di Marcella Corsi
Questa mattina uno zirlìo di uccelli piccoli mi ha quasi conciliato con la clausura. Finalmente non solo gracchiare di cornacchie, o gli stridori dei pappagalli verdi.
Questo virus costringe tutti al distanziamento sociale e alcuni a rischiare anche la vita per fare il loro lavoro.
Quell’estate eravamo al mare a Cecina. Uno stabilimento balneare militare, come al solito. Papà aveva da poco terminato il suo periodo di comando di reggimento e mostrava una bonaria autorevolezza da generale in sandali e calzoncini corti.
Io avevo appena dato l’esame di maturità con un dignitoso 52/60mi, deludendo un poco le aspettative dei miei, ma felice di essermi messa alla spalle quello spauracchio. Anche il vuoto di memoria all’orale di geometria stava cominciando a sbiadire. Era il 1969.
Nello stabilimento villeggiavano in prevalenza militari dell’esercito con mogli e figli. Lo staff era costituito da soldati e giovani ufficiali in ferma obbligatoria.
La socializzazione tra noi ragazzi era limitata e insieme incoraggiata dallo spazio definito per le attività giornaliere, che spesso anche la sera si mantenevano entro i confini dello stabilimento: tutti sullo stesso tratto di spiaggia, alla stessa mensa, sulla stessa rotonda a ballare. I contatti tra villeggianti e staff militare non erano incoraggiati.
Nonostante le minigonne imperassero nel resto del mondo che faceva caso alla moda, in casa nostra non erano gradite. Al mare tuttavia il problema non c’era. I sandali bassi correggevano le mie gambe troppo lunghe, e avevo trovato un buon modo di raccogliere i capelli. Lo specchio insomma mi sorrideva quasi ogni volta.
Del gruppo dei giovani erano Peppe e Nino quelli con cui mia sorella ed io passavamo più tempo. Erano fratelli. Nino era più simpatico, ma era soprattutto Peppe a dimostrare una rigida e poco loquace preferenza per la mia persona. Era più bello del fratello, che aveva una faccia buffa con due grossi incisivi da coniglio. A me però… sembrava solo bello. Con Peppe e Nino vivevamo la necessità di stare insieme tra giovani in un ambiente prevalentemente di adulti e bambini.
Nello stabilimento era attiva anche una guardia medica essenziale. Il giovane medico che vi svolgeva parte della ferma obbligatoria, per via della laurea, era stato insignito del grado di sottotenente. Compariva in spiaggia solo all’una quando, dopo l’ultimo bagno della mattina, me ne stavo sdraiata sull’asciugamano a rassicurare il corpo del suo peso. Mi piaceva prolungare il sole sulla pelle umida, e spesso i miei finivano per andare a pranzo diversi minuti prima di me.
Più di una volta lo osservai. Arrivava senza nemmeno un asciugamano, entrava in acqua, nuotava abbastanza a lungo verso il largo, usciva dall’acqua e se ne andava. Aveva un aspetto solido e rassicurante.
Ogni domenica la sera si ballava con musica dal vivo. Noi ragazze mettevamo qualche tempo in più per prepararci e abiti chiari che facevano risaltare l’abbronzatura. Sulla rotonda ballavano tutti. Anch’io, con molti. Quella prima domenica il dottore mi invitò una sola volta. Sembrava un po’ impacciato, e ballando si teneva abbastanza distante. Mi accorsi che i miei, pur ballando, osservavano. I suoi ventinove anni (mi ero informata) mi intimidivano un poco. Però notai gli occhi: verdi come l’acqua del mare. Non parlammo granché, ma il giorno dopo quando uscì dall’acqua dopo il solito bagno ci salutammo. Mi sembrò bello, in un modo così inconsapevole da colpire l’immaginazione.
Il pomeriggio sulla spiaggia finiva per gli adulti verso le sei o anche prima. Dopo c’erano il bar, il bridge, il tennis o i giornali. Noi ragazzi rimanevamo fino al tramonto. Ma non tutti, non sempre. Una volta che venni via dalla spiaggia prima del solito, passando davanti al campo da tennis, vidi papà giocare con… lui. Nonostante mio padre fosse stato un ottimo sportivo, l’età aveva il suo peso, ma il suo avversario non ne approfittava. Mi fermai volentieri a guardarli. Più tardi li vidi conversare.
La domenica seguente mi invitò di nuovo a ballare, più di una volta. A tratti avvertivo che il suo corpo mi parlava, in modo assai gradevole, come i suoi occhi. Ma sembrava non fidarsi molto delle sue possibilità di farsi ricordare.
I giorni seguenti mi sorpresi a paragonare la sua figura quasi massiccia con quella longilinea di Nino, i suoi capelli di necessità tagliati corti con quelli più lunghi di Peppe. Mi accorsi di preferire la sua morbidezza, la sua tranquillità.
Mi piaceva assaggiare il mare presto la mattina, anche prima della colazione. Scambiammo qualche parola in piedi sul bagnasciuga più di una volta.
Una mattina in spiaggia mi capitò di calpestare una vespa: per via di una certa mia tendenza alle allergie, la puntura provocò una reazione notevole.
Alla guardia medica mi accompagnò la mamma. Il dottore usò dell’ammoniaca per far diminuire il dolore. Poi, commentando la cosa con mia madre, cominciò a massaggiare piede, caviglia e polpaccio con un’energia che mi sembrò eccessiva, venata per di più di un certo divertito compiacimento. Me ne andai zoppicando abbastanza indispettita: mi ero sentita un po’ presa in giro, ma mi dispiaceva di più che il dolore non mi avesse permesso di godere di quel tocco. Ormai eravamo entrati in una confidenza impalpabile e divertita, che sembrava non potesse finire.
Non ci fu nessun’altra domenica. Il soggiorno terminò prima del tempo e tornammo a Roma. Non ebbi modo di salutarlo. Non ero pronta per un amore. E vagamente immaginavo che, se avesse voluto, avrebbe potuto ritrovarmi. Non lo rividi più.
Non ricordo come si chiamasse. Mi è tornato in mente stamattina. Oggi avrebbe l’età del più vecchio dei medici che hanno risposto al bando della Protezione civile per sostenere le terapie intensive nelle zone più colpite dal coronavirus.
“Ma hai quasi ottant’anni! Non ti sembra che altri dovrebbero…?
“Di anestesisti c’è bisogno. E mi sento di farlo”.
Mio marito ha sempre rispettato la mia vita professionale, dunque non ho mai sentito il bisogno di condizionare la sua. E poi ha un modo così semplice e naturale di affermare quello che desidera o intende fare che si finisce per essere disposti ad accogliere anche le scelte che sembrano inaccettabili. E’ stato sempre così. Fin da quando ci conoscemmo.
All’inizio mi intimidiva un poco il fatto che avesse dieci anni più di me. Era l’estate dopo la maturità. E avvertivo come un senso di liberazione, non solo dal peso dell’esame con l’ansia che ne era derivata. Nonostante i miei avessero deliberato che non era proprio il caso che mi iscrivessi all’accademia d’arte drammatica, e che nemmeno architettura o legge potevano convenire ad una donna, mi sentivo finalmente in pace con me stessa, con il mio corpo e con i desideri poco definiti relativi al futuro. C’erano quasi tre mesi prima di doversi iscrivere all’università e confidavo che bastassero.
Mio padre era ufficiale dell’esercito ed eravamo al mare in uno stabilimento balneare militare. Giovanni svolgeva lì la sua ferma obbligatoria da sottotenente di complemento. Laureato in medicina, gestiva l’infermeria, che era aperta quasi sempre anche se raramente aveva motivo di essere usata.
Nessuno dei coetanei con cui si faceva gruppo nello stabilimento mi attraeva in particolare, sebbene con uno o due di loro si fosse creata una certa consuetudine fin dai primi giorni. Né tra le ragazze avevo trovato qualcuna con cui mi piacesse trascorrere del tempo.
Quel giovane medico cominciò dunque ad attirare la mia attenzione. Mi piaceva scendere in spiaggia quando pochi lo facevano o rimanervi quando quasi tutti se ne andavano. Così lo vedevo arrivare ogni giorno verso l’ora di pranzo, fare il bagno e andar via senza nemmeno asciugarsi.
A mensa mangiava al tavolo riservato ai militari di leva. Per il resto del giorno teneva aperta l’infermeria. Se ci passavo davanti lo vedevo leggere, o parlare con qualcuno.
La domenica veniva un’orchestrina e si ballava. Invitò anche me quella sera, un solo ballo però. Sembrava un po’ impacciato nella camicia bianca con le maniche lunghe rimboccate. Ballando mi guardava senza quasi parlare. Non me ne resi conto subito ma fu quella sua riservatezza tranquilla a conquistarmi. E i suoi occhi verde-mare.
Quando il giorno dopo lo rividi in spiaggia notai la naturalezza della sua camminata, l’essenzialità dei gesti, la figura solida e all’apparenza serena.
Mi si allargò il cuore quando qualche giorno più tardi lo trovai a giocare a tennis con mio padre, e diverse volte a conversare con lui nei giorni che seguirono. E con mia madre. Pensai che potevo fidarmi di lui.
Così quando la domenica successiva mi invitò più volte a ballare ero già disposta ad incoraggiare la sua riservatezza, che continuava nonostante la vicinanza dei corpi. Non sembrava timidezza, forse solo il piacere di aspettare. Cominciai a sospettare in me lo stesso piacere.
La mattina sul bagnasciuga silenzioso scambiammo le informazioni essenziali. Seppi che era di Trieste ma studiava a Bologna, doveva finire il perfezionamento, gli piaceva il blues. Sulla lirica medievale, che mi appassionava, sembrava disposto ad ascoltare.
E quando per la puntura di una vespa dovetti zoppicare fino all’infermeria, il suo massaggio per far assorbire l’ammoniaca, nonostante il dolore e la presenza di mia madre, fu incredibilmente efficace: agì almeno in parte da calmante sul ponfo provocato dall’insetto e in profondità da eccitante su parecchi dei miei sentimenti. Aveva ragione a sorridere mentre prolungava quella manipolazione oltre ogni mia aspettativa.
Quando mio padre gli fece notare che ero molto più giovane di lui, si rivolse a mia madre e le chiese se si era pentita di aver sposato un uomo meno giovane di lei (c’erano dodici anni di differenza tra loro). “Naturalmente sarà vostra figlia a decidere quando”, aggiunse.
Insomma non è mai stato facile dirgli di no. Questa idea però di rispondere al bando della Protezione civile per sostenere le terapie intensive delle zone più colpite dal virus non mi fa dormire la notte. Tutte le motivazioni che potrei addurre per tentare di farlo desistere mi sembrano meschine. Ha amato il suo lavoro, e anche negli ultimi anni più di una volta ha dato una mano ai colleghi più giovani. Se è questo che gli serve per sentirsi ancora utile, che diritto ho di fargli pesare la mia preoccupazione?
Spero solo che, vedendo la data di nascita, non lo chiamino. Hanno risposto in tanti!
Invece l’hanno chiamato. Una telefonata e poche ore per fare le valige. Ora è all’ospedale civile di Brescia, anzi agli Spedali civili di Brescia. Lo chiamano così: sarà un istituto con una storia di più d’un centinaio di anni. Dovrebbero ristrutturare un’ala per i soli malati di covid 19, mi dice (e ogni volta che lo sento mi sembra un piccolo miracolo), ma per ora sono tutti lì, tutti insieme. Tanto per lui non cambia niente, penso. Ho paura. Quanto durerà tutto questo? Quanto reggerà Giovanni? Ieri sera non mi ha raccontato niente: era troppo stanco.
Questa mattina uno zirlìo di uccelli piccoli mi ha quasi conciliato con la clausura, e con la vita. Questo virus costringe tutti al distanziamento sociale e alcuni a rischiare la vita per fare il loro lavoro. Ma fa apprezzare anche le bellezze minime e risaltare quello che più conta.
Condivido la passione civile di mio marito e non ho mai messo in discussione le sue scelte. Non posso dunque permettermi di soffrire troppo per quella che probabilmente gli costerà la vita.
No, non voglio pensare così. Tornerà. Stremato nonostante la sua forza, sereno nonostante tutto. Non sono credente, se lo fossi pregherei per questo.
Marcella Corsi sempre all’altezza!
La sua sensibilità verso l’essere umano è ammirevole.
Ciao Marcella oltre che ad ammirarti come sempre, ti voglio anche tanto bene.
…ciao Marcella, anch’io ti saluto. contenta di risentirti…Spero che la molto critica situazione di tuo marito, medico in primissima linea contro il covid, si sia risolta bene. Bello il collegamento con i vostri primi incontri, per te in un’età quasi adolescenziale e nell’atmosfera delle vacanze estive, dopo un duro esame di maturità… un balzo all’indietro nei ricordi che a volte ci aiutano a sostenere la speranza verso il futuro