che aggirarmi intorno alla vecchia questione irrisolta, la questione delle questioni, quella de « la morte della letteratura ». Che non è un convenzionale, astratto, accademico modo di dire, ma un evento reale, che è accaduto realmente, in un momento storico e biografico preciso, all’incirca mezzo secolo fa. Nel mio diario io ne ho parlato spesso, così spesso che quell’evento potrebbe essere considerato come il contenuto, l’argomento, il tema essenziale del mio quotidiano scrivere ormai da quasi un quarantennio – cioè, anno più, anno meno, da tutta la vita. “.
“ Lunedì 1 giugno 2009 – « Nico Orengo mica lo conoscevo ma questa fortuna m’è toccata alla Fiera del Libro di Imperia dove c’ero pure io, microscopico Davide davanti a un enorme Golia. Ho ascoltato Nico Orengo mentre presentava Il salto dell’acciuga con la compiacente lecchineria di un intervistatore prezzolato che non la finiva di sperticarsi in complimenti. Nico Orengo è un grande, c’è poco da fare. Non fosse altro per come va vestito stile beat generation o per come porta i capelli, scaruffati e scomposti stile vecchio intellettuale che la sa lunga sul mondo. E allora io lo devo proprio ascoltare questo santone della letteratura, questo guru che dirige Tuttolibri e che decide cosa è bello e cosa non lo è, lo devo proprio sentire, mica me la posso perdere la sua conferenza sulle acciughe. Tanto allo stand del Foglio ci resta mia moglie e poi ci sono pure un paio di autori venuti proprio per promuovere i loro libri. Io invece devo ascoltare il mitico Orengo, ché lui dallo stand del Foglio c’è passato ma ha tirato dritto, mica poteva perdere tempo con gli editori dilettanti. E allora scopro che Nico Orengo ha scritto Il salto dell’acciuga perché un medico aveva consigliato a sua moglie di mangiare un’acciuga al giorno. Orengo sostiene che tutti abbiamo un barattolo di acciughe in casa e noi diamogli ragione che ci costa poco, pure se in casa mia di acciughe ce ne sono sempre state poche. Insomma a Orengo in quel periodo le acciughe uscivano pure dagli occhi, ché s’era un po’ rotto i coglioni di mangiare acciughe, pure se era parecchio interessato a un libro sulla storia del sale che però non trovava. Continuo ad ascoltare le esternazioni del vecchio beat coi capelli al vento e mi tasto se ci sono, come diceva mio nonno quando non capiva se il pazzo era lui o se invece le bischerate le dicevano gli altri. Apprendo che le acciughe si chiamano pesci di montagna e che gli antichi romani erano esperti nel metterle sotto sale dentro i famosi carretti di acciughe. Adesso mi sento più sollevato. Meno male che ora lo so e che Orengo me l’ha detto, se no chissà come facevo se non lo sapevo. Il salto dell’acciuga è un libro finito che però potrebbe non finire mai perché le storie sull’acciuga sono infinite, sostiene Orengo. E poi ti sciorina una storia sulla golosità dei cibi e sulla golosità della lettura che io mica la capisco, però tanto lo so che lui è un intellettuale, non posso mica capire tutto. Certe cose se non si fissano c’è il rischio che vadano perdute e allora meno male che Nico Orengo ha scritto proprio tutto sull’acciuga e su come si mette sotto sale, se no chissà come andava a finire questa storia qui. Il vecchio Nico racconta la sua formazione letteraria che mica è quella di uno scrittore qualsiasi, no, lui è stato a Torino e ha letto Pavese, Calvino e pure Fenoglio. O bravo Orengo, li ho letti pure io che sono stato sempre a Piombino, tanto tanto mi sono spinto verso Pisa e Grosseto, ma per leggere Bianciardi non è che ho aspettato di vedere Grosseto, no mi sa che l’ho letto prima. Orengo ci racconta la sua vita, ci dice che a Torino la scuola era rigida e che a lui mancavano i colori. Allora il padre l’ha fatto studiare a Roma che invece era bella colorata e poi qui ha conosciuto tanti scrittori che hanno contribuito alla sua formazione letteraria. Ma il passo fondamentale della sua vita mi sa che Orengo lo fa quando a ventitré anni entra all’Einaudi e ora mi spiego tante cose, pure il fatto che il suo editore si chiama Einaudi. Bravo Orengo! Così si fa una presentazione, mica come tutti quei dilettanti del giorno prima che si affannavano a farsi ascoltare. Tu fai un po’ l’aria sacrificata, assumi un’espressione scocciata, muovi gli occhialoni e ti tocchi i capelli mentre esprimi una mimica a base di smorfie e firmi autografi alle vecchie babbione che vogliono sapere tutto su come si marina un’acciuga. Parli di letteratura gastronomica e di crudeltà della cucina e alla fine, in questo ventoso pomeriggio imperiese che vorrebbe essere estivo, ci insegni come si cucinano le acciughe. Polemizzi sui culti barocchi della cucina moderna, non ne puoi più dei cuochi di oggi e dei sommelier da strapazzo. Fondamentale, direi. E io invece non ne posso più degli scrittori contemporanei, guarda. Non ne posso più davvero, ché credevo di essere venuto a una presentazione di un romanzo e invece mi tocca sorbire una lezione di cucina. Dice Orengo che se uno leggesse il cibo in maniera corretta vedrebbe tutti i segni della nostra decadenza. Secondo me pure leggendo tutta la cacca che producono i nuovi narratori italiani ci si sta bene dentro a questa definizione, guarda. La cucina di uno scrittore secondo Orengo è la concretezza ed è una cosa insopportabile tutta questa raffinatezza e il fatto che siano tutti sommelier. E io mi domando se Orengo è uno scrittore o un cuoco e soprattutto mi chiedo cosa cucina di buono ai suoi molti lettori. Me lo domando proprio. Nico conclude affermando che l’acciuga è una cosa seria e lui nei suoi racconti la fa vivere delle sue molte differenze, pure se in cucina lascia massima libertà sull’utilizzo dell’aglio. Ma ci rendiamo conto? Dimenticavo di dire che Nico Orengo ha scritto una raccolta di racconti ambientata nel mondo dell’acciuga sotto sale e che Einaudi gliela ha pure pubblicata. Non solo. Un grande come Mario Rigoni Stern non s’è vergognato punto a firmare la classica marchetta da quarta di copertina. Un Nico Orengo per amico fa sempre comodo. Dirige Tuttolibri, mi pare. Pure se dopo questa bella chiacchierata lo vedrei bene a fare il cuoco. » (Scrive tale Gordiano Lupi. Forza Lupi?) “.
“ Mercoledì 3 giugno 2009 – « Buenos Aires – […] Per questo lo sforzo fatto quest’anno dai nostri ministeri dell’Estero [sic] e dei Beni Culturali, dall’ambasciata italiana in Argentina, dall’Istituto italiano del commercio estero, cui si è sommato quello dell’Istituto italiano di cultura, dell’Associazione Dante Alighieri, dell’agenzia di stampa Ansa, della Regione Piemonte, del premio letterario Grinzane Cavour, sta ottenendo tanta simpatia ma, nel concreto, risultati modesti. Non ci sono gli editori, è vero, in questa Fiera. Tuttavia, dal 2 al 6 maggio una serie di incontri tra scrittori italiani e sudamericani scandaglierà mondi diversi e individuerà radici comuni. Si parlerà di miti, di tradizioni differenti, di Italia, di Torino e di un suo scrittore qui molto amato, Cesare Pavese. Dall’Italia arriveranno Luca Doninelli, Laura Pariani, Maurizio Maggiani, Paolo Maurensig, Lorenzo Mondo, Nico Orengo, Roberto Pazzi, Sandra Petrignani, Giorgio Van Straten, Sandro Veronesi. Previsti anche interventi dei professori Guido Davico Bonino e Maurizio [sic] Guglielminetti, del presidente del premio Grinzane Cavour, Giuliano Soria, e del giornalista culturale Paolo Mauri. » (Matteo Collura, Buenos Aires, il libro parla la lingua di Dante, in «Corriere della Sera», 29 aprile 2000) “.
“ Lunedì 6 luglio 2009 – Non trascurabile notizia è quella che Nico Orengo ha scritto una presentazione al Verso la cuna del mondo di Gozzano, ripubblicato nel 1980 da Il Melograno. Nell’occasione mi ricordo che, verso il ‘74-’75, alla Biblioteca comunale di Siena feci fotocopiare integralmente una vecchia edizione, forse la prima – « libro » che conservo ancora sugli scaffali della libreria di Siena. (Altre notizie di grande interesse si trovano scorrendo la sterminata bibliografia del povero Nico. Per esempio quella che, nel 2007, ha scritto la prefazione a una riedizione Utet de La bella estate di Pavese – quella del Premio Strega) “.
“ Martedì 7 luglio 2009 – « Torino – Si chiama paradosso torinese. Nella città della maggiore Fiera del Libro italiana, già capitale mondiale della cultura e per decenni al centro della vita intellettuale nazionale, da Gramsci a Gobetti, da Pavese a Bobbio, solo una casa editrice storica, la salesiana Sei, ha saputo resistere alla colonizzazione dei suoi principali marchi editoriali. La prima è stata l’Einaudi, finita nell’orbita di Mondadori. Poi l’antica Utet, acquistata dalla novarese De Agostini. E ora la Bollati Boringhieri, venduta al gruppo Mauri Spagnol. Torino perde i pezzi pregiati. » (Dai giornali) “.
“ Lunedì 7 settembre 2009 – « In un’intervista, la nobildonna torinese Romilda Bollati di Saint Pierre smentisce, con composta eleganza. È lei, “ la dama bianca “ di Cossiga? Lei, bella e raffinata, imprenditrice e donna di cultura, alla guida della Baratti e della Carpano, amministratore delegato della Casa editrice Bollati Boringhieri? Lei, che fu la dolce “ Pierina “ delle ultime lettere di Cesare Pavese? Con lei, che pure lo ricambiò solo di un sentimento “ tenero e fraterno “, lo scrittore morto suicida nel 1950 ebbe l’illusione di un’estrema possibilità di amore, e di amore per la vita. Pavese, dunque. Ma Cossiga? “ Direi – dichiara la signora Bollati, in vacanza a Capri – che si tratta di un serpentone d’agosto. Si chiamano così, no? quelle notizie di cui non si vede né testa né coda… “. E allora da dove mai sarà nata? Davvero, la signora non lo sa. Lei, con Cossiga, non ha più avuto contatti dal giugno 1984, epoca della tragica scomparsa del marito, il leader dc Toni Bisaglia. Allora, il presidente le “ fu vicino “, ma come “ molte altre persone “. E allora? “ Chissà. Si potrebbe chiedere il parere di qualche esperto di pubbliche relazioni “. Ma è solo una battuta. “ Di fronte al pettegolezzo – conclude la nobildonna – che si può fare? Nulla “. » (Da «La Repubblica», 20 aprile 1991) “.
“ Lunedì 7 settembre 2009 – « Un giorno, ad aprile, andai a una festa per gli autori della casa editrice, alla corte di Giulio Einaudi. Il festeggiato era Carlo Levi, che già aveva avuto successo con Cristo si è fermato a Eboli e che stava per pubblicare L’orologio. L’Imperatore Giulio, a un tratto, chiamò Levi e, alzando il braccio, indicando me e altre tre ragazze presenti, gli domandò: “ Chi vuoi di loro? “. Cioè di noi quattro schiave, pronte a eseguire gli ordini di Giulio. Venni scelta io. Accompagnai Levi per Roma e per altri posti, visitando una libreria dopo l’altra, dove lui firmava copie dei suoi libri con una penna stilografica d’oro. » (Disse, un paio di mesi fa, la signora Romilda)(« Ripensa spesso a Cesare Pavese, a quell’estate di Bocca di Magra, alle lettere che mandava a Pierina? “ Oh, Pavese! È il più caro tra quelli che ho conosciuto. Io ero molto giovane, nella fase in cui ci si guarda intorno, cerchi di capire che cosa sai fare. Pavese era adorabile. Una volta mi trascinò a passeggiare per la collina torinese, ero vestita da mezza sera, avevo una gardenia e portavo i tacchi alti. Al ritorno mi sentivo distrutta, i piedi mi facevano male, forse avevo un po’ di febbre. Anche la gardenia si era sciupata. Passammo davanti a un fioraio, che stava aprendo. Allora Pavese si fermò, entrò nel negozietto e mi comprò una gardenia nuova. Mi faceva tenerezza. Non era tanto per il fatto che fosse piuttosto cupo come carattere, ma perché pareva un bambino rispetto a me. Mi faceva delle domande sulla vita, mi chiedeva come si doveva corteggiare una donna. Gli era andata male con la Constance Dowling, e io non volevo continuare con lui un gioco, perché di questo si trattava, che lo avrebbe fatto soffrire. Non ero una seduttrice, avrei voluto aiutarlo. Invece lui aveva in testa quello che avrebbe scritto nel diario: « Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce ». “ (Id., ibid.)) “.
“ Lunedì 7 settembre 2009 – « [Torino] 17 agosto [1950] – Pierina – se non mi hai sepolto nell’acqua della Magra – vivo all’albergo Roma in piazza Carlo Felice. // Se mi ci hai sepolto, vivi tu felice, e sappi che di quei giorni mi ricorderò sempre. // Pav. » (Cesare Pavese, A una ragazza, Bocca di Magra, in Lettere 1945-1950, 1966) “.
“ Lunedì 7 settembre 2009 – « Torino, 25 agosto sera [1950] – […] Non so se troverò il tesoro di Montezuma, ma so che nell’altipiano di Tenochtitlàn si fanno sacrifici umani. […] // Ciao per sempre, tuo // Cesare. » (Cesare Pavese, A Davide Lajolo, Vinchio d’Asti, in Lettere 1945-1950, cit.) “.
“ Giovedì 10 dicembre 2009 – « Alba (CN) – La magia letteraria e poetica delle Langhe ed il fascino senza tempo della pallapugno. Grandi scrittori e grandi campioni, pagine indimenticabili e imprese leggendarie: storie di terra, di uomini e di avventure raccontate attraverso le letture di Fenoglio, Arpino e Pavese. Tutto questo sarà L’Alba dello Sport, iniziativa in programma il 14 dicembre 2009, alle ore 18, al Palazzo Mostre e Congressi “G. Morra”, in Piazza Medford ad Alba. Interverranno l’Assessore allo Sport Olindo Cervella, il critico letterario Giovanni Tesio, il campione Roberto Corino e Teo De Luigi, che presenterà il documentario “ Mermet come Maracanà “, un film pensato per riscoprire radici ed origini della Pallapugno, con le memorie di un grande scrittore, purtroppo scomparso, Nico Orengo. Modera l’incontro: il giornalista Darwin Pastorin. » (Dal web) “.
“ Domenica 21 marzo 2010 – La devastazione della scuola media « Cesare Pavese » di non so dove. Capita anche quello. “.
“ Sabato 17 aprile 2010 – « La verità, invece, è un’altra. L’ha scoperta Lawrence G. Smith, ex banchiere a New York, che adesso si occupa di letteratura e che ha scritto un saggio interessante e documentato: Cesare Pavese and America. Life, Love and Literature, pubblicato dalla University of Massachusetts Press. » (Dai giornali) “.
“ Lunedì 18 ottobre 2010 – « Spesso chi organizza i “ progetti lettura “ insiste sul concetto che la tradizione da sola non basta a crescere e che occorre saper vivere nel mondo che ci circonda. Ma – mi chiedo – se la scuola offre come specimen del mondo gli scritti di Pulsatilla e l’imbarazzo stilistico del giovane Cautillo, non è forse meglio consigliare sani classici come Pasolini, Pavese, Vittorini, Fenoglio Marquez, Calvino, Hesse? Certo per un adolescente è più piacevole leggere un impasto linguistico di parolacce e slang mutuati dal linguaggio giovanile o contenuti rimescolati di spirito cristiano e retorici inni al valore del buon cuore (riassumo così le impressioni che ricavo dalle letture di Pulsatilla e Cautillo), ma educare alla lettura vuol dire anche insegnare perché un libro è un buon libro, significa rendere gli alunni capaci di scartare gli scritti che non hanno questo requisito. » (Dal blog di Luperini) “.
“ Venerdì 26 novembre 2010 – « Noi adesso sappiamo – scriveva Pavese – in che senso ci tocca lavorare. I cenni dispersi che negli anni bui raccoglievamo dalla voce di un amico, da una lettura, da qualche gioia e da molto dolore, si sono ora composti in un chiaro discorso e in una certa promessa. E il discorso è che non andremo verso il popolo, perché già siamo popolo, e tutto il resto è inesistente. Andremo se mai verso l’uomo. Perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo – di noi e degli altri. La nuova leggenda, il nuovo stile sta tutto qui. E con questo la nostra felicità. » (Continuare il discorso, in «Cinema nuovo», 1, n. 1, cit.) “.
“ Mercoledì 22 dicembre 2010 – Un titolo per un mio libro à venir: Ce n’est qu’un début / Diecimila inizi facili – sono i miei capolettera, altrimenti detti « iniziali ». Ho già pronta anche l’epigrafe: « 6 gennaio 1989 – “ Perché una cosa sola (fra le molte) mi pare insopportabile all’artista: non sentirsi più all’inizio. “ (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950) » “.
“ Lunedì 7 marzo 2011 – Poi mi accingo a leggere quella che credo sia un’interessante intervista sulla famosa « collana viola » dell’Einaudi, cioè di Pavese, De Martino etc., ma, leggendo il titolo, sono costretto a fermarmi subito perché il medesimo suona: « La « Collana viola »: intervista a Gian Carla Ferretti » Mi sono fermato perché mi è sembrato piuttosto buffo, addirittura stupefacente, che esista una studiosa con questo nome, praticamente un’omonima del famoso Gian Carlo Ferretti, studioso di editoria, etc. Mi sto preparando addirittura a scoprire chi è, addentrandomi nei favolosi meandri del web, quando do un’occhiata un po’ al di sotto del titolo e trovo un « Gian Carlo Ferretti, attento studioso dei processi editoriali » etc. Dunque la signora/ina Gian Carla non esiste, era solo un refuso, forse, chissà, considerato che l’intervista l’ha fatta una donna, considerato che si parla della « Collana viola », era addirittura un lapsus. A questo punto mi viene voglia di dire che per oggi ho già letto abbastanza. Ma non lo dico: il pomeriggio è lungo ed è meglio avere qualcosa di abbastanza lungo da leggere. “.
“ Venerdì 24 giugno 2011 – Solo ora, dopo tutto questo tempo – dopo una vita -, credo di avere finalmente capito che, fra la letteratura della mamma e quella della nonna, la più degna di essere considerata tale, la più « vera », la più « viva » era quella della mamma, con il suo Omero, con il suo Edgar Lee Masters, con il suo Christopher Morley, con il suo Pavese, dopotutto, con tutte le cose che mi piacevano, ma solo fino a un certo punto. E tutto questo perché, fra mamma e la nonna, quella che era, indimenticabilmente, falsa, quella che, amabilmente, mentiva sempre, era la nonna: con il suo Dante, con il suo La Fontaine, con tutte le cose che mi piacevano immensamente, almeno nel senso che ascoltarle mi faceva uno strano, indicibile effetto. “.
“ Sabato 27 agosto 2011 – « “ Negli anni Cinquanta e Sessanta, era difficile resistere al mito di Pavese, consegnato ai romanzi, alle pagine del diario, alle ultime poesie, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, al messaggio, lasciato sul comodino, « non fate troppi pettegolezzi », ci dice Deaglio. “ Noi ragazzi dovevamo avere l’aria triste e gli occhialini come quelli che portava lui “. » (Dai giornali) “.
“ Lunedì 29 agosto 2011 – « Purtroppo ci vorrebbe sempre la guerra, e l’oscuramento, solo a quei tempi la nebbia dava il meglio di sé, ma non si può avere tutto e sempre. » (Umberto Eco, L’ultima estate di Pavese, in «La Repubblica», oggi) (« Basterebbe fermarsi lì. Invece chi ha la ventura di starci, vuole venirne fuori. » (Ibid.)) Poi, in cauda venenum, trovo il punctum: « Pavese è morto d’estate. Ma era un’estate in città. Chissà se Pavese avrebbe compiuto il suo gesto tra le colline. Guardando queste colline sappiamo solo che non l’ha fatto. ») “.
“ Mercoledì 12 ottobre 2011 – Letteratura è: continuare a chiedersi se fosse più letteratura la nonna con il suo visino severo, con la sua voce penetrante, con il suo La Fontaine d’epoca, o la mamma, con la sua dolcezza violenta, con il suo vestito viola, con il suo Edgar Lee Masters-Pavese, continuare a chiederselo, e, dopo tanto tempo che la nonna e la mamma non ci sono più – spaventoso dolore -, non riuscire ancora a rispondere, restare così, sbigottito, perplesso, senza risposta, senza letteratura… (Che cos’è la letteratura, 4) “.
“ Giovedì 3 novembre 2011 – Passo fra i tavoli, sbircio i titoli dei libri: America rossa e nera (di Fernanda Pivano), Terra rossa e terra nera (è un libro su Pavese). Saranno coincidenze… Mah. Boh. “.
“ Lunedì 23 gennaio 2012 – « Povero Pavese, morto per Tina, per Fernanda, per Bianca, per Costanza. » (Dal diario di Bianca Garufi) “.
“ Venerdì 25 gennaio 2013 – « Eppure, ci accade per questo romanzo, come per i migliori di Balzac, di scordare, leggendo, ogni senso critico, e consentire alla vivacità della pagina, nello stesso modo che si abbandona alla favola avventurosa di un film. » (Cesare Pavese, Prefazione a Charles Dickens, La storia e le personali esperienze di David Copperfield, Torino, Einaudi, 1948) (Il buffo è che noto che nelle tre paginette della medesima prefazione la parola « stupore » ricorre quattro o cinque volte) “.
“ Mercoledì 15 gennaio 2014 – Da segnalare anche Il maglione rosso, romanzo di Mario Sturani, « pittore e ceramista », che « Pavese non volle pubblicare ». “.
“ Mercoledì 15 gennaio 2014 – « Mia madre mi raccontava che una volta, quando era incinta, lei e mio padre lo [*] invitarono a pranzo. Lui rifiutò, dicendo di non sopportare la vista delle donne con il pancione. » (Dice il figliolo di Sturani – che aveva sposato la figliola di Augusto Monti) [*] Pavese. “.
“ Giovedì 20 marzo 2014 – Poi vado alla libreria dove presentano un libro dal titolo Non fate troppi pettegolezzi, e, appena entro, vedo l’autore. Si chiama Demetrio Paolin e il libro che ha scritto è un racconto-saggio, una « passeggiata » fra quattro autori – Salgari, Pavese, Primo Levi e Lucentini – che hanno in comune il fatto di avere vissuto – come vive lui – a Torino, nonché quello di essere morti suicidi. Era tutto molto interessante, soprattutto per me, e i relatori, il medesimo Paolin e Giorgio Vasta – assolutamente bravissimi, persino troppo. Sarà per questo che, alla fine, mentre tutti se ne andavano, io mi sono avvicinato all’autore e gli detto una cosa che, subito dopo, ripensandoci, mi è sembrata assolutamente orrenda. Gli ho chiesto: « Ma lei, a Torino, dove abita? ». « A Santa Rita », mi ha risposto, e non mi sembrava per niente contento. Dico della domanda, non di abitare a Santa Rita… “.
“ Mercoledì 26 marzo 2014 – « Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno / In cui nulla accadrà » (Cesare Pavese, Lavorare stanca / courtesy Demetrio Paolin, Non fate troppi pettegolezzi, 2014) “.
“ Lunedì 26 maggio 2014 – « “ Non fate troppi pettegolezzi “. Si congedava per sempre così Cesare Pavese, nel 1950, dando corpo a una delle paure più sottili di scrittori e artisti: essere fraintesi, specie dai posteri. Timore che oggi sfiora anche i viventi: la diffusione della cultura è veloce, frammentata, polverizzata dalle migliaia di finestre virtuali che ogni giorno ci rimandano citazioni, stralci, incipit, finali. […] Francesca Chiusaroli, docente di Linguistica all’Università di Macerata, si è inventata il progetto #ScrittureBrevi, dove su Twitter invita a creare dei piccoli racconti ispirati a temi, scrittori, pezzi di immaginario. “ Il rischio citazione-sterile – dice – esiste, ma si aggira rivitalizzando la lingua. Per dire, abbiamo lanciato un tema tra i più abusati, come #Ceraunavoltaunre, e i lettori ci hanno sorpreso perché sono riusciti non solo a creare microstorie ma anche ad associare a questo noto incipit autori poco conosciuti “. » (Dai giornali) “.
“ Domenica 14 settembre 2014 – « […] Peccato che anche Giulio Einaudi e i vecchi manager della casa dello struzzo, nel loro piccolo, si incazzino: inopinata, per loro, la commistione fra sacro (Cesare Pavese, Italo Calvino e via con i mostri sacri) e profano (le barzellette, puah). Risultato: Dalai esce dalla Einaudi per gettarsi nell’avventura Baldini & Castoldi, marchio centenario e in disuso. » (Dai giornali) “.
“ Sabato 14 marzo 2015 – Stamani, cioè poco fa, dagli « zingari », ho visto per terra un librino piccino picciò. « È troia? », mi ha chiesto lo zingaro mentre lo raccoglievo. Effettivamente lo era, esattamente: Christopher Morley, Il cavallo di Troia / The Trojan Horse, traduzione di Cesare Pavese, Bompiani, 1942, a. XX. Poi, mentre riscuoteva l’euro della transazione, ha aggiunto, con il suo vocione: « Lo volevo leggere io ». Ma ormai era andata: il libro era mio, potevo farne quel che volevo. Però, per giustificarmi, gli ho detto: « È divertente… », ma così piano che non so se abbia sentito. Chissà se lo leggerà mai, il letterato gitano… Credo proprio di no, credo che dicesse per dire. E nemmeno io. Anche perché l’ho già letto, dovevo essere in seconda, massimo in terza media. Quando avevo tanto tempo per leggere. Quando non c’era la televisione. Quando non era ancora cominciato niente. Quando ero perfettamente « innocente » – cfr. il diario che dice: – « 11 febbraio 1986 – Età mentale tredicianni. Sfido che si sentono innocenti.». “.
“ Giovedì 30 luglio 2015 – Sfoglio le immagini di Google. In mezzo a quelle di Vassalli, trovo Magris, Saviano, Faletti, Busi, e, dulcis in fundo, Concita De Gregorio: la letteratura, è (diventata)… ? (C’è anche Pavese, che è morto per tutti loro… ) “.
“ Lunedì 22 febbraio 2016 – E comunque, caro amico, se quel personaggio del Pendolo di Foucault si chiama « Jacopo Belbo », non è perché Eco si ricordava « le sue origini piemontesi ». Mi sbaglierò, ma giurerei che si ricordava di Cesare Pavese. La penna batte dove il dente duole. “.
“ Sabato 28 maggio 2016 – « Alla memoria di Cesare Pavese » (Carlo Bernari, Vesuvio e pane, 1953 – epigrafe) “.
“ Mercoledì 8 giugno 2016 – Poi c’è quello che ha fatto una nuova traduzione di Moby Dick che dice che Pavese non aveva capito niente. Peut-être. “.
“ Domenica 10 luglio 2016 – « Cesare Pavese: la cucina e i falò » (Titolo di Repubblica in occasione del festival letterario di Santo Stefano Belbo) “.
“ Sabato 27 agosto 2016 – Poi leggo che Cristina Comencini ha vinto il Premio Cesare Pavese con il romanzo Essere vivi, e mi sembra giusto. Nel senso di comico al punto giusto etc. “.
“ Martedì 7 agosto 2018 – Quando stamani ho deciso di scrivere sotto la foto del furgone nel quale 12 migranti che andavano a lavorare hanno perso la vita la didascalia: « Emigrare stanca », ho capito subito che, più che dei migranti, della loro tragedia, dello scandalo dello sfruttamento di quelli che vengono qui da noi, stavo parlando di me. Del resto si poteva capirlo alla svelta: nell’allusione alla conosciutissima raccolta poetica di Cesare Pavese era evidentemente racchiusa l’intenzione di parlare, più di ogni altra cosa, di letteratura. Quello che pensavo quando ho pensato di scrivere che « emigrare stanca », era che anche io, dopotutto, sono un emigrato. E anche, fino a prova contraria, un letterato. E, ecco il punto, che fra le due cose c’è forse una relazione. Io sono convinto di essere emigrato tanti anni fa. Mi sembra di ricordare benissimo quando, abbastanza inspiegabilmente, ho detto addio a tutto ciò che amavo e da cui ero certo di essere amato. Ai « dolci amici », ma non solo. A tutto ciò che per me era « dolce », cioè capace di rendermi illimitatamente felice. E fra tutte queste cose « dolci », la più dolce di tutte era la letteratura. Comunque allora ho lasciato tutto e ho cominciato una specie di viaggio. […] Sarebbe un po’ lunga a dirla tutta, quello che, per ora, mi accontento di dire, è che non sto parlando di incidenti stradali, ma, per così dire, di incidenti esistenziali. Anzi: linguistici. Detta in due parole: basta pochissimo a passare da un’« altra parte ». A perdere tutto, a non capirci più niente, a sentirsi, irredimibilmente, straniero. A non riuscire a tornare più a casa. A essere dove non si era destinati a stare. A dovere imparare una lingua che, per quanti sforzi tu faccia, non sarà mai la tua. “.
“ Lunedì 30 dicembre 2019 – Un bilancio. Tutto quello che ho fatto negli ultimi quarant’anni – quasi una vita, direbbe Corrado Alvaro – è stato solo stare attento «ai crocicchi e ai colpi d’aria », come direbbe Cesare Pavese, cioè cercare di non morire, di sopravvivere, insomma. Non è stata una gran vita, ma forse la vita è sempre così. Ci vuole una grande pazienza, ma a lungo andare ci si sente stanchi. Pazientare stanca, diciamo così. Ma è anche vero che non c’è altro da fare. (Ripenso a quel diario di ieri: io non sono un giornalista. Ma non sono neanche uno scrittore. Ma allora che cosa sono? Un diarista? Non mi fare ridere che c’ho le labbra screpolate. Forse sono un comico, uno dei tanti) “.
“ Giovedì 9 aprile 2020 – Poi c’è Ferrarotti, che ha compiuto 94 anni, che dice che gli manca l’amicizia con Pavese. Io mi stupisco un po’, poi vado a controllare e scopro che, anche se li dividevano vent’anni, c’è stato effettivamente fra loro una specie di breve sodalizio. Ferrarotti c’ha scritto anche un libro: Al santuario con Pavese. Storia di un’amicizia. (Edizioni Dehoniane, 2016) Comunque, come facciano un poeta e un sociologo a essere amici, per me rimane un mistero. “.
APPENDICE
“ Lunedì 4 giugno 2001 – Rileggendo il mio diario, trovo un curioso testo alla data del 4 gennaio 1998: « Ci sono quelli che leggono per professione, quelli che scrivono per professione, quelli che guardano per professione, quelli che si arrabbiano per professione, quelli che riflettono per professione. Ma tu, che non sei fra quelli, perché leggi, scrivi, guardi, ti arrabbi, rifletti? » « Io vivo, per professione ». La curiosità consiste nel fatto che il breve dialogo mi sembra nientemeno che una definizione del « mestiere di vivere », la formulazione dell’idea che si può trattare la vita come se fosse un mestiere, qualcosa cioè di non privo di opacità, ripetitività, scaltrezza, abilità, necessità, etc. In ogni caso, che la vita sia un mestiere, cioè una cosa soprattutto un po’ triste, può pensarla solo chi quel mestiere non lo conosce e non lo conoscerà mai. Anche perché non ha mai avuto troppa voglia di lavorare.“.
Operazione ciclopica, ma anche miniera d’informazioni, ma anche godibilissima lettura, ma anche sterminata rassegna d’aneddoti, ma anche riflessioni che fanno riflettere, ma anche complimenti (anfibologici).