di Velio Abati
Buono l’argomento della Disciplina dell’attenzione, difficile la posizione dell’autore. Come sappiamo l’argomento, in ispecie per la narrazione, non è elemento secondario per il valore dell’opera. Naturalmente l’argomento non è dato in assoluto, lo si misura nel suo contesto. E che cosa è più urgente, oggi, parlando degli uomini, della spaventosa spoliazione – crescente eppure nascosta, riversata nei nostri mari e terre eppure invisibile – del mondo che conta di cui portiamo bandiera ai danni della rimanente umanità? Invisibile, dicevo, ma non muta, tanto che anche nella nostra lingua hanno preso da tempo parola altri sguardi e linfe e colori che hanno finalmente attraversato i confini dell’orto letterario fecondandolo di nuovi semi, per chi vuol vedere. A questa urgenza, esplicitamente didattico, rinvia il titolo: l’attenzione è una necessità che richiede disciplina.
Ma, con questo, l’autore si è messo in una postazione ad alto rischio. Un principio elementare della quotidiana pratica ermeneutica, allo stesso tempo norma d’igiene mentale, è chiederci, di fronte a una qualunque comunicazione, ivi compresa quella del ciao mattutino: chi ci sta parlando? Chiunque si sia trovato alle prese conun testo scritto, tanto più se letterario, sa quanto maggiormente complicata sia quell’operazione, ugualmente costitutiva del senso di ciò che legge. Quando io mi chiedo “chi parla nella Disciplina dell’attenzione” non intendo riferirmi alla persona storica, in carne e ossa che risponde al nome di Roberto Bugliani, quella che in questo momento che leggo il romanzo già pensa ad altro e forse in altro modo, sebbene certo averne notizia aiuta, come già sapevano i copisti provenzali quando nei loro canzonieri accludevano le vidas ai commentari delle razos. Il ‘chi parla’ non è neppure esclusivamente costituito da chi nella narrazione dica “io” o “noi”, come nella stessa Disciplina si pretende, ordinariamente definita voce narrante. È invece, con immagine geometrica, un punto focale oltre il piano del testo, dove si raccolgono le linee di forza della voce narrante e dello sguardo sotto cui vengono rappresentati, in modo esplicito e soprattutto implicito, fatti, pensieri, azioni, personaggi, paesaggi, ambienti, flusso temporale, nonché le linee di forza tracciate dalle scelte rispetto ai generi, al registro linguistico, all’apparato retorico.
La difficoltà dell’autore della Disciplina dell’attenzione origina dall’essere egli parte di quel campo – per ricorrere al lessico di Bourdieu – che lo istituisce porta bandiera del mondo dei signori, per questo il suo alter ego nella narrazione è un “gringo”. Tuttavia ragioni storiche, oltre che ideologiche e morali, lo spingono a combattere quella sua parte, portando a nudo una scissura drammatica tra il signore e l’altro sé.
A lettura conclusa, osservo che l’orizzonte narrativo è saturato dallo sguardo del “gringo”. Un personaggio mal sicuro quanto si vuole, ma incapace di aprirsi, fosse solo per un attimo, all’altro sé in attesa oltre la fiamma della perdita, unico passo che potrebbe scamparlo dal cinismo. Condizione, questa, che impronta il traboccante sessismo dello sguardo sulla moltitudine qua e là definita e più frequentemente pulviscolare di figure femminili. Nella invariabile condizione di oggetto, in cui sono imprigionate per sempre, si concretizza tanto lo sprezzo cinico del signore quanto lo stato predatorio del dominio. La distanza umana dall’altro da sé vive anche nelle descrizioni degli ambienti, delle figure maschili, nelle condizioni fisiche e materiali che affollano le pagine, la cui dominante è la connotazione esotica, non essendo sufficienti a frangerla davvero alcuni inserti documentali presenti soprattutto nella conclusione del romanzo.
Contro tale spinta, la narrazione si affida, per aprire uno iato tra lettore e punto di vista narrante, a due contromosse, ove potremmo leggervi quella che in psicoanalisi si chiama resistenza: una linguistico-retorica, l’altra narratologica. La prima è imponente e di maggior rilievo: domina uno stile fortemente tipizzato, in cui le inflessioni sentimentali sono virilmente rifuggite. Il tratto è con efficacia condensato nello specchio della descrizione di un adolescente anonimo: “con l’aria da bulletto e l’andatura da bulletto a esorcizzare le sue paure” (p.55). Talvolta la spinta, per dir così, antimimetica sbocca in ampie sequenze di parossismo accumulativo portate fino al paroliberismo di certe avanguardie europee primonovecentesche.
La controprova della funzione difensiva della maniera virile assunta dal ductus narrativo ce la offrono le stesse pagine del romanzo allorché, in una vasta digressione del dodicesimo capitolo, esse si aprono alla rappresentazione della vicenda del mercenario ex militare della Germania dell’est. Qui il punto di vista narrativo, misurandosi con un proprio pari, riesce a sciogliere i veleni della critica con una libertà, con una secchezza nuove e convincenti.
L’altra contromossa con cui la macchina narrativa cerca di aprire lo iato della riflessione e del sospetto, con un gesto che vuole proclamare “guarda che il gringo e tutto quanto qui è narrato non sono il piano della verità”, è l’affaccio, fin nell’iniziale Avvertenza, di una voce che dice io e che si proclama “l’autore”. L’inserto metanarrativo torna a intervalli nel corpo del romanzo, a ostentare la propria distanza dall’altra voce narrante, anonima in terza persona. Ambiguamente funzionali a tale valenza distanziante sono anche l’impiego mimetico della grafica di iscrizioni-slogan su magliette o di nomi di locali, l’adozione occasionale di modalità da copione teatrale, gli ‘a parte’ di certi corsivi, nonché il ricorso inopinato a cinque note a piè di pagina. L’artificio contemporaneamente s’incarica, secondo una linea di discendenza illustre, di épater il proprio lettore: “la belloccia dai capelli color mogano che scendono vaporosi sulle spalle (l’hai subito adocchiata, eh? gattamorta d’un lettore!) mostra un attimo d’esitazione, rallenta un attimo”, ecc. (p.273): “tu le connais, lecteur, ce monstre délicat, / – hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!”, ci ammoniscono in limine i baudelairiani Fleurs du mal.
Una lettura concettualmente molto densa e problematica è quella di Abati. Il suo sguardo critico mi offre preziosi elementi e spunti di riflessione. Uno dei nodi critici iniziali mi trova consenziente: l’urgenza del rivolgere l’attenzione alle spoliazioni attuali e pregresse a opera del” mondo che conta” (di cui, oggettivamente, anche l’autore fa parte) ai danni della restante umanità, ” tanto che anche nella nostra lingua hanno preso da tempo parola altri sguardi e linfe e colori che hanno finalmente attraversato i confini dell’orto letterario fecondandolo di nuovi semi, per chi vuol vedere”. E, di conseguenza, in questa messa in gioco, che è anche sollecitazione d’attenzione, c’è, come dice Abati, l’alto rischio, da parte dell’autore, di portare, lo dico in soldoni per come l’ho capito, all’interno di questa rappresentazione letteraria la visione del mondo, frantumata e ambigua quanto si vuole (non a caso siamo nella post-modernità), del “gringo”, ossia d’un appartemente al mondo di sopra, per così dire, che non a caso alla fine ne esce eticamente un po’ ammaccato ma salvo, pronto a portare altrove le sue verità e le sue menzogne. Sì, ritengo sia questa una delle possibili direttrici ermeneutiche che il romanzo invita a percorrere. Questo, almeno, per la parte interpretativa che spetta all’autore. Mentre, come prima dicevo, elementi preziosi di riflessione, perché provenienti da uno sguardo altro, ossia da un’attenzione altra (quella del critico), mi offre l’individuazione di “due contromosse, ove potremmo leggervi quella che in psicoanalisi si chiama resistenza: una linguistico-retorica, l’altra narratologica” effettuate dall’autore per “aprire uno iato tra lettore e punto di vista narrante”. Per cui, in quanto consapevole d’una visione parziale della mia stessa opera (e col Novecento alle spalle non sono certo originale dicendo ciò), accolgo come ricco di implicazioni per me nuove nella loro organicità (le quali includono anche il “sessismo” del gringo in questo ambito) questo “nodo” prospettico di cui, tra l’altro, il dodicesimo capitolo del romanzo fornisce testimonianza, anche se una certa contraddizione tra mimesisi narrativa e spinta antimimetica la percepivo all’opera durante la composizione.