di Rita Simonitto
Quando mi chiamano Jamaica Rum certamente la cosa mi dà fastidio, anzi, dirò di più, li odio. Quel Rum che mi affibbiano addosso come nomignolo glielo verserei addosso e poi ci butterei sopra un fiammifero acceso: ecco i miei compagni ‘flambè’!. Ma poi mi ritraggo inorridito da queste mie fantasie, frutto dell’esasperazione a cui vengo portato. So che non lo fanno per ferirmi ma per giocare, loro si divertono così. Forse sono io che non so stare al gioco, non so reagire con ironia. Ma da quando mia madre è andata via con il mio fratellino faccio molta fatica a divertirmi anche se questo è accaduto quasi cinque anni fa, quand’ero ancora alle medie. Adesso sono all’ultimo anno di Liceo Scientifico e ho appena fatto la Maturità che è andata bene. Il Prof di Fisica, terminate le operazioni scrutinali (i nostri professori, dopo gli esiti, hanno voluto incontrarci e salutarci, non con la solita ‘pizzata’ di fine anno, ma con una specie di saluto personale, con un messaggio personale ad ognuno di noi. E questo l’ho molto gradito. Fors’anche perché non so se alla ‘pizzata’ ci sarei andato volentieri), il Prof. di Fisica, dicevo, mi aveva detto “Bravo Gia… Giorgio – so che stava per dire Giamaica, ma poi si era corretto. D’altronde lo avrà sentito anche lui quel nomignolo risuonare per i corridoi della scuola quando i miei compagni mi gridavano “Ehi, Jamaica! Jamaicarum che cosa aspetti ad arrivare…!” – sì, stavo dicendo che il Prof di Fisica si era complimentato per i miei risultati e voleva sapere quale indirizzo di Studi avrei intrapreso.
“Non lo so ancora” gli ho risposto, un po’ infastidito del fatto che davvero non avrei saputo che cosa rispondere.
“E tuo padre che cosa pensa?”, continuava ad incalzare lui.
“Mio padre vorrebbe che facessi Farmacia, ma io non lo so…”
Forse il Prof. aveva percepito la mia riottosità per cui tagliò corto “Beh, qualunque cosa tu faccia, caro Giorgio – stavolta mirò giusto! -sono sicuro che te la caverai egregiamente e ti saprai sempre distinguere. Sei un bravo ragazzo”. Mi porse la mano, gliela strinsi cercando di metterci un certo calore. Quel dialogo mi aveva disturbato perché mi costringeva a rimettermi in contatto con la mia famiglia, con mio padre che non si era più ripreso dalla perdita di mia madre, e anche dell’altro figlio piccolo, ma lui continuava a gridare “L’ho perduta, l’ho perduta” e quel grido mi rimbombava nelle orecchie e per quanto io avessi cercato di riattivare le mie fantasie infantili di essere il San Giorgio che lotta vittoriosamente contro il drago, il fuoco e le spire di quell’animale mostruoso sentivo che erano così potenti da stritolare mio padre e me facendoci precipitare in un abisso senza fine. E sulle prime, davvero pensavo che mia madre se ne fosse andata via perché le cosiddette anime pie mi avevano nascosto la verità senza sapere che avrebbero attivato i miei sentimenti di rabbia per quella sua partenza, così improvvisa, senza darmi un bacio senza dirmi un addio. Così che quando venni a sapere la verità e cioè che in auto, facendo un sorpasso azzardato andò a schiantarsi contro un camion che veniva in senso contrario, la mia rabbia non si lenì, bensì si accentuò, rovesciandole addosso tutta la mia disperazione rabbiosa perché era stata imprudente, non aveva pensato a me. Che in auto con lei ci fosse anche il mio fratellino, in quel momento sembrava non interessarmi affatto. E forse fu per questo che per molto tempo non riuscii a dire che mia madre era ‘morta’, perché avrei dovuto aprire il mio sacco di dolore e di egoismo. Per cui decidevo di raccontare, laconicamente, che era andata via “Non chiedetemi altro”: gli interroganti annuivano e si ritiravano da ulteriori indagini.
La Prof.sa di Lettere, fu più contenuta. Anche lei mi fece i complimenti, utilizzò il diminutivo Tersi (il mio cognome fa Tersiti), diminutivo che usava ogni qualvolta che c’era l’occasione di un colloquio a tu per tu. In classe, infatti, ci chiamava per cognome.
“Tersi – mi disse – sei andato bene. Ma la lingua italiana ti è ancora un po’ ostica e dovresti esercitarti a scrivere. Perché non tieni un diario? Ti sarà senz’altro utile sia come esercizio di lingua ma anche per mettere giù i tuoi pensieri, soprattutto quando, a volte sono confusi e affastellati e così cerchi di fare chiarezza. D’accordo?”. Anche lei mi diede la mano e non andò oltre ad informarsi sulle mie future scelte di studi. Gliene fui grato.
La Prof.sa di Lettere non si era mai sposata, in parte perché univa al fatto di non essere particolarmente bella una rigidità di modi che con ogni probabilità le serviva a tenere le persone ad una certa distanza, e, in parte, perché aveva eletto a sua missione l’insegnamento al quale dedicava anima e corpo. E senza dubbio era riuscita nell’intento di affascinare i suoi studenti (anziché un qualche partner) e, ancora senza dubbio, gli studenti le erano particolarmente grati. Il fatto è che dentro di me era come se si fosse spenta una luce ed era difficile riattivarla. Non riuscivo a sentire ciò che la docente trasmetteva.
In quei giorni di luglio, mio padre continuava a rimanere lontano per lavoro (faceva il Rappresentante farmaceutico) e mio zio, dal quale andavo quando mio padre era via, era partito con sua moglie per una crociera.
Mio zio, fratello di mio padre, era un tipo giovialone. Lui e mio padre, quanto a carattere, non sembravano neanche fratelli, l’uno introverso e l’altro comunicativo al punto da aver contagiato anche sua moglie la cui risata esplosiva produceva la magia di far propagare il riso fra gli astanti.
Per questo mi piaceva andare da loro quando mio padre era assente e, il più delle volte, era via anche mio zio (commerciava in tessuti e viaggiava per il mondo), ma sua moglie sopperiva a quella assenza con tutta la sua vitalità. Non avevano figli dopo diversi tentativi anche ricorrendo alla procreazione assistita. Ma pur avendo accusato il colpo di questa mancanza, non ne avevano fatto un dramma. Io avrei voluto seguire le orme di mio zio ma lui mi aveva opposto un garbato rifiuto.
Nella grande casa paterna, effettivamente, in quei giorni mi sentivo un po’ solo e vagavo da una stanza all’altra senza alcun senso. Avrei potuto chiamare lì Rosetta, la mia quasi fidanzata, ma una certa ritrosia a far varcare la soglia di quella casa ad una donna per quanto ne fossi non so se innamorato ma un po’ preso sì, si univa ad un profondo disagio.
Ed ecco tornarmi alla mente il suggerimento della Prof.sa di Lettere “Tersi, perché non scrive un diario?”
Così, nell’angolo più fresco della casa incomincio.
Martedì 14 luglio
Presa della Bastiglia. Un sovvertimento di portata storica… poi rimango lì con la penna in aria… Non è certo un compito di Storia che mi chiedeva la mia insegnante bensì di parlare di me. Quindi, oggi, anche se l’evento non avrà una portata storica per i destini del mondo, io oggi ho preso la mia Maturità. E adesso? Che fare? Con quali credenziali mi presento al mondo, io Giorgio Tersiti, detto Jamaica Rum?
Perché mi hanno affibbiato quell’epiteto? Certo, sono abbastanza scuro di pelle ma i miei occhi sono di un azzurro che incanta le ragazze e i miei capelli non sono ricci ma lievemente ondulati. E allora? Forse perché ho un fisico quasi da lottatore o… forse sì, ecco, un mio compagno aveva sollevato l’ipotesi che fossi un figlio adottivo, ma nulla di oriundo c’è in me. Però non sono stato, all’epoca di quella sciocca ipotesi, capace di ribattere. Anche volutamente. Percepivo, sia pure in modo confuso, che qualsiasi mio tentativo di chiarificazione non avrebbe fatto altro che intortarmi ancora di più nella pania. Non sarei riuscito a spiegare loro i veri motivi della mia riservatezza, dei miei silenzi, anche perché io stesso non li avevo ancora ben capiti e metabolizzati (metabolizzati, che parola grossa… la Prof.sa Angelini ne sarebbe stata soddisfattissima!). A loro andava meglio credere che fossi un oriundo e non si sarebbero schiodati dalla loro posizione.
Mercoledì 15 luglio
Questa sera gli amici di Rosetta si sono organizzati per andare a sentire un concerto ‘rap’. Non ne sono entusiasta, la folla, il rumore assordante… ma sarà una occasione per stare assieme a lei: in questi giorni di esami ci siamo frequentati di sfuggita e poi… chissà se alla fine del concerto ce la farò a farle varcare l’uscio di casa mia…forse poi potrei anche aprire un po’ di più il mio cuore sempre così occupato dai grumi di sofferenza.
No. No. Caro Giorgio, levatelo dalla testa. Finito il concerto, uno spuntino veloce in qualche bettola e poi ognuno a casa sua. Non prendere decisioni avventate, procedi cautamente…
Ma perché ho così tanta paura? No, non è vero quello che diceva la Prof.sa Angelini che scrivendo si riesce a sbrogliare un po’ qualche matassa… io ho più paura di prima di quello che potrà apparire qui sul foglio, nero su bianco. Forse è meglio smettere!
Giovedì 16 Luglio
Ieri sera, contrariamente alle mie paure, l’esperienza al concerto non è andata male. Sì, la calca della folla, la musica assordante… però il tutto aveva avuto per me un effetto anestetizzante. Per Rosetta l’effetto era stato invece euforizzante, percepivo che si aspettava, alla fine della serata, l’invito a casa mia. Ma ciò non è avvenuto e ho visto la delusione nei suoi occhi cenerini. Ma ha incassato il colpo anche se questa mattina è tornata alla carica.
“Che cosa fai di bello oggi?”
“Vado in bràida” le ho risposto sapendo che a lei andare in quel campetto incolto non sarebbe certo piaciuto venirci. “Forse ci sono ancora alcune pere di San Pietro e le vorrei raccogliere prima che marciscano del tutto”, ho aggiunto.
“Ci vediamo allora per l’aperitivo di mezzogiorno?” mi chiede lei.
“Ma certamente”. Sono contento di essermela cavata così.
Caro diario. Vado. Ci aggiorniamo questa sera.
Forse dev’essere l’Ospedale il posto in cui mi trovo. La mia testa è pesante e dolente, probabilmente le fasciature o qualcos’altro. Il mio braccio destro è in trazione. Non riuscirei nemmeno a tossire perché il mio torace mi duole: forse anche quello è ingabbiato. Intuisco, anche se non li vedo bene, la presenza di tubicini dappertutto.
Che mi è accaduto?. Con fatica cerco di ricostruire qualcosa… l’albero del pero, a terra le pere marce e laggiù, poco lontano un fico con qualche fico ancora in cima e poi io a terra, il cellulare lì vicino, digito Rosetta, chiedo aiuto e poi basta. Buio.
Quanto tempo è trascorso? Non lo so.
Il volto di mio padre, silenzioso sopra il mio. Se mi sta parlando non lo sento.
E Rosetta dov’è? Ah sì, eccola! Ma è come annebbiata.
Invece mi giunge chiaro “Jamaica Rum! Jamaicaruuum!”!.
Ecco i miei compagni! Come mi fa piacere sentirli anche se mi chiamano con quel nomignolo. Comunque sono venuti a trovarmi.
Ho fatto un sogno. Mi piacerebbe tanto poterlo raccontare a Rosetta.
Mi trovo in cucina, quella in fòrmica di quand’ero ancora alle medie, con quell’assurdo colore rosato, desiderata strenuamente da mia madre mentre mio padre ne voleva una di tipo più tradizionale. Ma ricordo che non ci fu verso. Con la scusa che lì ci doveva bazzicare lei, mia madre la spuntò.
E nel sogno lei, mia madre, se ne stava al tavolo di quella strampalata cucina e tagliava verdure, forse per il minestrone. Come cuoca se la cavava alla bell’e meglio, salvo alcune ricette in cui era veramente maestra. Il minestrone, ad esempio, che non era un minestrone qualsiasi ma una sinfonia di sapori e piaceva a tutti, perfino a mio fratello più piccolo. Non so che sortilegi ci mettesse dentro ma ne eravamo tutti ghiotti. Poi il polpettone, altra eccellenza; ma la sua specialità, in onore alla sua terra di origine, l’Emilia Romagna, era lo gnocco fritto con il salume. Quante scorpacciate! Ah, dimenticavo: le cotolette di vitello, con la crosticina dorata che si sollevava dalla carne, così croccante ed invitante…
Ebbene, su quell’improbabile tavolo rosa-pallido mia madre sta tagliando, appunto, la verdura. E’ presa da quella incombenza, sembra però aspettare che io arrivi, che butti, sulla poltrona, come al solito, i libri di scuola tenuti dalla cinghia.
Poi, quando arrivo, alza la testa, mi sorride e mi dice “ti aspettavo”. Era bellissima!
Conegliano, 25.07.2020
Un commento su una pagina Facebook:
Meri Micalizzi
Lettura bellissima e commovente. Di quelle che in un attimo ti affezioni al protagonista e vorresti continuare a camminare un po’ con lui
Sì vorresti camminare ancora un po ‘insieme al protagonista per dargli una mano per uscire dalla prigione dei ricordi… soprattutto quelli belli che ci stringono in una morsa di vincoli
… e dal cibo come strumento di potere, deleterio in vita come in morte