di Ezio Partesana con una nota di Ennio Abate
Riprendo da Etica e politica questo saggio di Ezio Partesana e aggiungo alcune mie considerazione in appendice. [E. A.]
Si può odiare con tutto il cuore una verità anche quando non c’è nulla da fare. La sentenza di una grave malattia, le distruzioni causate da un terremoto o la somma degli anni vissuti quando si arriva alla fine, non hanno un nemico contro il quale ci si possa scagliare; si bestemmia contro il fato o la vita, ma è un modo di fare, non una risposta. Quel che è accaduto non è colpa di nessuno, non c’è rimedio e si muore comunque.
Qualche volta usciamo da noi stessi e il male subìto si trasforma, si vorrebbe trasformato, in buona azione: In nome del padre o della figlia ci diamo da fare affinché la stessa sorte non tocchi a altri o almeno ci si prepari a renderla più lieve. Non c’è motivo di sorridere di questo conforto, anche la rivolta contro l’inevitabile è un principio di speranza: sotto i terremoti ci sono le case e gli anni non sono tutti uguali, ma non basta.
Il sapere necessario a uscire dal lutto non è disponibile sotto forma di un manuale di istruzioni ma va ottenuto con la forza e le difficoltà appaiono spesso insormontabili, serve tempo. La volontà da sola tiene sveglio l’istinto ma da solo l’istinto può andare in qualunque direzione. Una cattiva notizia segnala chi la riferisce, è vero, ma insieme a lui anche la conoscenza che l’ha prodotta.
Quando si passa sotto silenzio la fragilità dell’esistente, il colpevole è presto individuato, così come la constatazione rende tutti innocenti. In entrambi i casi chi volesse obiettare si troverebbe come Sansone tra le due colonne che lo tengono prigioniero, di fronte a una scelta obbligata tra la capitolazione e la rovina.
La teologia del male è lunga e distesa; quasi ogni religione ha il proprio demonio o punizione che deve essere inflitta per cancellare un’empietà che avrebbe sommerso il mondo. Ci sono dunque due princípi, la natura delle cose e la natura degli uomini. Ma lo stesso termine nasconde una differenza: la servitù non è contemplata dall’una né dall’altra. La certezza che la natura possa essere crudele nasconde alla società la divisione del lavoro, l’organizzazione dello sfruttamento cela la conoscenza dell’insensibilità del mondo. E così chi si trova di fronte alla contraddizione è addestrato a andare oltre, in una direzione o nell’altra, ma senza fare pause e, ovviamente, all’oscuro di quale sia la strada. La sofferenza che vede ovunque gli appare ora come caos al quale nessuno può sottrarsi se non per un colpo di fortuna, ora come il frutto di un privilegio individuale che dovrà essere smascherato a ogni costo. Quel che dovrebbe restare senza consolazione si trasforma in un processo contro i testimoni, dove il giudice è corrotto e la sentenza non porterà giustizia se non impiccherà l’accusa.
Il sapere che deve rendere liberi si trasforma, allora, nel nemico da sconfiggere; si odia chi ha da mangiare insomma, non che manchi a molti. Il fatto che un desco ben approntato sia appannaggio solo di alcuni fa sospettare che le pietanze e il tavolo collaborino volontariamente all’esclusione dei molti che potrebbero sedersi al proprio posto se solo non ci fossero tutte le pietanze e non fosse ora di cena.
È vero che la conoscenza – qualunque conoscenza, dalla tecnica alla metafisica – è uno strumento di oppressione. I bambini inventano lingue cifrate per tracciare un confine non valicabile, gli adulti usano il segreto bancario, un gioco e una frode ma in entrambi i casi la logica è la stessa: ci deve essere qualcuno da escludere affinché la minaccia sia sventata, a riprova che la colpa era sua. Ma formalmente nessuno viene escluso dai benefici di quel che sappiamo; i medici hanno giurato e curano tutti, un direttore d’orchestra non chiede la tessera a chi è seduto in sala dietro le sue spalle e persino i macchinari più complicati verrano messi a posto purché il cliente abbia i soldi per pagare. Prima ancora che gli infanti imparino i loro cenni segreti è il censo, e cioè la classe di provenienza, a separare chi potrà godere del sapere accumulato nel corso del tempo da coloro i quali cominceranno a odiarlo. Alla fine è il lavoro morto, di proprietà privata, che si prende la rivincita contro il lavoro vivo in vendita.
La prima speranza è che tutto sia più semplice di quanto appare. Ci deve essere da qualche parte un libro, un segreto, una formula che riparerà tutto. La difficoltà è un inganno o peggio un vezzo di coloro i quali saprebbero ben come risolvere il problema ma non lo vogliono dire per interesse personale. Lo spostamento è evidente: al posto del sacerdote che con una sola parola poteva resuscitare i morti, appare la menzogna che se solo fosse debellata restituirebbe al sacerdote il suo potere. Ma nel frattempo, nell’Occidente capitalista, e cioè dovunque, ognuno sente di avere il diritto d’essere il confessore di se stesso. La domanda sul perché mai qualcuno debba suonare il violino e altri possano solo ascoltare si muta nel sospetto che la musica sia un’arte demoniaca e se ne potrebbe certo fare a meno. I gusti personali, ultimo rifugio dell’individuo, diventano invece una buona scusa per consumare pessima merce e produrne di peggiore, con l’idea che in fondo ci si debba solo divertire e che il divertimento sia in questo modo, appunto, assicurato.
Il libro che bisogna studiare e sottolineare, il quaderno di appunti, la lezione della quale si capisce poco o nulla, lo stupido esercizio da ripetere cento volte, persino l’apprendistato più equivoco, sono reliquie da venerare in racconti sull’infanzia e non più azioni che allontanano, seppure di un passo, dalla servitù. È come la vecchia filastrocca che pretende che qualunque cosa possa essere detta in modo semplice, se qualcuno la conosce davvero, senza girarci tanto intorno. Al contempo però ognuno pensa che il suo sapere – sia un operatore di borsa o una giornalista televisiva – sia prezioso e personale e che il posto che occupa nella scala sociale sia dovuto a quella particolare qualità che pochi altri, o nessuno, possiedono.
L’emblema non sono più le chiavi inglesi o i dormitori allestiti in fretta e furia, ma il successo dei programmi televisivi dove si insegna che esiste un fattore misterioso, un talento frutto del nulla, che è dato a caso e non può essere sostituito. Ben inteso lo scopo non è quello di scovare chi sappia fare con facilità quel che a altri è difficile, ma piuttosto convincere che la vendita è all’incanto e il banditore deve sapere il fatto suo per ottenere il meglio dagli acquirenti.
Il sapere deve essere un segreto, la domanda è se sia semplice o non piuttosto una verità che sarà rivelata quando saremo pronti a riceverla; nel primo caso la propaganda è politica, nel secondo lo è l’ideologia. L’interesse di alcuni a nascondere la realtà si accorda perfettamente con il risentimento di coloro ai quali la realtà è stata nascosta e adesso vorrebbero tutto indietro senza pagare un soldo alla schiavitù. Il sillogismo secondo il quale chi è stato oppresso abbia diritto ad avere e sapere tutto quello che hanno avuto e saputo gli oppressori è, più che errato, una replica della medesima logica, dove le ferite della storia sono guarite in un momento e i debiti vengono rimessi con un atto di volontà. Così ridotti non si odia solo il sapere che è stato reso monopolio dalla divisione del lavoro, ma persino lo studio che al sapere porta. Tutti gli scienziati mentono non solo perché io non posso sapere quel che loro invece possiedono ma in fondo perché il metodo della conoscenza è un grande imbroglio contro il quale ci si può ribellare solo scovando da qualche parte un’altra strada, neutra, possibile, serena e che non abbia nulla a che fare con la storia della civiltà.
Mentre nessuno si sognerebbe di fare il chimico senza conoscere almeno la tavola degli elementi, il linguaggio permette, apparentemente, di riflettere la realtà a chiunque abbia la competenza minima necessaria per formulare enunciati di senso compiuto. Una frase che contenga solo sciocchezze, però, è formalmente identica al suo opposto e per distinguerle è necessario sapere se la terra sia piatta ovvero rotonda. La conoscenza sino a che non diventa un saper fare è indistinguibile dalla magia ma purtroppo non vale il contrario: Il sapere sembra una stregoneria a coloro i quali ne sono stati esclusi e proprio il motivo dell’esclusione è la prima conoscenza che manca loro. È così che il linguaggio, la sintassi e la grammatica, perdono la loro storia, nella somiglianza esteriore tra un enunciato e l’altro. Se un termine qualsiasi indica solo se stesso e le relazioni con altri suoi simili, una struttura insomma, allora o si ricostruisce la storia sociale di quella struttura o tutto il passato viene consegnato all’oblío. Come se il fatto di essere figlio di schiavi non contasse affatto nella vita di una persona, si pretende che anche il privilegio alla fine si riduca a nulla, perché entrambi, lo schiavo e lo schiavista, possono in teoria usare le stesse parole e lo stesso linguaggio. Solo che non sono le medesime parole né la lingua è una sola.
Si detesta quel di cui si ha bisogno, non il superfluo. La frase minima: “non ne ho voglia” significa letteralmente due cose diverse se a pronunciarla è un portabagagli di un resort di lusso o l’ospite appena arrivato. Questo sapere è nascosto nel linguaggio: Non abbiamo abbastanza parole e la differenza va perduta non appena l’equivalente universale è rispettato, ci si capisce, e questo è quanto. Che poi uno capisca che deve ubbidire e l’altro che gli è concesso di comandare non è cosa inutile alla sopravvivenza del potere e anzi: Tanto più il sottomesso se la prenderà con le parole che non servono a nulla, tanto più il comando sarà nascosto e il punto di accesso al sapere allontanato.
I moderni tentativi di emendare il linguaggio dall’alto non colpiscono il bersaglio. Eliminare il genere dei sostantivi, per esempio, o duplicare l’appartenenza, non rendono le donne più colte o gli uomini meno ignoranti. È la trappola della forma: Lo sfruttamento non consiste nel genere maschile o femminile del termine ma nel fatto che venga usato allo stesso modo per indicare due cose diverse. Non si tratta di etimologie, bensì di storia sociale. Nessun azzeccagarbugli potrebbe spaventare un contadino se dietro il suo latino non ci fosse il potere di far rispettare quelle frasi con la forza. E alla fine non solo l’ignorante odierà la lingua morta ma sognerà persino di averla in possesso per poter anche lui far applicare quel potere. Che quella lingua fosse viva un tempo non gli passa nemmeno per la testa, così come non sa che l’analfabetismo non dipende dalle “umili origini” delle famiglie ma dal costo di riproduzione di una manodopera che al tempo non serviva affatto sapesse leggere e scrivere.
La distruzione del sapere procede per salti, non si dimentica un poco alla volta ma una volta per tutte. Il libro che non sarà più aperto non esercita alcuna influenza e il fatto che continui materialmente a esistere è un’eredità con il beneficio di un inventario che non verrà mai compiuto. Poiché la quantità di conoscenza accumulata è enorme ci si difende cominciando a circoscrivere l’area nel tempo e nello spazio. Se non posso sapere quel che mi serve ritaglierò una parte abbastanza piccola di realtà sulla quale mi illuderò di avere il controllo, la materia è indifferente. Sono solo gli ultimi dieci anni che contano, solo quei cento chilometri quadrati, quell’elenco delle vittime, quelle cause segnalate nell’ultimo rapporto. Anche con le migliori intenzioni si riduce tutto quello che potrebbe spiegare un evento a un quaderno di appunti da consultare quando, da esperti, si viene intervistati. La verità è ridotta a competenza just in time, come se il problema fosse solo quello di far arrivare in tempo una spiegazione prima che l’ascoltatore si spazientisca. Il tempo della produzione e il luogo dello spaccio (oramai universale) sono diventati il modello di ogni conoscenza riconosciuta come tale. Quei pochi che si ostinano a prenderla alla larga perché credono che senza sapere il costo del rame in Cile non si possa parlare di poesia in Italia sono oggetto di scherno anche quando non fanno nemmeno in tempo ad aprire bocca prima che si passi a altro. Non hanno alcuna autorità insomma, in una società dove il prestigio si misura sui seguaci e poi, segretamente, sugli indici di vendita. E di nuovo un giovane che guardasse come funzionano le cose troverebbe patetici gli studiosi e le loro fatiche, e giudicherebbe, a ragione, che il tempo e lo spazio non hanno nulla a che fare con la tecnica che costruisce gli aeroplani e permette di riprodurre cento volte di seguito un brano senza neanche alzare un violino.
Il rovescio della medaglia ha la stessa faccia: Uniformità a quel che funziona e non importa se non si sa come e perché. Il fatto che nella minima macchina messa al lavoro, sia un computer o un permesso di soggiorno, siano sussunti i rapporti sociali e il loro divenire storico, diventa un ostacolo alla comprensione di quel che accade e quindi se ne fa volentieri a meno. Poiché non può essere spesa, la storia di una cosa diventa letteralmente invisibile e sotto la benda gli sciocchi sorridono. Lo scambio della conoscenza con la funzionalità è vantaggioso: Si risparmia tempo e fatica e la certezza di essere dalla parte giusta della riva viene dato in sovrappiù.
Al posto del processo lungo il quale storia e coscienza insegnano quali siano gli errori e come ce ne si potrebbe liberare, viene messa, in alto, la singola esperienza personale. Non è solo per gioco che migliaia di racconti, discussioni e feste tra amici si concludano con il fatidico: “A me è capitato che…”. Il gioco non varrebbe la candela se non apparisse più reale una disavventura sui banchi di scuola rispetto alla struttura che educa l’occidente del capitalismo maturo. Non c’è bisogno di pensare per avere la certezza di essere; il corpo, la memoria, il sentimento non fanno altro che ripeterlo, ma si tratta di percezione e non di coscienza. Il dubbio, a ben guardare, non riguarda l’essere in vita e presenti, quanto la coscienza e i suoi intoppi.
L’esperienza individuale dovrebbe essere il riassunto di quella collettiva ed ereditare da questa il sapere. Così come nella lingua ogni parlante somma in sé tendenzialmente tutto quanto nei secoli è stato detto, allo stesso modo il sapere individuale discende da quello collettivo. È storico per definizione e non può essere suddiviso in parti, ma cancellato sì, ed è per questo che andrebbe preservato. Ma l’illusione è quella di sostituire al sapere l’esperienza personale perché più facile da interpretare, più certa e a disposizione di tutti. L’idea che da qualche parte dentro di me sia in fondo contenuto tutto riafferma al contrario la solitudine dell’individuo borghese che immagina solo lupi, e va bene, ma ignora che siano animali che vivono in branco. Pensare di non avere niente a che fare con gli altri non significa solo disconoscere i debiti e i privilegi, ma anche vietarsi la comprensione di quel che in noi accade. Nessuno può più scrivere: “De’ remi facemmo ali al folle volo” senza la patria potestà di Dante Alighieri, e chi immagina di farlo è meno se stesso di quanto sarebbe riconoscendo quel verso come parte del suo passato. Non si tratta di memoria; chi non ha studiato chimica non sa come sia fatta l’ammoniaca, ma può riconoscere l’origine di quella sostanza nella conoscenza altrui e sa che può disporne in quanto membro di una società fondata sulla divisione del lavoro e sullo sfruttamento. Questo “sapere” non cambia la sostanza dell’ammoniaca né la sua azione sulla materia, ma restituisce un pezzo di coscienza a chi lava i pavimenti e a chi paga perché i suoi vengano puliti da altri.
Il sentimento individuale va a spasso insieme alla menzogna. Per guadagno si mente, oppure per vergogna, paura, per nascondere le colpe. L’etica non comporta alcun obbligo alla verità se la verità è inutile e infligge una pena anziché lenire un dolore. Riferire una brutta notizia quando non c’è niente da fare è una forma di potere che andrebbe impiegata solo in mancanza di ogni alternativa. Mentire per una buona causa, però, non è meglio. L’esagerazione, l’affermazione errata o l’omissione che si fanno in nome di un bene superiore non differiscono in sostanza dalle frasi che direbbe chi cercasse di imbrogliare il prossimo vendendo beni che non sono suoi e che sa benissimo torneranno al legittimo proprietario non appena avrà girato l’angolo. Ci si giustifica dicendo che quel che non è accaduto avrebbe potuto esserlo invece e che la messa in scena servisse solo a rendere palese quel che comunque è sotto gli occhi di tutti; ma se così fosse stato, a che scopo la messa in scena? Se ogni uomo sa perfettamente che i cavalli dei circassi bevono sangue, chiederebbe Kafka, a che scopo mentire quando hanno la biada in bocca?
Se non ci si fida è meglio cambiare nome alle cose. Tra realisti e nominalisti la sfida è stata vinta secoli fa, eppure rimane il sospetto se tra quei frati che sostenevano l’immutabilità dei concetti a dispetto di ogni uso non ce ne fosse uno al quale la libertà scritta in ferro sopra i cancelli non avrebbe fatto rizzare la schiena un poco prima dei benefattori anglosassoni.
Quando si mente in nome della verità in realtà si sostituisce il fragile intelletto con la ben più robusta indignazione, la conoscenza col sentimento. Ma, di nuovo, nessuno si sognerebbe di farlo sopra un campo di grano o dentro a un motore a scoppio, solo alcune conoscenze vengono scartate a favore della vittoria, e tutte sono etiche. L’antica alleanza tra vero e giusto viene spezzata in favore di prospettiva così che l’immagine risulti ben esposta, e il pubblico contento. Alla fine dei conti l’appello è alla rabbia, e più è finto il sapere che la suscita, maggiore sarà la possibilità di controllare la direzione dello sfogo verso bersagli inermi o addirittura inesistenti.
Lo sproporzionato aumento apparente dei luoghi dai quali ci si può rivolgere a tutti ha modificato non solo il pudore ma anche i luoghi stessi. Il lavorío necessario cinquanta anni fa per avere una poesia pubblicata su carta, dalla questua alla selezione, è diventato inutile quanto la brutta poesia che si scrive, a favore di una illusione di realtà, di una illusione di sé, che neanche l’assenza di qualunque risposta riesce a smascherare. E nel frattempo i luoghi valgono sempre meno. Qualche grande casa editrice continua ancora a programmare le proprie uscite su base economica – il che significa, ben inteso, recensioni e propaganda – ma la maggior parte delle testate campa sotto la panca delle visitazioni, perché quel che vendono è in realtà la pubblicità allegata al verso o al romanzo autobiografico. L’idea che scrivere non sia affatto facile fa capolino solo quando si tratta di organizzare un corso di “scrittura creativa” o una rassegna di libri per bambini. Se tutti possono scrivere ma nessuno legge, il valore di verità che speravamo contenuto in un’opera d’arte scompare, e nessuno sarà più disturbato da una così crudele vista.
Resistono, perché necessarie alla produzione in senso stretto, le aree di sapere più vicine alla tecnica, e anzi sviluppano la propria influenza anche al di fuori del loro campo specifico. Ma il loro discorso, quando giunge in fondo, non è diverso dalle chiacchiere fatte per gioco dai vecchi di fronte a un cantiere aperto. La quantità di sapere incorporata rende impossibile anche al più volenteroso dei neofiti capire di cosa si stia parlando o dove si trovino le sedi decisionali, con il risultato di una fede assoluta o del dubbio che si tratti solo di un grande imbroglio. Insomma, mentre il capitale mette al lavoro la tecnica come fosse una risorsa naturale, il sapere si vede solo per mezzo dei suoi risultati e spaventa; la proprietà privata dei mezzi di conoscenza è una delle forme di distruzione del sapere.
Il narcisismo non è più, in qualche modo, interdetto, ma è una soddisfazione menomata, perché lo specchio è divenuto nel frattempo pubblico e ci si congratula con se stessi mediante l’illusione che anche gli altri lo sappiano. Si spera che l’esibizione abbia successo e in caso contrario si tratta solo di rincarare la dose. Non ci si sente ormai più inadeguati, solo non compresi, e se qualcosa va storto si dà la colpa all’invidia.
Sarebbe stupido rimpiangere i tempi nei quali per fare una cosa era necessario saperla fare, ma il narcisismo colpisce la conoscenza in tutti gli ambiti dove non è necessaria una prova, e più è fragile l’Io che ne soffre più la risposta offerta dalla società dei consumi indica la fiducia o la stima per quel che si fa come soluzione al problema. Così consumo e narcisismo vanno di pari passo, e l’elogio di se stessi moltiplica all’infinito il feticcio di una cosa che dovrebbe, in teoria, essere un riconoscimento strappato a forza, ma di fatto è così a buon mercato che non c’è quasi chi non si possa permettere di acquistarlo.
Oramai si parla quasi solo di se stessi, come una monade senza finestre ma in grado di fagocitare tutto quel che accade. Con noncuranza si ammirano i miliardari e il loro successo, senza alcuna conoscenza, però, di come sia stato costruito. È una cecità volontaria, contrappasso del narcisismo, che nasconde quel che non si vuole vedere. L’Io dice: Potrei essere come loro, con un poco di fortuna, e nel frattempo si benda per non sapere come avvenga la selezione. Da sempre esistono leggende che narrano di un reietto diventato imperatore sopra coloro che un tempo lo avevano espulso: è l’illusione della liberazione individuale. Non importa quanto male sia organizzato il mondo, c’è sempre una possibilità di cavarsela se si sarà abbastanza forti, abbastanza convinti, abbastanza astuti. L’inganno è dunque questo: Bisogna sapere come funzionano le cose e al contempo fare finta che il merito sia nostro. Chi denuncerebbe che la lotteria è truccata dopo aver avuto in sorte un biglietto vincente?
Prima di distruggere il sapere bisogna convincere il mondo della sua inutilità. Cento anni fa gli anarchici pensavano che la conoscenza fosse la prima cosa che veniva negata agli sfruttati, avevano ragione. Fioriscono i luoghi dove si pretende di fare controinformazione, ma i segreti che svelano sono identici, per forma e logica, al complotto che si intenderebbe denunciare. Il sapere viene venduto e acquistato come ogni altra merce, solo che il capitale lo mette al lavoro mentre i segregati si illudono che sia la conoscenza a sfruttarli e non il capitale. È la scienza a sostituire gli operai con macchine sempre più intelligenti o l’interesse privato in luogo pubblico? La domanda appare oziosa solo perché il risparmio di lavoro scompare sotto nuove mansioni che vengono richieste a chi lavora. Tutti devono essere pronti a imparare quel che serve a far funzionare la macchina, discutere di chi sia il posto di conducente o quali sedili siano ancora disponibili è come cantare senza conoscere la melodia, insensato e dannoso.
Questo insegnano a chiunque apra un libro, che se ne può fare a meno, come di ogni merce, a patto di aver introiettato per tempo la legge secondo la quale quel libro è stato prodotto, il sapere in esso contenuto accumulato, il profitto distribuito e gli esclusi redarguiti per la loro inefficienza. Si può piangere sopra il latte versato, insomma, non sapere chi è stato a gettare la ciotola. Alla fine resta la colossale appropriazione del sapere da parte di chi lo sfrutta e una moltitudine di ignoranti che non sanno neppur bene cosa gli abbiano sottratto e perché.
I tavoli avranno anche grilli metafisici per la testa ma per restare in piedi devono avere le quattro gambe al loro posto, e di misura uguale. È questo che sembra insopportabile al falegname, come fosse una riduzione della sua libertà, non il fatto che di quel mobile a lui resterà solo una minima parte e l’idea che aveva in testa prima di montarlo. E così il primo sapere a essere distrutto non è la grammatica o la semina, la salute sui luoghi di lavoro o il taglio delle stoffe, ma i processi in base ai quali queste conoscenze sono state catturate. Se il tutto è falso, è colpa sua.
Nota di Ennio Abate
Nei giorni scorsi mi sono ritrovato a ricordare su una pagina di FB che i saperi – si parlava di quelli storici e scientifici – conservano una mai eliminata impronta elitaria e di classe, sulla quale oggi si sorvola o si tace. Tra lo scetticismo (e forse l’imbarazzo) palpabile dei miei interlocutori, alcuni dei quali si dicevano più preoccupati dell’ «ondata di oscurantismo» dei vaccinisti e dei complottisti, ho richiamato i passati «dibattiti sull’uso capitalistico delle scienze (e della storia) o sulla non loro neutralità» e titoli di libri su cui mi sono formato (Dialettica dell’illuminismo, Verifica dei poteri, Il supermarket di Prometeo). Subito dopo sono rimasto positivamente sorpreso dalla lettura del bel saggio di Ezio Partesana, dove ho ritrovato ben approfonditi questi temi e ho pensato di riprenderlo su Poliscritture, aggiungendo questa nota per sottolineare innanzitutto due cose:
– concordo in pieno con due punti di partenza del suo discorso: sfruttamento di chi sa su chi non sa e complicità subordinata dei secondi rispetto ai primi[i]; e con moltissime affermazioni (eleganti e fulminanti) del suo saggio: – l’elogio dello studio contro la semplificazione[ii]; – il marchio di classe della cultura e dei saperi[iii]; – i punti ciechi che affiorano nella “volontà di sapere” dei nuovi acculturati dalla scuola di massa[iv]; – le sue critiche al “politicamente corretto” (dall’alto),[v] allo specialismo o peggio alla riduzione a bignami dei saperi[vi] o all’illusorio e narcisistico primato dell’esperienza personale[vii] o ancora ai “social”[viii] o alla bulimia – si potrebbe dire – di un certo tipo di “poliscritture”[ix];
– ho dei dubbi, invece, nella riduzione da parte di Ezio di questa nebulosa di comportamenti ambivalenti all’unica categoria del “risentimento” o dell’ “odio” per il sapere.
Certamente, molti pretenderebbero di «avere e sapere tutto quello che hanno avuto e saputo gli oppressori» per soppiantarli e continuare ad opprimere al loro posto. Pulsioni e attese simili non mancano ma va ripetuto che sono mescolate ambiguamente e in sordo conflitto anche con istanze potenzialmente innovatrici e liberatrici. Come sempre nella storia, credo. Posso anche ammettere che saranno le prime a prevalere con più probabilità. Perché la contesa per l’innovazione o la rivoluzione è controllata dall’alto da élites in posizione di vantaggio. Sia rispetto a quelle che, ad esse già simili nell’intento di dominare e opprimere, le contrastano. Sia rispetto ad altre che, più sensibili alle istanze delle classi veramente “pericolose” o “antisistemiche”, nella contesa, possono finire per assimilare i metodi e gli scopi delle élites che vorrebbero spodestare. Non mi rassegnerei però alla conclusione che Ezio pare trarre: « Quei pochi che si ostinano a prenderla alla larga perché credono che senza sapere il costo del rame in Cile non si possa parlare di poesia in Italia sono oggetto di scherno anche quando non fanno nemmeno in tempo ad aprire bocca prima che si passi a altro. Non hanno alcuna autorità insomma, in una società dove il prestigio si misura sui seguaci e poi, segretamente, sugli indici di vendita». Nessuno ci dà autorità, questo è sicuro. Ma rifiutarsi di pensarci come ci dipingono o ci vogliono è l’unica via che potrebbe fondare un altro genere di autorità.
Infine un appunto di forma che è anche un po’ di sostanza. Il saggio di Ezio è ben pensato e adatto ai lettori di una rivista di filosofia, ma si presenta troppo denso e arduo per i lettori di Poliscritture (me compreso). So di scandalizzare forse Ezio, se gli suggerissi di proporne una versione non ridotta, ma suddivisa in segmenti (e magari con brevi titoli). La ritengo più accessibile da chi, per mille ostacoli, può dedicare alla lettura intervalli di tempo limitati. Ma lo faccio lo stesso, ribadendo amichevolmente un punto di contesa che forse dura tra noi fin dai tempi del Laboratorio Moltinpoesia (2006).
Note
1.«Alla fine resta la colossale appropriazione del sapere da parte di chi lo sfrutta e una moltitudine di ignoranti che non sanno neppur bene cosa gli abbiano sottratto e perché»; 2. «L’interesse di alcuni a nascondere la realtà si accorda perfettamente con il risentimento di coloro ai quali la realtà è stata nascosta e adesso vorrebbero tutto indietro senza pagare un soldo alla schiavitù»
Ezio mi ribatterebbe: «Il libro che bisogna studiare e sottolineare, il quaderno di appunti, la lezione della quale si capisce poco o nulla, lo stupido esercizio da ripetere cento volte, persino l’apprendistato più equivoco» non «sono reliquie da venerare in racconti sull’infanzia» ma «azioni che allontanano, seppure di un passo, dalla servitù».
« Prima ancora che gli infanti imparino i loro cenni segreti è il censo, e cioè la classe di provenienza, a separare chi potrà godere del sapere accumulato nel corso del tempo da coloro i quali cominceranno a odiarlo»;
«Il sapere sembra una stregoneria a coloro i quali ne sono stati esclusi e proprio il motivo dell’esclusione è la prima conoscenza che manca loro»; «Come se il fatto di essere figlio di schiavi non contasse affatto nella vita di una persona, si pretende che anche il privilegio alla fine si riduca a nulla, perché entrambi, lo schiavo e lo schiavista, possono in teoria usare le stesse parole e lo stesso linguaggio Solo che non sono le medesime parole né la lingua è una sola».
«I moderni tentativi di emendare il linguaggio dall’alto non colpiscono il bersaglio. Eliminare il genere dei sostantivi, per esempio, o duplicare l’appartenenza, non rendono le donne più colte o gli uomini meno ignoranti».
«Poiché la quantità di conoscenza accumulata è enorme ci si difende cominciando a circoscrivere l’area nel tempo e nello spazio. Se non posso sapere quel che mi serve ritaglierò una parte abbastanza piccola di realtà sulla quale mi illuderò di avere il controllo, la materia è indifferente Sono solo gli ultimi dieci anni che contano, solo quei cento chilometri quadrati, quell’elenco delle vittime, quelle cause segnalate nell’ultimo rapporto. Anche con le migliori intenzioni si riduce tutto quello che potrebbe spiegare un evento a un quaderno di appunti da consultare quando, da esperti, si viene intervistati. La verità è ridotta a competenza just in time, come se il problema fosse solo quello di far arrivare in tempo una spiegazione prima che l’ascoltatore si spazientisca»
«Al posto del processo lungo il quale storia e coscienza insegnano quali siano gli errori e come ce ne si potrebbe liberare, viene messa, in alto, la singola esperienza personale. Non è solo per gioco che migliaia di racconti, discussioni e feste tra amici si concludano con il fatidico: “A me è capitato che…»”; «Oramai si parla quasi solo di se stessi, come una monade senza finestre ma in grado di fagocitare tutto quel che accade»; «È una cecità volontaria, contrappasso del narcisismo, che nasconde quel che non si vuole vedere. L’Io dice: Potrei essere come loro, con un poco di fortuna, e nel frattempo si benda per non sapere come avvenga la selezione. Da sempre esistono leggende che narrano di un reietto diventato imperatore sopra coloro che un tempo lo avevano espulso: è l’illusione della liberazione individuale»
«Lo sproporzionato aumento apparente dei luoghi dai quali ci si può rivolgere a tutti ha modificato non solo il pudore ma anche i luoghi stessi».
« Se tutti possono scrivere ma nessuno legge, il valore di verità che speravamo contenuto in un’opera d’arte scompare, e nessuno sarà più disturbato da una così crudele vista».
Questo saggio mi pare contenere tutta una serie di affermazioni apodittiche non chiarite, non articolate e non dimostrate. Alcune sono condivisibili, ma ovvie. Altre condivisibili e meno ovvie, ma note da tempo. Altre non condivisibili perché nate da una delle più comuni fallacie della ragione e del ragionamento: da un’osservazione vera in un determinato ambito, se ne trae una teoria generale o, peggio, un postulato generale dal quale poi far derivare tutta una serie di errori a ruota libera. Si dimentica l’esercizio analitico, la distinzione dei diversi casi , le differenze sostanziali ecc.
Inoltre non mi è chiaro il perché del titolo: «Etica e politica». Questo rapporto fra i due termini non emerge quasi mai dai contenuti del saggio, che, nell’ipotesi migliore, lo sfiorano solo.
Non potendo commentare le affermazioni una per una, mi limito a un solo esempio pregnante dal punto di vista del rapporto «etica e politica».
Partesana scrive: «È vero che la conoscenza – qualunque conoscenza, dalla tecnica alla metafisica – è uno strumento di oppressione». Si può concordare e si può non concordare, dipende dal significato che questa affermazione assume analizzandola un po’ ed estraendone ciò che nasconde.
Innanzitutto, direi che «strumento di oppressione» è un riferimento a una casistica particolare. Non sempre la conoscenza è strumento di oppressione; può essere anche strumento di liberazione, di lotta contro l’oppressione, di uguaglianza, di consolazione e di tante altre cose.
L’affermazione giusta, che sta a «oppressione» come il genere alla specie, mi pare che dovrebbe essere: «strumento di potere». Poi, dove aver detto perché la conoscenza è strumento di potere, articolare la fenomenologia del potere della conoscenza nelle sue varie specie , di cui una è «strumento di oppressione».
Se si parla di potere e di fenomenologia del potere allora sì che entriamo del tema classico dei rapporti fra «etica» e «politica» e cominciamo ad avere un po’ di luce per definire meglio, con più chiarezza e logica, tante altre affermazioni del saggio di Partesana, compresi gli aggiornamenti di antiche dottrine applicate alle forme odierne del sapere e dei problemi che ne nascono.
Ma Partesana dovrebbe avere una sua teoria su che cos’è il potere e su che cosa si fonda, e non mi pare che in questo saggio ci sia, nemmeno in forma implicita.
In tutti gli esempi che fa non la trovo, compresa questa affermazione: «Prima ancora che gli infanti imparino i loro cenni segreti è il censo, e cioè la classe di provenienza, a separare chi potrà godere del sapere accumulato nel corso del tempo da coloro i quali cominceranno a odiarlo». Anche qui si tratta di casi particolari (per quanto possano essere ampi), nei quali il “potere” è già in atto e non si coglie nel suo sorgere né nella sua forma più generale. Se l’affermazione la si volesse far valere come teoria generale non dovrebbe ammettere eccezioni. E allora come potremmo classificare i tanti casi, tipo Giuseppe Di Vittorio, che, figli di genitori poveri e analfabeti conquistano in modo autodidatta una vasta conoscenza e la usano come strumento di liberazione? O magari anche come strumento di potere e di oppressione, ma certamente non di derivazione cetuale e classista.
Le diseguaglianze di ceto e di classe sono già inscritte nelle forme del potere così come si sono consolidate storicamente, ma ammettono articolazioni ed eccezioni che non si spiegano con l’affermazione generale e generica. Richiedono maggiore approfondimento analitico: nei concetti e nella casistica sociologica, psicologica, «etica e politica». E, ovviamente, nella casistica storica che è ricca di personaggi venuti dal nulla, senza nessun potere di classe alle spalle, diventati poi personaggi di potere (sia nella forma del potere “oppressivo” sia in quella del “potere” di opposizione, di ribellione, di rivolta, di rivoluzione).
La mia conclusione è che il titolo: «La distruzione del sapere», è falso. Il sapere non si distrugge, si trasforma e si usa. Oggi c’è più sapere di ieri e meno di domani, si potrebbe dire parafrasando un noto motto. Cambiano, ma entro linee che attraversano i secoli e che danno ai fenomeni una notevole continuità nel tempo, la qualità e la quantità, l’uso, le forme di uso, le politiche e le implicazioni etiche relative.
Una trattazione più sistematica e analitica di tutto questo forse ci darebbe risposte meno apodittiche ma più vere e più utili.
@ Ennio Abate
Una annotazione alle tue “note”, sempre in tema di approfondimento analitico per uscire dalle affermazioni generali.
Tu scrivi: «i saperi – si parlava di quelli storici e scientifici – conservano una mai eliminata impronta elitaria e di classe».
Si può anche concordare, ma a patto di precisare un sacco di cose.
1) Distinguere il sapere dall’uso sociale del sapere. L’uso può avere una «mai eliminata impronta elitaria», ma il sapere in sé può averla e non averla. Dov’è l’impronta elitaria di «2+2=4»? O della distinzione fra cane e lupo?
2) «impronta elitaria». Elitaria in che senso? Mi vengono subito in mente almeno tre modi diversi di intendere «elitario»:
a) Elitario in senso negativo, opposto a ugualitario.
b) Elitario in senso positivo, accompagnato a “retribuzione dei meriti”, meritocratico, riconoscimento di una differenza positiva che potrebbe essere anche un obiettivo di elevazione sociale.
c) Elitario in senso “naturalistico”, come dato di fatto insopprimibile, elemento della realtà che fa sì che alcuni abbiano certe qualità che altri non hanno. Essere alti metri 1,90 è certamente “elitario”, ma che ci vuoi fare? Se poi sia un bene o un male dipende da tante altre cose e da come l’organizzazione sociale trasferisce i caratteri elitari “naturali” in caratteri elitari “sociali”, premiandoli o punendoli.
***
L’«elitismo» o «elitarismo» non è una dottrina di destra. Lenin teorizza un partito di élite rivoluzionarie e il “direttorio” bolscevico è un classico esempio del funzionamento delle élite studiato da Gaetano Mosca e da Vilfredo Pareto.
Inoltre, cosa vuol dire esattamente l’abbinamento dei termini «elitaria e di classe»? Vuol dire «elitaria» oppure di «classe», come specificazioni diverse e disgiunte, o «elitaria» e quindi di «classe» come specificazioni sinonimiche o quasi?
C’è una bella differenza che andrebbe esplicitata e chiarita per rendere il senso esatto dell’affermazione.
Nella casistica concreta possiamo incontrare saperi: a) elitari e anche di classe, insieme. b) Elitari ma non di classe. c) Non elitari ma di classe. d) Non elitari e non di classe.
Tutte distinzioni che non è bene lasciare sottintese, non chiarite, perché il discorso, se vuole essere “scientifico” e non ideologico, né elitario né classista, ha bisogno di chiarezza. Se manca questa chiarezza, il lettore si trova nella necessità di interpretare il testo e di integrarlo; ma si sa, le interpretazioni portano spesso ad errate comprensioni, tanto più è larga l’integrazione necessaria.
@ Luciano Aguzzi
Giusto precisare:
1.
Esiste poi davvero un sapere del tutto separato dal suo “uso sociale” (ivi compreso quello degli specialisti) e – aggiungerei – da determinati contesti storici? In teoria sì. Magari nel momento in cui Einstein nella sua mente preparava la teoria della relatività? (Ma già la sua mente era sotto molti aspetti “sociale” no?). Ci sono saperi elitari e saperi popolari o sociali o di massa. La tua domanda (“Dov’è l’impronta elitaria di «2+2=4»? O della distinzione fra cane e lupo?”) è fuorviante. Si potrebbe rispondere che all’inizio la comprensione di quella elementare addizione fu di un’élite e solo col tempo è divenuta sapere sociale e di “tutti” (ma, a voler essere pignoli, per uno schizofrenico o un ubriaco 2+ 2 potrebbe anche non fare 4…).
Il discorso sul sapere elitario, però, chiarisce il suo senso non banale se ci riferiamo, appunto, a contesti sociali e storici. Lì evidentemente si nota subito un divario, uno scarto e un latente conflitto tra chi padroneggia certi sapere e chi non li padroneggia. E non è difficile capire che il loro uso non è affatto neutro ma rafforza o diminuisce il potere di determinati gruppi o individui rispetto ad altri gruppi e individui. (Un esempio per tutti: il latinorum di don Abbondio nel capitolo II dei Promessi Sposi, quando enumera in latino a Renzi gli impedimenti dirimenti: «Si piglia gioco di me?» interruppe il giovine. «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?» (Manzoni).[Enc. Teccani])
2.
Le tue distinzioni delle varie accezioni del termine ‘elitario’ mi vanno bene. Tranne la terza, dove parli di elitario in senso “naturalistico”. Essere alti metri 1,90 o 1,50 sono dati di fatto empiricamente evidenti, differenze fisiche che non segnalano in automatico una superiorità o una inferiorità. Solo in contesti culturali conflittuali essere alti o bassi può diventare elemento di discriminazione o di vanto.
Accettabile mi sembra poi anche la casistica che fai tra i saperi:“a) elitari e anche di classe, insieme. b) Elitari ma non di classe. c) Non elitari ma di classe. d) Non elitari e non di classe.”.
Ma si tratterebbe poi di passare a analisi di situazioni concrete e allora il senso dei termini (abbinati o meno) sarebbe più evidente. Certo io ho accostato genericamente i due termini. Ma il senso in cui li intendo – intreccio complesso e conflittuale tra spinte elitarie e spinte di classe – mi pare chiarito dalla frase in cui li ho usati: “Posso anche ammettere che saranno le prime a prevalere con più probabilità. Perché la contesa per l’innovazione o la rivoluzione è controllata dall’alto da élites in posizione di vantaggio. Sia rispetto a quelle che, ad esse già simili nell’intento di dominare e opprimere, le contrastano. Sia rispetto ad altre che, più sensibili alle istanze delle classi veramente “pericolose” o “antisistemiche”, nella contesa, possono finire per assimilare i metodi e gli scopi delle élites che vorrebbero spodestare”.
@ Ennio
1) «la comprensione di quella elementare addizione fu di un’élite e solo col tempo è divenuta sapere sociale e di “tutti”». Giusto, ma a un certo punto del corso nel tempo ha comunque cessato di essere un sapere elitario.
2) «(ma, a voler essere pignoli, per uno schizofrenico o un ubriaco 2+ 2 potrebbe anche non fare 4…)». Giusto, ma siamo fuori dalla logica elitario / non elitario. Lo schizofrenico e l’ubriaco rientrano in una diversa logica.
3) Casomai, riprendendo la nozione di storicità anche dell’elementare sapere aritmetico, potrebbe entrare nella logica del sapere elitario il 2+2=4 nell’ambito di alcune popolazioni primitive che non conoscono [o meglio, che non conoscevano ai primi contatti con antropologi europei] il numero 4 e i cui membri, posti di fronte a due oggetti più due risponderebbero non 4 ma “molti”. La numerazione, in qualche caso, è solo 1, 2, 3, molti, non comprende il 4 , il 5 ecc. In questo caso il primo uomo che ha scoperto o inventato il 4 potrebbe avere avuto un vantaggio elitario, cessato quando la nozione è diventata comune a tutti.
4) «Solo in contesti culturali conflittuali essere alti o bassi può diventare elemento di discriminazione o di vanto». Appunto, è quello che ho scritto. L’organizzazione sociale, con la sua cultura, a volte trasforma le qualità naturali in qualità sociali e in questo contesto sociale può nascere un vantaggio elitario. Uno alto m 1,90 ha più possibilità di successo come giocatore di pallacanestro e magari diventare ricco e famoso; uno alto m 1,60 non ha questa possibilità. Non sempre però si tratta di «contesti culturali conflittuali», a meno che tu non ritenga conflittuale qualunque situazione di differenziazione e/o di competitività. Ma se così fosse, il conflitto sarebbe intrinseco a tutte le differenze e quindi a tutte le relazioni sociali fra persone non identiche. Il che mi pare esagerato.
5) Questo è comunque un punto davvero nodale del rapporto «etica e politica», quindi del rapporto fra i comportamenti privati (di gestione di se stessi e delle relazioni personali) e i comportamenti politici (di gestione della “polis”) e, ancora, fra “etos” (costume, consuetudine, tradizione) e “kratos” (come potere di decidere per e su gli altri, anche in discontinuità e rottura rispetto alle tradizioni, che è un tratto decisivo del potere politico).
Ringrazio Luciano Aguzzi per il suo lungo commento anche se, evidentemente, il saggio non gli è piaciuto. Dovrei inerpicarmi sulla forma saggio e sulla dialettica negativa per spiegare alcune affermazioni ma, in sincerità, non ne ho il tempo.
Magari capiterà una prossima volta. Non me ne voglia Aguzzi.
@ Ezio Partesana.
Nessun problema e non ne voglio a nessuno. Si tratta solo della normale circolazione dei testi fra chi scrive e chi legge: chi legge poi a sua volta scrive e chi scrive poi a sua volta legge, in cerchio che si chiude o a spirale continua. La lettura fa sempre guadagnare qualcosa e difficilmente si può dire che un testo piace o non piace in toto. Nella misura ci sono tante tacche intermedie. Auguri e buon lavoro.
L’incanto di fronte alla somma & il blocco di fronte alla differenza, un accumulo di luoghi comuni, comuni nel senso che appartengono più o meno a chi sta leggendo, e il filo di Arianna per uscire dal labirinto del mucchio a una luce semplificatrice ed essenziale. Questa l’elaborazione psicologico/emotiva che mi ha accompagnato durante la -lunga- lettura.
“Alla fine dei conti l’appello è alla rabbia, e più è finto il sapere che la suscita, maggiore sarà la possibilità di controllare la direzione dello sfogo verso bersagli inermi o addirittura inesistenti.”
“L’Io dice: Potrei essere come loro, con un poco di fortuna, e nel frattempo si benda per non sapere come avvenga la selezione.”
E’ detto agli altri: l’Io dice e la Rabbia deviata. Io sono un’altra. Come me la cavo allora in questa panoplia di riferimenti, luccicanti e opachi? Ah, rido, da vecchia come sono e di-stante dal tempo della vita. La rabbia è un Lusso, superfluo, fin che dura. L’io una cancrena, attaccata alle ossa, fiorita. Chissà cosa sarà, dopo. Un dopo chimico e infinito, nulla si crea e nulla si distrugge comprende anche il verbo, il logos, il linguaggio con cui pensiamo e scriviamo? Non cosa resta, ma cosa diventa – questo filo infuocato corre lungo il testo. Per quanto mi riguarda, i grandi temi elaborati dalle poche generali culture umane non trattano i dettagli, questi del testo. I piedi fitti nel presente, ci rinuncio, serpenti scorpioni radici. Mortali come me. Via, via, curiamo gli affetti.
“La rabbia è un Lusso, superfluo, fin che dura. L’io una cancrena, attaccata alle ossa, fiorita.” (Fischer)
E così che si liquida ogni domanda sulla natura e qualità della “rabbia” e sui dilemmi dell’io che possono sfociare in una dialettica (complicata: dinamica o distruttiva) col “noi” rassegnandosi alla clausura degli “affetti”, questi sì – per asfissia – falsi Lusso e cancrene.
La Rabbia come Lusso è quella detta da Ezio Partesana: suscitata da un finto sapere, controllata nella direzione dello sfogo, eccetera. Ed è un Lusso parlarne/scriverne, di quella Rabbia deviata e resa impotente.
La clausura degli affetti sarà tale per chi ci si sente ristretto. Altre (soprattutto) degli affetti costituiscono e continuano il tessuto connettivo sociale, facile proprio oggi immaginare pensieri senza affetti, di corpi multilateralmente indifferenziati e, possibilmente, cresciuti in uteri/bottiglie. Del resto lo sfruttamento del lavoro di cura è tema femminista ormai noto.
Il marxismo critico -quasi un secolo di resa (però “critica”!) alla pervasività del capitalismo- sembrerebbe ormai tramutato in moralismo. Altra faccia del political correct: chi non critica nel suo alveo è senz’altro dalla parte del nemico (pervasivo, appunto).
“Il marxismo critico -quasi un secolo di resa (però “critica”!) alla pervasività del capitalismo- sembrerebbe ormai tramutato in moralismo” (Fischer)
Sembrerebbe!
C’è argomentazione, prima e dopo. Su cui? Ecco perché sembrerebbe, e sembra a molti, nel senso che ad-pare, si mostra, proprio. Sarei per la dialettica, non per la scolastica. Ma tant’è.
Accetto la definizione di moralista, anche se non capisco cosa ci sia di male.
Mi riesce più difficile capire perché il marxismo critico abbia accumulato un secolo di resa al capitalismo, o almeno perché lo abbia fatto più del cognitivismo, per dire, o della termodinamica. Ma sono sicuro che mi verrà spiegato.
Un saluto a tutti.
Perchè critica, soggettivamente, uno stato di fatto che è incapace di modificare. Soggettivamente per dire, cioè è l’anima bella che interpreta l’universale astratto. Ma il rimando alla modificazione reale -per ora ancora- resta ancorato a un lavoro collegato solo alla valorizzazione del capitale. Mentre esistono mediazioni che il marxismo critico non ha saputo pensare. La riflessione femminile e femminista sulla cura, è un esempio. Le lotte femministe sulla parità genitoriale e sul gender anche lo sono. La prima, la cura, è un tema in fondo “socialista”: vede come il privato sia l’implicito sostegno del mondo pubblico. La guerra sul gender -gender non a caso tema della destra capitalista- riporta la differenza universale alla dissimmetria biologicamente fondata. Un limite all’intellettualizzazione antropologica. Temi, questi, che il marxismo critico non ha intravvisto neppure.
…piu’ che un saggio, questo scritto di Ezio Partesana, mi è sembrato un coro recitato a piu’ voci che si contrastano e accavallano…quasi un groviglio di pensieri sui presunti “saperi” piu’ che sul sapere…
In effetti lei ha ragione, un poco è così.
Anche “anima bella” non mi dispiace, anche se come epiteto lo trovo un po’ datato, come “intellettualizzazione” e “soggettivo”. Di ontologia me ne intendo poco, solo gli scolastici studi di filosofia, e il libro del Capitale sulla riproduzione della forza lavoro me lo devo essere perso durante il trasloco, ma forse anche Marx era un marxista critico incapace di modificare lo stato di fatto. Vorrà dire che seguirò con migliore attenzione gli sviluppi della vicenda e cercherò di leggere qualche libro, o pratica, in più.
Un saluto a tutti.
Lei ha ragione, il mio linguaggio è antico e scolastico, non adatto a equilibrismi sui trampoli.
Non si arrabbi. Visto la sua scrittura ritenevo lei fosse molto attenta alle parole, e alcune risuonavano un po’ cupe. Tutto qui, nessuna offesa.
bella foto di bimba con linguaccia https://www.fotocommunity.it/photo/linguaccia-aldo-cicellyn/18014913
Lei sta mettendo alla prova la mia pazienza?
Non le è piaciuto affatto un mio lavoro, mi dispiace ma può capitare.
Però lei ha comunicato, a stretto giro di posta, che scrivo luoghi comuni, che le viene da ridere, che il mio mestiere di filosofo è un lusso, che mi sono arreso alla pervasività del capitalismo, che sono soggettivo, che non ho cambiato il mondo, che sono un’anima bella, astratto, che critico l’universale, che valorizzo il capitale, che opero intellettualizzazioni antropologiche, e che faccio equilibrismi sui trampoli.
Ora, se io fossi una donna e lei un uomo, direi che questo modo di aggredire l’avversario è violento e poco utile. Ma visto che così non è, se ha tanto astio per quello che scrivo, perché non si limita a ignorarlo?
Rispondo con linguaccia al suo carezzevole commento “non si arrabbi” dopo avermi dato della datata, su posizioni ontologiche, e banale quanto all’argomento riproduzione della forza lavoro. Non ho capito cosa intenda per parole cupe, comunque ricambio: non si arrabbi, in fondo lei mi è simpatico.
… guardi, io non sono una persona seria, è tutta scena.
“guardi, io non sono una persona seria, è tutta scena.” ( Fischer)
Ottimo, Ezio Partesana si occupa di teatro!
Ma al di là dei commenti (sceneggiati o meno), a me preme porre in altri termini la tenzone marxismo/femminismo che Cristiana Fischer ha sempre posto e imposto in termini di aut aut (anche quando partecipava alla redazione di Poliscritture). Qui scrive: ” Mentre esistono mediazioni che il marxismo critico non ha saputo pensare. La riflessione femminile e femminista sulla cura, è un esempio”. Domanda: E se fosse proprio la riflessione femminile e femminista ( specie quella a lei più cara) che di *mediazioni* proprio non se ne intende o non ne vuol sentir parlare, perché appunto considera il marxismo, anche quello “critico” un cane morto ?
Tra proiezioni di ogni genere (“la riflessione femminile e femminista di mediazioni proprio non se ne intende o non ne vuol sentir parlare”, “posto e imposto in termini di aut aut”, “considera il marxismo un cane morto”) la domanda seria (retorica appena un po’) sarebbe: non è che il femminismo (o, nel caso, la femminista che io sono) ignora o addirittura respinge le mediazioni tra teoria e azione politica che il marxismo offre?
E quindi: in che senso il femminismo è politica?
Ed è, vedi mai, politica di sinistra?
Accenno brevemente a due argomenti, il lavoro e l’autorità, cruciali per la politica oggi, riferendo come si orienta il femminismo cui mi riferisco. Anni fa in Libreria delle donne di Milano si scrisse un Sottosopra, “Immagina che il lavoro”, che dava il nome di lavoro a *tutto il lavoro necessario per vivere*.
“Noi, donne e uomini di oggi, abbiamo ereditato dal patriarcato la divisione del lavoro tra produzione e riproduzione, nella teoria del lavoro come in pratica. La divisione è sessuale e sessista, ma permane, oltre che come impostazione pratica di molte questioni, nel nostro linguaggio e nelle nostre teste, rivestita in caso da altre parole, come ‘lavoro di cura’ ma al fondo resta. Ed è tornata a farsi sentire con prepotenza in occasione della pandemia.” https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/perche-senza-donne-non-ci-sara-ripresa-la-risposta-di-immagina-che-il-lavoro/
E’ possibile notare che Marx ha immaginato una società comunista di questo tipo, senza classi.
Nomina la mancanza di autorità il testo di Partesana e ne richiama la necessità la Nota di Ennio Abate. E’ un tema da lungo tempo elaborato dal femminismo della differenza: “L’autorità femminile dà la parola a esperienze mute che sono state escluse dall’opera della civiltà. Questo programma è una vera sfida in una società che crede nei numeri e pensa assurdamente che il neutro valorizzi le donne”. L’autorità è fragile ed esiste solo nella relazione, o è riconosciuta o non è. Un modello originario è la relazione materna “dalla madre si riceve vita e parola insieme, perchè vanno e vogliono andare insieme. Fragilità della condizione umana e forza simbolica provengono dalla stessa fonte.” Luisa Muraro, Autorità, Rosemberg&Sellier, 2013, p. 53.
Leggere aiuta, non risolve i problemi ma aiuta.
Poiché sono un uomo il mio rapporto con al riflessione e le pratiche femministe è, per forza di cose, esterno. Conobbi Luisa Muraro al tempo della Libreria delle donne e con lei polemizzai, amichevolmente spero. Il casus belli fu, se non ricordo male, la famosa clonazione della pecora Dolly. La Muraro scrisse che questa dava il colpo di grazia al maschio generatore, io risposi che la tecnica non avrebbe impiegato molto a rendere inutile anche la funzione femminile.
Al tempo della gestione Valletta la Fiat aveva raggiunto, quasi, la piena occupazione della mano d’opera nei suoi stabilimenti. Si adoperò per mettere in piedi qualche asilo, mense, e partirono i famosi reparti Tappezzeria e, più tardi, Verniciature. Le donne entravano in fabbrica, l’esercito di riserva era stato ripristinato. Fu una mossa politica o di genere? La domanda in fondo è questa.
Cristiana Fischer pensa, insieme a molte altre ragazze, che il problema cruciale sia di genere, non sono d’accordo ma non ho nulla da obiettare; io l’esperienza di essere donna la conosco solo per la via, mediata, della narrazione e dunque in forma distorta. Altra questione però è la storia e coscienza di genere – non me ne vogliano i lettori seri di Lukacs – e il modo e la forma. Ricordo un libro, che è ancora sui miei scaffali, “Sputiamo su Hegel”; ecco, di certe “liquidazioni”, forse, non ha bisogno nessuno.
” non è che il femminismo (o, nel caso, la femminista che io sono) ignora o addirittura respinge le mediazioni tra teoria e azione politica che il marxismo offre?
E quindi: in che senso il femminismo è politica?
Ed è, vedi mai, politica di sinistra?” ( Fischer)
Quindi -parrebbe di capire – che il marxismo ( senza distinzioni al suo interno o quel che di esso ne resta) avrebbe proposto pessime *mediazioni* giustamente respinte dal femminismo ( anch’esso un monolite dove non si distinguono le posizioni della Muraro da quelle di Non Una di Meno a quelle della Fraser). Che “è politica” e anzi “politica di sinistra”.
Cioè, e non ditemi che sono mie proiezioni, perché faccio delle domande per capir meglio:
1. il femminismo può fare a meno delle *mediazioni* (ad es. tra donne cresciute nella Libreria delle donne e giovani di Non Una di Meno o tra femministe e donne in senso comune )?
2. la “politica di sinistra” ( in Italia, in Europa, nel mondo) sarebbe l’unico orizzonte possibile, per cui tutte le varietà del marxismo sono state inglobate nella “sinistra” e quel che da essa, in vari modi, se n’è distinta è residuale o irrilevante?
@ Ezio Partesana “io risposi che la tecnica non avrebbe impiegato molto a rendere inutile anche la funzione femminile”, c’è una differenza, che il patrimonio genetico scambiato non equivale al rapporto di gestazione. Che pare sia parte della umanizzazione.
Come “ragazza” io e le altre femministe degli anni della seconda ondata funzioniamo male, ma il problema cruciale non è di “genere” (è uso anglosassone chiamare il sesso genere, fino al paradosso, non previsto, di arrivare alla moltiplicazione dei generi) bensì della differenza tra i sessi, che individua un doppio universale umano. Due, non uno. La magnifica narrazione della Incarnazione e della correlata Assunzione fissa questa dualità IN spirito e materia. Ma capisco che su questa via entrerei in considerazioni che pertengono a quella cultura profonda umana di cui accennavo nella mortalità ormai prossima, personale e lanciata forse come avvertimento. https://www.corriere.it/cronache/20_agosto_07/da-fisico-nucleare-ad-abate-praglia-amavo-einstein-ora-san-benedetto-6c3380ce-d8dd-11ea-b97a-cc5341a9eb3f.shtml
@ Ennio Abate Ma che discorso è? Sono domande interessate a conoscere? C’è un salto logico, forse piuttosto psicologico, tra il recepire informazioni che ho offerto e ribattere che ho sostenuto: “il marxismo ( senza distinzioni al suo interno o quel che di esso ne resta) avrebbe proposto pessime *mediazioni* giustamente respinte dal femminismo”.
Che ci siano diverse posizioni interne al femminismo mondiale, in una discussione importante, è talmente ovvio e noto da non essere necessario nominarlo. Altro è entrare nel merito delle posizioni, ma chi vuole partecipi nei luoghi del dibattito.
Sulla definizione di “sinistra”: sappiamo che è genericità per comprendere marxismo (comunismo, socialismo) e impegno democratico. Ma non sai mai dove arrivino le posizioni di chi hai davanti e riferirsi all’onnicomprensiva sinistra potrebbe fungere da terreno comune.
Non è questo il caso se la contrapposizione tra marxismo e femminismo è il terreno che disegni e su cui pretendi io mi accampi.
Se vuoi conoscere il f. cerca i suoi luoghi. Il confronto c’è chi ha scelto di farlo, Toni Negri, Carlo Formenti, Sergio Bologna, altri invece ne negano addirittura l’autonoma esistenza, Visalli. Comunque evito polemiche personali.
Ho più di una perplessità filologica – lei ha usato “gender”, io “genere”, credo proprio che l’etimo sia la medesima – ma mi prendo la bacchettata sulle dita senza problemi. Temo – nel doppio senso di “prevedere” e di “aver timore” – invece che anche la gestazione e la cura potranno essere superate dalla tecnica. Un’opera d’arte riproducibile non smette d’essere opera d’arte, ma perde ogni aura.
Per il resto… ho replicato anche troppo ai commenti, quindi tenderei a tacere un poco.
Un saluto a tutti.
@ Fischer
Siccome tu scrivevi: “non è che il femminismo (o, nel caso, la femminista che io sono) ignora o addirittura respinge le mediazioni tra teoria e azione politica che il marxismo offre?”, non mi pare provocatorio aver posto questa domanda che richiede, se possibile, una risposta semplice e chiara:
1. il femminismo può fare a meno delle *mediazioni* ?
No, rileggi: la domanda seria “non è che il femminismo ignora o addirittura respinge le mediazioni” è quella che attribuivo a te. E quindi, in successione, le altre domande serie che ritenevo di leggere nel tuo commento del 7 agosto alle 22.58: il femminismo è politica? ed è politica di “sinistra”? Ho preso sul serio quel tuo commento, lo ho riassunto e ho poi risposto parlando di politica a proposito di lavoro e di autorità.
Perchè sciacallaggio spirituale? Non tutti sono preti nelle favelas, ci sono anche le persone contemplative al mondo. Tutte le religioni le prevedono.
Sull’articolo linkato da Cristiana Fischer
“Siamo entrati nella sala degli abati, dove si accolgono gli ospiti. Lui si siede a un paio di metri di distanza e prosegue nel suo viaggio fra scienza, fede e pandemia: «Dicevo che la scienza non ci potrà mai salvare da ogni nostro male e la pandemia lo sta dimostrando. Basta un virus, un essere invisibile, e viene a galla tutta la debolezza della condizione umana. Pensavamo che le epidemie, sars, ebola, riguardassero ormai solo altri paesi, dove non c’è una sufficiente cultura scientifica. Non è così. Non avremo mai in mano la natura, nonostante il progresso e la ricerca, che ci può aiutare, sia chiaro, ma non può salvare il mondo. L’uomo non sarà mai autonomo, autosufficiente. C’è qualcosa di molto più grande che sta sopra di noi e nulla potrà mai superarlo. Il peccato originale è sempre lo stesso: l’uomo che vuole farsi Dio. Magari è questo che Dio ha voluto dirci: bisogna essere più umili, spirituali».”
(https://www.corriere.it/cronache/20_agosto_07/da-fisico-nucleare-ad-abate-praglia-amavo-einstein-ora-san-benedetto-6c3380ce-d8dd-11ea-b97a-cc5341a9eb3f.shtml)
Davvero un brutto esempio di “sciacallaggio spirituale”!
Per essere “più umili, spirituali” ci vorrebbe un convento come quello di cui lui dispone anche nelle periferie e nelle favelas. Che ipocrisia!
“ci sono anche le persone contemplative al mondo” ( Fischer)
E chi lo nega? E non ce l’ho con loro. Ma preferisco i contemplativi che non esibiscono il proprio spirito contemplativo e non lo propagandano sul Corriere della sera da conventi ben restaurati e finanziati.
Mi ci hai fatto riflettere. Bel posto e bel convento, ricco di passato nelle pietre e nei legni. Vita confortevole per spazio e silenzi, che mai sceglierei perché orari scanditi, consumi sobri, stile comunitario asciutto negli scambi, affidato all’implicito. Il convento ricco e i frati poveri. Ma… conservazione della ricchezza del passato, sua valorizzazione e non appropriazione, perpetuare la tradizione. Grande lavoro, deliberato e intenzionale. Tanto di cappello!
Mi ci hai fatto riflettere. Bel posto e bel convento, ricco di passato nelle pietre e nei legni. Vita confortevole per spazio e silenzi, che mai sceglierei perché orari scanditi, consumi sobri, stile comunitario asciutto negli scambi, affidato all’implicito. Il convento ricco e i frati poveri. Ma… conservazione della ricchezza del passato, sua valorizzazione e non appropriazione, perpetuare la tradizione. Grande lavoro, deliberato e intenzionale. Tanto di cappello! Uno che studiava le finezze della materia, e ora ripete ogni giorno all’unisono con altri “come lui” (tutto da interpretare quel come) vecchie formule di secoli, millenni. Ripetute, identiche. Insomma, è qualcosa su cui riflettere.
“conservazione della ricchezza del passato, sua valorizzazione e non appropriazione, perpetuare la tradizione. ” (Fischer)
Per contrasto:
Nella settima delle Tesi di filosofia della storia Walter Benjamin, dopo aver definito il “procedimento d’immedesimazione” al quale ricorre lo “storico dello storicismo” come ciò “con cui il materialismo storico ha rotto i ponti”, prescrive allo studioso di parte marxista uno sguardo distaccato nell’abbracciare il cosiddetto patrimonio culturale di un’epoca, perché quest’ultimo “ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore [corsivo mio]. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie” (W. Benjamin, Tesi… cit., in Angelus Novus, Torino 1962, pp. 75-6).
Il problema naturalmente è la superbia. Su cui, peraltro, sono superavvertiti. È il loro inferno morale, più la combatti più superbo diventi.
Un pensiero per Cristiana Fischer: Gesù è nato in virtù dell’assenso dato da Maria all’azione dello Spirito; la fecondazione non è avvenuta per opera del maschio: questa realtà rende, sul piano simbolico, la donna libera. Lo sanno bene quelle donne, anche laiche, che prendono i voti. Cor meum in manu domini.
Credo che sia un’obiezione non pertinente, dato che si ignorava il meccanismo del doppio patrimonio genetico. Restando sul piano simbolico invece, la realtà conosciuta della gestazione (richiamo alla dea madre ed escludendo l’idea di otre aristotelico del seme maschile) affida la corporeità al femminile riproduttivo combinandolo con la fecondazione spirituale divina. Da cui l’incarnazione divina dell’umanità, maschile. Con l’Assunzione del corpo vivente femminile, quasi due millenni dopo (tuttavia con una lunga storia di culto mariano in oriente e poi in occidente tra i francescani https://www.cantualeantonianum.com/2012/11/duns-scoto-e-le-ragioni-dellimmacolata.html)
I francescani probabilmente conoscevano il movimento delle beghine, se ne è occupata Romana Guarnieri, amica e discepola di Romano Guardini.
Per dire che, sì, esiste la 7 Tesi sul concetto di storia ma esistono anche la 4, la 5 e la 6: “Il pericolo minaccia sia la consistenza della tradizione sia chi la riceve. Per entrambi è uno solo e lo stesso: prestarsi come strumento della classe dominante. In ogni epoca si deve tentare di strappare la tradizione dal conformismo, che è sul punto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore. Viene come vincitore
dell’Anticristo. Il dono di riaccendere nel passato la scintilla della speranza è solo dello scrittore di storia pervaso dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha mai smesso di vincere”.
Sostanzialmente siamo d’accordo. Rimando alla lettura di ‘Maria di Nazaret’ di Adriana Valerio, il Mulino, 2017
@ Partesana e tutti
Sul marxismo critico Partesana afferma: «ma forse anche Marx era un marxista critico incapace di modificare lo stato di fatto».
Critico o no, il marxismo ha modificato di molto lo stato di fatto, ma lo ha modificato non nel senso voluto e secondo le previsioni considerate “scientifiche”, bensì in forme non volute, impreviste, o – almeno a livello ideologico – mascherate e trasformate in mitologie non rispondenti alla realtà. Il termine “mitologie” è usato da “marxisti critici” fin dagli anni Venti del Novecento (si veda, ad esempio, la “Storia del bolscevismo” di Arthur Rosemberg).
Il marxismo, o meglio – come spiega Norberto Bobbio – i marxisti, le persone che si considerano marxiste e che nel marxismo cercano la soluzione teorica dei problemi pratici, entrano in crisi quando prendono coscienza che le previsioni “scientifiche” di Marx (e dei suoi seguaci Engels, Lenin, Stalin, Mao, Castro…) non si avverano e che quelle teorie definite “scientifiche” sono errate.
Bobbio distingue quattro fasi in cui “i marxisti” entrano in crisi, in un saggio di circa trent’anni fa (e cose analoghe le aveva già scritte fin dal 1978).
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«Le quattro grandi crisi del marxismo, dall’inizio del secolo a oggi, corrispondono a momenti della storia reale in cui sono avvenute trasformazioni sociali che hanno smentito alcune previsioni di Marx o che a Marx erano state attribuite: la prima volta, all’inizio del secolo, quando sembrò che non stesse per avverarsi a breve scadenza il crollo del capitalismo; dopo la prima guerra mondiale, quando la prima rivoluzione socialista avvenne in un paese capitalisticamente arretrato; durante la lunga dittatura staliniana, quando lo Stato, anziché estinguersi andò rafforzandosi sempre più sino a dar vita a una figura nuova nella storia delle forme statali, lo Stato totalitario; infine, in questi ultimi anni in cui non solo il capitalismo non è crollato per le sue interne contraddizioni, ma ha vinto e stravinto la sfida del primo Stato socialista della storia. Delle quattro crisi quest’ultima sembra di gran lunga la più grave». [Bobbio, «Né con Marx né contro Marx», Editori Riuniti, 1997, p. 223. Da un saggio edito originariamente nel 1992].
In sintesi, le quattro fasi corrispondono:
1) Alla presa di coscienza che la teoria del valore / lavoro è errata e che pertanto la deterministica pretesa necessità del socialismo non ha base scientifica, ma solo volontaristica.
2) Che la rivoluzione non scoppia nei paesi a capitalismo avanzato ma in quelli dove c’è poco capitalismo e molta arretratezza (Russia, Cina ecc.).
3) Che la “dittatura del proletariato” non è lo Stato socialista di transizione verso l’autogoverno dei lavoratori non più divisi in classi, ma è la dittatura di un ristretto numero di persone privilegiate che impongono un regime privo di ogni carattere socialista e comunista nel quale gli operai stanno peggio dei loro colleghi dei paesi capitalistici.
4) Che il capitalismo non è destinato alla morte per le sue contraddizioni, ma che ha una capacità di reagire alle crisi, di rinnovarsi ed ampliarsi del tutto imprevista e non presa in considerazione da Marx.
A questo punto (e si possono aggiungere la perdita di credibilità delle teorie marxiste sul “materialismo dialettico”, sul “materialismo storico”, sulla “coscienza di classe” del proletariato come “classe generale” ecc. ecc.), tutto il sistema del marxismo militante è in crisi e non si vede proprio una via di uscita.
***
Del resto, i tentativi di superamento delle crisi, che hanno dato vita a tante correnti del marxismo diverse e spesso in opposizione fra loro, sono restati nell’ambito di due modi errati di procedere:
1) Il “ritorno al vero Marx”, con il che si cerca di superare la crisi e colmare le lacune teoriche rileggendo Marx e integrandolo dall’interno della sua opera. Ne sono così usciti tanti Marx quante sono le correnti interpretative e il povero Marx è stato costretto ad assumere, contemporaneamente, le vesti del libertario, del democratico, del totalitario, del filosofo hegeliano, dell’anti hegeliano, dello scienziato dell’economia, del moralista dell’economia, ecc.
2) L’integrazione della dottrina marxista dall’esterno, con gli apporti creativi di altri, da quelli di Engels, di Lenin, di Stalin, di Mao, di Lukács e via via fino alla vera e propria “creazione” di un nuovo Marx, come si potrebbero definire i tentativi di Costanzo Preve di una rifondazione antropologica del comunismo.
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Ciò che colpisce chi legge e studia Marx come un classico, senza appartenere alla tribù dei marxisti né a quella degli anti-marxisti, è che tutti i dibattiti tra marxisti si svolgono quasi sempre senza aprirsi alle correnti culturali non marxiste, come se queste non avessero mai detto nulla sugli stessi problemi storici, economici, sociologici, giuridici, politici ecc., e come se il tanto che hanno detto non possa servire a risolvere qualcuno dei problemi, al di fuori delle dogmatiche marxiste e/o dei suoi “sentieri critici”.
Così spesso la pretesa del marxismo di essere la forma più avanzata di cultura si è rivelata estremamente arretrata e povera, piena di pregiudizi, di prevenzioni, di censure ed esclusioni.
E mi pare che in gran parte questo negativo atteggiamento culturale e metodologico continui ancora oggi, sebbene il marxismo sia ormai una corrente di minoranza, fra quanti si dicono marxisti in senso militante.
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Forse bisognerebbe accettare la proposta di Preve di una rifondazione antropologica del comunismo, però senza più partire da Marx, come lui fa, ma considerando Marx solo uno dei tanti teorici da cui può venire un contributo ma dai cui errori cautelarsi e tenersi alla larga, come si deve fare con tutti gli autori, e non sforzarsi in tutti i modi di giustificarli e rattopparli con nuove riletture, nuove interpretazioni, nuovi ritorni.
E passare dalle fumosità della dialettica alla logica e dalle teorie filosofiche totalizzanti alle scienze sociali e alla ricerca empirica.
Ringrazio Luciano Aguzzi per la lezione anche se, in verità, mi pare di averla sentita altre volte.
Spero che sir Karl Popper stia bene.
Per il resto rimando al XXVI canto dell’Inferno, non sarà difficile trovarne una copia.
In questi giorni sono impegnato a ripercorrere la tradizione interpretativa di un altro canto dell’Inferno, il XXXI, e in particolare il verso 67:
67 «*Raphél maì amèche zabì almi*»,
***
Le tradizioni interpretative principali sono tre:
1) Non ha un significato specifico, se non quello di rappresentare la confusione babelica delle lingue.
2) Ha un significato, è comporto di parole ebraiche un po’ storpiate.
3) Ha un significato, è composto di parole arabe dialettali, un po’ storpiate.
***
Gli studiosi non riescono ad arrivare a un accordo.
Ma forse fra qualche secolo, chissà!
In fondo, ai lettori, importa poco dell’acribia discorde dei commentatori.
Eh, sì. Su Marx, marxismo, marxismi etc. ci ripetiamo. Oh, come ci ripetiamo. E gli inverni sono tanti, non più dieci:
Si fa tardi. Vi vedo, veramente
eguali a me nel vizio di passione,
con i cappotti, le carte, le luci
delle salive, i capelli già fragili,
con le parole e gli ammicchi, eccitati
e depressi, sciupati e infanti, rauchi
per la conversazione ininterrotta,
come scendete questa valle grigia,
come la tramortita erba premete
dove la via si perde ormai e la luce.
Le voci odo lontane come i fili
del tramontano tra le pietre e i cavi…
Ogni parola che mi giunge è addio.
E allento il passo e voi seguo nel cuore,
uno qua, uno là, per la discesa.
FRANCO FORTINI, Agli amici, (Poesie e errore, 1959)
…”Raphaèl mai amèche zabi almi…” (xxxi canto dell’Inferno)…un verso dal significato oscuro, forse, come vuole una delle diverse interpretazioni, a “rappresentare la confusione babelica delle lingue” (L. Aguzzi)…mi viene da collegare quest’ultima affermazione all’avvicendarsi dei commenti che, pur essendo espressi nella stessa lingua, fanno riferimento a “contenitori” diversi, quindi si producano in linguaggi molto diversi…acrobatico seguirli per chi, come me, partendo da una sorta di terra di mezzo, non possiede gli strumenti adeguati, e non me ne vanto…Posso comunque partire da qualche indizio per imbastire un non discorso…Bella e mesta la poesia di F. Fortini, con quell’andamento ripiegato che si porta, quasi in corteo funebre, un’intera generazione di persone di pensiero e di azione nella direzione degli Inferi…ma non sembrano davvero sconfitte, dato che la memoria ancora le riporta in vita…E l'”Anticristo” che puo’ davanti a tali coscienze? Poi c’è, se ho ben capito, la doppia umanità di cui parla Cristiana, un fronte di guerra che si vorrebbe aprire, che non mi convince dato che simpatizzo per l’interspecismo…Comunque questo non toglie che sono per ( a fianco)le lotte femministe ma penso che se all’inizio del movimento le posizioni radicali si imponevano, data la necessità di porre con forza il problema dei diritti e peculiarità, vedi il lavoro sempre ignorato della cura, delle donne nel tempo…Ora mi sento piu’ in sintonia con coloro, donne e uomini che, indifferentemente dall’orientamento sessuale e, in questo campo, a favore del pluralismo, si impegnano a aprire fronti di riflessione condivisa sulle dinamiche vecchie e nuove che sono stati e sono la causa di squilibri di potere nella società e nei gruppi di convivenza, familiari o non…Conosco femministe che riprendono il discorso marxista coniugandolo con una visione che comprende, oltre al tema della giustizia sociale, quello ecologico e dei diritti umani a largo spettro…Il movimento Non Una di Meno…se si pensa anche solo alla violenza fisica perpetrata sulle donne…c’è anche quella privata, è vero, ma la prima genera una vera ecatombe. Avremmo bisogno di riflettere insieme e qui do’ ragione a Cristiana, il tema “affetti”- e le dinamiche connesse con l’autorità, il potere e la libertà- gioca un ruolo importante…
Una costituzionalista, Silvia Niccolai, scrive: “il sesso è una relazione, di distinzione e connessione, con sé e con gli altri; è terreno dell’interazione umana”. Con sé, anche con sè! Che vuol dire? https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/perche-la-carta-non-eccede-nelle-definizioni/?fbclid=IwAR2uKxERhrAp39dObeYpn37XY8iFR5EfZZaipN9zjs5_96vaJMmHAfol-p0
Un’altra (la solita Luisa Muraro) lo ha spiegato, prima: “La differenza sessuale non è tra, è in. Mi è interna, inerisce alla mia esistenza e io così la concepisco, così la vivo, come qualcosa da cui non posso prescindere, anche volendo. Posso mascherarla, nel senso di enfatizzarla, occultarla, adattarla, per sfida o in conformità, libera o forzata, consapevole o inconsapevole, a quegli imperativi del tra che dicevo.” Mascherarla per aumentare il valore del “tra”. O cancellarla per assimilarsi a una uguaglianza impossibile.
https://27esimaora.corriere.it/articolo/la-differenza-sessuale-ce-e-dentro-di-noi/
L’oppressione storica, la violenza ancora presente -nelle case e nelle strade- la non-parità delle retribuzioni, e potrei continuare, c’entrano, ma non si tratta solo di questo. Davvero non esiste l’Uomo, unico. Un Neutro? Non si dà, no? Allora i molti, le differenze delle mille identità di genere? Paradossi della modernità… e del neoliberismo.
In realtà come dice il libro Genesi “maschio e femmina” li creò. C’è anche la versione “patriarcale”, quella della costola, ma pare sia più tarda, quando la religione era diventata… patriarcale, appunto. Siamo mammiferi, e la natura, anche prima dei mammiferi, produce le creature attraverso un doppio patrimonio genetico che si combina. Allora siamo solo biologia? Be’ no, lo sai tu come me. C’è *questo fatto* della differenza sessuale. Il senso da dare dipende da chi e da come lo intende. Le donne, da qualche decennio, affermano *il senso libero della differenza sessuale*. E dimmi se è poco.
‘il senso libero della differenza srssuale’… Penso di non capire a fondo il significato di questa affermazione. Se. Cristiana, vuoi chiarirla, grazie
Non è una formula che abbia dei contenuti fissi. Certo la differenza ha un ancoraggio biologico ineliminabile, su cui la cultura ha costruito un arco di modelli *prescrittivi*. Alla tua fantasia e conoscenza storica identificare la Madre, la Vergine, la Seduttrice, la Fanciulla, la Domina, evvai…
Così si diceva anni e anni fa, agli inizi di Diotima, la comunità filosofica femminile tuttora viva e produttiva (http://www.diotimafilosofe.it/), si diceva: “Adesso, la libertà femminile c’è sempre stata”.
Infatti donne libere, che hanno fornito nella storia il senso in cui loro stesse vivevano e interpretavano il loro essere donne, ci sono sempre state. In tutte le culture. Spesso sono donne importanti, regine, dee, profete… di altre non sappiamo niente, ma con queste donne importanti veniamo a sapere che erano esempi di un libero vivere se stesse in quanto donne. Aspasia, Saffo, Ipazia, Giuditta, e via, via, ne scopriamo tante. Un grande esempio nella nostra cultura è Maria che acconsente a diventare la madre di dio. La pittura ce la rappresenta: giovane, libera, consapevole.
“Adesso”, noi, con il movimento femminista, possiamo comprendere il tesoro di libertà e di senso che altre donne ci hanno trasmesso, nella storia. E liberarci da quella immagine opaca, buia, di donne conculcate, offese, represse in cui troppo femminismo -nell’interesse dei maschi che così diventano “nostri salvatori”- pretende di rinchiuderci: la parità, le quote, i diritti… e noi sempre “parte” di un Tutto che sono invece loro, l’Uomo, l’Uno, che vale per tutti e tutti rappresenta. Ormai si sa che l’Uomo è il bianco occidentale e che non rappresenta i popoli che ha sottomesso. Ma, prima di tutto, quell’Uomo-Uno non è una donna.
C’è forse una Donna, in alternativa all’Uomo? No. Il mio essere una donna ha il senso libero con cui intrattengo relazioni con altre e altri, dei miei pensieri, delle mie azioni, capacità, doveri, scelte. Questo vale per tutte le donne del mondo.
“Aspasia, Saffo, Ipazia, Giuditta, e via, via, ne scopriamo tante.”
E c’è bisogno d’essere femministe o femministi? Che gabbie ideologiche!
Persino io ne ho scoperta una: https://www.poliscritture.it/2020/06/03/a-principesse-sichelgaite/
Non fare l’ingenuo, si tratta appunto NON di appartenenza alla cultura neutra universale! Attraverso di loro la libertà *femminile* si è manifestata, delle altre e per le altre.
Invece è pacifico che Alessandro fosse un maschio, come Hume o Napoleone. E che siano tutti soggetti “universali”, no? Maschile-universale.
Bene, loro SONO femminili-universali. Non c’è un universale che non sia sessuato.
…si’, penso che furono numerose le donne che seppero dare voce e forma al loro spirito libero nel tempo, e non solo regine, principesse o sante ma anche donne “comuni” che pero’ offrirono un esempio notevole nelle loro piccole comunità…In quanto, invece, a considerare l’umanità in termini binari: Uomo e Donna, non riesco a seguirti, Cristiana…Ferse ho poco sviluppato il pensiero simbolico, ma mi sembrerebbe di trasformare le innumerevoli facce dell’essere umano in due rigide maschere, dai confini invalicabili…
SEGNALAZIONE
Pier Luigi Fagan, POTERE
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10221911264746336&set=a.1148876517679&type=3&theater
Stralcio:
Cose note si dirà. Già, ma allora non si capisce perché le sfrangiate e minimali energie di resistenza politica a questo edificio di potere contemporaneo si ostinino a pensare che fare “politica” sia solo una faccenda di partiti, parole d’ordine, mosse tattiche, proposte politiche, quando l’essenza dell’edificio è prettamente culturale. Quantomeno ci si aspetterebbe una mobilitazione anche su quel campo. In effetti, qualche editore ostinato sull’orlo del fallimento, qualche professore non conformista, qualche blogger, qualche pensatore on line resiste ostinatamente. Manca però un quadro e discorso condiviso a monte. Manca soprattutto la condivisione del fatto elementare che la battaglia politica si fa nella testa della gente, a partire dai tuoi contatti facebook, da quello o quelle o quelli che ti stanno accanto. Immediatamente, tutti pensano “ok sono d’accordo con quello che dici, ma che fare? come far diventare questo discorso un discorso che porta nostri rappresentanti al “potere”? Ma come li porti al potere se non c’è una base di larga condivisione nella società occupata militar-cognitivamente dai poteri in atto? Il campo di battaglia non è il parlamento o le sedi di potere in cui cercar di addensare un contropotere, non almeno fino a quando si diffonderà una certa egemonia nel livello di base della distribuzione di conoscenza ed ignoranza generale. L’Italia è tra i paese OCSE messi peggio quanto ad istruzione. Certo, “questa” istruzione non è di per sé garanzia di capacità emancipativa, ma l’istruzione è a sua volta un edificio fatto a fondamenta e piani ed alcuni presupposti logico-linguistici-razionali, nonché qualche nozione di base, vanno comunque presupposti per l’emancipazione. Rispetto ad una media UE del 20% tra ignoranti totali, elementari e medi, l’Italia segna un poco glorioso quasi 40%, il doppio.
Molti decenni fa, c’erano forze politiche e sociali, in genere di “sinistra” che, sulla scorta della flessione gramsciana della tradizione marxista-leninista, avevano in gran conto l’aspetto cultural-formativo-informativo. C’erano centri studi, scuole di formazione politica, decine di riviste ed anche quotidiani faticosamente tenuti in piedi dall’impegno militante di giornalisti e lettori, case editrici, registi, scrittori, poeti e pittori, musicisti. C’era una vera e propria “politica” di presenza nelle istituzioni pubbliche e private, un impegno politico forte ad allargare la penetrazione della formazione in tutti i ceti sociali. La visione generale era che al “popolo” dovevano esser dati strumenti per l’emancipazione e questi strumenti erano culturali. Questa non era la ricetta completa ma era la pre-condizione necessaria. Nessuno comunque si sognava di rivendicar con orgoglio una presunta saggezza dell’ignoranza. Questa era “l’egemonia” che oggi ha varie versioni, tutte di destra, dalla liberale alla fascio-sociale.
Nelle moderne c.d. “democrazie liberali”, questo è l’unico vero terreno di scontro, non può essercene altro poiché qualunque istanza, anche la meglio intenzionata, non potrà mai giungere a pubblica e corretta visibilità chiedendo supporto di consenso, ad una base popolare tenuta nell’ignoranza e nella mis-informazione.
Oggi si presentano numerosi attacchi alla partecipazione popolare al voto democratico da parte di coloro che notano che vasti livelli di ignoranza non dovrebbero avere il potere di determinare le scelte politiche. Alcuni rispondono difendendo il diritto inalienabile al voto per tutti come fondamento della stessa c.d. democrazia e fanno bene. Ma questa difesa è debole. La miglior difesa, si sa, è l’attacco ma molti non sono in grado di neanche ragionare in attacco, a parte la mancanza di forze obiettive. Le stesse forze però mancano nella misura in cui manca l’impegno a formarle e questa formazione di forza, dovrebbe passare proprio dalla spinta a coltivare conoscenza ed informazione senza la quale la democrazia rimane “così-detta”.
Un paese col 40% di corpo elettorale che oscilla tra l’istruzione elementare o media, non può andare da nessuna altra parte che non sia il finire sistematicamente nelle attraenti trappole disseminate a iosa dal potere economico-finanziario-informativo-culturale che domina il potere politico, quindi giuridico, che domina la società intera.
“Invece è pacifico che Alessandro fosse un maschio, come Hume o Napoleone. E che siano tutti soggetti “universali”, no? Maschile-universale.
Bene, loro SONO femminili-universali. Non c’è un universale che non sia sessuato.” (Fischer)
Pietà! Se si deve mettere in forse o ridiscutere “l’universale” lo si faccia a tutto tondo e non solo per l’aspetto “sessuale”.
Chiedo io pietà di non giocare con la logica. Ho scritto chiaramente dell’universale Uomo. Altra cosa sono gli universali logici, gli universali regolativi kantiani. L’universale umano, anche quello di Leonardo, aveva qualcosa di maschile in mezzo alle gambe. Oggi ancora troppi se lo rappresentano così, l’universale umano: maschile.
Non gioco affatto. Che alcuni o molti possano ridurre l’universale a quello che si trova in mezzo alle gambe non giustifica la tesi del femminismo alla Muraro che l’universale sia riducibile al “sessuato” o alla “logica”.
altroché se lo giustifica. Se riesci ad argomentare, seriamente, il contrario…
@ Fischer
Lascio ad altri/e interessati/e alla questione il compito di “argomentare, seriamente, il contrario”. Forse io non sono in grado né interessato a farlo. Come ti scrissi in una mail del giugno 2015 (uno stralcio qui sotto), nelle argomentazioni tue o di altre femministe, che pur ho cercato di seguire, non trovo ragioni sufficienti per cambiare o correggere le mie convinzioni:
“Se quattro filosofe hanno capito che «l’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo è lo sfruttamento dell’uomo sulla donna, sul mondo della vita sempre a disposizione e mai riconosciuto», non è automatico che diano «una leva» per farlo capire anche a milioni di donne (e di uomini). E non è detto che le “resistenze” a capirlo o a convincersene non dica anche qualcosa sui limiti di queste loro teorizzazioni.
Io credo che i bisogni richiamati dal pensiero femminista negli anni Settanta o ora dal post- femminismo siano veri e non eludibili. E perciò non sparo affatto sull’obiettivo sbagliato attaccandoci sopra la tua faccia, ma metto in discussione la loro rappresentazione teorica, che trovo, come ti ho detto in altre occasioni, insufficiente e sempre più indebolita. Perché molte rappresentanti del postfemminismo secondo me si sono adagiate negli interstizi e sulle cattedre concesse dalle lobby capitalistiche in via di globalizzazione. Proprio com’è accaduto a tanti pensatori e politici “post-comunisti” che hanno abbracciato il “progresso” dell’odiato [in anni trascorsi] liberismo.
Considero il femminismo novecentesco una ramificazione del pensiero socialista e comunista. Rinsecchitasi però – questa è la mia tesi. Ma perché è il grande albero del pensiero illuminista socialista e comunista che s’è rinsecchito. E non si può far finta che il femminismo non sia un aspetto di quella crisi e tirar dritto come se nulla fosse. A meno di non pensare, come mi è parso di capire da alcune roboanti dichiarazioni di famose femministe, che, fallite le rivoluzioni socialiste e comuniste, non ci sia da preoccuparsi granché perché il nuovo sol dell’avvenire è Donna e sta già sorgendo. “
@ Annamaria Locatelli. C’è una implicita contraddizione nel tuo argomentare: se dici che ci furono numerose donne che ci seppero trasmettere il “loro spirito libero nel tempo” perchè riduci le “innumerevoli facce dell’essere umano”, che sono maschi e femmine, in “due maschere rigide”? Innumerevoli sono, come le vie del signore, anche le libere espressioni della natura umana nel rapporto con se stessa e con gli altri. La differenza è anche “in” e non solo “tra”.
Il femminismo della differenza poi nega la pretesa che il sentirsi una donna trans comporti la necessità di un linguaggio come “persona che allatta” invece che donna che allatta, idem per la gravidanza. Dato che con il linguaggio si connettono la liceità della GPA, la violenza di asterischi e finali in “u”, fino alle intimidazioni della proposta Zan.
Braccia aperte alle trans che da uomini vogliono sentirsi donne. Ma appunto questo riconferma la differenza, mica vogliono sentirsi coccodrilli o palme o maree (è estate… )
Non è che solo definendosi DONNA si salva il mondo e invece, dichiarandosi PERSONA lo si affossa… In quanto alla proposta di legge Zan, per quanto ne so, ben venga se in difesa di diritti a chi, solo qualche decennio fa veniva spedito nei lager nazisti o relegato nei manicomi
@ Ennio Abate, sai come si dice, che solo i paracarri non cambiano mai idea. Una lunga rassegna su quello che tu sai e pensi del/dei femminismi, non coglie l’argomento sull’universale umano (non quello logico, non quello regolativo) che sono due. Universale è l’essere umano femminile, universale l’essere umano maschile. Ma l’essere umano non c’è, non esiste se non come pensiero filosofico, logico, teologico, matematico perfino. Umane sono solo le creature, che sono sessuate. Se su questo non vuoi pensare o discutere non me ne spiaccio. Non sei solo. In qualche modo sono cavoli vostri, data l’estensione globale ormai della consapevolezza dell’essere sessuati (incarnati… ti ricordi?)
@ Fischer
I “paracarri” in questo caso sono almeno due.
I temi del “femminismo” non mi hanno interessato mai molto, non perché non possano essere di qualche peso, ma perché mi sono sempre parsi fuorvianti e a volte cervellotici e creativi di narrazioni del tutto metafisiche. Mi sono invece sempre parsi interessanti, fin da quando mi iscrissi al PSI a 14 anni (nel lontano 1958) e poco dopo ho lavorato come sindacalista, i temi della politica delle donne e della questione delle donne, vista come parte della lotta di emancipazione popolare in generale, come specifica lotta per l’eguaglianza salariale e di condizioni di lavoro, come eguaglianza di diritti civili, come parità di condizione sociale nei confronti dei maschi, come raggiungimento di specifici diritti legati alla sessualità femminile e alla maternità.
Il femminismo che fa le pulci alla grammatica mi è sempre parso più una caricatura che una seria componente delle lotte per l’emancipazione femminile. Ciò non vuol dire che non ci siano pulci nella grammatica e nel lessico e in tante forme della tradizione, sia relative alla comunicazione che a mille altre cose. Ma vuol dire che le pulci scompariranno assai più facilmente e forse pressoché in modo automatico, per semplice variazione culturale, quando scomparirà la base sociale su cui crescono e si sviluppano.
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E qui vengono i due aspetti sui quali vorrei intervenire, collegati solo indirettamente ai temi del femminismo. Il primo è il problema dello sfruttamento.
*
1) Abate cita (e mi par di capire che sono parole delle “quattro filosofe” a cui fa riferimento): «l’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo è lo sfruttamento dell’uomo sulla donna, sul mondo della vita sempre a disposizione e mai riconosciuto».
Dato e non concesso che ci sia questa sequenza temporale: 1) sfruttamento dell’uomo sulla donna; 2) sfruttamento dell’uomo sull’uomo; resterebbe da capire comunque da dove nasce lo sfruttamento dell’uomo sulla donna. Nella realtà vediamo che c’è uno sfruttamento del genere umano nel suo complesso verso la natura, che tanto più aumenta quanto più lo sviluppo della scienza e della tecnica abbatte le autodifese della natura); sfruttamento verso i vegetali e gli animali . Insomma, sfruttamento verso ogni cosa che può essere sfruttata a proprio vantaggio. All’interno di questa dinamica si collocano anche gli sfruttamenti dell’uomo sull’uomo (sia nelle forme di un gruppo umano che sfrutta altri gruppi per lui stranieri, sia in quelle dello sfruttamento di membri dello stesso gruppo da parte di altri membri del gruppo) e dell’uomo sulla donna (ma anche quelli, che non vanno trascurati, delle donne su altre donne).
La dinamica dello sfruttamento è complessa perché è interamente calata all’interno delle dinamiche del potere. La formulazione generale è questa: fra esseri o agenti di potere diverso, chi ha più potere tende a sfruttare chi ne ha meno.
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Le dinamiche del potere a loro volta rimandano, e trovano lì il loro fondamento, alle dinamiche delle differenze. Sono le differenze a creare potere, sia direttamente, nei casi più elementari (il più forte costringe il più debole ad obbedirgli), sia in forme complicate e non immediatamente evidenti quando si ha a che fare con formazioni sociali in cui la vita dei singoli fa sempre parte di organizzazioni o di settori o di ceti sociali. Nell’ambito sociale, il “debole” organizzato (ad esempio membro di un sindacato, di un partito), potrebbe avere più forza e quindi più potere del “forte” meno organizzato. Pur restando vive e attive le dinamiche del potere nelle relazioni fra singoli individui (ad esempio all’interno della famiglia e delle relazioni di coppia), nelle formazioni sociali complesse queste dinamiche si spostano e si concretizzano nelle strutture economiche, giuridiche, politiche e in genere nelle istituzioni di ogni tipo, comprese le istituzioni culturali e quelle linguistiche. Pertanto non sarà più (o quasi più), un singolo uomo che sfrutta un altro singolo uomo o donna, ma una categoria giuridicamente e culturalmente individuata che sfrutta altre categorie ugualmente individuate in modo non strettamente personale.
Le differenze che creano vantaggio o creano svantaggio non sono più, se non in minima parte, le differenze naturali, ma quelle sociali. Il compito del femminismo, almeno il compito storico che si è assunto già a partire dalla fine del Settecento, è quello di rimuovere le differenze sociali che creano svantaggio per arrivare a una effettiva parità fra uomini e donne.
Il femminismo più recente, dagli anni Sessanta in poi, in alcune delle sue correnti, ha sovrapposto a questo compito storico tutta una serie di elaborazioni culturali, politiche e filosofiche che vanno oltre il bersaglio, ma non saprei dire dove esattamente vanno.
Ad esempio, c’è una diffusa teorizzazione che vede nel potere femminile un potere d’amore e di pace, mentre quello maschile sarebbe di competizione e di guerra; le donne sarebbero più empatiche e quindi più collaborative. E così via. Alcuni di questi tratti del “femminile” hanno un fondamento biologico e psicologico, frutto di evoluzione legata soprattutto ai compiti materni. Altri tratti mi sembrano campati in aria, inventati da un femminismo ideologizzato che ha perso i contatti con il vero problema della parità sociale fra uomo e donna.
E in ogni caso anche il “maschile” ha tratti suoi propri, frutto di evoluzione e dei compiti biologici che la natura gli ha assegnato e sociali che ha svolto, bene o male, per migliaia e migliaia di anni.
In sostanza il femminismo dovrebbe abbandonare tante superfetazioni ideologiche fuorvianti o inutili e concentrarsi sul problema della parità. Che non riguarda solo i rapporti uomo e donna, ma anche quelli donna e donna. Quante donne sfruttano altre donne (e sfruttano anche gli uomini, quando hanno il potere di farlo)? I problemi, pertanto, hanno anche un aspetto trasversale che forse il femminismo che cura più certe teorizzazioni culturali e psicologiche, anziché quelle economiche e sociali, qualche volta perde di vista. Dallo sfruttamento si può uscire separati o insieme; se insieme, forse l’uscita sarà più facile e completa.
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2) “Universale” e “differenza”. Il termine universale, usato non come categoria logica (formale o informale che sia il discorso), mi sembra una fuga nella metafisica. Che cos’è l’«universale uomo»? Non credo che esista qualcosa di simile. E l’espressione «uomo universale» ha un senso sinonimico con «uomo polivalente», capace di svolgere ogni compito e adattarsi a ogni condizione.
L’uomo è una specie vivente, unica nel suo genere (homo sapiens, famiglia degli ominidi, ordine dei primati), che ha un sistema di riproduzione sessuato e quindi gli individui appartenenti alla specie si differenziano in maschi e femmine. Come in ogni altra specie animale, la differenza sessuale comporta differenza di compiti nel ciclo della riproduzione e, per gli animali che vivono in gruppi e comunità sociali, anche differenze di rango sociale. L’evoluzione culturale ha diminuito di molto le differenze sociali derivate dalle differenze di sesso, ma non le ha ancora eliminate. E probabilmente non saranno mai del tutto eliminabili finché, almeno, la riproduzione avverrà esclusivamente o prevalentemente per via naturale e non tramite tecnologie riproduttive che diminuiscono o annullano l’intervento sessuale umano.
L’organizzazione sociale e culturale può però eliminare gli svantaggi collegati alle differenze, ad esempio può fare in modo che per una donna non sia più, professionalmente, penalizzante avere un figlio. Può farlo sia riducendo al minimo gli svantaggi, sia equilibrando gli svantaggi con il riconoscimento di vantaggi in altri aspetti (con maggiore protezione economica e giuridica e con eventuali forme premiali).
Ma fin qui siamo nel campo delle politiche sociali. Ma a volte mi sembra che il femminismo (o, meglio, e sia detto per sempre, qualche corrente del femminismo) faccia dei generi delle categorie metafisiche, connotate non solo da differenze insuperabili ma anche da qualità che differenziano più del legittimo i generi maschio e femmina. Insomma, non c’è un «universale uomo» ma ci sarebbero un «universale donna» e un «universale maschio». Tutti universali inventati e illegittimi e non fondati né sulla biologia né sulla sociologia ma su una filosofia speculativa che mena il can per l’aia.
Quei birbaccioni dei situazionisti degli anni Sessanta e primi dei Settanta criticavano la divisione fra maschi e femmine e sostenevano che i sessi non sono due ma dodici. Non ricordo più com’era composta la lista per arrivare a 12. Una volta che ho provato a contare i diversi comportamenti sessuali (non le varietà interne a ciascun comportamento, ma i comportamenti tanto diversi da essere individuabili e soprattutto irriducibili uno all’altro) ho superato non solo il numero di 12 ma anche quello di 50. Ma che vuol dire? Che esistono più di 50 generi sessuali? No di certo. Ma alla natura piace differenziare più di quanto si creda e distribuire i caratteri sessuali su ampie scale di variazioni.
Ma, a parte la vita privata che qui non ci interessa, sono poi tutti esseri viventi della specie homo sapiens che la natura ha reso adatti, o inadatti, alla riproduzione e adatti, o inadatti, a tanti altri compiti al di fuori della riproduzione. E la società ha organizzato in certe forme che possono, là dove sono sbagliate, essere cambiate.
Questo: il cambiamento e il modo e il senso del cambiamento mi sembra il nocciolo della questione, maschile e femminile.
E’ strabismo accostare senza mediazioni il presente (per quanto esteso a qualche secolo) a una pretesa, originaria, “naturalità” umana. Come con la frase “il ‘maschile’ ha tratti suoi propri, frutto di evoluzione e «dei compiti biologici che ‘la natura’ gli ha assegnato»”.
Altrettale strabismo nel collegare i compiti di cura e di allevamento riservati alle donne nelle società patriarcali consolidate, con una pretesa natura femminile. In realtà non sappiamo niente di come si sia venuta a costituire la società patriarcale, con le differenze di forza individuale, e di potere economico e politico tra i due sessi, che si sono fissate in millenni e che tali abbiamo ricevuto. Sappiamo solo che la incontriamo, la società patriarcale e la elaborazione antropologica e filosofica che vi si innesta, fin dalle origini della storia che ci appartiene, da Atene e Gerusalemme per usare la nota formula. Non così calma e definita la società patriarcale (Amazzoni, Medea, Giuditta) ma insomma è andata avanti così nella sostanza, fino quasi ai nostri giorni.
Si può allora partire da noi, dal presente. Per esempio ci sono nutrite riflessioni sull’identità tra madre e figlia, cui non corrisponde quella tra madre e figlio. Cui invece potrebbe corrispondere la maggiore cura che le madri dedicano ai figli maschi, anche perchè pare siano in generale fisicamente più deboli delle piccoline nate femmine. Che si può ricavare da questa identità madre-figlia? Ci sono volumi di riflessioni.
Faccio un’altra osservazione “l’espressione «uomo universale» ha un senso sinonimico con «uomo polivalente»”: ma su questa strada si può anche finire per incontrare le differenze, i numerosi gender (non i sessi). Che per le femministe radicali hanno lo scopo di cancellare la differenza sessuale femminile. Quindi anche le parole contano, tipo genitore 1 e 2, tipo “persona” che allatta.
Infine l’universale uomo e l’universale donna (che NON sono identificazioni contenutistiche) hanno prodotto una storia di crudeltà e di cancellazioni femminili di tutto rispetto: donna-natura, gerarchie religiose monosessuali, e ancora attuale assoluta prevalenza nei posti direttivi dei maschi (si pensi all’immagine di un bel comitato centrale cinese, per dire). Piano, quindi, a immaginare parità che ancora non esistono.
E’ da spiegare proprio come mai i maschi facciano di tutto per consolidare la questione femminile in recinti paritari. Sottovalutando il fatto che, se non è così, non è solo questione di avere pazienza e di fidare nel progresso delle idee di uguaglianza.
La differenza sessuale agisce, e quanto più a livello inconscio, tanto più produce pericoli e falsità.
Un bell’articolo su questioni paritarie sul Corriere dell’altroieri. https://27esimaora.corriere.it/20_agosto_10/donne-possono-rifondare-sanita-f2a3e790-d741-11ea-93a6-dcb5dd8eef08.shtml
@ Cristiana Fischer
Non riesco a seguire fino in fondo il tuo ragionamento perché, sinceramente, non lo capisco per intero. Non è una critica. O magari è una critica rivolta a me, alla mia insufficiente cultura e sensibilità maschile. Ma non posso oltrepassare i miei confini.
Cercherò solo di precisare alcuni punti.
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1) «per quanto esteso a qualche secolo». Non a qualche secolo, ma a milioni di anni. Gli studi di etologia ci dicono che certi comportamenti di base sono comuni a quasi tutti gli animali che vivono in gruppi sociali. Ci sono differenze naturali e differenze sociali collegate ai cicli della riproduzione e allevamento dei piccoli.
Non si tratta solo di patriarcato, ma anche di matriarcato. Anche i gruppi sociali dove vige il matriarcato mostrano differenze analoghe a quelle del patriarcato. Con ruoli invertiti, se vuoi.
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2) Pertanto, prima della «società patriarcale, con le differenze di forza individuale, e di potere economico e politico tra i due sessi, che si sono fissate in millenni e che tali abbiamo ricevuto», c’è una “società animale” dove la forza individuale e il ruolo sessuale sociale conta molto, ma non il potere economico e politico, perché si tratta di società pre-politiche e nelle quali l’economia si riduce alla ricerca del cibo e alla sua consumazione, secondo un ordine sociale già presente in animali lontanissimi dall’uomo. Addirittura, anche in gruppi sociali di animali vegetariani dove non si pone la collaborazione ai fini della caccia e della predazione, si riscontrano differenze di rango sociale e una “divisione dei compiti”. Si guardi, ad esempio, all’organizzazione sociale delle mandrie di cavalli selvatici.
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3) La specie umana, con gli strumenti dell’evoluzione culturale, ha modificato di molto i comportamenti biologici di base, ma, almeno sino ad oggi, non è riuscita a cancellarli del tutto, né credo che sia possibile farlo, né utile. Ripeto: non è una difesa del “patriarcato”, ma una costatazione che vale anche per il “matriarcato”. Sul matriarcato sappiamo poco, e non sappiamo nemmeno in che misura sono esistite esperienze reali o solo leggendarie. Ma quel che è certo, e le narrazioni sulle “amazzoni” ce lo ripetono, è che non si trattava di una società paritaria, ma solo di una società in cui erano le donne ad avere più potere. A ruoli ribaltati, si potrebbe ripetere lo stesso discorso. E magari, se oggi avessimo alle spalle migliaia di anni di matriarcato, sarebbero i maschi a elaborare una cultura (e dottrina) identica a quella elaborata dalle femministe. Il che dimostrerebbe comunque l’esistenza di differenze e di ruoli.
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4) Sul resto non riesco più a capirti. La «identità tra madre e figlia, cui non corrisponde quella tra madre e figlio» non conferma forse ciò che ho sostenuto? Cioè una differenza biologica, psicologica e culturale di fondo di cui non si vede (io non vedo) né la possibilità né l’utilità di uscirne. Al di là, ovviamente, della parità sociale per tutto ciò che può essere oggetto del diritto positivo. Per ciò che invece è di competenza della psicologia del profondo, non credo alla possibilità di parità né, ripeto, alla sua utilità. Come non credo alla possibilità di parità fra gli individui, maschi o femmina che siano. Ogni individui è diverso. Le diversità si possono raggruppare in tipologie con linee di confine più o meno definite. Quella fra maschio e femmina è una delle più definite, anche se ciò non toglie che ci siano molte sfumature e oscillazioni.
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5) «per le femministe radicali hanno lo scopo di cancellare la differenza sessuale femminile. Quindi anche le parole contano, tipo genitore 1 e 2, tipo “persona” che allatta». Davvero queste parole contano? O non sono che un’ipocrita maschera simbolica? Si può cancellare «la differenza sessuale femminile» con una riforma del vocabolario? o in qualsiasi altro modo? Non è questa una dottrina ideologica, una falsa coscienza della realtà che nasce da una idealizzazione (metafisica) della «differenza sessuale femminile»? E quante donne sono poi d’accordo con questa dottrina? Io conosco diverse donne che hanno raggiunto un buon livello di emancipazione, di autonomia economica e culturale ecc. ma che non sono affatto disposte a sopprimere «la differenza sessuale femminile» e, se madri, a farsi chiamare “genitore 1″ o «genitore 2”. Sono invece disposte a lottare per la parità sociale, giuridica e culturale. Ma parità non vuole mai dire identità, perché, per fortuna, ogni individuo ha la propria identità.
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6) Gli altri esempi che fai («gerarchie religiose monosessuali, e ancora attuale assoluta prevalenza nei posti direttivi dei maschi (si pensi all’immagine di un bel comitato centrale cinese, per dire))» sono esempi di ancora insufficiente parità. E infatti non immagino, né ho immaginato né scritto di «parità che ancora non esistono». In alcuni campi la parità uomo-donna (o donna-uomo) è stata raggiunta (e in qualche caso con vantaggio delle donne sugli uomini), in molti altri siamo ancora lontani dal raggiungerla. Non mi pare però che il «femminismo radicale» si occupi molto di questa battaglia politica, giuridica e culturale, troppo spesso più attento alla stessa abolizione della differenza sessuale piuttosto che alla abolizione dei privilegi maschili. Ma che la differenza sessuale si possa abolire, non solo a livello di privilegi maschili ma anche a livello di vissuto culturale e psicologico (e nel subconscio), è ancora da dimostrare. E ripeto, anche se con l’andare dei secoli ci si potesse arrivare, sarebbe un passo avanti o non piuttosto un passo indietro per tutti? Ci sono romanzi distopici in cui la differenza sessuale non esiste più, ma ciò, in quei romanzi, non ha prodotto una società migliore ma una società da incubo.
Credo che la pretesa di abolire ogni differenza sessuale sia in linea con le pretese tecnologiche di abolire ogni residuo potere della natura sulla vita umana. Un incubo ecologico! Un incubo di ecologia della mente, prima ancora e più che di ecologia sociale. Una di quelle utopie che, nella misura in cui sono realizzate, creano disastri, e ciò che prima è un «ideale» utopico diventa un «ideale reale», dove il termine “reale” diventa oppositivo e negative del termine “ideale”.
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7) «E’ da spiegare proprio come mai i maschi facciano di tutto per consolidare la questione femminile in recinti paritari».
In proposito, mi pare che la domanda sia mal posta:
a) Tutte le questioni, di qualunque tipo, si situano entro “recinti”: si tratta di competenze, di contenuti, di metodi, di programmi. Mi pare ovvio.
b) Non è vero che i «maschi facciano di tutto per consolidare la questione femminile in recinti paritari». La “questione femminile”, all’interno dei partiti e movimenti politici, è stata quasi sempre trattata dalle stesse donne militanti di quei partiti e di quei movimenti, e tutto il femminismo, fino agli anni Sessanta del Novecento, si è mosso all’interno dei «recinti paritari». Sarebbe facile citare libri e libri, relazioni politiche e sindacali, firmati da donne, che lo dimostrano.
La verità storica mi pare che sia questa: uomini e donne, militanti di movimenti di emancipazione, hanno lottato insieme per la parità, sia pure con velocità diverse e gli uomini un po’ più indietro e qualche volta in posizione di freno più che di acceleratore. E solo a una minoranza dei movimenti femministi degli ultimi 50/60 anni ciò è apparso non solo insufficiente ma fuorviante, ancora troppo “maschilista”. L’obiettivo della parità è apparso inadeguato. Ma è davvero inadeguato? E ci sono davvero obiettivi più avanzati e realistici e migliorativi? La letteratura sul femminismo radicale, per quel poco che l’ho assaggiata, non mi convince. Mi pare anzi spesso indigeribile.
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8) «La differenza sessuale agisce, e quanto più a livello inconscio, tanto più produce pericoli e falsità». Siamo d’accordo sul fatto che agisce anche a livello inconscio e che produce miti e mitologie, schemi e stereotipi, in cui si mescolano anche pericoli e falsità. Ma non sono solo pericoli e falsità, sono anche e soprattutto archetipi identitari che hanno non secoli, ma milioni di anni alle spalle e strutture psichiche pre-politiche che non è possibile cambiare, ammesso che lo si possa fare e che sia utile farlo, in pochi decenni, e forse nemmeno in pochi secoli. Salvo andare incontro a effetti distruttivi degli equilibri della psiche e alla degradazione, non alla emancipazione, della qualità della vita.
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9) Infine, l’articolo del «Corriere» a cui rimandi. Mi pare proprio che confermi quello che io sostengo, a partire dalla frase di esergo della Montessori, marchigiana e pedagogista, due titoli che mi hanno indotto, già negli anni Sessanta, a leggere le sue opere, visto che io sono marchigiano e che ho preso una prima laurea in pedagogia e di pedagogia mi sono occupato e ho scritto per anni. La Montessori non era certo una femminista “radicale” nel senso odierno e non usciva dal “recinto” della lotta per la parità.
Ma l’articolo mi pare che sostenga due idee di fondo, entrambe diverse dalle dottrine del femminismo radicale.
a) La prima tesi è che la parità non è stata ancora raggiunta e che troppo spesso (e l’articolo parla del settore della sanità ma il discorso di può allargare) le donne continuano a essere discriminate e in condizioni inferiori, soprattutto al livello alto, dirigenziale, dove si prendono le decisioni.
b) La seconda tesi è che la lotta per la parità, se condotta secondo parametri organizzativi della società maschile, non è sufficiente né rende giustizia alle donne. Occorre che i parametri siano riconsiderati dal punto di vista femminile.
Ciò conferma l’esigenza di una distinzione per differenze sessuali o di genere, se vuoi. Leggo nell’articolo, fra l’altro: «Queste rivendicazioni per molto tempo hanno impedito loro di riflettere sull’equivoco della parità. È la disparità, cioè il valore aggiunto della differenza, in primis la competenza procreativa, che deve entrare come spazio vitale, eccentrico, per tutti, anche a livello normativo e organizzativo».
Giusto: quindi non parità nella “indifferenza” sessuale, ma parità nella “differenza”. Una parità che consideri la differenza e che sia organizzata in modo che la differenza venga valorizzata positivamente e non discriminata negativamente.
Questo mi pare in linea con la tradizione femminista delle lotte per la parità, ma non con il femminismo radicale dell’abolizione delle differenze sessuali.
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10) Dai tempi in cui l’anziano Pietro Verri, rimasto vedovo nel 1781, poteva andare, l’anno successivo, in un collegio per nobili fanciulle e scegliersi la nuova sposa, di 34 anni più giovane di lui, già arrivato ai 54 anni, ad oggi, la condizione della donna, nobile o semplice lavoratrice, è cambiata di molto e cambierà ancora di molto nei prossimi decenni. Ma la linea storica della parità sociale di diritti nella differenza sessuale continuerà, perché non vedo alternative realistiche e più utili.
Ai tempi di Pietro Verri, anche gli illuminista progressisti come lui e i suoi amici di battaglie culturali e politiche non riconoscevano alle donne alcun diritto, all’infuori dell’omaggio da madrigale e delle concessioni di buona educazione. La donna non aveva poteri e diritti patrimoniali che non le derivassero da un uomo, padre o marito o fratello; non aveva diritti sull’educazione dei figli e sulla direzione della famiglia, salvo che non gli venissero delegati dal marito. Cento anni dopo, alla fine del periodo risorgimentale, le donne che avevano lottato insieme agli uomini avevano ottenuto una serie di diritti sia sul piano patrimoniale sia su quello della gestione della famiglia e dell’educazione dei figli, ma si lamentavano, giustamente, che i loro diritti erano chiusi nell’ambito privato e familiare e non ne avevano nell’ambito pubblico. Infatti non godevano del diritto di voto né attivo né passivo e non potevano ottenere incarichi pubblici di nessun tipo, nemmeno una cattedra di liceo o di università e tanto meno un ruolo da sindaco o da deputato. Cento anni dopo ancora, negli anni del secondo dopoguerra, hanno ottenuto la parità giuridica sia sul piano della gestione patrimoniale sia su quello politico e abbiamo avuto donne deputate e senatrici, donne imprenditrici che potevano acquistare e vendere e trattare direttamente i propri affari economici. Può sembrare poco o può sembrare molto, quel che è certo è che si tratta di un cammino storico che prosegue e che si approfondisce e allarga, ma che richiede i suoi tempi. E lo dimostrano non solo le resistenze maschili, ma anche il comportamento femminile. Che si tratti di un “vizio” ereditato dalla società maschilista o di una caratteristica intrinseca anche ai comportamenti femminili, sta di fatto che moltissime donne, salite ai vertici del potere, si comportano come gli uomini, con analoghe dinamiche conflittuali, competitive, di potere. E mi pare che sia una costatazione non di poco conto.
La lotta per la parità coinvolge le donne in molti modi e richiede anche a loro un impegno di trasformazione di modelli culturali che non sempre hanno una controparte nell’uomo, ma spesso l’hanno nelle donne stesse.
Il discorso delle femministe radicali mi pare troppo spesso una semplificazione e una fuga in avanti, verso l’astratto, che evita il concreto della complessità dei problemi.
Fra i quali c’è anche la lamentela, abbastanza diffusa da quel che leggo, di molte donne nei confronti dell’uomo che, a causa dei cambiamenti degli ultimi decenni, avrebbero perso certe qualità proprie del ruolo maschile che li rendeva più attraenti, sicuri e affidabili. Che anche le donne, forse nella maggioranza, siano troppo maschiliste e patriarcali?
Sei troppo analitico per la mia preferenza per uno stile aforistico nel ragionamento. In particolare non mi convincono le tue inferenze da dati particolari a quadri generalizzanti. Dalle abitudini di gruppi di animali (magari risultato di nostri studi proiettivi) a conclusioni sui rapporti tra i due sessi umani altrettanto validi per sempre… be’, sono passaggi troppo arditi.
Così come è ardito “sistematizzare” in modo analitico il tema “simbolico” parità versus differenza. Parità è cascame sociologico di uguaglianza (quella che sta con liberte’ e fraternite’), questa uguaglianza è poi civile e politica, non sociale. Differenza sessuale è biologica e di rilievo ontologico. Fonte originaria di manifestazioni di differenza: ora, nella cultura contemporanea, una sostanziosa corrente tende a cancellare questa possibile fonte originaria, possibile solo in quanto realmente si concretizza nelle singole che la manifestano.
Siamo qui, si potrebbe dire che è una scommessa. Io scommetto che tutto quello che una donna fa, le donne fanno, è femminile. Non c’entra se è bello buono pessimo se somiglia se va contro le altre…
Capisci però che usare in questo campo le categorie formali di parità e uguaglianza non c’entra, sta su un altro piano.
Da qui in poi si ricomincia per me a rifare quegli stessi ragionamenti.
A proposito di femminismo. Da “La collega bionda” ( che inserirò in “Prof Samizdat” a cui sto lavorando) un breve stralcio:
“Insomma il lavoro d’insegnante – anche nella scuola scombussolata dalle incoerenze burocratiche e singhiozzante per occupazioni, manifestazioni, litigate, intrighi, stupidità e arroganze – le piaceva. A scuola ci stava proprio volentieri. E, tutto sommato, era convinta di essere utile almeno ai ragazzi. In classe faceva quello che voleva lei. Gli leggeva Leopardi o Pirandello o Pavese. Non perché rappresentassero un certo tipo di cultura modello. Ma semplicemente perché a lei erano piaciuti. Intendiamoci. C’era il piacere dell’adesione emotiva e non del tutto ragionabile. Ma c’era anche quello della critica. Pavese l’aveva attirata; ma di più le piaceva criticarlo, per quella sua catafratta difficoltà di accostare gli altri e soprattutto di amare le donne, come se esse fossero tutte nuvole di tempesta, inafferrabili e ostili. Tra parentesi, non parlava così per femminismo. Be’, dati i tempi, quale donna non era un pizzico femminista? Lei lo era a modo suo. Non credeva nelle donne in generale. Solo alcune le parevano valide. La vaccinazione contro l’euforia femminista le veniva dall’aver vissuto a lungo in un pensionato femminile. Prima d’allora conosceva solo le mogli, una categoria pessima, che soffocava mariti e s’occupava ossessivamente di mobilio, cene, e arredamento. In quell’accogliente nido di 150 vivaci e indaffarate signorine bergamasche o meridionali, con parecchie laureate e insegnanti, s’era resa conto dell’ignoranza abissale sul loro essere donne. Nessun movimento femminista avrebbe potuto mai smuoverle. Dall’esterno, ribadiva, non avvengono i veri mutamenti. Bisognava muoversi secondo il respiro interno dei segmenti sociali in cui si capitava.”
Nella prima metà degli anni ’70 si condensarono delle opzioni ideologiche e culturali che poi ngli anni successivi si sarebbero determinate, approfondite, ma anche si sarebbero svuotate. Nel caso specifico della collega, come scrive Ennio Abate “Be’, dati i tempi, quale donna non era un pizzico femminista?”
Si potrebbe porre una analoga domanda “dati i tempi (nella scuola) quale insegnante non era un pizzico comunista?” Ma come oggi, cinquanta anni dopo, le prospettive comuniste si sono arricchite, definite, e ormai è stato possibile fare scelte precise al riguardo, così anche per il femminismo è meglio avere chiaro che il soggettivo e impreciso eclettismo della collega oggi sarebbe “precipitato” chimicamente in posizioni e in scelte definite. Se tuttavia si intende solo raccontare il clima, per molte e molti in vari campi appena approssimativo di quegli anni, allora va bene così.
se ho ben contato il mio sarebbe il 68° intervento e allora per ricominciare daccapo mi sono imposto come sempre del resto il rovesciamento…
non la distruzione del sapere mi importa e che talvolta è bene che giunga per rigenerare non so cosa o forse meglio so bene che cosa rigenererei…
comunque è più sostanziale soffermarsi e riflettere sul SAPERE DELLA DISTRUZIONE, che di per se ha una sua fascinazione che non ha il suo contrario.
il SAPERE DELLA DISTRUZIONE anticipa e fa da denotatore alla soppressione del superfluo… e poi…