a cura di Ennio Abate
La lettura dell’accurata recensione di Claudio Vercelli sul libro appena uscito di David Bidussa, La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948 (Solferino, Milano 2020), apparsa su DOPPIOZERO (qui) mi ha indotto ad un primo breve commento su POLISCRITTURE FB. Non avendo ancora letto il libro di Bidussa, mi sono limitato a riportare (un po’ polemicamente) una vecchia e per me convincente tesi di Michele Ranchetti. Ne è seguito un breve scambio tra Brunello Mantelli e me, in cui concordavamo (per la prima volta!) sulla fragilità o equivocità o inservibilità del concetto di totalitarismo; e poi un puntualissimo e lungo intervento di Luciano Aguzzi, che ha chiarito la sua posizione sull’operato di Pio XII e sul concetto di totalitarismo ma ha anche dato sintetici giudizi su alcuni importanti storici italiani del Novecento (Croce, Cantimori, Miccoli, Della Peruta). Data l’importanza e l’incandescenza delle questioni toccate, mi pare giusto riportare la discussione sul sito di POLISCRITTURE nella rubrica “Storia adesso”, sperando in altri approfondimenti. Una raccomandazione ai cosiddetti lettori “comuni” o “non specialisti” (veri o presunti):confrontatevi senza eccessive timidezze reverenziali con chi oggi gestisce professionalmente il sapere storico. Che è necessario per orientarsi nel caos odierno e non deve essere lasciato solo nelle mani degli specialisti. Non ritiratevi disorientati di fronte alla sua complessità o alla contrapposizione dei punti di vista. Alle obiezioni che mi sono state mosse da Aguzzi e Mantelli replicherò appena mi sarà possibile.[E. A.]
Ennio Abate
Mio commento: Rientrerà forse nella «leggenda nera» ma i giudizi severissimi presenti in questo brano di un cattolico come Michele Ranchetti non so se saranno tanto facilmente smentiti dalle nuove ricerche di Bidussa o di altri valenti storici:
“La prova offerta dal Magistero cattolico durante gli anni della guerra è forse l’esempio più tragico della fine del cristianesimo nei suoi vertici rappresentativi che la chiesa cattolica si è costruita. La letteratura su quegli anni parla di silenzi del pontefice: è una ben misera definizione per un crimine che evidentemente non si esaurisce nella reticenza alla parola da parte di un prelato di curia ossessionato dalla paura del comunismo ma si estende al ceto sacerdotale, alla chiesa nel suo insieme e nei suoi singoli membri e anche a quel laicato cattolico che dal silenzio o dal fascismo dei suoi superiori religiosi traeva esempio aberrante. La crisi della cultura religiosa si faceva anche sentire così, nella incapacità di riconoscere gli errori, nella mancanza di qualsiasi prospettiva escatologica in cui iscrivere il presente e il recente passato di orrore per trovarne un senso interrogando la storia che è sempre stata dall’inizio dei tempi atto e luogo di Dio. Ma dopo la guerra e il rapido ripristino dei Patti Lateranensi e quindi nuovamente rassicurati dal Concordato fascista, gli uomini del Magistero non hanno ritenuto necessario ripensare la propria storia e giudicare la propria responsabilità religiosa e civile, per cercare di comprendere come mai si sia potuto dare quasi trentanni una chiesa fascista cattolica apostolica romana, che ha impartito ai suoi figli un’educazione fascista, che ha indicato nel fascismo una verità civile, la giusta forma del vivere civile, che ha fatto dell’obbedienza alle autorità fasciste una logica conseguenza dell’obbedienza alle autorità religiose, che ha benedetto la guerra coloniale e la guerra franchista, che è sempre stata dalla parte del potere.”
(da Michele Ranchetti, INTELLETTUALI E CHIESA CATTOLICA: TESI, in “Scritti diversi II”, pag. 265, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1999)
Il concetto di “totalitarismo” è un arnese inusabile. E non per voler distinguere in termini etici fascismi e stalinismo, opzione che non esiste, ma perché copre e occulta invece di mettere in luce e far vedere.
Su questo almeno concordiamo.
Ai tempi in cui lavorai al manuale di storia scrissi questa scheda ( che poi non fu approvata). Dimmi cosa ne pensi:
Il termine, applicato comunemente anche allo stalinismo (o più in generale al “comunismo”), sulla base di alcuni tratti che esso aveva in comune col fascismo e il nazismo (ruolo centrale del capo, organizzazione fortemente gerarchica dello stato e della società) non solo rischia di occultare le differenze di fondo (il razzismo, ad esempio, è assente nel regime sovietico di Stalin e fondamentale nel nazismo, mentre sul piano dell’ideologia l’ideale di una società comunista ovviamente non può essere confuso con l’ideale di una società in cui un popolo rivendica il compito di dominare su tutti gli altri), ma trascura la resistenza sociale, spesso poco nota, alla intenzione sicuramente totalitaria del regime stalinista.
La storia dell’Urss dopo Stalin, quella che va dal «socialismo reale» alla limitata “destalinizzazione” di Kruscev fino al tentativo riformistico di Gorbaciov di riallacciarsi ancora all’esperienza soviettista di Lenin e che si è conclusa con l’implosione dell’Urss nel 1991 e la caduta dei regimi comunisti nei paesi dell’Europa orientale [Cfr. capitolo…] dimostra quanto il sistema sovietico, a differenza di quello nazista, non sia mai riuscito veramente ad esercitare quel «controllo del pensiero» che il totalitarismo presuppone.
Proprio l’implosione dell’Urss fa pensare che, sotto la cappa relativamente totalitaria del regime, molte lotte individuali e sociali sono state condotte in forme atipiche (resistenza, assenteismo, rifiuto di collaborare, fuga) anche nel periodo staliniano, ma sono state poco o per niente documentate a causa della censura e distorte nel loro significato dalla propaganda anticomunista.
Fenomeni espliciti di dissenso affiorarono già negli anni ’50. Del 1954, ad esempio, è un famoso romanzo, Il disgelo di Ilja Erenburg (1891-1967), uno scrittore sopravvissuto al terrore stalinista. Né si possono dimenticare poi le rivolte del 1956 (Ungheria, Polonia) e del ’68 (primavera di Praga). Lo sgretolamento dell’Urss è insomma dovuto anche ad un sotterraneo e poco noto dinamismo sociale, che il concetto di totalitarismo rischia di minimizzare.
Il supposto Moloch comunista era forse più fragile di come veniva dipinto. Ora poi che quelle popolazioni sono uscite dall’isolamento ma anche dalla condizione dei paesi che una volta si chiamavano de Terzo mondo, sia pur attraverso un processo storico terrificante, pagato innanzitutto dai lavoratori che hanno dovuto subire sotto un regime “socialista” livelli molto alti di sfruttamento, forse comincia per tutti una storia che non segue più né le strade del defunto «modello socialista» né meccanicamente quelle del «modello capitalistico». E forse proprio i frammenti di storia “non totalitaria” dell’ex Urss potrebbero essere preziosi.
Analisi in molti punti condivisibile, la tua, ma che risente ancora di un’immagine stereotipata di fascismi e nazismo, oltre che del tentativo (generoso ma storicamente poco convincente) di salvare la fase leniniana separandola dal successivo stalinismo. Sul primo punto io credo che la categoria del totalitarismo non funzioni neanche per fascismi e nazismi (al massimo ne spiega alcuni aspetti non centrali); per il nazismo prevale la dimensione della “coalizione” tra almeno 4/5 centri di potere (ti manderò qualche cosetta che ho scritto in proposito); per lo stalinismo a me ha sempre convinto l’idea, proposta da Albertoi Masoero, uno dei migliori studiosi di Impero zarista e URSS che conosca, di “guerra civile permanente”, iniziata nel 1917 e conclusasi solo nel 1941, con l’attacco tedesco all’URSS. Bisognerà riparlarne, però.
[Parte prima]
Ciò che lo stralcio da Michele Ranchetti e la recensione di Claudio Vercelli del libro di David Bidussa (che non ho letto) dicono è condivisibile. Ma non è condivisibile ciò che non dicono, cioè l’atteggiamento sottinteso e di fondo di tanta storiografia anti-cattolica (e qualche volta anche cattolica, quando, per zelo e sudditanza, adotta atteggiamenti mutuati dalle circostanze e dalle mode culturali). Si tratti della Riforma, dell’Inquisizione, del Sillabo, dell’antisemitismo, del silenzio di Pio XII o di altro, questa storiografia sembra dimenticare, fra l’altro, due elementi di fondo:
1) La differenza e la distinzione fra il concetto di Chiesa come comunità di fedeli e quello di Chiesa come apparato ecclesiastico e statale di potere. Il comportamento effettivo e quotidiano dei fedeli cattolici è spesso stato diverso da quello del Pontificato, e ciò significa pur qualcosa. Il cristianesimo (o il «vero cristianesimo», se si vuole) è sempre stato una pratica di minoranze che non si possono identificare con i comportamenti della Chiesa come apparato di potere.
2) Riferendosi poi alla Chiesa come apparato di potere (e allo Stato della Chiesa quando c’era) sembra che la storiografia laica, anziché trattarla come tratta qualsiasi altro centro di potere e Stato, la voglia continuamente confrontare con la lettera e lo spirito del cristianesimo, trovandola facilmente in difetto. Certo, è in difetto. Ma qual è la misura del difetto? Se confrontiamo il comportamento della Chiesa e dello Stato della Chiesa con il comportamento di altre Chiese e altri Stati, nei diversi secoli e circostanze storiche, si vedrebbe che certi difetti sono comuni e che anzi in altre Chiese e Stati si presentano in misura maggiore. Ma ciò è spesso ignorato.
Ad esempio, esistono centinaia di libri sulla “ferocia” dell’Inquisizione romana, eppure l’Inquisizione romana è stata di gran lunga più garantista e ha fatto meno vittime, rispetto, ad esempio, della persecuzione anglicana contro i cattolici. Gli eretici e le “streghe” bruciati dall’Inquisizione romana sono di gran lunga in numero minore rispetto agli eretici e alle “streghe” vittime dei tribunali luterani, calvinisti, puritani e di altre religioni riformate. Ma di ciò tutta una lunga tradizione storiografica laica sembra non voler discutere.
3) Questo tipo di storiografia, anche quando è rigorosa e precisa e condivisibile in quel che dice, incorpora un giudizio ideologico ed etico di parte che ne vizia i risultati complessivi.
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Ciò avviene anche a proposito del “silenzio” di Pio XII. Si dimentica il complesso generale delle circostanze viste non dal punto di vista del fedele cattolico ma dal punto di vista della Chiesa come centro di potere. Si dimentica la differenza fra il giudizio etico in generale e quello calibrato sulle necessità della “ragion di Stato”, che riguarda non solo gli Stati ma tutti i centri di potere, comprese le religioni e i partiti.
Pio XII poteva dire di più? Sicuro, forse poteva e doveva. Ma sta di fatto che dobbiamo registrare un analogo e forse anche più colpevole silenzio anche da parte degli Stati quali Francia, Inghilterra, Usa ecc.; silenzio e spesso complicità attiva anche da parte di altre religioni (luterani in Germania, islamici e altri); silenzio o non abbastanza attenzione e voce anche da parte dei partiti, sia liberali, sia socialisti, e persino comunisti (e persino del Pcus, Partito comunista dell’Unione Sovietica). Quali e dove sono, almeno fino al 1940, significative prese di posizione e di denuncia del razzismo nazista? Eppure non è vero che non si sapesse. Si sapeva tutto, dei lager e del genocidio in corso. Ma le denunce scivolavano sulla pelle, l’attenzione era più concentrata sui problemi politici di vecchio tipo, sulla lotta di classe, sull’antifascismo e l’antinazismo in senso lato e politico, e si dava meno importanza a questo fatto nuovo dell’uccisione in massa degli ebrei.
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L’antisemitismo, del resto, era largamente diffuso. Nella stessa Germania non è un’invenzione di Hitler, ma è presente da vecchia data. Hitler lo ha esasperato e portato, da politica di pesante discriminazione sociale a politica criminale di sistematica eliminazione fisica. Un salto notevole, senza dubbio, ma messo in atto su fondamenta già esistenti.
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L’antisemitismo è presente anche in Urss e nella politica bolscevica. Non nelle stesse forme del razzismo tedesco, ma comunque in forme non tolleranti e che tendevano a sradicare gli ebrei dalla loro appartenenza religiosa e culturale.
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Nel giudicare storicamente il comportamento di Pio XII va pertanto valutato l’insieme delle circostanze, la prudenza dettata dalla “ragion di Stato”, e anche, perché no?, la sua “ossessione anticomunista”. Che poi, visto il trattamento riservato ai cattolici in Urss, non era un’ossessione ma una competente e opportuna valutazione politica. Il comunismo, fin dalle sue forme di metà Ottocento, non aveva mai nascosto la volontà di distruggere la Chiesa cattolica e in Urss questo era stato fatto e si continuava a fare con ciò che di cattolico restava ancora in vita. La politica anticattolica dell’Urss si può definire un vero e proprio genocidio fisico e culturale della religione cattolica e dei cattolici.
Di fronte a ciò Pio XII si trova nella necessità di adottare politiche che definirei di “legittima difesa”. La tattica adottata può essere sbagliato per certi aspetti, ma la logica di legittima difesa va compresa e giudicato per quello che era: una necessità dettata dalle circostanze storiche. E da questo punto di vista il fascismo era considerato meno pericoloso del bolscevismo e persino il nazismo sembrava meno pericoloso. Di fatto lo era? Forse no, ma la percezione degli anni 1933-1944 era quella: per i cattolici era più pericoloso il bolscevismo del fascismo e del nazismo.
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Non c’è dubbio, a mio parere, che in questa valutazione pesassero anche vecchie considerazioni risalenti almeno alla Rivoluzione francese: la “legittima difesa” contro il bolscevismo era anche una continuità della “legittima difesa” contro la Rivoluzione francese e tutte le sue conseguenze. Il comunismo sovietico non era, in sostanza, un fatto, e un nemico, del tutto nuovo, mentre lo era il nazismo. Anche da questo deriva un trattamento asimmetrico.
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Pio XII si trovò a operare in una situazione difficilissima, disponendo di strumenti culturali, politici e diplomatici vecchi e inadeguati. Commise errori? Sì, li commise. Ma gli errori commessi dall’Italia fascista, dalla Francia e dall’Inghilterra, dall’Urss del patto Molotov-Ribbentrop e poi dall’Urss che massacra i polacchi e i cattolici dei Paesi occupati, dagli Usa e così via sono errori anche più gravi.
E gli errori dei partiti socialisti e comunisti dell’Occidente? Anch’essi operano con strumenti culturali vecchi e inadeguati e solo a partire dal 1943 cominciano ad aggiornarsi, nel corso delle lotte partigiane, ma in maniera non certo rassicurante per la Chiesa cattolica. Tutti i movimenti partigiani dell’Est, fino ai titini ai confini orientali dell’Italia, sono egemonizzati dai comunisti ed esprimono un netto atteggiamento anticattolico che si traduce non solo in propaganda politica, ma anche in uccisioni di massa dei partigiani cattolici e di cattolici in genere che non rifiutano la religione e non si uniscono ai comunisti.
In questo titanico scontro che non riguarda solo il nazismo e il fascismo ma una prospettiva futura di lungo corso Pio XII agì nel modo considerato da lui più opportuno per la salvezza della presenza cattolica nei vari paesi.
La storiografia che non considera l’insieme di tutti questi elementi non può valutare in modo adeguato la politica di Pio XII. Che, ripeto, non va valutata con il confronto astratto con la dottrina cristiana e cattolica, ma con il confronto concreto di ciò che la Chiesa, come centro di potere, poteva fare per salvaguardare se stessa e i propri fedeli.
[Parte seconda]
Sul perché la politica nazista di sterminio degli ebrei abbia coinvolto tante complicità attive e passive e sul perché tanti antinazisti, e persino personalità ebraiche, abbiano taciuto, si è detto molto ma non tutto. È un argomento “caldo” e suscettibile di creare equivoci e accuse ingiustificate, per cui gli storici lo trattano con cautela, osservando un “politicamente corretto” che è nemico dell’indagine storiografica.
Perché gli ebrei sono diventati il “capro espiatorio”? Perché sono sempre stati considerati un corpo a sé stante, avulso dalla “nazione”? Perché il razzismo antisemita già presente da secoli, da avversione religiosa si è prima trasformato, nel corso dell’Ottocento, in razzismo culturale e poi in razzismo biologico? Perché il nazismo hitleriano ha sentito il bisogno, come suo fondamento essenziale, di procedere all’eliminazione fisica di tutti gli ebrei?
La risposta coinvolge responsabilità secolari di tutto l’Occidente e di gran parte del mondo islamico, ma anche alcune forme storiche della presenza ebraica in Europa. Non dico “colpe” della presenza ebraica, ma “forme”, modi di agire, modi di partecipare alla storia dell’Europa, che sono però state percepite dai non ebrei, spesso, troppo spesso, come colpe e marchio d’infamia degli ebrei.
Oggi, ad esempio, certe attività, tipo quelle del “capitalismo finanziario”, sono viste in modo negativo da larga parte della popolazione (intellettuali e politici compresi) che non si sente, per questo, razzista nei confronti dei capitalisti finanziari, anche quando li vorrebbe veder morti. Ebbene, per secoli, il “capitalismo finanziario” in Europa si è identificato con personalità ebraiche.
C’è tutta un’eredità culturale e politica antiebraica che risale al Medioevo e che nel Novecento è ancora forte, radicata ai mestieri praticati dagli ebrei, in particolare il prestito bancario, considerato a lungo attività usuraia e moralmente colpevole sia dalle religioni cristiane e islamiche sia dalla cultura corrente.
A ciò si unisce la più antica accusa di eredi degli uccisori di Cristo, condannati alla dispersione e a restare in eterno corpo estraneo e discriminato in seno ai popoli tra i quali vivevano.
A questo fondamento antigiudaico e antiebraico il romanticismo, la Rivoluzione francese e Napoleone e il nazionalismo apportano altri elementi che aggravano i pregiudizi antiebraici.
1) Il romanticismo e lo sviluppo del concetto di “nazione”, anche nella fase del “nazionalismo dei popoli” e di politica democratica, e prima di quello del “nazionalismo” degli Stati come politica di potenza, non vede favorevolmente l’esistenza di corpi estranei alla nazione e tende a uniformare gli ebrei, a farne dei non ebrei, cioè a farne dei cittadini “nazionalizzati”. Ogni resistenza è vista negativamente e gli ebrei sono tollerati, e anche, spesso, ben visti, solo quando, di fatto, non si comportano più da ebrei. Vi è stato, ed è durato a lungo (e forse non è mai del tutto morto) un antisemitismo democratico. Basta guardare la lunga lista di personalità ebraiche giunte ai livelli alti della carriera politica negli Stati europei e nei partiti di sinistra, dai repubblicani mazziniani ai comunisti. La natura ebraica di queste personalità è stata sempre occultata o cancellata da altre adesioni organizzative e ideologiche, ad esempio la massoneria, il socialismo e il comunismo, sino a determinare comportamenti o comunque atteggiamenti da non ebrei, negando spesso la propria origine ebraica. Karl Marx stesso, e tanti altri comunisti dell’Ottocento e del Novecento, sono ebrei che hanno rinnegato la loro origine. Non l’avrebbero fatto in misura così massiccia se non ci fosse stato un atteggiamento, palese e occulto, di avversione agli ebrei fedeli all’ebraismo.
2) La rivoluzione francese e Napoleone emancipano gli ebrei, liberandoli da tutta una serie di limitazioni politiche. Ma lo fanno in modo opportunista e strumentale e in funzione anticattolica, per cui questa emancipazione non serve a diminuire l’antigiudaismo diffuso ma piuttosto a rafforzarlo, almeno agli occhi della maggior parte della popolazione cattolica e protestante dell’Europa. Quella parte della popolazione ebraica che può permetterselo, sia come forma di ringraziamento sia per proprio interesse economico, appoggia le conquiste napoleoniche e spesso è l’acquirente dei beni confiscati alla Chiesa, ai nobili, al demanio dei vecchi regimi, partecipando a un’attività economica speculativa che viene giudicata negativamente dalla maggioranza della popolazione. Questa complicità attiva con il francese usurpatore e con i giacobini non serve a integrare gli ebrei nella nazione, anzi, spesso questi sono percepiti ancora di più come estranei, come nemici. E il sentimento è diffuso praticamente in tutta Europa, ma più dove i francesi di Napoleone hanno fatto più danno e dove gli ebrei si sono esposti di più nella complicità con essi.
3) Date queste premesse, giunti al nazionalismo come politica di potenza, l’atteggiamento antiebraico era ormai maturato in forme rinnovate rispetto all’antigiudaismo di origine medievale. Lo stesso termine “antisemitismo” viene coniato nel 1879 e non indica odio verso i popoli semiti in genere, ma solo verso gli ebrei. Dall’antigiudaismo su base religiosa, confessionale, si passa all’antiebraismo su base culturale ed etnica, aconfessionale. Le antiche accuse di uccisori di Cristo e di usurai restano nello sfondo, presenti, ma aggravate da altre più pesanti e urgenti. Quelle di potenti anticorpi nazionali, nemici del popolo; di corpo etnico, culturale, religioso, economico, estraneo alla nazione, che, dall’interno della nazione, opera per conquistare il potere e snazionalizzare, cioè distruggere, la nazione stessa, per trasformarla in indistinto agglomerato internazionale. Oggi diremmo, per distruggere i confini e globalizzare il tutto.
Antiebraici non erano solo i cattolici e i conservatori nazionalisti, ma anche molti socialisti e anarchici, come Proudhon e Bakunin. L’odio per questo corpo estraneo irriducibile al nazionalismo come alle ideologie di vario tipo era molto diffuso e presentava caratteri contraddittori, ma tuttavia complementari e quindi capaci di rafforzare l’odio antiebraico anziché di neutralizzarlo o attenuarlo. L’odio contro il comunismo rafforzò questo atteggiamento e sembrò comprovarlo: Marx, Emma Goldman, Rosa Luxemburg, Trockij e lo stesso Lenin avevano origini ebraiche. Il Comitato Centrale del Partito comunista russo nel 1918 era formato da dodici membri, di cui nove di origini ebraiche. L’internazionalismo, così contrario al nazionalismo, era dottrina ebraica.
L’odio – e la paura, lo “spettro” di cui parla Marx nell’incipit del “Manifesto”, per il comunismo si salda con l’odio per l’ebraismo. E, in parallelo, da parte delle correnti della sinistra democratica ed estrema, l’odio per il capitalismo si salda con l’avversione per l’ebraismo.
[continua]
[parte terza]
Da parte delle classi politiche europee l’atteggiamento nei confronti degli ebrei è duplice: da un lato è strumentale e opportunista, con diversi legami e complicità con i grandi gruppi finanziari e industriali del mondo ebraico, cioè con una parte importante del capitalismo; dall’altra avversa e mal tollera, o non tollera, l’estraneità etnica e religiosa, la singolarità propria del popolo ebraico.
Quando tutto ciò si incrocia con il nazismo, con un’ideologia che si fonda sull’autenticità della tradizione etnica e della sacra (in senso pagano) unione fra terra e sangue, l’odio antiebraico si concentra e unifica fino a diventare un mito negativo che si contrappone ai miti propri della purezza della razza. A questo punto non sono più possibili compromessi e tolleranze, sia pure limitate. Lo scontro fra miti fondativi della potenza germanica e miti negativi di essa diventa risolvibile solo con l’eliminazione fisica delle persone che rappresentano il mito negativo. E poiché la Germania di Hitler ha mire politiche mondiali e non solo locali, lo sterminio deve estendersi fin dove arriva il suo potere, ben oltre i propri confini. C’è molta “razionalità” in questa totale irrazionalità, una volta accettati i presupposti paranoici del mito fondativo dell’ideologia hitleriana. Si marcia, psicologicamente, in parallelo ai tipici casi di crimini da parte di psicopatici: all’irrazionalità del punto di partenza corrisponde una lucida razionalità nelle strategie di realizzazione del crimine.
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Ma di questa irrazionalità psicopatica gran parte della cultura e della politica europea è complice, attivo o passivo, già da molto prima di diventarne vittima. Ciò serve a spiegare, almeno in parte, i comportamenti di tolleranza nei confronti del nazismo, di silenzio nei confronti dei suoi crimini, e, anche durante e dopo la fine della guerra, l’occultamento di tanti suoi elementi e la fretta di reintegrare la Germania, nazisti compresi, salvo poche centinaia di “criminali” indicati a dito, nel fronte occidentale, senza passare attraverso una più profonda analisi critica.
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Passando ora al “totalitarismo” e alla scheda di Ennio Abate, comincio col dire che Abate è troppo comprensivo nei confronti della storia dell’Unione Sovietica. La sua conclusione è davvero una perla: «E forse proprio i frammenti di storia “non totalitaria” dell’ex Urss potrebbero essere preziosi».
Ciò, a mio parere, equivale alle affermazioni che anche nel nazismo e nel fascismo c’era del buono. In tutti i regimi, anche i peggiori possibili, volendo, si può trovare qualcosa di “buono”. Ma non sono questi «frammenti di storia» che caratterizzano quei regimi, ma ciò che a quel buono si contrappone, o lo utilizza in modo strumentale per potenziare e realizzare proprio ciò che c’è di “cattivo”. Se quel “buono” serve a sostenere il “cattivo”, non può essere interpretato come buono. Col fascismo i treni arrivavano in orario – si dice -: e allora? Questo è forse un lato “buono” del fascismo che si contrappone ai lati negativi? Certamente no. E faccio questo esempio banale che si potrebbe applicare a tutti i lati “buoni” di qualsiasi regime. E, per fare un esempio concreto di pessima storiografia, un paio d’anni fa sono usciti diversi libri su Margherita Sarfatti e Milano le ha dedicato un’importante mostra d’arte. Questo recupero della Sarfatti critico d’arte è possibile, purché non si trasformi, come spesso è stato, in agiografia che dimentica la Sarfatti attiva e importantissima personalità dirigente del fascismo fino al 1938, cioè finché il disamore dell’amante Mussolini e le leggi razziste antiebraiche non la costrinsero a scappare all’estero. Non si può scindere il “buono” della Sarfatti critico d’arte e promotrice di correnti artistiche moderne e d’avanguardia, dal “cattivo” della Sarfatti stretta responsabile della creazione del mito mussoliniano, fascista e imperial-romano. I due aspetti erano uno solo, in lei e per lei, nella sua opera e nella sua azione. Ognuno funzionale all’altro. Oggi, il recupero agiografico di quel “buono” ha il sapore di un recupero, non palese ma in qualche modo presente, anche del “cattivo” o almeno di una sua parte. Infatti, la banale affermazione che anche il fascismo aveva del buono si trasforma subito, agli occhi degli antifascisti, nell’accusa di apologia del fascismo. Allo stesso modo l’affermazione di Abate mi suona come una più ampia apologia del bolscevismo che si estende, in parte, anche ad aspetti che io considero senza dubbio negativi.
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Il concetto di “totalitarismo” non è inutile (e in ciò dissento da Brunello Mantelli e da Ennio Abate). Va solo usato in modo appropriato e distinguendo il concetto nei suoi diversi aspetti: quello ideologico, quello proprio delle dottrine politiche, quello giuridico, quello sociologico, quello degli effettivi tentativi di realizzare regimi totalitari, cioè, si potrebbe dire, del “totalitarismo reale”.
Nella realtà nessun regime riesce mai ad essere al cento per cento totalitario. Gli elementi di opposizione che Abate indica nel regime sovietico sono presenti, in forme naturalmente diverse, anche nel nazismo e molto di più nel fascismo, per il quale si usa, infatti, la dizione di “totalitarismo imperfetto”, restando la definizione di totalitarismo perfetto attributo del nazismo e del bolscevismo, soprattutto nella fase staliniana.
L’esempio che fa Abate citando «Il disgelo» di Ilja Erenburg, pubblicato in due parti nel 1954 e 1955, non è appropriato. Infatti, quel romanzo non è un prodotto della letteratura del dissenso, ma un prodotto dell’attenuarsi di alcuni dogmatismi nel periodo kruscioviano. Non è contro il regime, di cui anzi esalta diversi aspetti, ma solo contro alcune rigidità dogmatiche nel campo della cultura e dell’arte. In sostanza non è contro Lenin o Stalin o Krusciov, ma piuttosto contro alcun aspetti della politica culturale dello zdanovismo. Il romanzo è approvato dal regime. Solo qualche anno più tardi quel parzialissimo disgelo tornerà a ghiacciarsi, perché un vero “disgelo” è incompatibile con il regime sovietico e con qualunque regime totalitario. Quando Gorbaciov tenterà un più ampio e reale disgelo l’Urss si sfascia, perché un regime totalitario è incompatibile con riforme che anche lontanamente cerchino di realizzare elementi di libertà liberaldemocratica.
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Totalitaria è dunque ogni ideologia e dottrina politica che prevede, esplicitamente e in senso positivo (come il nazismo e il fascismo), o come necessaria conseguenza e quindi in senso negativo (il comunismo marxista, leninista, stalinista, maoista), la realizzazione di un sistema politico di controllo centralizzato di ogni aspetto essenziale della vita di un popolo e delle sue istituzioni.
A mio parere si può parlare di totalitarismo, almeno tendenziale, anche a proposito di fenomeni politici antichi, come la realtà politica costruita da Alessandro Magno o quella di Giulio Cesare e poi dell’Impero romano del suo primo secolo, o quella dell’impero francese di Napoleone Bonaparte.
[continua]
[parte quarta]
Dal punto di vista giuridico il totalitarismo denota un regime politico dittatoriale caratterizzato da questi elementi principali:
1) Centralizzazione di ogni indirizzo politico e culturale nelle mani dello Stato.
2) Stato a costituzione materiale autoritaria e dittatoriale, qualunque sia la formulazione scritta.
3) Stato con al vertice un capo indiscusso e una ristretta oligarchia, e una scala gerarchica strettamente dipendente.
4) Stato dominato non dagli organi costituzionali previsti dalla Costituzione scritta, ma dall’ideologia del capo tramite un partito che, da organizzazione privata e di parte, si trasforma di fatto (e qualche volta anche di diritto) nel vero organo di potere. Il capo del partito-ideologia-fondativa conta più del capo dello Stato, siano o no la stessa persona.
5) L’ideologia del capo e del partito diventa pertanto l’ideologia dello Stato, obbligatoria per tutti, imposta e insegnata dovunque, con la pretesa di obbedienza completa. La disobbedienza, e qualunque comportamento pubblico contrario all’ideologia del capo diventa un grave reato penalmente punito.
6) Lo Stato e il partito sviluppano un’attività “educativa” diretta a convincere tutti della bontà e giustezza dell’ideologia, della politica e dei comportamenti del capo, e ad eliminare qualunque voce dissenziente.
7) Il potere viene non solo centralizzato, ma anche personalizzato, contro ogni regola dello Stato di diritto e del governo della legge. La vera fonte del governo e della legge è la volontà del capo.
8) Per ipotesi, e in certi libri di fantascienza politica che descrivono regimi distopici, il capo può anche essere non una singola persona ma un ristretto organo collettivo, una specie di direttorio che incarna la propria volontà in una istituzione di vertice che assume sembianze personalizzate. Ma nella realtà storica non si hanno casi del genere, almeno sino ad oggi, perché, anche in presenza di un direttorio iniziale, è sempre poi emerso un singolo capo che ha eliminato o ridotto drasticamente il potere degli altri membri del direttorio.
9) I cittadini sono sudditi, non sono padroni nemmeno della loro vita che è cosa dello Stato ed è sacrificabile per qualunque necessità dello Stato o del partito o del capo. E chi decide sulla necessità è il capo stesso.
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Come si vede, purché si guardi con occhi aperti e critici, elementi di totalitarismo sono propri anche dei regimi democratici moderni, perché lo Stato, nel suo complesso e nel suo fondamento, si fa padrone e arbitro di sfere ampie della vita dei suoi cittadini e può ampliare il suo potere, tramite una legge, ogni volta che lo voglia o che una presunta maggioranza elettorale lo richieda, trascurando il principio fondativo della democrazia, che non è solo dato dalla volontà della maggioranza, ma soprattutto dal complesso di garanzie verso la minoranza e dall’inalienabilità di tutta una serie di diritti della persona e del cittadino. Se la volontà della maggioranza, reale o presunta che sia, invade i diritti della minoranza e gli spazi inalienabili dei diritti dei cittadini, diventa tendenzialmente una maggioranza totalitaria e non democratica. Il concetto di “democrazia totalitaria” è noto da tempo alla letteratura storiografica e politica.
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Dal punto di vista sociologico è interessante analizzare l’atteggiamento dei cittadini nei confronti dello Stato totalitario o degli elementi tendenzialmente totalitari degli Stati cosiddetti democratici o di qualunque altro tipo. Il dato che più risalta è che il totalitarismo spesso non è percepito come tale e che anche il nazismo, lo stalinismo e il fascismo ebbero lunghi periodi storici di consenso maggioritario. I diritti di libertà vengono spesso sacrificati ai diritti di sicurezza, di convenienza economica e di opportunità di carriera e persino ai diritti immaginari, cioè a quelli ideologici e mitici a cui si aderisce legittimando così il proprio comportamento e legittimando anche la pretesa che tutti si adeguino allo stesso comportamento.
La ricerca di libertà, come è affermato anche in diversi studi di psicologia dei comportamenti collettivi, è un bene non troppo sentito e di per sé poco capace di motivare le masse. A livello individuale, poi, la ricerca di libertà è spesso sostituita dalla ricerca della licenza extra legem (o contra legem), cioè della concessione di favori a titolo personale. Insomma, della furbizia e dei giochi di potere.
Un altro elemento di rilievo teorico e pratico è che ogni Stato, per sua natura, tende al massimo di potere, quindi è tendenzialmente totalitario. Sono solo le circostanze di fatto che spesso lo impediscono, non le fragili barriere costituzionali dei regimi democratici.
Da qui partono le ideologie libertarie che predicano la riduzione drastica dei poteri dello Stato e, alcune, la sua totale eliminazione. Da queste elaborazioni libertarie (sia dell’anarchia tradizionale sia dell’anarco-capitalismo) nascono problemi di fondo relativi alle teorie dello Stato che la tradizione filosofica, dottrinaria e giuridica, almeno per quel che riguarda gli elementi tradotti realmente in istituzioni, tendono a ignorare o a sottovalutare, dimostrando in questo modo di comportare un implicito contenuto ideologico che, a volerlo esplicitare, si nega che abbia dignità di attenzione.
Infine va aggiunto che i regimi totalitari e semi-totalitari non cadono mai, non si dissolvono mai per cause interne, perché ogni opposizione viene soppressa e quindi non ci sono alternative interne possibili. Ma cadono per cause esterne e spesso per cause traumatiche, come la sconfitta in guerra, la morte del capo e la mancanza di un valido sostituto (valido dal punto di vista della conservazione del regime totalitario), oppure per il confronto perdente, anche senza “guerra calda”, che rende obbligatorie certe “riforme impossibili”, ultimo tentativo di sopravvivenza alla sua naturale decadenza per la fine del “ciclo vitale” a cui ogni regime è sottoposto.
Pertanto, anche le cause apparentemente interne (la morte del capo, l’inefficienza sociale ed economica complessiva del regime), non sarebbero sufficienti da sole a far cadere il regime, senza l’elemento di confronto e di contrasto con l’esterno che vuol dire sostanzialmente con le potenze più direttamente avversarie e concorrenti.
Anche il crescere di una opposizione interna fino alla rivolta armata, come in Ungheria nel 1956, è alimentato dal confronto perdente con l’esterno, cioè dal fatto che l’esterno diventa più attraente dell’interno, ed è facilitato dai residui di libertà (clandestina e illegale o anche legale) che il totalitarismo, perfetto o imperfetto che sia, non è riuscito ad eliminare del tutto. Questi elementi residui di libertà talvolta, com’è stato il caso del fascismo in Italia, vivono anche attraverso istituzioni potenzialmente alternative e concorrenziali con il regime del capo, come la monarchia e la Chiesa, e in qualche misura la cultura universitaria ed extra universitaria, che al momento della crisi traumatica e di esaurimento da poteri potenzialmente concorrenziali diventano poteri e alternativa in atto e realizzano un passaggio di regime.
[fine]
Luciano, questo tuo intervento esiste in altro formato, in altra sede? Un PDF?
No. L’ho scritto qui in FB improvvisandolo (con le meditazioni e le letture depositate nella mia esperienza) e l’ho diviso in parti perché FB non accetta più commenti superiori agli otto mila caratteri compresi i vuoti fra una parola e l’altra.
Ma se tu vuoi riprenderlo, puoi fare un semplice copia-incolla e trasferirlo così in un tuo file.
…sì, infatti è poi quel che ho fatto
l’argomento interessa molto anche a me
Il concetto di totalitarismo è un arnese inusabile, salvo trasformarsi da storici in entomologi.
Non esiste una “storiografia anticattolica”. Esiste una buona ed una cattiva storiografia. E di certo Giovanni Miccoli appartiene alla buona storiografia.
Il concetto di “buona storiografia” è elastico e graduato. Il Cavour di Romeo è buona storiografia, eppure dimentica il Cavour massone e l’influenza della massoneria. I giacobini di Cantimori sono buona storiografia, eppure, nella ricerca di eretici e dissidenti e “giacobini saliti a cavallo” (cioè rivoluzionari attivi”), qualche volta forza le interpretazioni dei documenti e a proposito di Filippo Buonarroti si è ingannato sulla data e quindi sul significato di un documento. Saitta è uno storico di valore, autore di buoni libri (a parte i testi scolastici, che pure non sono male), ma a un certo punto ha scritto che nel decennio del dopoguerra si andava, e lui stesso andava, alla ricerca dei precursori del movimento operaio e delle lotte di classe e questo elemento ideologico ha portato distorsioni nella ricerca e nelle interpretazioni.
Non esiste il nero della cattiva storiografia e il bianco della buona, ma una infinità di graduazioni, dal cattivo cattivo al buono buono (ma non al perfetto, perché la perfezione in storiografia non esiste e il lavoro dello storico va sempre ricominciato da capo sulla base delle nuove esigenze e sensibilità del tempo presente).
Non è vero che la buona storiografia, come voleva Croce, non dà giudizi morali. Le opere storiografiche di Croce sono piene di giudizi morali (a forte contenuto ideologico) che trapelano, anche quando non sono direttamente espressi, dal linguaggio che usa, dalle interpretazioni, dagli argomenti scelti e da tanto altro.
Non è possibile mai eliminare del tutto l’influenza ideologica, cioè quella dell’autobiografia dello studioso, dal lavoro storiografico. Lo studioso serio e bravo fa lo sforzo di lasciare fuori della porta la sua autobiografia, ma non ci riesce mai del tutto. Lo studioso cattivo e tendenzioso lascia che la propria autobiografia entri a piene mani e piedi nel suo lavoro storiografico, che diventa così lavoro ideologico.
Questa è la differenza di fondo. Ma non c’è un taglio netto, un netto confine fra due insiemi: quello dei buoni e quello dei cattivi storici. L’insieme si suddivide in modo spesso caotico in decine e decine di sotto insiemi e al limite ogni storico è un caso a sé.
Esiste una storiografia cattolica qualche volta buona e qualche volta cattiva e una anticattolica che ugualmente qualche volta è buona e qualche volta cattiva. Franco Della Peruta non ha certo simpatie cattoliche però è stato un ottimo storico e gran lavoratore, ma quando in un convegno è stato costretto a pronunciarsi sulle insorgente antigiacobine ha dato i numeri e si è espresso non da storico ma da anticattolico dicendo che le insorgenze sono state un fenomeno reazionario e sanfedista di poco peso nella storia. La storia d’Italia è piena di momenti ancora caldi e controversi sui quali la storiografia si divide: e non si divide sull’accertamento dei fatti, ma sulla loro interpretazione che dipende dal diverso retroterra ideologico proprio di ogni storico. Ciò non discrimina i buoni dai cattivi, ma discrimina i cattolici dagli anticattolici, i marxisti dagli antimarxisti e così via.
Poi ci sono anche gli storici cattivi perché impreparati, perché non hanno voglia di studiare, perché non sono interessati alla ricerca della verità (che è un lavoro di approssimazione e di avvicinamento che costa fatica e che richiede sensibilità e onestà). Ma questo è un altro discorso e in tutte le categorie di lavoratori, manuali e intellettuali, ci sono sempre gli incapaci e i lavativi, equamente ripartiti in tutte le correnti ideologiche.
Noto il silenzio su Giovanni Miccoli.
Mi pareva di aver fatto abbastanza esempi e non capisco bene il perché della domanda specifica su Giovanni Miccoli. Comunque, non è un problema. Le mie prime letture di Miccoli risalgano al periodo (ormai oltre trent’anni fa) in cui ho scritto e pubblicato due ampi saggi su Delio Cantimori, che è stato uno dei maestri di Miccoli e al quale Miccoli ha dedicato un libro edito nel 1970. Poi ho letto altre cose, ma non tutto perché io mi sono occupato prevalentemente di storia delle dottrine politiche in Italia fra 1750 e 1850.
L’influenza di Cantimori si sente sotto molteplici aspetti, ma ciò è meno rilevante, se non per dire che Miccoli è uno studioso serio, padrone di un buon metodo di lavoro, motivato da autentica passione per la ricerca storica ma anche per i temi che tratta.
La sua linea interpretativa, che, come dice Claudio Pavone in una recensione al libro su Pio XII, si mantiene in «equilibrio fra la “scientificità” avalutativa e “onesta” e la necessità del giudizio», è sempre animata dalla necessità e volontà di capire ma anche di giudicare, sia pure con prudenza ed equilibrio e quasi sempre tramite la ricostruzione storica e non direttamente ed esplicitamente al di fuori e per sovrapposizione alla narrazione storiografica. In questo c’è indubbiamente una quota di giudizio psicologico e ideologico che io leggo in questo modo.
Miccoli è un ex cattolico che si è allontanato dalla Chiesa e si è avvicinato alla sinistra marxista, sia pure di un marxismo annacquato; ha collaborato all’Istituto Gramsci e a «Studi storici», rivista di decisa tendenza storiografica di sinistra e marxista. E non l’ha fatto come ospite e compagno di strada occasionale, ma in modo organico. Ma da ex cattolico ha conservato un interesse, che non è solo storiografico, per le vicende della Chiesa e del mondo cattolico in senso lato, ricercando e contribuendo a valorizzare quelle esperienze cattoliche da lui giudicate più avanzate, sulla linea, si potrebbe dire, della Chiesa conciliare di Giovanni XXIII. Quasi con una nascosta motivazione personale: contribuire alla riforma della Chiesa, al suo svecchiamento, al suo adeguamento a un più vivo e coraggioso spirito cristiano. Non da storico, ma piuttosto da cittadino e persona nostalgica della Chiesa abbandonata ma ancora partecipe emotivamente alle sue vicende, sono tutta una serie di suoi giudizi, indubbiamente legittimi, ma anche rivelatori di un atteggiamento che non è affatto avalutativo.
Libro per libro, pagina per pagina, si potrebbe vedere in che misura questo atteggiamento personale e carico di emotività ha poi influito sulle sue ricerche e sulla redazione della sua opera storiografica.
Mi pare comunque che Miccoli sia uno storico di buona qualità, sempre interessante da leggere, ma non esente da influenze ideologiche, perché, a mio parere, è comunque impossibile esserlo del tutto.
Certamente è meno influenzato da fattori extra storiografici di quanto non lo fosse il suo maestro Delio Cantimori che nel 1943 scriveva ancora articoli perfettamente fascisti e talvolta filonazisti per il «Dizionario politico» del Partito nazionale fascista e due anni dopo scrive articoli su Lenin da convinto leninista iscritto al PCI.
Ma il “caso Cantimori” e l’aspro dibattito non ancora risolto e concluso fra i difensori e i detrattori dimostra come l’ideologia sia pervasiva e come penetri anche nella storiografia migliore. Benedetto Croce accusava Cantimori di “confusione e contraddizione degli atteggiamenti mentali e morali”, e in un certo senso aveva ragione perché Cantimori, ottimo storico, come storico insegnava un rigore alto al quale come uomo non sempre riusciva, per coraggio e moralità politica, a starne all’altezza. Era interiormente combattuto e lacerato e a volta dà l’impressione d’essere stato sovente in lotta con se stesso.
Da questo punto di vista l’itinerario personale e scientifico di Miccoli è molto più lineare e coerente.
A me risulta che Giovanni Miccoli fosse un credente cristiano. Appellativo che ho sempre trovato più consono di quello di “cattolico”, che contraddistingue una confessione interna ad una religione, quella cristiana. Non mi è chiaro perché un cristiano non dovrebbe, in quanto storico, collaborare al Gramsci ed alla sua rivista. Anche Hans Küng riconosce nei suoi scritti un debito con Marx ed il marxismo, magari via Ernst Bloch, pur essende egli (Hans Küng) un teologo cristiano di confessione cattolica.
Non ho mai detto né pensato che uno storico cristiano non possa collaborare con il Gramsci, ma ho detto che collaborare con il Gramsci è un segno indicativo di un orientamento, che va tenuto presente nel giudicare il suo orientamento storiografico. Così come è un segno indicativo da tenere presente qualunque appartenenza o simpatia politica.
Si può collabora con chiunque, con qualunque tipo di organizzazione e/o partito politico, ma ciò è, evidentemente, un qualcosa che non può non influenzare l’opera storiografica.
Non ho conosciuto personalmente Miccoli e la notizia che era un cattolico che si era distaccato dalla Chiesa l’ho letta in alcuni suoi profili biografici e l’ho trovata coerente con la sua produzione storiografica, nel senso che ho detto nel mio precedente commento. Ciò si concilia benissimo con la tua affermazione: «A me risulta che Giovanni Miccoli fosse un credente cristiano».
Dunque, credente ma staccato dalla Chiesa ufficiale. Questo spiega ancora meglio quello che dicevo: un ex cattolico che ha nostalgia della Chiesa ed è personalmente ed emotivamente coinvolto nelle sue vicende, nelle quali a suo modo interviene per favorire la linea di rinnovamento della vita religiosa cattolica.
Il suo insistere, in molte ricerche e libri, a partire dal primo del 1966, su almeno un paio di punti importanti dal punto di vista storiografico ma anche dal punto di vista esistenziale per un credente: 1) L’importanza del fattore religioso nelle vicende storiche, in polemica e però anche collaborazione con la storiografia laica che vedeva ormai, nel mondo moderno, dalla fine del Settecento in poi, poco rilievo della vita religiosa rispetto agli aspetti economico e sociali. Questa discussione mutò in parte il programma editoriale della Einaudi e dei volumi monografici di aggiunta alla serie della Storia d’Italia. 2) Il mettere in rilievo gli aspetti francescani ed evangelici della storia della Chiesa contrapposti alla Chiesa come centro di potere politico.
Il suo amico e collega Daniele Menozzi, nel ricordo / necrologio scritto in occasione della morte di Miccoli, afferma: «Si poneva in tal modo la questione del significato che poteva ancora avere quella riforma della Chiesa che diversi ambienti riconducevano alle deliberazioni del Vaticano II. Mi sembra che una parte significativa della produzione di Giovanni Miccoli abbia voluto costituire una risposta proprio a questa domanda. Non solo il libro su Francesco d’Assisi del 1991, […]cui ho fatto in precedenza cenno, è stato in larga parte riproposto nel 2013 per i tipi di Donzelli, con una nuova introduzione in cui si affronta la questione di come possa essere giunta al card. Bergoglio l’idea di assumere da papa il nome di Francesco; ma, in questo arco cronologico, l’attenzione all’Assisiate si è riproposta in vari saggi.
Da questi lavori si ricava lo sforzo di ricostruire le concrete modalità con cui si era fatta strada nella storia un’alternativa evangelica in ordine alle forme di presenza della Chiesa nel mondo. Del resto la questione delle “alternative” non era certo ignota allo studioso triestino. In fondo, fin dal suo primo libro “Chiesa gregoriana”, pubblicato nel 1966 e dedicato a diversi aspetti dell’età di papa Ildebrando, emergeva l’attenzione ad un complicato intreccio tra, da un lato, l’affermarsi del potere monarchico del pontefice sulla comunità dei credenti e della sua pretesa di primazia sull’organizzazione del consorzio umano e, dall’altro lato, il prodursi di istanze di conformazione della Chiesa al messaggio del Vangelo. La straordinaria forza critica del capitolo sulla “Ecclesiae primitivae forma” ne era una testimonianza particolarmente espressiva.
L’insistente ritorno di questi anni sulla “proposta cristiana” di Francesco sembra allora rappresentare l’indicazione, storiograficamente rigorosa, che una radicale riforma evangelica della Chiesa era storicamente stata possibile. In controluce, si poteva leggere che toccava ai credenti, anche nell’epoca dei pressanti richiami dell’autorità ecclesiastica a nuove cristianità, fare buon uso dei risultati di una corretta ricerca storica».
Ex cattolico, posso ipotizzare, ma credente cristiano alla ricerca dell’alternativa evangelica al potere politico e diplomatico della Chiesa che ha condizionato e condiziona la vita religiosa della comunità dei credenti.
Mi pare che da questo punto di vista si possano capire anche meglio i suoi giudizi negativi su Pio XII e su Ratzinger e il giudizio positivo su Bergoglio. In questi giudizi si incrociano la ricerca storica e l’autobiografia dell’autore, cioè lo studio rigoroso dei documenti e il peso delle preferenze personali.
APPUNTO N.1 (@ Aguzzi)
“ comincio col dire che Abate è troppo comprensivo nei confronti della storia dell’Unione Sovietica. La sua conclusione è davvero una perla: «E forse proprio i frammenti di storia “non totalitaria” dell’ex Urss potrebbero essere preziosi».”.
‘Comprensivo’ nel senso di giustificare indiscriminatamente le scelte dei dirigenti bolscevichi? No. Ho mantenuto la distinzione tra Lenin e Stalin (come mi rimprovera Mantelli). E di un episodio – quello di Kronštadt – feci nel 2018 una lettura che a me pare problematica e non giustificatoria (https://www.poliscritture.it/2018/08/26/trockij-kronstadt-e-la-violenza-politica/).
Sulla mia “perla” equivochi o travisi, strattonando l’affermazione contenuta nella mia scheda. Io ho inteso valorizzare gli spunti di lotte minime – individuali e sociali – che sfuggivano al (supposto) totalitarismo e potrebbero essere interpretate come una sua smentita o una prova della fragilità euristica di quel concetto. Ho scritto infatti: ” sotto la cappa relativamente totalitaria del regime, molte lotte individuali e sociali sono state condotte in forme atipiche (resistenza, assenteismo, rifiuto di collaborare, fuga) anche nel periodo staliniano, ma sono state poco o per niente documentate a causa della censura e distorte nel loro significato dalla propaganda anticomunista”. E tu mi imputi una banalità :“che anche nel nazismo e nel fascismo c’era del buono”. Da essa poi parti in quarta o per i soliti e abusati tuoi ricami eruditi e polemici (“Col fascismo i treni arrivavano in orario”; la Sarfatti) o per attribuirmi “una più ampia apologia del bolscevismo”. Cose che mi sono estranee. Sono – te l’ho detto altre volte – tuoi fantasmi che sovrapponi al mio pensiero.
Tirata mi pare la distinzione che fai a proposito de «Il disgelo» di Ilja Erenburg. Fosse pure soltanto una critica “contro alcun aspetti della politica culturale dello zdanovismo” è per me un buon segnale. Ma l’uso rigido che fai dei concetti (totalitarismo perfetto e imperfetto) ti fa considerare irrilevanti queste “resistenze”. Perché devi affermare il tuo dogma: quello sovietico era interamente e dalla nascita un “regime totalitario”, un aborto della storia e irrimediabilmente destinato al fallimento.
P.s.
(Sul totalitarismo tornerò in prossimi appunti…).
@ Ennio Abate
Su diversi punti del tuo ultimo commento ho già risposto in miei interventi precedenti ed è inutile che io mi ripeta cercando di controbattere alla tua convinzione che io sovrapponga i miei “fantasmi” al tuo pensiero, o all’uso rigido che farei dei concetti, o al mio presunto dogma che «quello sovietico era interamente e dalla nascita un “regime totalitario”, un aborto della storia e irrimediabilmente destinato al fallimento».
Ho sempre cercato di argomentare le mie convinzioni senza dogmi, senza rigidità, senza fantasmi psicologici estranei alla ricerca storiografica e ai risultati che, a mio parere, la storiografia permette di delineare.
In proposito posso dire che la storia e la storiografia si sviluppano su più piani di realtà:
1) La storia come somma degli avvenimenti passati.
2) La storia come somma di ciò che di quegli avvenimenti passati ci resta, in termini di testimonianze (manufatti di vario tipo, documenti e testi scritti, testimonianze orali, iconografiche e cinematografiche, il patrimonio culturale nelle sue varie articolazioni, la realtà nelle trasformazioni del paesaggio, nelle trasformazioni ecologiche, nei mutamenti della vita sulla Terra e della vita dell’uomo, nell’«evoluzione» biologica ecc.).
3) La ricerca storiografica che mira all’accertamento dei fatti sulla base delle testimonianze di cui al punto 2.
4) La storiografia come narrazione di ciò che risulta dalle ricerche di cui al punto 3.
5) La storiografia come interpretazione del “senso” della ricostruzione dei fatti e della loro narrazione.
6) La storiografia come prodotto letterario che si concretizza in libri, saggi, articoli, documentari, e quindi come comunicazione pubblica e come relazione fra lo storiografo e i lettori dei suoi testi scritti o filmati.
7) La storiografia come prodotto che viene “usufruito”, “consumato”, “utilizzato” dai lettori e quindi come prodotto che entra in circolazione e ha una sua qualche “fortuna” e delle sue utili o inutili o dannose conseguenze.
8) La storiografia usata come fonte ideologica nell’uso strumentale della storia e nella sua degradazione a esempio rettorico, ideologico, partitico, patriottico, politico e di gestione pubblica come sussidiario del potere o della lotta contro il potere.
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I punti 7) e 8) sfuggono dalle mani dello storiografico, che terminato di scrivere il suo testo e, pubblicatolo in qualche modo, per il resto non può che affidarsi ai lettori e, al massimo, gli è concesso di intervenire come lettore di se stesso e in difesa di se stesso. Ma come lettore di se stesso può anche ingannarsi, alla pari di qualunque altro lettore.
Pertanto mi affido anch’io al lettore e a lui rimando la decisione di chi di noi due, sui punti controversi, abbia torto o ragione. E credo che alcuni daranno ragione a te, altri a me, come è logico che avvenga, perché la verità e la ragione non hanno mai confini netti e univoci, ma sono sfumate e in gran parte dipendono dalle scelte e dalle preferenze personali.
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Qui mi interessa, ora, solo aggiungere due precisazioni a proposito di due tue affermazioni.
1) Tu scrivi che io ti accuserei, a torto, di «giustificare indiscriminatamente le scelte dei dirigenti bolscevichi». Sostituirei il termine “indiscriminatamente” con il termine “largamente”. Tu giustifichi, a mio parere, largamente, o almeno molto più largamente di quanto, sempre a mio parere, la storia permetta di fare, “le scelte dei dirigenti bolscevichi”. Corretta in questo modo la tua affermazione rispecchia meglio il mio pensiero.
2) Tu mi accusi di usare in modo rigido i concetti (totalitarismo perfetto e imperfetto) e di «considerare irrilevanti queste “resistenze”», riferito alle resistenze dei dissidenti e della dissidenza in genere all’interno dell’Urss bolscevica.
Non è vero. Non le considero irrilevanti. Ma:
a) Sono rilevanti e interessanti come testimonianze e come elementi di giudizio sul fatto che, come io ho sempre sostenuto, anche il totalitarismo più rigido non riesce mai a controllare al cento per cento l’intera vita istituzionale, politica e culturale del paese.
b) Tuttavia la loro rilevanza come testimonianza è di poco peso nella considerazione degli effettivi rapporti di potere e quindi dell’effettivo esercizio del potere. Non hanno, queste forme di dissidenza e di resistenza, ad esempio, il peso che hanno nell’Italia fascista la monarchia e la Chiesa. Per questo il regime fascista italiano, costretto a dividere il proprio potere con queste due altre realtà istituzionali che non è mai riuscito a eliminare o controllare totalmente, è definito da molti storici e giuristi un “totalitarismo imperfetto”. Definizione limitativa che non può applicarsi al regime sovietico né al regime nazista.
c) La sopravvivenza, anche nel totalitarismo più completo, di qualche forma di resistenza e di opposizione, vale anche per la Germania nazista. Non è una caratteristica qualificante del regime sovietico, ma piuttosto qualificante delle dinamiche proprie del potere in qualunque realtà lo si consideri. Il potere dominante ha sempre a che fare con un potere che gli si oppone. Il totalitarismo non fa eccezione, ma si caratterizza con il fatto che riduce al minimo tale opposizione, a un minimo tale da renderla marginale e inefficace nel contrastare, nel limitare, nell’arginare il potere dominante. Se non fosse così, quel regime non potrebbe definirsi totalitario secondo il significato che si attribuisce a questo termine.
d) Pertanto, il problema storiografico (nel senso di interpretazione e non di semplice narrazione dei fatti) non è se esistesse o se non esistesse una qualche forma di opposizione, ma se questa fosse estesa e forte al punto da costituire una significativa limitazione del potere dominante. Secondo me non aveva questa portata, né nell’Urss né nella Germania nazista. Se, al contrario, secondo te l’aveva (e secondo Brunello Mantelli per quel che riguarda la Germania), allora è giusto che tu ponga l’accento sulla sua rilevanza per negare l’utilità dell’uso della categoria “totalitarismo”.
Questo è un dilemma storiografico difficile da risolvere con il racconto dei fatti, perché passando dai fatti alla loro interpretazione subentrano le convinzione e le preferenze personali. Se l’accertamento e il racconto dei fatti può trovare d’accordo anche storici di opposte tendenze, difficilmente la loro interpretazione sfugge alla diversità di posizioni culturali, politiche e ideologiche, e in definitiva alla personale posizione in quel rapporto che lega l’attualità alla lettura del passato e alle proiezioni nel futuro.
Quindi la diversità di posizioni storiografiche finisce sempre per trasferirsi, come è sempre avvenuto, in diversità di altro tipo: politiche, ideologiche, filosofiche, religiose ecc.
Niente di male. La diversità è una ricchezza, almeno finché non oltrepassa il confine del rispetto dell’altrui libertà e dei diritti della persona e del cittadino. Che, va aggiunto, sono confini mobili e diversamente delineati a secondo delle proprie posizioni. Con il che il cerchio si chiude. Però i cerchi che si chiudono hanno diverse dimensioni ma, per chi li traccia, un unico centro. E da quel centro parte la misurazione delle distanze e vicinanze che classificano gli amici per la pelle, gli amici così così, i non-amici ma interlocutori validi, i non-amici ma non proprio nemici, i nemici leggeri, i nemici pesanti, i nemici intollerabili. Classificazione provvisoria che ognuno può riformulare a proprio modo, con l’avvertenza che qui uso il termine “amici” in senso ideologico e politico, non in senso affettivo.
APPUNTO 2
Riporto da POLISCRITTURE FB questo interessante scambio tra Brunello Mantelli e Luciano Aguzzi a cui ho aggiunto una mia nota.
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• Brunello Mantelli
Credo che una parte dell’indubbia rigidità del collega Aguzzi dipenda dal suo approccio da studioso di dottrine piuttosto che da storico in senso stretto. Ovviamente in quell’approccio c’è molto di positivo, ed è un buon antidoto al rishio di perdersi nel frammentismo che gli storici in senso stretto corrono, ma c’è anche il rischio di ingabbiare la storia in corsetti troppo costrittivi. A ciò si aggiunga un punto di vista rigorosamente antibolscevico/anticomunista, curiosamente speculare (ed antitetico/polare) a quello di coloro i quali egli rimprovera un approccio “anticattolico”. Se costoro hanno torto nel non sforzarsi di comprendere il concreto operare della Chiesa cattolica, perché egli avrebbe ragione nel non fare lo stesso sforzo verso l’URSS (comprendere in senso spinoziano, NON giustificare. Che non è affare dello storico!)? E’ la stessa cosa, del resto, che occorre fare verso fascismo e nazismo. Tropppo facile liquidarli conn qualche formuletta come l’abusato e francamente inutile concetto di “totalitarismo”. NB: la tesi di dottorato di un collega tedesco, lunga 1400 pagine, era dedicata ai “conflitti del lavoro sotto il regime NS 1933-1939”. In italiano poi c’è la traduzione (molto parziale) di Tim Mason, sul tema. Anche lì, con Hitler al potere, il controllo totale restò un’utopia (reazionaria). Come dimostro del resto ad abudantiam la gigantesca ricerca coordinata da Martin Broszat “Bayern in der NS-Zeit” (ovviamente m,ai tradotta!).
Luciano Aguzzi
Caro Brunello, che la mia, per te «indubbia rigidità», «dipenda dal [mio] approccio da studioso di dottrine», può essere anche vero, sebbene per me non si tratti di rigidità ma di necessità ermeneutica nella pratica storiografica, se si vuole capire la storia e non perdersi nelle singolarità degli eventi storici. Si tratta del complesso problema, filosofico e metodologico, del “senso” della storia e dunque del come la storiografia riesce a darne conto.
Il termine “senso” rinvia a diversi modi di considerarlo. Si traduce, dal punto di vista disciplinare, nelle ricerche di filosofia della storia, in quelle di teologia della storia, ma anche in quelle più proprie della storiografia come scienza e in quelle di metodologia della ricerca storica e della narrazione storiografica. C’è sempre stato e c’è ancora un dibattito sulle caratteristiche dei vari livelli di ricerca storica: dalla “storia locale”, dalla “microstoria”, alla “storia generale” (ma non generalistica in senso negativo).
Di per sé la storiografia ricostruisce e racconta eventi singoli, singolarità temporali e spaziali. Ma se vuole dare un senso a queste singolarità è costretta a usare categorie generalizzanti, sia quelle “create” dalla stessa storiografia, sia quelle mutuate dalla filosofia o dalla sociologia o dal diritto o da altre scienze umane e sociali e persino naturali. Se un autore volesse scrivere un qualunque libro di storia senza fare uso di categorie generalizzanti si accorgerebbe di non poterlo fare, perché il linguaggio stesso è pieno di termini che non sono altro, usati nel contesto storiografico, termini generalizzanti.
Ogni volta che lo storico scrive “democrazia”, o “dittatura” o “rivoluzione” ecc. ecc. usa categorie generalizzanti. E così per i termini “comunismo”, “socialismo” e di nuovo ecc. ecc.
Nella storia concreta non esistono due “rivoluzioni” identiche, o due “comunismi” identici, o due “Stati democratici” identici. Ma non è possibile qualificare queste realtà storiche senza uso di termini generalizzanti.
E meno ancora è possibile comprendere una serie di eventi storici in un comune quadro interpretativo senza usare categorie generalizzanti.
Alcune di queste categorie sono da sempre entrate nel linguaggio comune e spesso lo storico le usa quasi automaticamente, senza farsene un problema, mentre altre categorie sono di uso più specialistico e più problematico e quindi fonte di maggiore riflessione e di divergenza di opinioni.
Ma se qualche storico parla di «guerra civile continua» anziché di totalitarismo, a proposito dell’Urss 1917-1941 come tu hai osservato, ci dà sì narrazioni storiografiche diverse, ma lo fa usando comunque categorie generalizzanti, perché anche “guerra civile” è tale. Perché usando questa espressione si intende una tipologia di eventi storici diversi nelle loro singolarità, ma accomunati da tratti considerati comuni o analoghi, tanto da poterli raggruppare nel significato dell’espressione.
Quindi, si può discutere, concordare o dissentire sull’utilità o meno di usare questa o quella categoria generalizzante in riferimento a un tratto storico definito, ma non sulla necessità di usare comunque categorie generalizzanti.
Senza “corsetti costrittivi” la storia sfugge da ogni parte e diventa un caos senza senso, che non sia quello meramente letterario del racconto storiografico, dove la verità e la realtà hanno lo stesso valore dell’invenzione e della finzione.
Certo, le categorie generalizzanti spostano in qualche modo l’attenzione dalla storia all’interpretazione della storia, dal racconto degli eventi alla meditazione sugli eventi, e già in qualche modo collegano la storiografia alla filosofia, alla sociologia, al diritto, alla teologia e persino, qualche volta, all’escatologia.
Ma la ricerca del “senso” lo richiede e lo storiografo non può non meditare sul “senso” della storia, si trattasse pure di una microstoria, di un evento magari marginale che si è svolto in un solo giorno in un piccolo spazio qualsiasi. Se chi scrive di storia non medita sul “senso” della storia vuol dire che ha già operato una scelta di senso, mutuata, magari inconsapevolmente, dalla tradizione o da qualunque altra fonte culturale.
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Su altri punti del tuo commento ho già detto nei miei precedenti interventi e non voglio ripetermi. Mi interessa invece rettificare questa tua affermazione: che io avrei «un punto di vista rigorosamente antibolscevico/anticomunista».
Antibolscevico sì, ma non anticomunista, bensì solo anti il comunismo marxista, che a mio parere (e a parere di tanti, a cominciare da molti critici di Marx da metà Ottocento in poi), non è comunismo coerente con l’ideale comunista di fratellanza e di uguaglianza, ma è un comunismo sempre e comunque, ad ogni tentativo di realizzarlo, destinato a trasformarsi in tirannia e in negazione degli ideali di fratellanza e di uguaglianza. E la ragione di fondo è che il comunismo marxista non è fondato su un ideale etico che prevede una scelta volontaria, ma sulla pretesa di scientificità e necessità che la scienza e la storia hanno sempre smentito e che di fatto, nel movimento concreto delle lotte sociali, si realizza come ideologia, strategia, programma e pratica di conquista del potere e, una volta conquistato il potere, come ideologia (e qui è proprio il caso di dire “falsa coscienza”) di giustificazione del potere. Ma il “potere comunista” si comporta poi con la logica propria del “potere”, che non ha mai previsto la fratellanza e l’uguaglianza.
Da libertario, apprezzo il comunismo come ideale e le realizzazioni comuniste basate sulla libera scelta. In Italia esiste ormai da oltre sessant’anni una comunità comunista, Nomadelfia, fondata da don Zeno Saltini, predicatore di un comunismo evangelico. Non ho nulla da dire contro questo tipo di comunismo, che guardo con molta simpatia.
A mio parere l’opera di Marx ha creato un’idea di comunismo che è anticomunista, rispetto all’ideale comunista degli oltre duemila anni precedenti. Paradossalmente si potrebbe dire che, come Satana si finge talvolta cristiano per distruggere il cristianesimo, Marx si è finto comunista per distruggere il comunismo. Oh, benedetta o maledetta eterogenesi dei fini, benedetta o maledetta incoerenza fra la moralità delle intenzioni e la moralità della responsabilità delle conseguenze.
Brunello Mantelli Belle riflessioni. Ci penserò. Grazie.
Ennio Abate
@ Luciano Aguzzi
Solo un appunto veloce. Mi permetto di ipotizzare che la tua «indubbia rigidità» non «dipenda [soltanto o soprattutto] dal [tuo] approccio da studioso di dottrine piuttosto che da storico in senso stretto» ma abbia radici più profonde, anche esistenziali e legate alla tua formazione come studioso “eccentrico” rispetto all’accademismo degli storici di professione. So che è un discorso scivoloso, ma non lo trascurerei. Anche perché non riguarda solo te come persona, ma proprio l’atteggiamento dello storico (in senso lato). Nel lontano 1997, quando fu pubblicato, lessi “Sentimenti del passato. La dimensione esistenziale del lavoro storico”, di Antonietta Tarpino (La Nuova Italia). Lo consiglierei ancora adesso.
APPUNTO 3
Riporto dalla pagina FB di David Bidussa, sulla quale ho segnalato questo articolo di POLISCRITTURE sito, il seguente scambio.
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David Bidussa
Ho letto ciò che scrive il Prof. Aguzzi. Una discussione dotta. La sensazione è una discussione “a priori”, ideologica, “terzinternazionalista”. Interessante, ma anche molto presuntuosa.
Maria G Meriggi
Infatti molti interventi precedono temi ampiamente e innovativamente trattati nel libro
Ennio Abate
Perché “a priori”? E, almeno da parte mia, nessuna visione “presuntuosa”. Ho acquistato il libro e, come ho detto in altra pagina FB, controllerò il peso del mio “pregiudizio ranchettiano” a fine lettura. Ho anche sollecitato approfondimenti e interventi ( e correzioni di tiro, se necessarie) da parte di altri. Grazie.
David Bidussa Ennio Abate
sto parlando del Prof. Aguzzi.
Ennio Abate
Ok
Maria G Meriggi David Bidussa
dove la trovo?
Ennio Abate Maria G Meriggi
La discussione? Al link che ho segnalato sopra….
Maria G Meriggi Ennio Abate
trovata!
Maria G Meriggi
Resta il fatto banale, banalissimo che intervenire su un libro non letto è una operazione ideologica e la prevenzione ideologica la lascio ai miei avversari (molti dei quali magari sulle colonne del Corriere, ma si sa, la vita è complicata)
Ennio Abate
Preciso che non si sta intervenendo “su un libro non letto” ( e per ora neppure sulla recensione di Claudio Vercelli). Ma è possibile scambiare prime impressioni o pre-giudizi in una conversazione tra chi ha già letto il libro e chi non l’ha ancora letto (o magari non lo leggerà)? A me questo non pare automaticamente “operazione ideologica” ma, se si vuole, potremmo parlare di “fantasie di avvicinamento” (Zanzotto). E poi le operazioni ideologiche si possono fare e si fanno anche a libro letto. Non è così facile sottrarsi alle “ideologie” o no?
Maria G Meriggi Ennio Abate
ma parlare di ciò che si conosce riga per riga è condition prealable. In questo sono della vecchia ” scuola italiana”: filologia e archivio
Ennio Abate Maria G Meriggi
Un’ultima osservazione e poi ricomparirò (forse) su questa pagina solo dopo aver letto il libro di Bidussa: non sono per la chiacchiera ma i requisiti della vecchia “scuola italiana” erano e restano nella sostanza classisti ed elitari. La necessaria “nuova scuola” non c’è stata (manco dopo il ’68, manco dopo don Milani). In sua assenza non ritengo sbagliato tener d’occhio i Menocchio, che talvolta bazzicano anche nelle oscure selve di FB.
Maria G Meriggi Ennio Abate
della vecchia scuola era capofila Stefano Merli insieme a della Peruta…. Vedi tu. Per vecchia scuola italiana intendo quella della “priorità delle fonti”
Maria G Meriggi
Che permette di rispettarsi fra studios* anche lontanissimi, come a me è capitato discutendo da giovanissima con Rosario Romeo e più avanti con Luciano Cafagna
…ci provo ad esprimere un’opinione sul silenzio di Pio XII. Non mi sembra nè comprensibile nè, tantomeno, giustificabile. Un capo religioso come il Papa -anche capo di Stato è vero, ma la ragion di stato non spiega tutto- esercita un’influenza di grande portata spirituale trasversale sulle coscienze nell’indirizzarle, sia per avvallare opinioni e comportamenti, sia per appoggiare un atteggiamento di reticente condiscendenza..Per fortuna molti cristiani conservarono un loro senso critico…ma altri si appoggiarono all’autorità indiscussa del pontefice, coscienza a posto. Che dire? per me è gravissimo avvallare un genocidio con il silenzio…un po’ richiama l’oggetto della denuncia di H. Arendt nei confronti dei contabili del nazismo, che non si sporcarono le mani, ma furono ugualmente rseponsabili dell’orrore. Già è difficile capire l’annubilimento di massa che la macchina militare, organizzativa e ideologica di Hitler opero’, ma se si pensa a una sorta di benedizione divina forse…Chi si oppose, e avvenne a tutti i livelli, ebbe davvero molta lucidità e coraggio oltre che umanità…
Chi sostiene che ai tempi del nazismo la Chiesa fosse complice di Hitler del nazismo deve scontrarsi con l’opinione della maggior parte degli storici dell’Olocausto, convinti che il dittatore tedesco avesse in mente di eliminare il cristianesimo (ad esempio l’ebreo George L. Mosse, William L. Shirer, Jack R. Fischel ecc.). È innegabile, infatti, che durante i dodici anni di vita del Terzo Reich, la Chiesa dovette subire restrizioni e vessazioni perché giudicata ostile dal governo nazista.Durante il processo di Norimberga uno dei capi d’accusa imputati al leader nazisti era la persecuzione religiosa. L’accusa dichiarò infatti: «Essi ( i leader nazisti) hanno dichiarato il loro obiettivo di eliminare le chiese cristiane in Germania ed hanno perciò cercato di sostituirle con le istituzioni e le credenze naziste; in ordine di ciò hanno perseguito un programma di persecuzione di sacerdoti, chierici e membri di ordini monastici che essi ritenevano opporsi ai loro intenti, ed hanno confiscato le proprietà della chiesa» (Robert A. Graham, “Pio XII e il regime nazista. Note dagli archivi tedeschi”). Nel 1941, in una circolare indirizzata ai gauleiter (ed allegata agli atti d’accusa a Norimberga), Martin Bormann espresse con chiarezza l’assoluta incompatibilità tra cristianesimo e nazionalsocialismo.I nazisti che dunque ,come confessato a Norimberga,erano intenzionati a distruggere l’influenza della Chiesa nella società e si adoperarono a far chiudere scuole, giornali e associazioni cattoliche, a licenziare i religiosi dalle scuole pubbliche, a togliere i crocifissi dagli edifici, a limitare i pellegrinaggi, a confiscare monasteri e a proibire la pubblicazione di articoli a carattere religioso (A. Riccardi, “Il secolo del martirio”, Milano 2000 pp. 63-83). Il regime non intendeva condurre una guerra aperta (i cattolici, pur essendo una minoranza, erano circa il 40% della popolazione), ma preferiva gettare discredito su un’istituzione considerata nemica attraverso una campagna di calunnie, sebbene non mancassero atti di violenza e uccisioni: «Più di un terzo del clero secolare e un quinto circa del clero regolare, ossia più di 8000 sacerdoti furono sottoposti a misure coercitive (prigione,arresti illegali,campi rieducativi…), 110 morirono nei campi di concentramento, 59 furono giustiziati, assassinati o perirono in seguito ai maltrattamenti ricevuti» (da G. Miccoli, “I dilemmi e i silenzi di Pio XII”, nota 54, p. 444). La falsa insinuazione che la chiesa cattollica appoggio` ideologicamente il regime nazista è una balla colossale .Non si nega che qualche esponente del clero tedesco a titolo personale, abbia espresso una certa simpatia ,come la maggioranza del popolo germanico,verso Hitler ma l`atteggiamento ufficiale del Vaticano e` sempre stato ostile e diffidente come e` comprovato da vari fatti e documenti. Quando Hitler venne in visita a Roma il papa per evitare anche incontri “casuali” con il fuhrer lascio` la capitale per recarsi a Castel Gandolfo in segno di dissaprovazione di quella presenza in citta`. I vescovi tedeschi poi erano tanto “favorevoli “al nazismo che nell’agosto del 1932,durante i lavori della Conferenza Episcopale Tedesca Conferenza Episcopale Tedesca , emanarono un documento ufficiale in cui si ribadiva in modo solenne l’interdizione dei cattolici a iscriversi al partito nazista,pena la scomunica e si metteva all`indice il Mein Kampf .(http://www.zenit.org/it/articles/quando-la-chiesa-tedesca-scomunico-il-nazismo) Infine ,ma non ultima l’enciclica papale “Mit brennen sorge ” in cui veniva condannato il nazismo in generale e il tentativo di questa ideologia di utilizzare in qualche modo il cristianesimo in modo propagandistico,paganeggiante e del tutto distorto.Il “cattolico” Hitler di fronte a questi documenti che fece ? Obbedi` da vero devoto…..togliendo i crocefissi e abolendo l`ora di religione nelle scuole del Reich,arrestando e perseguitando vescovi,preti e suore …e giurando che al momento opportuno avrebbe chiuso la” partita” con la chiesa cattolica e il cristianesimo in generale …come aveva confidato gia`poco prima della firma del concordato: « Nessuna delle due confessioni, protestante o cattolica (che per me sono la stessa cosa) ha speranza di un futuro ,almeno fra i tedeschi. Il fascismo italiano può scendere a patti con la Chiesa, in nome di Dio.Lo farò anch’io, perchè no ? Ma questo non mi fermerà dallo sradicare completamente, dalle radici fino ai rami, il cristianesimo in Germania. O si è cristiano o si è tedesco. Essere tutti e due contemporaneamente è impossibile.» ( Hitler in conversazione con il sindaco di Danzica Hermann Rauschning. Tratto da :John S. Conway, “The Nazi Persecution of the Churches”, 1933–45 London: Weidenfield & Nicolson, 1968, p. 15.)
…sicuramente tutto vero, i cristiani cattolici come protestanti, laici o appartenenti al clero, piu’ basso che alto, si spesero molto contro le due dittature, ma la mia opinione negativa riguardava unicamente il Papa Pio XII che in Italia, a partire dall’emanazione delle leggi razziali contro gli ebrei, non si è espresso in maniera esplicita e coraggiosa, dando vita ad un reale movimento cristiano-cattolico antifascista e antinazista…Chi si mobilito’, e furono molti e pagarono di persona, lo fecero spesso in clandestinità
Per evitare incomprensioni e chiacchiere propagandistiche non sostenute da dati storici su una questione tanto complessa come quella affrontata dal libro di David Bidussa, che sto leggendo, tengo a precisare che il Giorgio che qui commenta è Giorgio Zerda, il quale non contento di avermi contestato sulla pagina FB di “Sei di Cologno se…”, lo fa anche sul sito di Poliscritture.
Eppure avevamo concordato che ne avremmo riparlato solo quando lui avesse letto il libro di Bidussa e quello di Ranchetti che avevo suggerito ad un altro interlocutore su quella pagina.
Mi documenterò comunque anche sui testi da lui consigliati: “La leggenda nera del Papa di Hitler” (titolo originale The Myth of Hitler’s Pope: how Pope Pius XII rescued Jews from the Nazis) è un saggio del 2005 scritto dal rabbino e storico statunitense David Gil Dalin.; Riebling, Mark, Serra “Le spie del Vaticano. La guerra segreta di Pio XII contro Hitler , L., LE SCIE ; Il Terzo Reich contro Pio XII. Papa Pacelli nei documenti nazisti di Pier Luigi Guiducci . San Paolo Edizioni .
Sono uno di quei fortunati, essendo nato nel ’48, che non hanno conosciuto gli orrori della guerra, appartengo a una generazione privilegiata della storia, anche se era appena dietro le mie spalle, e tanto ne ho sentito parlare, da testimoni viventi, e ne ho letto, per non trovarmene in qualche misura coinvolto. Raccolgo l’invito di Ennio Abate a esprimermi sul caso di Pio XII pur non essendo uno storico( già, perché gli interventi così ricchi di documentazione di certi storici ti tolgono il fiato dalla bocca ancora prima che tu possa aprirla) e non avendo letto il saggio in questione, pur restio, essendo dichiaratamente cattolico (anche se un po’ ‘sui generis’) e pertanto oggetto di pregiudizi ideologici da parte di tanti che si considerano, invece, liberi pensatori.
Ma non voglio passare per ignavo e nemmeno per uno di quei tiepidi che ‘Dio vomita dalla bocca’. Veniamo al dunque. Pio XII non è stato fortunato come me e i miei contemporanei. Si è trovato al centro di una delle più immani tragedie della storia, retaggio della I guerra mondiale, combattuta fra popoli ufficialmente cristiani. Mai si era vista nella storia dell’umanità una simile mattanza, proporzionale alla evoluzione e potenza tecnologica delle armi di distruzione messe in campo (conclusasi con l’inizio dell’era atomica). La cara e vecchia Europa ha potuto liberarsi dall’occupazione militare tedesca solo con l’intervento degli anglo-americani (ricordatelo, cari compagni!), gli stessi che nel ’18 ribaltarono le sorti della Grande Guerra, già vinta dai tedeschi (Remarque ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’). Ma in questo secondo round, a quelle politiche-economiche si aggiunsero motivazioni di ispirazione vagamente etnica, mirate a decretare la supremazia della razza ariana che si prefiggeva di dominare sul resto del mondo (Woody Allen: “quando sento la musica di Wagner mi viene voglia di invadere la Polonia”).
Pio XII si trovò al centro di questo scenario, come massimo rappresentante della Chiesa Cattolica Romana. Gli si imputa, col senno di poi, di non essersi opposto in modo unilaterale e apertamente al nazismo, ritenendo che avrebbe potuto contribuire, con la sua sola voce, a combatterlo (ricordo per inciso che l’unica confessione religiosa che si oppose frontalmente a Hitler furono i Testimoni di Geova, ma erano troppo pochi e la pagarono cara, con la deportazione nei campi di concentramento). Ma fu la virtù cristiana della ‘prudenza’ a ispirargli di non fare altrettanto, se consideriamo che si trovava di fronte a un soggetto che per compensare le proprie frustrazioni esistenziali era diventato preda di un vero e proprio ‘delirio di onnipotenza’ (che pagarono caro i suoi generali ed ammiragli, fino agli imberbi ragazzi della gioventù hitleriana). Chi non ricorda la parodia comica, ma altrettanto tragica, che ne fece Charlie Chaplin, raffigurandolo come un sognatore che si trastullava col mappamondo? La risposta di Hitler a un’aperta denuncia e opposizione non sarebbe stata solo ideologica (per altro già in atto), ma ‘fisica’, con le conseguenze che si possono facilmente immaginare: una caterva di morti (dalle gerarchie ecclesiastiche fino ai semplici credenti) che avrebbe pesato sulla coscienza del Papa, responsabile di un gesto eroico quanto velleitario, che poco peso avrebbe potuto avere sul piano pratico di fronte allo strapotere militare di Hitler e, non ultimo, al consenso di cui godeva, compreso l’alleato Mussolini (che andò contro una tradizione storica che aveva visto l’Italia alleata della Francia, la ‘sorella latina’, contro la Germania; invano scongiurato da Gabriele D’Annunzio di non cadere in questo fatale errore).
Un’ultima considerazione che non sarebbe, a mio avviso, tanto irrilevante. Gli Ebrei (che nella storia recente hanno combattuto una battaglia epica per difendere la Palestina, ultima coda velenosa della II guerra mondiale, e che, attualmente rappresentano uno stato-nazione fra i più militarmente agguerriti, ma che per questo sottraggono con la forza territori ai palestinesi trasformandosi da un popolo di mercuriali ad un popolo di apollinei), non hanno potuto, durante gli anni del nazi-fascismo, nonostante le ingenti risorse economiche di cui disponevano, tentare di organizzare una qualsiasi forma di lotta armata, clandestina, tanta fu la ferocia e l’organizzazione repressiva nei loro confronti (invito al ricordo, con la dovuta pietosa deferenza, dell’esperienza del ghetto di Varsavia).
Non mi spingo oltre in queste riflessioni, perché non mi piace inseguire i fantasmi del passato, pur con la dovuta considerazione verso la storia. Chi lo facesse, in questo caso, per una strumentale polemica anti-clericale, avrebbe tutta la mia riprovazione, anche se non gliene può fregare più di tanto. Lo inviterei, nel caso, a impegnarsi di più verso un’analisi del presente e del futuro, che non si prospetta come foriero di rassicuranti novità.
Pio XII contribuì a salvare tanti ebrei attraverso la diplomazia vaticana. Chi pensa di poter paragonarlo a Celestino V se ne assume la responsabilità; per me e per la Chiesa è stato un ‘servo di Dio’, e Lui solo lo può giudicare.
Ringrazio Franco per la sua riflessione. A me pare che la tifoseria pro/contro anche in questo caso non abbia senso. E lo sforzo che ciascuno deve fare – da storico o da credente o da non credente – è di approfondire per quel che è possibile. Nessuno ha la prova definitiva.
In questa logica aggiungo un altro scambio che ho avuto su FB con un altro interlocutore (che lascio anonimo):
X
Non c’è alcuna fine del cristianesimo. E quanto alla capacità di ripensare la propria storia, nessuno lo fa con tanto impegno e serietà come la Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Ennio Abate
Gli atti di fede possono valere per quel che non conosciamo. Sui documenti storici che confermano come minimo dubbi e sospetti sul comportamento di Pio XII meglio affidarsi alla ragione.
Se tu leggessi questo libro non avresti tutta la sicumera che ti ha fatto scrivere questo sbrigativo commento.
Ma ognuno, se vuole e finché può, ha anche il “diritto” di cullarsi con le proprie consolanti certezze.
Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19
X
nessun sbrigativo commento. La morte della Chiesa è stata annunciata più e più volte. Ed in tanti ci hanno provato con grande impegno dai Romani, agli Svevi, Angioini, coronati del Sacro Romano Impero di ogni tipo fino a Napoleone, Cavour e, finalmente, Hitler con il suo carico di superstizioni e violenze immotivate e brutali. La Chiesa si è piegata più volte e umiliata. Ha fatto anche cose riprovevoli e compromessi disonorevoli, ma è rimasta in piedi. Per una ragione semplice che la distingue dall’Islam e la accomuna all’ebraismo e alle altre religioni cristiane: messaggio universalistico della pacificazione tra i popoli, il non uso della violenza e l’accoglienza dell’altro. Le paure di Pio XII e le minacce sistematiche da parte di un regime volgare e sanguinario fanno solo dire che Gesù ci aveva visto giusto ripetendo più volte che “alla tavola del padre mio c’è posto per tutti” e affidando la costruzione della sua Chiesa a quello che lo aveva rinnegato tre volte prima che il gallo cantasse. La grandezza della Chiesa è del suo apostolato forse è tutto qui. È certo comunque che non è morta.
Ennio Abate
Sto leggendo il libro di Bidussa e nelle prime pagine parla proprio di questo. Riporta le affermazioni del segretario di Pio XII, Robert Leiber, che ribadiva i due presupposti del pensiero di questo Papa: – no iperspiritualismo, ma religione come azione produttrice di effetti sulla società; – istituzione morale universale slegata da una nazione e organismi sovranazionali.
Ebbene, proprio quel “messaggio universalistico della pacificazione tra i popoli, il non uso della violenza e l’accoglienza dell’altro” che è stato messo in discussione nel periodo del pontificato di Pio XII per il suo atteggiamento verso il nazismo!
Bidussa riporta anche un giudizio del filosofo Nicola Chiaromonte, che rimproverava la Chiesa del tempo non tanto per non aver soccorso gli ebrei (questo lo fece, tardi, e in una certa misura bene, accogliendo i perseguitati nei conventi e in altre istituzioni religiose) ma per aver scelto “la ragione politica alla ragione di Cristo”.
Quindi la domanda che ti farei è: sei sicuro che una certa Chiesa non sia morta? E che quella “rimasta in piedi” sia la Chiesa del Gesù che “ci aveva visto giusto”?
Ti consiglierei anche un’altra lettura, sempre di uno studioso cattolico: Michele Ranchetti, storico della Chiesa, Non c’è più religione (https://www.amazon.it/religione-Istituzione-cattolicesimo-italiano-Novecento/dp/8811600146). Poi, se lo leggerai, se ne può discutere.
…mi permetto di aggiungere soltanto, dopo lascio la parola agli storici, che un Papa, in quanto “servo di Dio” non fa un buon servizio a Dio se affida il suo pensiero solo alla diplomazia vaticana e non ha la forza di accusare apertamente chi lede il, questo si’ sacro-santo, diritto alla vita di un intero popolo…Non credo che il questo modo si salvino molte vite, se mai li si butta allo sbaraglio…Lessi tempo fa la testimonianza ( “La foresta dei morti”)di uno scrittore tedesco, Ernest Wicker, che ebbe il coraggio di difendere pubblicamente un predicatore protestante contrario alla persecuzione ebraica…a sua volta E. W. conobbe il lager di Buchenwald..a ciascuno la propria responsabilità, proporzionata al ruolo che ricopre…o almeno cosi’ dovrebbe essere
Pio XII è stato il Papa della mia infanzia, figura di grande carisma, stile e intelligenza. Il suo volto esprimeva forza virile e nel contempo amore cristiano, affinato dalle sofferenze spirituali e morali patite durante gli anni della guerra : un Principe della Chiesa.
Gli perdonavo perfino di vivere nello Stato del Vaticano, diversamente da “il Figlio dell’Uomo che non ha dove posare il capo” (e dall’opinione di mio nonno garibaldino). La tradizione…si sa.
Dopo questa breve replica, pensando di avere dato il mio modesto contributo al tema, non mi spingo oltre, rispettoso delle opinioni altrui. Ringrazio Ennio Abate che, con il suo impegno personale, apre lo spazio per questi confronti.