di Francesco Luti con una introduzione di Angelo Australi
James Joyce vede per la prima volta Nora Barnacle il 10 giugno del 1904, ma è il 16 di quello stesso mese che hanno il loro primo appuntamento.
In questo stesso anno ha inizio l’esilio di James Joyce e di Nora Barnacle, prima sono a Parigi, poi Zurigo, ma ad ottobre si trasferiscono a Pola e infine a Trieste, dove avranno i figli Giorgio e Lucia e vivranno – quasi sempre in ristrettezze economiche – fino allo scoppio della prima guerra mondiale.
James Joyce e il piccolo Giorgio il 29 luglio del 1909 sono a Dublino, dove rimarranno fino al 9 settembre. Nora non li accompagna, è rimasta a Trieste con la piccola Lucia di appena due anni. Oltre a far conoscere il figlio al padre e alle sorelle, lo scopo del viaggio è anche quello di definire il contratto per la pubblicazione dei Dubliners con l’editore Maunsel & Co, che alla fine si rivelerà l’ennesima fonte di dolorose amarezze (ripensamenti dell’editore, nuove trattative, fino a giungere al paradosso della distruzione di tutte le copie già stampate, nel dicembre del 1912); la raccolta, che ha raggiunto la sua forma definitiva dall’agosto del 1907, sarà pubblicata solo a febbraio del 1914.
Tornato a Trieste ai primi di settembre del 1909, nel giro di pochi giorni James Joyce riesce a convincere alcuni uomini d’affari triestini ad investire nella realizzazione del primo cinematografo della sua Dublino, così entro la fine del mese tornerà di nuovo in Irlanda dove allestisce una sala cinematografica in tempo per aprire al pubblico a Natale: il Cinema Volta. In questo secondo periodo di distanza dalla moglie, Joyce scrive le sue famose lettere percorse da una passione sessuale tutta mentale che ritroveremo efficacemente espressa in alcune pagine dell’Ulysses.
A settembre, dopo alcuni giorni dal suo primo arrivo in Irlanda, il vecchio compagno di studi Vincent Cosgrave farà capire a Joyce di aver goduto dei favori di Nora prima della sua fuga da Dublino. È una menzogna bella e buona, forse detta per invidia, ma il fatto sconvolge lo scrittore al punto di ispirare uno straordinario gruppo di lettere tutte indirizzate a Nora che si leggono come un vero e proprio romanzo in forma di epistolario.
Un po’ di anni dopo la giornata 16 giugno del 1904 sarà rivissuta da Leopold Bloom ne l’Ulysses, diventando l’oggetto contestuale di uno dei viaggi mentali più veri e intensi immaginato dalla letteratura di tutti i tempi.
Grazie a questo testo di Francesco Luti, La panchina di Nora, vorremmo anche noi in qualche modo festeggiare il Bloomdays. È scritto con una leggera vena ironica davvero anti commemorativa, e questo ci sembra il modo migliore per tornare a leggere un grande scrittore come James Joyce.
Angelo Australi
“Joyce was afraid of thunder, but lions roared at his funeral from the Zurich zoo” (Volcano, Derek Walcott)
Alle otto del mattino la luna sostava ancora in cielo, a mezz’altezza, come un fiocco di neve sperso nell’azzurro. Jim aveva affidato Giorgio, il figlio di quattro anni ancora immerso in un sonno profondo, alla squadra delle sorelle (May, Eileen, Eva, Florence e Mabel), scalpitante di conoscerlo e tutta schierata nella casa di sempre dei Joyce al 44 di Fontenoy Street.
Di buonora già varcava l’arco d’accesso dello Stephen’s Green col parco che gli si offriva spoglio di persone. Il viaggio sulla nave postale fino a Kingstown con bambino a carico era stato impegnativo, e ora, di malavoglia, Jim ritrovava Dublino.
Nora, la compagna, era rimasta a Trieste con la piccola Lucia e col fratello di Jim, Stannie. Si era congedata con un incoraggiante abbraccio e gli chiese perché non lo si vedesse sereno già che si accingeva a tornare in patria.
Jim sostenne che gli costava spostarsi ora che l’inchiostro della penna fluiva come la corrente del Liffey; nondimeno c’erano altri fattori, ma lui tacque, adducendo che andava per riappacificarsi col padre e mostrargli il nipotino. In più c’era la promessa fatta proprio a lei, Nora, di far conoscere Giorgio ai suoceri, a Galway.
A parte i familiari stretti e un editore, non vi era chi fosse al corrente del suo sbarco. Non era venuto per stringere vecchie mani (se non le inevitabili); non era più quel buontempo…
In quell’inizio di giornata, Dublino presentava un insolito sole e a Jim piacque immaginare fosse un tributo che la sua città gli faceva, e sorrise mentre pronució due volte la parola ‘gnomi’. Era così che chiamava i suoi connazionali che avevano cercato d’assassinarlo come scrittore.
Eppure quel mattino – strano per un vanesio come lui – non pensó né alla Gloria né ai vecchi patti con sé stesso, intento com’era a rintracciare la panchina di Nora.
Allo Stephen’s Green l’aveva accompagnata una sera di giugno di cinque anni prima, e lì era scoccato il corteggio. Certo d’averla individuata qualche metro più in là, ebbe il sussulto d’un presentimento annunciante che giammai tutti gli ultimi sorsi d’Irlanda, visivi, olfattivi, tattili sarebbero somigliati a quelli d’un tempo. Vi si sedette: l’erba del parco sfogava il profumo dell’estate e quando volle rammentarsi del giorno con Nora, gli insorse una terzina. Era una terzina infernale che lo riguardava e cominciava con il ma misi me per l’alto mare aperto.
Via dall’Irlanda con Nora ragazza per giungere a Pola per seguir virtute e canoscenza, che in lui si traducevano nello scrivere, “nell’esprimere sé stesso in qualche modo di vita o di arte”. Via dunque, e non morire presso ciò che si ama (o si odia). Sì perché a Jim, Dublino e l’Irlanda, volesse o no, scorrevano in vena, e il fatto stesso di rintracciare una panchina in un parco era gesto d’inequivocabile amore.
E checché ne pensasse lui, che insomma fosse solo Nora (e il ricordo di quell’incontro) la ragione della visita al parco, Nora stessa, come la panchina e lo Stephen’s Green, erano tre pezzi d’Irlanda. Jim sapeva di non potere fare a meno, né prima né mai, di dipingere il suo paese in ogni scritto. Le ebbrezze, le angosce, il profumo; e proprio l’odore d’Irlanda aveva riconosciuto appena irrotto nella cucina della casa del padre, col vecchio genitore, l’antico artefice che aveva appena messo su un disco della Traviata a segno di riconciliazione col figlio.
A Jim rodeva un’unica cosa: che non avessero capito il suo genio, questo e basta costituiva il sommo tradimento… e il pazzo e coriaceo intento tutto vòlto a potersi sedere in pace in terra straniera e scrivere di cose irlandesi, distante dalla moribonda Dublino e dalle muschiose pietre di Sandymount era compiuto. Ma ormai pure la Torre Martello a Sandycove si situava in una lontananza irrecuperabile. Tutto il remoto da portarsi appresso per ridargli anima, forgiandola a misura dal piccolo al grande ricamo.
Tuttavia, in quella pausa di riposo allo Stephen’s Green spiccava Nora, la Nora di allora, colei che gli scriveva letterine senza punteggiatura. Trent’anni dopo toccherà a lui, alla sua titanica maestrìa verbale, omettere e giocare con l’interpunzione, triturando e reimpastando la lingua inglese.
Il giovane e glabro viso della graziosa cameriera del Finn’s Hotel che aveva convinta a seguirlo ignara di che cosa un giorno quel ventiduenne avrebbe significato, ora, gli tornava in mente.
Alla sua maniera ghignò sapendola non abituata alle galanterie da bettola degli spasimanti che se ne disputavano i sorrisi, non come quelle che le aveva riservato lui foggiandole in presa diretta.
Seduto a gambe discoste, Jim si serenizzò conscio che quel suo intento d’allora, mesi dopo si era tramutato in una vita assieme a lei e un figlio in arrivo. Eppure quella panchina rappresentava per Jim più di quanto raggiunto finora.
Il germe del proposito d’esilio che aveva sempre covato, in quel parco quattro anni prima si era ingrossato di colpo e alla prima occasione glielo confessò. Si, quel giorno già l’amava, ma a quell’amore Jim sapeva che avrebbe anteposto il suo essere scrittore; giammai avrebbe rinunciato a una briciola della sua vocazione per l’estrema certezza d’una specie di superiorità.
Eppure il fatto che lei avesse accettato di lasciare l’Irlanda, era stato per Jim il segno cruciale, il pegno di una scommessa alla quale, ancor di più sentiva di dover tener fede.
Dunque la deliberata scelta d’esilio volontario significava non accontentarsi di vivere la realtà di piccoli inganni quotidiani. In lui, di nuovo, tambureggiavano le parole messe in bocca a Stephen Dedalus: “non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la Chiesa…”.
Restò assorto poi s’alzò rammentandosi di dover sbrigare altre faccende. Con andatura vascolante uscì dal parco riattivando quell’a tu per tu con Dublino che da quattro anni non praticava. La città riluceva sui grigi selciati quando irruppe nella Biblioteca Nazionale. Sulle scale stascò un blocco dalla giacca e si appoggiò al ripiano d’una finestra per trattenersi un breve tempo: di quando in quando arcuava il sopracciglio cercando in aria le parole, poi chinava gli occhi sui foglietti che richiudeva soddisfatto. Dentro di sé sapeva che il Portrait dell’artista era ben avviato. Lo aveva dovuto interrompere per il viaggio, ma continuava a svilupparglisi in testa.
Il segno di grafite del lapis correva vellutato mentre anche l’ultimo scalino era raggiunto. Jim cercò la zona dove da studente era solito sedersi. Le vecchie placche d’ottone con scritto silence is requested campeggiavano sui lunghi tavoli. Vi restò per un’oretta seminascosto in un dizionario di gaelico e sfogliando cartine topografiche di Dublino. Poi s’avviò all’uscita per l’appuntamento con Cosgrave, il fallito perdigiorno. A lui e a Gogarty, Jim non poteva dire di no. Il chirurgo e il fannullone, amici di un tempo che Jim considerava sepolto, avevano scoperto che era a Dublino e gli avevano recapitato a casa un biglietto di convocazione per una bevuta.
Entrambi vi si erano precipitati col timore che, a ragione, Jim potesse raffigurarli negativamente nei suoi libri. Nella cerchia di chi lo frequentava, godeva d’un’aria d’immoralità tantoché si era ripromesso vendetta attraverso la scrittura.
Con Cosgrave percorsero le strade che a quell’ora brulicavano d’ogni tipo di gente. Benché cercasse di dissimularlo, Cosgrave bolliva di rancore e invidia. Aver fatto cilecca con Nora laddove Jim aveva fatto breccia, e dunque farciva le sue parole di un odio sottile che mirava al punto debole di Jim. Con parlare traslato, Cosgrave prese a narrare dei vecchi tempi finendo per accennare a lei, insinuando che all’epoca in cui Jim la corteggiava, a sere alterne l’aveva vista in compagnia d’un giovanotto.
Jim restò silenzioso ad ascoltare. S’immaginava una giocata di tale fattura, e mantenne la freddezza necessaria a carpire i minimi dettagli del racconto per confutarli nel riceverli, e inoltre per catturare incertezze che trasparissero dall’espressione di Cosgrave.
Era dunque divenuta una sfida inquietante che lo riportava a vivere lo scontro di sentimenti distinti. Sapeva che Cosgrave non era fidabile e che le scorribande passate non erano più spendibili in nome della loro amicizia. Jim non dubitava di Nora, eppure il dire di Cosgrave gli giungeva ostile e violento come i flutti del mare che lo avevano traghettato infino a Dublino.
Per liquidare Cosgrave accampò la scusa di dover prelevare Giorgio dalle sorelle. Fu così che riuscì a spendere in famiglia il resto del giorno. In casa del padre vergò una lettera per Nora dove non si preoccupò della forma, tantomeno di ferirla, vomitando la propria angustia. Nella missiva minacciò di non accompagnare Giorgio dai suoceri, poi dedicò qualche linea ai giorni di Merrion Square quand’era cominciata la loro storia d’amore, preambolo per riportare il discorso a quanto Cosgrave gli aveva riferito quella stessa mattina. A questa lettera, Jim ne fece seguire un’altra, simile nei toni e nei contenuti, e scritta all’alba quando l’angustia poté più del sonno.
Gli pareva ridicolo essersi recato allo Stephen’s Green, aver riesumato ere d’innamoramento, ora che le parole di Cosgrave tratteggiavano una Nora a lui sconosciuta. Non gli restava che giocarsi la carta Byrne, altro vecchio compagno d’adolescenza, e lo convocò. S’incontrarono all’ora di pranzo: il tempo era cambiato e col sole cappato dalle nubi, la pioggia poteva dirsi d’argento, tanto che a Jim gli sembrò di buon auspicio e, in più, come cadesse per detergere ogni cattiveria. Non trattenne l’amarezza che nelle ultime ore lo accompagnava, ed espose a Byrne quanto rivelato da Cosgrave. L’amico lo tranquillizzò calcando la mano sul fatto che Cosgrave e Gogarty erano due bugiardi che congiuravano contro di lui. Man mano che le parole pacate e precise di Byrne l’avvolgevano, Jim andava convincendosi che fossero sincere, e così facendo trovava in sé la spinta per riformularsi un’opinione su Nora. Sulla strada di casa, con Byrne già lontano, si era pentito d’essersi precipitato a scriverle senza attendere il colloquio con Byrne.
Trascorsero i giorni e la risposta di Nora non arrivava; Jim aveva sospeso di scriverle dopo le due estemporanee lettere dovute alla menzogna di Cosgrave. Continuava, invece, a spedire brevi note al fratello Stannie, principalmente richieste pecuniarie. Il suo gran daffare di quei giorni scaturiva dalle vicissitudini editoriali per pubblicare i Dubliners. Dopo alcuni incontri, Jim riuscì a firmare il contratto il diciannove d’agosto. Quel giorno stesso riprese l’inchiostro e con quel pretesto scrisse a Nora una lettera di pentimento.
L’obbiettivo editoriale era compiuto e non gli restava che ripartire. Ma prima volle portare Giorgio in treno a Galway, con l’incognita di come i suoceri l’avrebbero accolto. Quella di Galway si rivelò una piacevole parentesi benché pensasse solo al viaggio di ritorno tanto da convincere sua sorella Eva ad accompagnarli a Trieste.
Il viaggio in vista si prospettava lungo per le tappe di Londra, Parigi e Milano. L’ultima sera a Dublino Jim la spese nella vecchia camera cercando di vincere l’insonnia. Giorgio gli dormiva accanto con la quiete del sonno di un bimbo. La stanza, la luce della Dublino notturna, il silenzio delle strade spazzate dal vento regalavano una forma di pace e Jim volle ripensare alla madre, vera grande assente di quel ritorno in patria. Era morta due anni prima del suo espatrio, e allora si ricordò del telegramma del padre mentre lui era studente a Parigi: ‘vieni a casa: mamma muore’. E aveva fatto fagotto per vedersela morire davanti in una di per sé già morta primavera.
Rammentava esatte le parole che lei gli scriveva da Dublino, e lui giovane studente aspirante scrittore le rispondeva confidandole i suoi sogni, e allora lei lo incoraggiava a seguire il suo destino.
Con l’arrivo del mattino sarebbe giunto un nuovo giorno e con esso l’ebbrezza del viaggio mista al sapore di un addio. Jim lo sapeva, e anche per questo non poteva prendere sonno. Uscì dunque e si sedette fuori del portone a gambe incrociate come faceva da ragazzo per polemica con dietro l’eco della voce di sua madre che lo richiamava all’ordine.
Il vento di Dublino a raffiche gli sventolava la giacca, come fosse una bandiera.
Un Dublino d’oro a tutti voi con grande Joyce!
Interessante ricostruzione ambientale e biografica: interessante soprattutto il fatto che la psicologia dei personaggi affiori dallo stile: infatti, proprio le metafore, con i loro domini semantici, come boe o salvagenti di salvataggio, tirano in superficie le correnti fonde della psiche.
È l’emozione che ci convoca… “Chi sogna di più” mi dirai: “Colui che vede il mondo convenuto o chi si perde in sogni?”.
Che bella cosa questo festeggiamento!!!!
Ho letto Joyce da giovane e allora mi prendeva molto. Ma si può restare – e affaccio le mie perplessità senza sarcasmo – all’ombra del Mito della Letteratura o del Grande Autore, che all’amore “sapeva che avrebbe anteposto il suo essere scrittore; giammai avrebbe rinunciato a una briciola della sua vocazione per l’estrema certezza d’una specie di superiorità”, come mi pare di cogliere dai commenti?
“Meno genio per favore! ” consigliava spesso Franco Fortini ai suoi colleghi letterati. E a me pare un avvertimento tuttora necessario. Anche perché il geniale James Joyce ebbe grattacapi mica da ridere nel mentre costruiva il proprio Monumento. Come si può constatare leggendo questo documentato resoconto sul suo rapporto con la figlia:
http://www.humantrainer.com/articoli/danza-drammatica-padre-figlia.html?fbclid=IwAR25ZhJvVptiPPAUGxAUTBZE-bZuRtlAeDbGSCIRjb7ixQb1HPuGum9XlvU
…”Tutto il remoto da portarsi appresso per ridargli anima, forgiandola a misura dal piccolo al grande ricamo” (Francesco Luti): una bellissima definizione della scrittura che spesso, o forse sempre, ha bisogno della lontananza per potenziare la vicinanza al suo “oggetto”, in questo caso, per J. Joyce, la città di Dublino, la moglie Nina, il rapporto con amici e parenti…