di Marcella Corsi
Abbiamo fatto un bagno sontuoso e profumato io e mamma, poi curt banana. Così raccontasti a tuo padre quando tornò dal lavoro.
Non ti piaceva affatto entrare nella vasca piena d’acqua, nonostante il tepore, il libro di gomma e la paperella gialla che ci galleggiavano. Così mi ci infilavo anch’io. E diventava un bel gioco, anche senza troppa schiuma. Eri piccola piccola, spiritosa e dolcissima. L’acqua non ti piaceva: nel tuo primo giorno di vita qualcuno in clinica ti aveva messo sotto un rubinetto aperto in modo un po’ rude. Lo yogurt alla banana invece ti piaceva molto.
Parlavi appena e a modo tuo, ma non trascuravi mai di aspettare il ritorno di tuo padre. Anche se, giocando giocando, stavi per addormentarti, riaprivi gli occhi appena sentivi la chiave girare nella serratura della porta d’ingresso. Papà, esclamavi, e via di nuovo nella vita.
Lui era felice di trovarti sveglia e tu lo sentivi. La mattina ti svegliavi presto, e la sera non volevi addormentarti, anche per questo, credo.
A volte ti intontivo di piccoli baci per aiutarti a dormire, oppure facevo finta di avere sonno. Eri comprensiva: ti accoccolavi gentile vicino a me, le manine sulle mie guance. Il rischio era che mi addormentassi davvero, e prima di te. Ti piacevano i racconti, ma non avevano l’effetto desiderato: ne volevi ancora e ancora. Magari gli stessi appena ascoltati. La filastrocca di Sylvia Plath sui letti per esempio, o la storia delle rane nello stagno scritta da Göethe. Quanto ti piaceva che leggessi le ultime parole come fosse un gracidare di rane: sarebbe graaave, graaave, graaave!
Dopo il bagno e la cena quella sera eravamo sul letto in soggiorno. In TV iniziavano le notizie del telegiornale. Facevamo un gioco che ti piaceva molto. Sdraiata di spalle sul letto ma con le gambe ad angolo retto, ti sollevavo verso il soffitto: reggevo il peso del tuo corpo con i piedi, mentre ti tenevo per le mani. Le mie gambe ti facevano andare di qua e di là e su e giù: quasi un volo. Ci guardavamo e ridevi, ridevi.
Le tue risate e l’evidente contentezza che quel gioco ti procurava mi prendevano fin dentro lo stomaco, ma lasciavo con una sorta di piacevole rilassatezza che l’orecchio ascoltasse in parte anche quel che il giornalista riferiva, dall’estero in quel momento.
Una notizia mi gelò. Dovesti atterrare sulla coperta del letto e ascoltare insieme con me per qualche minuto.
Su, su, dicevi: volevi tornare a giocare come prima. E ricominciammo. Ma l’orecchio mi tornava ostinato al telegiornale, che adesso prometteva un approfondimento in edizione straordinaria.
Quando ti fosti ben stancata di dondolare e ridere, ti addormentasti di colpo. Ti portai nel tuo letto, che era adesso da grandi e nella stanza che era stata la mia.
Dal tavolo volarono giù gli ultimi versi battuti a macchina:
accorgimenti d’ali hanno le tue verdi labbra fiore di pesco contento di freschi conversari nel respiro di marzo il tuo capo mi pesa sul petto dolce come fresche foglie sul ramo, leggero come l’ala del fringuello e te ne vai veloce nel sonno aperto.
Li rilessi con gratitudine, e qualche ansia in più rispetto a quando qualche ora prima li avevo scritti.
Tornai subito in soggiorno. Il telegiornale mandava in onda l’approfondimento sull’incidente nucleare avvenuto due giorni prima a Cernobyl.
Un racconto che scorre fresco , spontaneo, nell’esperienza vitale di un rapporto sottopelle fra madre e piccola, sublimato in una poesia che si affida a metafore naturali, aperte. Il sinistro richiamo a Chernobyl misura, per contrasto, la distanza che oramai separa l’uomo dalla natura. Se la narrativa e la poesia devono portare con sé anche il vissuto per proiettarlo in avanti (secondo il commento di Ennio Abate a Franco Fortini), questa ne è una piccola prova.
… il quadretto madre bimba piccola nella loro felicità gioiosa
rappresenta, credo, l’eden affettivo, quasi l’allegoria della vita stessa… Ed proprio il suo cuore ad essere ferito mortalmente dall’esplosione nucleare, un attentato alla vita dell’ umanità intera