di Donato Salzarulo
Tornando, ho trovato il paese come l’avevo lasciato, agli inizi di novembre dell’anno scorso. La piazza sempre lì, aperta e desolata, la torre sovrastante del castello ducale, la chiesa, i bar.
Il silenzio è rotto dal rintocco dell’orologio campanario che scandisce le ore col numero dei colpi. In alcuni momenti del giorno, lo scampanio si fa quasi assordante. Forse per invitare i fedeli alle cerimonie liturgiche, anche se le anime da salvare, rimaste nel cuore dell’antico borgo, sono ormai poche decine. Il grosso si è spostato al Piano regolatore, dove è sorto il paese nuovo.
Abitiamo poco lontano dal campanile e, quando il suono delle campane interrompe la quiete domestica, Giuseppina non riesce a nascondere il fastidio e a trattenere un moto d’insofferenza, specialmente se sta guardando un film alla TV. Pure se sto conversando in piazza Duomo con qualche amico, lo scampanio sembra farsi interminabile. Tra l’altro, ecco la novità, le lancette dell’orologio non girano in sintonia coi rintocchi perché continuano ad andare avanti a casaccio: di un’ora, un’ora e mezza, un’ora e tre quarti. Cosa vorrà dire?… Nulla: l’orologio è rotto e il parroco dovrebbe farlo aggiustare.
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A proposito di parroci: al paese a novembre ce n’erano due. Uno per la cattedrale del paese nuovo al Piano regolatore e un altro per il Duomo del paese vecchio. Tra i due edifici non c’è paragone. La facciata della vecchia cattedrale racconta una storia secolare in stile gotico; quella nuova è il parto post-modernista della fantasia di un architetto dopo il terremoto del 1980. Comunque, a novembre c’erano due parroci che adesso non ci sono più: don Antonio Tenore, quello della nuova cattedrale, è passato, pace all’anima sua, a miglior vita; quello della vecchia, che a giudicare dalla corporatura peccava probabilmente di gola, è stato trasferito. Non conosco i parroci che li hanno sostituiti. Ne ho intravisto soltanto uno: quello del Duomo, con una lunga tonaca nera e il tricorno in testa.
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Non so quanti siano stati i morti da novembre ad oggi a Bisaccia. Per Covid nessuno. Al paese non vi sono stati casi di contagio. I residenti vivono in una quarantena naturale. La densità abitativa è di 37 abitanti per chilometro quadrato. Cologno Monzese, la città in cui risiedo per la maggior parte dell’anno, ne ha 5.684. Comunque, tra i morti che desidero ricordare c’è Nunziatina, la signora che gestiva il negozio di alimentari all’imbocco di Via Vescovado, la strada della mia casa paterna. Senza figli, era una signora delicata. Graziosa, minuta e gentilissima parlava con un filo di voce. Tutte le volte che sono tornato al paese ci siamo salutati e mi è sempre sembrata interessata, con sincerità e partecipazione, alle vicende belle e brutte della mia famiglia.
Memorabile il caciocavallo che si vendeva nel suo negozio. Si racconta che l’attore Michele Placido, originario di Ascoli Satriano, venisse qui a comprarlo.
Virgilio, suo marito, è ancora vivo. Alloggia in una casa di riposo e non ho più occasione di vederlo. Agostino, mio cugino, un giorno mi disse che a Bisaccia l’Amministrazione comunale avrebbe fatto bene a realizzare una casa di riposo per anziani. Almeno i nostri vecchietti sarebbero rimasti al loro paese. Invece, qui tra poco non rimangono né vecchi né giovani.
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In questi giorni il bar dello Scozzese è chiuso. Non perché il coronavirus ha messo sul lastrico il proprietario, che sicuramente avrà dovuto affrontare delle difficoltà, ma perché i giovani eredi, che lo gestiscono da qualche anno, hanno deciso di ristrutturare il locale. Così martedì 7 luglio, dopo aver aperto la porta di casa e scaricato con Agostino le valigie, ho messo i piedi in piazza verso mezzogiorno, dove Michele mi stava aspettando. Non potendomi offrire il caffè dallo Scozzese del quale è fedele cliente, me l’ha offerto al “Monfrère”, il bar a fianco. Al banco a servirlo, altra novità, c’era una fanciulla alta e bella che, oltre a correggerlo con un goccio d’anice, ha messo vicino alla tazzina, un cioccolatino fondente. Roba da non crederci, una vera leccornia capace di rendere meno brachicardico il mio cuore. Il mio paese, che sembra essersi consegnato alla magia nera del sempre-uguale, regala qua e là piccoli colpi di reni, scatti di vita.
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Non mi sembra che si possa definire tale il pannello decorativo sistemato dalla Giunta municipale lungo le Forge, sulla vecchia casa di Mammone. Qualcuno ha disegnato la facciata come si fa per i lavori in corso di un edificio da ristrutturare. Ma, primo: non ci sono lavori in corso. Porte e balconata resteranno così per i prossimi decenni. Secondo: il trompe-l’oeil è decisamente brutto ed occulta l’ariosa terrazza-loggiato. Terzo: essendo il pannello scenografico disegnato verosimilmente su un telo, il vento, che in quella zona del corso soffia perennemente, gli assicura continui ondeggiamenti. Dettaglio finale: i listelli di legno che l’incorniciano rendono ancora più rozzo tutto il manufatto. Conclusione: la vecchia Bisaccia non ha bisogno di questo tipo di arredo urbano, inutile ed ipocrita. Le piantine d’ailanto, le erbe selvatiche, le parietarie che crescono dappertutto dicono molto di più sullo stato d’abbandono in cui versano molti luoghi ed edifici del paese antico. Nulla di male. Ormai questo luogo s’anima soltanto in tre momenti: per la passeggiata di mezzogiorno, per quella verso le sei di sera e, d’estate, dopo cena, per la digestione notturna.
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Mercoledì pomeriggio sono andato con Agostino a comprare della carne di vitello in campagna, in un’azienda agricola di cui conosce il gestore. Oltre a coltivare campi, alleva mucche. Ad accoglierci c’era la moglie, una bella signora d’origine romena. Mio cugino mi ha raccontato la sua storia: prima di ragazza madre, innamorata di un uomo già coniugato e improvvisamente scomparso per un infarto, poi di donna felicemente sposata con l’attuale marito. Il paese pullula di storie. Io, però, temo i tre grossi cani che ci stanno venendo incontro. Ho ancora sulle spalle il ricordo del morso di Rizieri. A cinque anni, in una masseria pugliese, mentre dormiva o fingeva di dormire, mi saltò addosso all’improvviso.
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Prima di andare alla macelleria di campagna, ci siamo fermati ad Oscata, da Michele. Abbiamo fatto merenda con cantucci fatti in casa da Lina, taralli e un buon bicchiere di vino bianco. Ho fotografato il fazzoletto di terra che il mio amico coltiva ad orto. Il cielo è azzurro e si respira a pieni polmoni. È una bella giornata e la sensazione di benessere si radica dalla punta dei capelli a quella dei piedi. Michele promette di portarmi domani mattina una busta di cicoria, foglie di bietola, finocchio per una “minestra maritata”.
Tutte le volte che uso quest’espressione mi viene in mente il saggio di Emilio Sereni sui napoletani e sul loro (e nostro) passaggio nel XVII secolo da “mangiafoglia” a “mangiamaccheroni”. Fu pubblicato nel 1958 su tre numeri della rivista “Cronache meridionali”, edita da Gaetano Macchiaroli e diretta inizialmente da Mario Alicata, Giorgio Amendola e Francesco De Martino. Attraverso il ricorso a fonti letterarie, lo studioso marxista mise a fuoco la vera e propria “rivoluzione gastronomica” che si verificò nella vita quotidiana di Napoli a partire dal 1630. Da allora siamo diventati gli amanti della pasta, degli spaghetti, dei maccheroni. Lo stereotipo con cui siamo conosciuti in tutto il mondo.
Ho avuto occasione di leggere il notevole studio nel 2015, quando fu ripubblicato dalla Libreria Dante & Descartes grazie al sostegno di vari enti, al cofinanziamento PSR Campania 2007/2013 e al Centro d’Iniziativa Leader per lo Sviluppo dell’Irpinia (GAL CILSI).
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Giovedì verso mezzogiorno Pinuccio affigge un foglio manoscritto sul portone che fa da bacheca, di fronte al bar dello Scozzese. Lo fotografo. È la traduzione dell’incipit del libro di Diderot “Le neveu di Rameau”. In questi giorni se lo porta continuamente dietro; di tanto in tanto, si siede in qualche angolo della piazza e lo compulsa. Le prime pagine, quelle dell’introduzione, sono staccate dal corpo del libro. «Che sia bello o brutto, è mia abitudine andare verso le cinque di sera al Palazzo Reale. Sono io che la gente vede sempre solo…». È un periodo in cui Pinuccio, figlio di un cugino di mia madre, è particolarmente spiritato. Sta male. E sicuramente, come il protagonista del dialogo satirico, continua a intrattenersi con sé stesso per parlare «di politica, d’amore, di gusto e di filosofia». D’amore, soprattutto. Di Adriana di cui mi raccontò un giorno e mi mostrò le lettere. «Aadriaaana!…» L’ho sentito gridare l’altra sera.
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Ieri Michele è venuto in paese verso le sei e mezza e abbiamo fatto una passeggiata al Convento. Mi aveva telefonato per sapere come era andata la mia visita dall’oculista. «Tutto bene» gli ho risposto. Dopo l’intervento col laser la piccola cicatrice sulla retina sta riprendendo il suo pigmento naturale. Al Convento abbiamo incontrato Gerardo, il fotografo, e la moglie Rina. Se ne stavano tranquillamente seduti sul gradino. Il mio amico si è complimentato con loro: «Che bella coppia…Siete la coppia più bella del mondo…». Hanno sorriso. Poi la conversazione ha preso una piega scolastica: ci siamo messi a parlare dell’importanza di imparare in età giovanile le poesie a memoria, del “liberalismo” dei romani nei confronti dei popoli conquistati, e via di questo passo.
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Poco lontano da piazza Duomo hanno aperto una sala scommesse: Planetwin365. Il paese si svuota, ma tra quelli che rimangono c’è chi non disdegna le slot-machine e le scommesse. Non c’è da meravigliarsi: i vizi sono più facile da coltivare delle virtù. L’ho scoperto da una vita su di me.
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Ginestre fiorite Garofani selvaggi Vitalbe
Ogni mattina, verso le nove-nove e mezza, vado a comprare i giornali in un bar alla Cavallerizza. Lo gestisce un giovane, Daniel. Al mio arrivo, gli ho chiesto di mettermeli da parte e lui diligentemente me li fa trovare. La carta stampata è la mia droga. La ripetizione di quest’azione, mi fornisce l’occasione per la prima passeggiata quotidiana. Ho l’obiettivo di superare i diecimila passi al giorno e non potrei stare ore ed ore su Facebook o sui social per informarmi. Non sono un apocalittico della Rete. Neanche un fanatico. Ho bisogno d’aria, di cielo, di paesaggio, di sguardi, di contatti fisici. In questi giorni scatto foto alle ginestre, ai garofanini, alle vitalbe. Al mio paese le ginestre fioriscono in ritardo. Così da una settimana mi godo lo spettacolo che i cespugli continuano ad offrire generosamente al mio sguardo. L’altro ieri, però, ho notato che i profumatissimi fiori gialli a farfalla, qua e là, cominciano a seccarsi e a cadere per terra o nella cunetta. Al loro posto compaiono dei baccelli come quelli che custodiscono i piselli. I garofani, invece, sono belli, ma inodori. Accanto al giallo, si limitano a colorare di rosa viola il pendio.
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A Bisaccia i pescivendoli sono due. Uno, fisso, ha un negozio al Piano regolatore, aperto tre giorni a settimana; l’altro, ambulante, arriva dalle parti di Manfredonia il martedì e il giovedì. Noi di solito ci serviamo dal secondo. Stamattina siamo usciti di buon’ora per andare a comprare delle vongole, delle alici e del pesce spada. Spesso vado da solo. Ma questa volta Giuseppina aveva voglia di far colazione al bar del Piano regolatore ed è venuta con me. In aggiunta, dovevamo andare anche al supermercato.
Dal paese vecchio a quello nuovo per lo più si va in macchina. Così, mentre guidavo, la moglie mi ha fatto notare quanto sia diventata densa la selva di pale eoliche cresciute verso il Formicoso. «Ma sono proprio tante!…» «Vero… – le ho risposto – forse perché i proprietari delle terre guadagnano.» Ho chiesto lumi a Michele e ad Agostino ed ho capito che è un ginepraio anarco-liberista. In nome dell’energia rinnovabile le imprese fanno ciò che vogliono, i proprietari strappano ciò che riescono a strappare, i pubblici poteri rimangono inerti e conniventi e un bene comune come il vento diventa una inesauribile fonte di profitto che non porta nessun tangibile beneficio ai cittadini. L’unico visibile regalo è un paesaggio fitto di pale.
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Sabato sono stato a pranzo con Agostino e gli amici che s’incontrano al bar Solazzo, nella piazza del Carmine. Eravamo dieci e siamo andati a Rapone, alla “Locanda del borgo”. È un paesino di 900 anime o poco più, ai confini tra Campania e Basilicata. Da Bisaccia ci si arriva andando in direzione di Calitri, scendendo verso la valle dell’Ofanto, percorrendo per un tratto la superstrada detta, appunto, Ofantina e risalendo l’altura sul versante opposto. In tutto sono una cinquantina di chilometri e ci si impiega un tre quarti d’ora. Io sono andato con Aldino, Fernando e Agostino nella macchina di Sergio. Non è stato facile trovare la locanda, ma quando siamo arrivati, ci ha fatto una buona impressione. Gli altri (Angioletto, Antonio, Gerardo, Nino) erano già lì, dalla mattina. Hanno fatto una camminata a San Fele. Mancava Angiolino. Quando è arrivato, verso le due, abbiamo cominciato con gli antipasti. Sono seguiti i primi, i secondi, la frutta e il caffè. Un buon pranzo. Nulla di eccezionale. Ma per me che misuro grassi, carboidrati, proteine e vitamine abbastanza fuori dal mio quotidiano consumo di alimenti. Semel in anno licet insanire. Del resto, la compagnia è allegra e simpatica. Angiolino ha continuato a minacciare che non avrebbe più cantato nel loro gruppo musicale se nel repertorio non fosse stato accolto “Liquid Lunch”, una canzone di Caro Emerald; una canzone che nessuno conosceva. Angiolino sperava che fosse nota alla giovane e graziosa fanciulla che ci serviva. Ma nulla da fare.
Dopo pranzo, abbiamo girato per Rapone. Non è stato facile trovare un bar che avesse tavolini all’aperto e soddisfacesse l’esigenza di bere una birra fresca. Alla fine l’abbiamo comprata a un minimarket e l’abbiamo bevuta sui gradini di una loggia. Il problema numero uno dei paesi interni è lo spopolamento. Un gruppo di “forestieri”, che gira per vicoli in cui non s’incontra quasi nessuno, desta grande curiosità.La passante anziana e nerovestita, a cui Fernando ha chiesto scherzosamente un’informazione,ha continuato a girarci intorno finché non siamo scomparsi alla sua vista.
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Più di un mese fa, mentre ero ancora a Cologno, mi telefonò Domenico Lapenna, un giovane che abita a Bologna. Mi chiese l’autorizzazione a ristampare la presentazione che scrissi nel 2004 al bel libro di Michele Panno «L’infanzia del borgo». Ovviamente, insieme alla presentazione, dovevano ristampare tutto il libro per venderlo e sostenere, coi relativi ricavi, un progetto di conoscenza di Oscata “Borgo rurale”. Iniziativa lodevole. In questi giorni ho letto che per domenica 19 luglio i promotori hanno organizzato un incontro itinerante. Andranno a piedi dal campo sportivo di Bisaccia ad Oscata. Interessante. Qualche giorno fa, però, al bar “Monfrére”, mentre prendevo il caffè con Michele, alla ragazza, che sorvolava sulla sua provenienza familiare dal borgo rurale, ho chiesto se avesse per caso letto il libro che parla proprio di questo luogo e di cui è autore l’amico che mi stava di fronte. «No», mi ha risposto e, quando le ho raccontato del progetto ed ho insistito sulla sua importanza, mi ha detto che forse lo leggerà. Sul suo proposito, comunque, non metterei la mano sul fuoco.
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Agostino è professore d’inglese. Suona la chitarra e canta assai bene brani di Bob Dylan, Eric Clapton, Bob Marley; alcuni suoi pezzi forti sono “La ballata migratoria” di Antonio Casagrande e canzoni di Tony Tammaro e di tanti altri autori. Insieme agli amici del bar Solazzo (Sergio, Angiolino, Fernando, ecc.) realizzano simpatiche serate canore e animano il pubblico che si raccoglie intorno ai tavolini e ai margini della strada. Oggi ha tradotto in inglese un testo degli anni Settanta: “Come le viole” di Peppino Gagliardi. Accende lo smartphone e mi fa ascoltare prima la romanticissima canzone nella versione originale e poi la versione in inglese cantata senza accompagnamento. «Esercizio – mi spiega – difficilissimo».
Son tornate le viole quaggiù Ma non hanno colore per me Quella calda tenerezza che tu Portavi nei tuoi occhi No, non c'è più Oh! The violets are all blooming down here But they’re bringing no colour to me And the warm, tender look which you stored So deep into your eyes It’s here no more
Questo “no more” finale mi fa venire in mente il “nothing more” o il “nevermore” con cui Edgar Allan Poe chiude ogni strofa della poesia “Il Corvo”. Glielo dico, ed io e mio cugino ci avventuriamo a ruota libera in una spigolosa discussione sulla traduzione e sulla filosofia della composizione. Difficile arrivare a delle conclusioni, sia pure provvisorie.
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Ieri scorpacciata di Franco Arminio. Prima di cena abbiamo fatto una bella passeggiata sul sentiero solitario del vicino bosco di Santa Veronica. Abbiamo parlato di salute/malattia e di come, da un giorno all’altro, ognuno di noi può trasformarsi o essere trasformato da sano a malato.
Gli raccontavo del mio intervento due anni fa alle coronarie. Non so se effettivamente mi abbia fatto bene, dal momento che, dopo i tre bypass, mi sembra di avere sempre una corazza sul petto. Se ti segano lo sterno a metà, per quanto l’operazione possa essere perfettamente riuscita, difficile che il ricongiungimento delle due parti dell’osso con fili metallici non lasci segni persistenti e dolorosi…Lui mi ha parlato della sua asportazione di un lipoma che gli ha lasciato una brutta cicatrice. Chiaramente il chirurgo non era stato granché bravo.
Chissà poi se certi interventi sono veramente necessari: la medicina, sempre più privatizzata, mette al primo posto il profitto invece della cura e della salute del paziente. Allora gli ho confessato che, nei giorni precedenti al mio intervento, un giovane cardiologo, al quale avevo posto brutalmente la domanda: “ma lei al mio posto, lo farebbe?”, mi rispose di no. Gli altri quattro che avevo consultato mi convinsero, invece, della sua necessità, perché così suggeriva “la letteratura in materia”. Boh!… Di sicuro – è il punto in cui siamo d’accordo – c’è una grande spinta alla “medicalizzazione”. Almeno per disfunzioni leggere, è probabile che il sistema immunitario ci pensi da solo. Verso la fine della nostra passeggiata e della nostra conversazione, incontriamo Mimmo, un amico medico, che conferma: spesso sul tavolo anatomico, il risultato di tante autopsie su novantenni ha registrato la presenza di piccoli tumori regrediti autonomamente.
Ci re-incontriamo a notte fonda e facciamo le “ore piccole” andando su e giù per corso Romuleo. Questa volta con noi c’è Agostino. La conversazione prende avvio dalla richiesta che alcuni studiosi gli hanno rivolto: quella di spedire gli interventi che Antonio Lapenna, il grande latinista bisaccese, scrisse per “Alto/fragile”, il foglio letterario redatto dal mio amico poeta negli anni Novanta. Da lì poi siamo finiti, non so come, a parlare del rapporto tra Lapenna e Oscata, poi tra Lapenna e Bisaccia, successivamente tra gli intellettuali di quegli anni e il Mezzogiorno e, infine, tra il PCI e il Mezzogiorno. Per Franco c’è una discontinuità netta. Solo oggi si parla della bellezza di questi luoghi, del silenzio, di uno sviluppo locale non industrialista. Non ci sono, secondo lui, arretratezze da superare, ma luoghi da valorizzare. Non vorrei sbagliare: ma qualcosa di simile mi sembra che venga sostenuto anche nel recente saggio «Il lungo mezzogiorno» di Giuseppe De Rita.
Alla fine, a furia di fare avanti e indietro, ho male ai piedi e ci auguriamo la buonanotte.
Mi addormento con il proposito di riprendere la questione e rifletterci su.
15 luglio 2020
Gent. Donato Salzarulo, ho letto con partecipazione le significative pagine sulla sua visita al paese natale, sensibilizzato dal fatto che sono stato risparmiato dall’esperienza dell’emigrazione, essendo nato e vissuto a Verona, salvo assenze dovute al servizio militare, a viaggi o a vacanze. Ho avuto molti colleghi meridionali e ho raccolto le loro confidenze, la nostalgia verso la zagara e il bergamotto. Viene a mancare la natura, i rapporti umani. Per chi ha vissuto in una città costiera la presenza e la voce del mare. Il lavoro e l’impegno politico-culturale possono aiutare, ma il richiamo delle radici, presto o tardi, torna a farsi sentire. Anche il ritorno, magari solo sporadico od occasionale, non è mai indolore. La realtà non corrisponde più alla memoria, i cambiamenti, anche se piccoli, sono in peggio. La speculazione è sempre in agguato.
Il mio piccolo esilio l’ho vissuto quando noi, vecchi abitanti del centro storico, abbiamo subìto la diaspora, cacciati tutti quanti nelle periferie a causa dei prezzi stratosferici degli affitti in un luogo storico diventato centro commerciale. Il popolo di piazza delle Erbe, quello della mia infanzia e giovinezza, non esiste più. Anche i banchi della piazza, che vendevano frutta e verdura, sono in mano ai cinesi che smerciano gadget turistici. Ma non mi lamento, perché abito in prossimità dell’Adige, lungo le cui sponde naturali faccio lunghe passeggiate (il cui colore verde dell’acqua è quello di Paolo Veronese), e vicino alla pista ciclabile che mi porta verso il lago di Garda (quel lago che per Virgilio ha ‘i fremiti del mare’) o la Valdadige.
Verona è una città monumentale, ricca di architetture di tutte le epoche (e segnatamente del Sammicheli), a partire dall’Arena romana (tempio della lirica e dei concerti). Da bambino giocavo in piazza Dante (detta anche piazza de’ Signori, in riferimento agli Scaligeri), attigua a piazza delle Erbe, all’ombra della Loggia di Fra’ Giocondo (che il Vasari definì come la più bella Loggia del Rinascimento), davanti ai Palazzi Scaligeri, sotto la svettante Torre de’ Lamberti. A volte mi capitava di ritro varmi, da solo, nelle prime ore del pomeriggio, in attesa dei compagni di gioco (‘maraja’ in veronese), seduto sul gradone della Loggia, in uno stato d’animo che ho cercato di rappresentare in questa breve poesia:
Piazza Dante
Tubano i pigri colombi
sulle pietre grigie
nella silenziosa piazza
dagli archi rinascimentali
in un caldo meriggio.
All’ombra di una Loggia del ‘500,
il bambino sogna ad occhi aperti,
tra le linee delle belle architetture e
il campanile incombente, dall’aperto
cielo, aspettando l’ora dei giochi,
e i compagni assenti.
La tinta solare delle facciate
riempie gli occhi di luce dorata,
mentre i gutturali gemiti dei
colombi scandiscono il silenzio vasto.
La bellezza, la natura ispirano
l’animo sognante del bimbo,
suscitano l’emozione del cuore,
ricreano la memoria ancestrale.
Gent. Donato Salzarulo, la ringrazio per le sue belle pagine, che hanno dato anche a me lo spunto per un viaggio nella memoria.
Caro Casati, la ringrazio per i suoi apprezzamenti. Non conosco Verona e grazie al suo commento ho potuto compiere un brevissimo viaggio nella sua bella città natale, così ricca di monumenti e di storia. Una città, che “l’animo sognante del bimbo” conservato dentro di sé, ha potuto vivere e godere. Alla prossima.
…trovo molto interessante questo racconto di Donato che ci porta a visitare il suo paese d’origine con tutto l’attaccamento di chi li’ ha lasciato molti ricordi e affetti cari, molti dei quali passati a miglior vita, ma anche sopravvissuti nel tempo e alla lontananza…Un paese del sud, Bisaccia, quasi disabitato, ma che si rianima di presenze durante alcuni periodi dell’anno quando molti migranti ne fanno ritorno…Ho fatto un’esperienza simile quasi cinquant’anni fa quando lasciai la mia cittadina di provincia…allora molto provincia. E purtroppo io non coservo molti legami con quella realtà, anche se non l’ho mai persa di vista…forse perchè molte altre persone come me se ne sono andate senza farvi piu’ ritorno…Comunque quella descritta è una realtà fervida forse proprio perchè periferica, mai troppo esposta agli obiettivi dei mass media…In quella dimensione appartata si puo’ pensare meglio solitamente, nessun tam tam televisivo ne raccoglie ampliandole, ma spesso deformandole, le idee in corso. Ad esempio quelle che Donato riporta alla fine del suo racconto, nel confronto svolto di notte sulle vie notturne di Bisaccia, tra persone rimaste fedeli ai luoghi e che sanno ragionare insieme : questi borghi spopolati presentano arretratezze da superare o sono solo luoghi da valorizzare? Un problema molto importante e rimasto aperto…Certo, se posso dire la mia, alcune arretratezze sussistono che si evidenziano ad esempio con l’episodio della donna “nerovestita”, cioè una certa usanza a diffidare di nuovi venuti in un paese dove le anime si conoscono tutte…la città a volte protegge dal pettegolezzo e da una certa chiusura, ma l’anonimato urbano è anche una medaglia a due facce: infatti dall’altra spesso c’è l’indifferenza e l’individualismo sfrenati…Comunque penso che i vantaggi di una vita piu’ semplice, a ritmi lenti e piu’ vicina alla natura e a molte tradizioni ad essa legate siano di maggior peso degli svantaggi…Forse proprio in seguito all’attuale crisi sanitaria, che a quanto pare potrebbe protrarsi o ripetersi, si tornerà a ripopolare i borghi e, magari, vecchie e nuove abitudini si salderanno tra loro piu’armoniosamente