RIORDINADIARIO 1997. NEI DINTORNI DI PDG (PIERO DEL GIUDICE)
A cura di Ennio Abate
Nel dicembre 1997 cominciammo a preparare i saggi della rivista «Inoltre» sul tema «della violenza e altro» per il n. 2, che fu poi pubblicato (per motivi che qui non tratto) soltanto nella primavera del 1999. In esso, alle pagg. 59-65, compare una mia conversazione con Piero Del Giudice, «Ex Jugoslavia: il tempo del conflitto e l’internazionalismo dei diseredati» che porta la data 15/16 marzo 1997. Ora in una mia cartella del PC ho ritrovato un’intervista molto più lunga e meno impersonale di quella. Ne pubblico uno stralcio in coincidenza con la ricorrenza dei venticinque anni (1995) del massacro di Srebrenica [E.A.]
Con quali motivazioni o attese sei andato in quel paese in guerra?
Sono partito sostanzialmente come una persona che ai tempi della Guerra del Golfo ha avuto una crisi notevole rispetto alle ipotesi di cambiamento pacifico del mondo in chiave commerciale-mercantile, suscitato dalla caduta del muro di Berlino. Pensavo e speravo – certo con un livello di superficialità molto alto e pericoloso – che quel cambiamento potesse essere, per una volta almeno nella storia, pacifico, fondato su rapporti di produzione e mutazione sociale, di espansione del mercato, di impresa, di riscoperta e riproposizione dell’individuo. Così non è stato…
Ma come potevi tu, che sei stato dentro le esperienze del ’68-’69 e degli anni Settanta, avere ancora una visione così ottimistica, quando avevamo già subito – e non solo nel nostro paese – il troncamento di aspettative liberatorie?
Mah, ritengo oggi che il Paese in cui siamo è sufficientemente democratico. Specie rispetto a quanto ho visto là. Qui abbiamo un retroterra di civiltà e di cultura abbastanza alto. Quella sorta di nascita di un nuovo individuo, di una nuova dimensione individuale che qui si è avuta, nei paesi di cui parliamo è tuttora sconosciuta. La cosa più enorme e spaventosa che mi è stato dato di osservare è la mancanza di un senso di responsabilità individuale. Lì ho trovato criminali incalliti che attribuiscono quanto accaduto ad eventi strani o comunque estranei a loro. E’ un connotato molto interessante; che non è solo contingente, dovuto cioè alla guerra, ma è più profondo, proprio di cultura. Facciamo degli esempi efficaci: Vukovar.[1] C’è stata certamente una distruzione e una strage da parte dei serbi in questa cittadina che era una ridotta croata. Ero a Belgrado nel 1993, per intervistare giovani che erano stati feriti in queste guerre. Non si capiva se erano dei soldati o ufficiali dell’esercito ex-jugoslavo, ma ormai nettamente serbo e che interveniva fuori dai confini della Serbia, o dei “volontari”. Questa dei “volontari” era poi la forma ufficiale per motivare la presenza di truppe serbe in queste guerre in territorio croato o nella Bosnia-Erzegovina. Parlavo in particolare con uno studente di architettura, che mi sembrava sfuggire abbastanza alle logiche nazionaliste e non era per niente un giovane sciocco. Come sua prima ambizione voleva partire e andarsene da lì, anche se l’ho trovato in un convalescenziario di un certo capitan Dragan[?] e stava gestendosi un periodo di servizio sociale, perché aveva subito una ferita lieve. In questa conversazione mi colpirono due cose. Prima. La strage terribile di migliaia di civili a Vukovar per lui era stata semplicemente un “errore”, una ”incomprensione”. Ma poi mi disse: “noi faremo un monumento di Vukovar, la lasceremo così”. Si poteva reagire insultandolo per varie ragioni. Ma non era il caso. Mi colpì soprattutto questa storia del monumento. La ex-Jugoslavia è piena di monumenti.
Ce l’hai anche tu con i monumenti?
In genere il monumento è retorico, magniloquente, solitamente infelice dal punto di vista estetico e architettonico, opprimente. Sottrae gli individui ad un pensiero critico. Io ricordo di aver odiato i monumenti della Prima guerra mondiale, quando da ragazzino feci una mia inchiesta tra una serie di anziani che erano stati disertori in quella guerra. Bene, in questa civiltà i monumenti si sprecano, anche oggi. L’altra cosa che mi colpì fu quando gli dissi: ma scusa, qui al centro di Belgrado ci sono questi cantori-pastori che suonano la gusla[2] e sono sempre lì a cantare le varianti dei canti ottocenteschi o, anche prima della guerra, delle ballate antiturche. Ma dove pensi che andiamo con questi qua, in un mondo sempre più informatizzato e veloce? Lui, invece di stare su questo discorso abbastanza facile, si fermò e disse con decisione:” No, questa è la nostra cultura popolare”. Ora, se mai esiste una cultura popolare, delle sue tracce se n’è fatto scempio, perché i canti popolari sono diventati i canti dei nazionalisti.
Una cultura popolare, cioè collettiva, deformata quanto vuoi, mi pare innegabile. Condiziona, non si cancella mai del tutto. Le radici saranno di plastica, le comunità immaginate, le tradizioni inventate – come si è scritto autorevolmente (penso ad Anderson[3], ad Hobsbwam[4] )- ma come “strapparle” o meglio sostituirle con forme di cultura che a loro si presentano come ignote e minacciose? Basta un illuminismo magari informatico.
Questo è solo un esempio. Altri se ne possono fare. Dovunque e comunque, nel ‘93, nel ‘94, nel ‘95 , negli incontri e nelle interviste, ho sempre sentito dire: “Non sappiamo come’è nata questa guerra fratricida”. (E’ un’affermazione fatta soprattutto dai serbi). Oppure: “Noi siamo per la pace. Questo è un complotto degli Usa, della Germania, del Vaticano, che hanno portato i popoli (sottolineo “i popoli”) al macello. Eppure parlavo con individui che qualcosa avevano fatto, perché erano feriti. Quindi avevano combattuto, erano menomati da colpi di granata o di fucile. Salvo ritrovare individui ancora più strani che attribuivano sempre ad altri la nascita e lo sviluppo di questa quotidianità di popoli in guerra. Chiamarla “tragedia” mi dà anche fastidio, perché sembra un’estrapolazione da quanto sta accadendo. Lo stesso atteggiamento, in modi più miti e fiabeschi, trovavo nella cultura musulmana fra i bosniaci. Frasi come: “Tutto ci è rotolato sulle spalle senza che ce ne accorgessimo”. Oppure: “Tutto è accaduto sopra di noi e ci ha travolto”. E parlo qui di un uomo dolcissimo che intervistavo nel ‘95 e che ora è morto. E’ stato ucciso. Era uno che faceva il giardiniere prima della guerra. La prima cosa che mi ha detto è stata che lui era un figlio dei fiori e aveva partecipato al movimento hippy. Per quanto possa sembrare provinciale, questo del movimento hippy, che aveva percorso la Jugoslavia, era una risorsa nel discorso dei quarantenni- trentacinquenni che di fronte a me, ad un giornalista occidentale, volevano presentarsi come emancipati e pacifisti. Essere stati in quel movimento significava aver assorbito una cultura occidentale, una cultura di pace.
Davvero “di pace” la cultura occidentale? Tutta?
Un’altra questione: le modalità dei rapporti fra uomo e donna. Io vedevo violenze consumate sulle donne con uno strano atteggiamento. Ci sono state donne stuprate. Ne ho visto, perché avevo intervistato delle ragazzine. La cosa che mi colpiva nelle altre donne, quando mi confrontavo su questo discorso, era una specie di orribile passività della donna rispetto allo schema cacciatore/preda, che sollevava la donna da una responsabilità, da una conquista di uno spazio. Certo non sono tutte così. Ci sono le intellettuali, le scrittrici, le donne intelligenti, quelle che sfidano. Ma c’è un letto di tenebra dove sta l’anonimato della gente. E ci metto anche l’aspetto sentimentale; cioè il laboratorio sentimentale, affettuoso- affettivo che si ha nei canti di amore più antichi e anche nelle relazioni. Una delle cose per me più irritanti era vedere come queste donne in realtà fossero lì e, sì, ma sono cacciatori, invece di esser delle bestie! Era un po’ guardare il mondo con un asse spostato rispetto al nostro. Ho paura che sia un dato più generale, ma lì mi colpiva con più forza questa mancanza di responsabilità individuale.
Mi pare che la tua principale chiave di lettura sia questa contrapposizione fra individualità e collettività o mi sbaglio?
Certo, queste guerre hanno una motivazione etnica. Giusto o sbagliato, verosimile o no, non ha importanza adesso. Sono guerre territoriali con una sovrastruttura etnica e in parte religiosa. Ebbene questa miseria del pensiero che è il nazionalismo era il rifugio, il luogo comune, la risorsa. Molto meno valeva nei bosniaci, che durante la guerra facevano tutto un sforzo per ricorrere a se stessi; mentre i carnefici avevano questo scudo, terribile nella sua semplificazione, delle motivazioni etnico-religiose. Questi davvero ammazzavano i bambini, stupravano le donne, facevano pulizia nei villaggi o bombardavano i civili nelle città. Ma più interessante era il fiorire di individualità. Certo, accadeva nelle città assediate che avevano una cultura più elaborata, più fine, come Sarajevo. Qui la mia visione – me ne accorgo anche adesso – era quella di individui, di eccezionali individui che ho incontrato proprio lì; e nel mio libro c’è tutta una parte dove si parla de i volti della resistenza…
Sono andato a rileggermi le brevi interviste pubblicate, a riguardarmi le foto, i nomi: Abdulah Sidran (“ho rifiutato e sono rimasto a Sarajevo, qui ho scritto la sceneggiatura di Tabut (Sepolcri), il film che stiamo girando nella città assediata”), Hidajeta Zajko, Mirsada (“tra noi c’erano donne che avevano bambini piccoli, erano costrette a lasciarli mentre venivano trascinate via per essere violentate”) e ho sentito qui più forte la tua partecipazione anche emotiva di testimone.
Mentre sono un po’ offuscato coi croati e coi serbi. Ho parlato molto anche con loro, ma mi sfuggivano come formazione individuale e provavo orrore di fronte ad una certa attrezzatura del loro pensiero.
Eppure la storia anche in quei paesi avrà sedimentato pensiero o almeno, e pesantemente, ideologie. Si può evitare l’impatto sgradevole di queste ultime, trascurando o semplicemente balzando oltre i detriti del socialismo reale, per cogliere- come tu dici – individualità autentiche in presa diretta?
Certo, per commisurarsi con quel mondo, bisogna fare i conti con mezzo secolo di socialismo reale. Come fosse prima, non abbiamo vissuto abbastanza per saperlo. Credo che il socialismo reale abbia prodotto una sua biografia critica. I libri ci possono soccorrere, ma fino ad un certo punto, anzi sempre meno. Vuoi un esempio clamoroso? Quando sono andato là nel ‘91, cercavo un giornalista, un collaboratore che scrivesse cronaca sugli eventi dalla Slovenia. Un mio amico di Lubiana, che è un uomo intelligente, giovane rispetto a me, mi ha detto: tu non troverai mai da noi un giornalista. E lo stesso è accaduto con gli storici. Si trattava di capire cos’erano queste repubbliche, qual era la storia della Jugoslavia. Nel periodo dell’assedio a Sarajevo – siamo nel ‘93, nel periodo tragico – ero andato all’Istituto di storia e avevo raccolto 5-6 professori di storia, portandogli naturalmente ogni mattina le sigarette, il caffè, qualcosa da mangiare. A Sarajevo era tutto chiuso e loro facevano già una fatica enorme per sopravvivere. Bisognava andare a pigliar l’acqua. Gli davo anche dei soldi. Volevo capire dov’ero; e cominciare dalla storia della Bosnia o della Croazia. Nei loro discorsi rutilavano re, regni, storie in fondo misere, perché effettivamente non c’è un grande background storico; ma anche perché tutto è stato spazzato via. Libri manipolati, autori manipolati, come da noi durante il fascismo. Più i regimi sono forti e più si ha una manipolazione della memoria. Si arriva alla disperazione. Non si riesce mai a capire. L’unica via è forse davvero affidarsi all’informazione diretta, sul campo; e tenere gli occhi aperti. Certo, abbondano pubblicazioni improvvisate su quanto fosse grande il Regno di Bosnia, sulla grande Croazia o la grande Serbia, documenti di intellettuali tromboni, riciclaggi di documenti di apparati precedenti. E sarebbe interessante andare a fondo, corsia per corsia: burocrazia, intellettuali, apparati, ecc. Sta di fatto che al momento emergeva soprattutto un’immagine un po’ spettacolare, un assemblaggio di rottami dei regimi precedenti che si riciclavano in chiave nazionalista.
Mi puoi fare un esempio di questo tuo accostare la realtà mettendo da parte certe attrezzature disciplinari più “pesanti”?
In questo caso sicuramente quello di un criminale di Mostar, A.F.[5], che adesso è ministro degli esteri della Federazione croata-musulmana e che sicuramente ha molto lavorato con la secessione dei nazionalisti croati. Mi capitò d’incontrarlo nel giugno del ‘92, quando andai per la prima volta in Bosnia Erzegovina con una spedizione di lavoro umanitario – per il fatto che a Trieste lavoravo nell’area basagliana dell’ex Ospedale psichiatrico, diventato un collettore di medicine e medici per questi paesi. E, quindi, non ero solo un giornalista. Mi portano da questo A.F. Da quanto si capiva era un eminente personaggio – sindaco o prefetto o podestà provvisorio. In realtà era uno che certamente stava dietro tutta la secessione e al separatismo della repubblica di Bosnia Erzegovina e dietro un’infinità di crimini. Certamente dietro il contrabbando che, nonostante la guerra, si faceva tra parti opposte. Ma peggio ancora è che allora era responsabile della Lega dei giovani socialisti in Bosnia Erzegovina. Colpisce ancora di più che io – essendo amico e stimando il cardinale di Milano Martini[6] – avevo una lettera di saluti per il vescovo di Mostar, un buon vecchio vescovo cattolico, tollerante e amico di monsignor Bettazzi[7] (e che infatti è stato immediatamente sostituito dai nazionalisti con un vescovo aggiunto, un terribile nazionalista). Dovevo partire e l’ho lasciata a qualcuno. Incontrando questo A.F. un po’ ingenuamente, un po’ perché dovevo giocare la parte dell’ingenuità e del silenzio, ho precisato: “Io non sono cattolico”. E questo qua mi ha detto: “Nnon tutti sono perfetti”. Questo tipo – un assassino e sicuramente un committente di assassinii, contrabbandiere di nafta e armi durante la guerra, responsabile della Lega dei giovani socialisti, ora ministro degli esteri… – fa esibizione di cattolicesimo! Quando si vedono uomini di apparato riciclarsi così prontamente, passando da Lega dei socialisti a nazionalisti o da atei convinti – (e non sono il solo a dirlo: è stato qui a Milano recentemente un bravo scrittore, Dzevad Karahasan, che ha pubblicato nel Saggiatore “Il divano orientale”, diceva: atei convinti popolano le moschee oggi) – a politici che si coprono con lo scudo dell’ideologia religiosa, siamo posti di fronte ad una semplificazione dell’individuo che a me sembra eterna in quei popoli.
Eterna? Anche per te non c’è più storia ma strutture arcaiche inesorabilmente riaffioranti e immodificabili? Non mi dirai che il regime del socialismo reale è passato come acqua fresca su una sorta di pietra umana immutata e immutabile senza levigarlaneppure un po’?
Su quella componente (arcaica) certamente il regime socialista ha lavorato. Quella componente, però, si è congiunta con lo stato di polizia che il regime socialista aveva imposto. Nel senso che lì non c’è diritto. Sì, non ci sono carceri, non c’è l’idea del carcere, che da noi – ricordiamocelo – è stata un’utopia illuminista, l’utopia di un posto dove si sconta una pena commisurata al reato. Là non esiste l’autonomia della magistratura. Esistono tipi da barzelletta, non magistrati; e neanche prima c’erano. Non sanno di cosa si parla, quando si parla dei magistrati italiani. Per loro gli affairs, gli scandali, per cui lo stesso Karadžić[8], prima della guerra, era cascato in una storia di criminalità economica neppure troppo qualificante [sono la norma] Era il Potere socialista che aveva i suoi magistrati e metteva in riga qualcuno. E noi oggi ci stupiamo che ci sono stati 30mila persone scomparse…
Hai rivisto del tutto la tua idea sul socialismo? Lo ritieni un completo fallimento?
Non l’ho mai rivista, perché ero convinto che fosse così da sempre. Non avevo illusioni precedenti. Su questo io appartengo ancora all’Autonomia, cioè al movimento libero e critico della sinistra che ha determinato, assieme al ‘68, due cose: la liberazione degli individui e la critica al socialismo reale. Meno male che in qualche misura ero già vaccinato. Ti parlo di Potere Operaio, dei libri critici sulla Cecoslovacchia, dei primi tentativi di analisi di quelle società.
Tu vedi dunque una piena continuità fra il precedente regime socialista e la fase successive di guerre etnico religiose?
Vedo che la gente è sempre la stessa. Gli apparati si sono riciclati. Una delle varie ragioni per cui lì non hai l’individuo. C’erano le aziende collettive. C’era lo statalismo. Mancava un’editoria autonoma. Abbondavano invece il folklore, il popolare, i monumenti, l’etnico. Tutto ciò nega questo strepitoso personaggio nuovo che è l’intelligenza critica dell’individuo globale d’oggi.
Ma è del tutto ingiustificato, di fronte ai macelli avvenuti, pensare – magari un po’ rozzamente – che era meglio prima?
Io credo che sia sbagliato dire: meglio prima, meglio dopo. A noi non deve interessare quello che c’era prima. M’interessa quello che c’è adesso. Non m’interessa una lettura fredda di un remoto. Gli individui dipendono dal processo critico della democrazia. Oggi ci sono spruzzi di democratici nella Bosnia e in quella parte che chiamiamo Federazione croata-musulmana. Ce ne sono a Banja Luka, soprattutto nelle città, nella parte della Repubblica serba e ci sono ancora piccolissimi spruzzi democratici a Belgrado. Non è che non ci fossero anche prima. Ma io sono legato a quella ventina di persone, scrittori, donne pittrici intelligenti. In tutto questo macello essi ci sono stati e si sono salvati. Penso a gente che soprattutto a Sarajevo, finita la guerra e l’assedio, ha detto: “Adesso basta fare un fronte di resistenza acritico perché ci stanno ammazzando tutti”. Uno di queste persone è il poeta Sidran. La sua famiglia aveva avuto delle vittime. Erano stati dei combattenti partigiani, durante l’occupazione nazista. Lui stesso era stato nel Fronte unito di resistenza contro il fascismo serbo e croato, ma adesso si riteneva uno scrittore autonomo, faceva il suo lavoro e non era d’accordo con la piega. del Partito unico nazionalista, SDA.[9]
Capisco che quella storia, quel mondo sia finito. Ma la lettura che ne faremo (se ne saremo capaci…) è indispensabile per cogliere appieno i mutamenti. Il presente non si legge solo col presente, credo. Non è tanto la nostalgia che mi trattiene al passato, quanto un’esigenza di avanzare ripuliti dalle scorie. Non è una buona cosa vederle rimuovere così disinvoltamente. I personaggi da te incontrati sono esempi atroci di questo cinico trasformismo, non ti pare?
Vai a guardarti la conversazione fra me e Sidran alla fine del libro.[10]Mi ha raccontato di un professore, Jure Marek, che si è suicidato nell’agosto del ‘92 quando è cominciata la guerra dispiegata. Era sicuramente un socialista, un comunista, quel che è. Un fine intellettuale, professore di Sidran e suo padre spirituale, [insomma]. Sidran mi ha raccontato che sia Marek che il proprio padre carnale erano stati a Goli Otok in quanto cominformisti. Questa era l’accusa dopo il ‘48 da parte di Tito e dell’apparato. Lo fossero o non lo fossero, sta di fatto che, in quel campo di “rieducazione”, Jure Marek era il kapo e picchiava il padre di Sidran. All’inizio pensavo che fosse una balla. Era un fatto talmente vertiginoso ed ellittico da apparire surreale. Ma era vero. Me ne sono convinto non perché l’abbia verificato scientificamente, ma perché dal ‘93 in avanti sono entrato in quel Paese e mi sono convinto che certamente una cosa del genere poteva essere successa. E Sidran, nel raccontarmelo, non viveva quello stesso strepitoso stupore o incredulità che io avevo. Me lo raccontava come se l’evento appartenesse ad un tessuto inesorabile per quel Paese. Il proprio padre spirituale, che l’aveva tolto dalla strada e gli aveva insegnato le lettere, ne aveva fatto uno scrittore e gli aveva indicato questa strada e che poi si suicida. E la sua tomba è a poche decine di metri da quella del padre di Sidran, seppellito come eroe nazionale. E venivano entrambi dalla resistenza, erano esponenti politici. E da allora cominciò la rovina della famiglia Sidran. E tutto ciò è nel film Papà… è in viaggio d’affari di Kusturica.[11]
Note
[1] La battaglia di Vukovar indica l’assedio della città croata di Vukovar da parte dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) con l’appoggio di milizie paramilitari serbe nell’ambito della guerra d’indipendenza croata. L’assedio durò 87 giorni, tra l’agosto e il novembre 1991 e si concluse con la sconfitta e il ritiro della locale guarnigione della Guardia Nazionale Croata e la quasi totale devastazione di Vukovar, pesantemente sottoposta al fuoco delle artiglierie.
[2] Strumento musicale degli slavi meridionali, con la cassa armonica direttamente connessa col manico, la tavola costituita da una membrana con buchi di forma circolare sulla quale è tesa una sola corda suonata mediante un arco.
[3] Benedict Anderson https://it.wikipedia.org/wiki/Comunit%C3%A0_immaginate
[4] Eric Hobsbwam https://it.wikipedia.org/wiki/Invenzione_della_tradizione
[5] Uso le iniziali perché non sono sicuro del nome della persona indicata.
[6] Carlo Maria Martini (Torino, 15 febbraio 1927 – Gallarate, 31 agosto 2012) è stato un cardinale, arcivescovo cattolico, teologo, biblista e docente italiano (https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Maria_Martini)
[7] Luigi Bettazzi (Treviso, 26 novembre 1923) è un vescovo cattolico italiano, vescovo emerito di Ivrea. (https://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Bettazzi)
[8] Radovan Karadžić, (Petnjica, 19 giugno 1945), è un politico e criminale di guerra serbo già presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal 1992 al 1996.
[9] Partito d’Azione Democratica (Stranka Demokratske Akcije, SDA) è un partito politico della Bosnia ed Erzegovina. Lo SDA è stato fondato nel 1990 da Alija Izetbegović, Muhamed Filipović e Fikret Abdić, al termine del regime comunista titino che governò la Jugoslavia dal 1945
[10] Abdulah Sidran, La bara di Sarajevo, pag 292-293, ADV Lugano 2002
[11] https://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=17535