di Donato Salzarulo
In quale casa sono nato, all’alba del 28 maggio del quarantanove?… Mia madre, con la sua memoria di ferro, raccontava che, appena sposati, abitavano in una casetta della Valle presa in affitto. Non me l’ha mai indicata. Ma, adolescente, avevo capito all’incirca dov’era. La casa aveva una loggetta e, fonte sempre mia madre, appena il parto fu compiuto e io riempii di pianto la stanza, Concetta, la mia nonna paterna, si piazzò sulla loggia e rese orgogliosamente edotti i contadini, che imboccavano quel sabato e a quell’ora, con o senza i loro asini, la via del Càfaro per andare in campagna.
«È natëlufiglërëMëncuccë… è luprimënëpotë…». In realtà, il primo nipote non ero io, ma Rosetta, una cugina di Lacedonia, figlia di zia Antonietta, la seconda sorella di mio padre. Ma io ero il primo figlio del primo figlio e, per di più, maschio. In una società maschilista per mia nonna era come se la famiglia avesse fatto tombola…
Rosetta nacque sfortunata e morì sfortunata: una sclerosi a placche la consumò sui quarant’anni, ancora giovane. Aveva in testa un cespuglio di capelli ricci. Quando andai a salutarla a Chivasso per l’ultima volta, nella bara, sembrava essersi trasformato in un groviglio di spine.
La casa in cui nacqui è rimasta in piedi fino al terremoto del 1980. Venne distrutta negli anni successivi dai lavori previsti dal Piano di Recupero. Ora crescono selvatiche le piante infestanti e le erbe perenni.
La Valle è una zona del centro antico, sorge ai piedi del Castello e del suo loggiato. Al posto del nucleo di casupole, ora è stato realizzato un anfiteatro, dove d’estate si svolge qualche iniziativa. Agostino mi ha confessato che, durante la calda primavera della quarantena, opportunamente distanziati, andava con gli amici a bere della birra.
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La prima casa, che ricordo di aver abitato a Bisaccia, si trovava sulla salita di San Nicola. Anche questa aveva una loggetta. Nel centro storico molte case ne hanno una. Dire che ho “abitato” è forse esagerato. I miei l’avevano in affitto e gli unici ricordi, abbastanza viviche ne ho, sono legati alla nascita di mia sorella.
Era l’aprile del 1953. Mia madre aveva finito di contare i giorni e si apprestava a partorire per la terza volta. Della seconda, quella della nascita di mio fratello, non ricordo nulla. Avevo diciassette mesi.
In quel periodo i miei lavoravano a Tavoletta, una masseria dalle parti di Cerignola, non molto lontana dall’Ofanto e dal santuario della Madonna di Ripalta. Mio padre faceva il massaro, pascolava ed accudiva una trentina di mucche; mia madre coltivava un po’ di terra e accudiva noi tutti. In realtà, quindi, abitavamo in campagna e io giocavo sull’aia con mio fratello e un altro bambino.
Dovendo sgravarsi, Domenico accompagnò Michela – così si chiamavano i miei genitori – alla stazione di Cerignola con uno sciaraballo. Da lì, dando la mano a mio fratello e al seguito della mamma, salimmo su una littorina e poi su un pullman finché arrivammo in questa casa sulla salita di San Nicola. Del viaggio ricordo solo il pancione di mia madre e il suo fare da chioccia nei nostri confronti. Della casa ricordo i due vani: quello che fungeva da cucina-salotto all’entrata e quello della camera da letto. Poi ho in testa i vasi di piante grasse sul balconcino che s’affacciava sulla strada.
Dopo il nostro arrivo, trascorso qualche giorno, varie zie e alcune vicine si diedero da fare per aiutare mia madre a sgravarsi. Qualcuna andò a chiamare la “vammana”, cioè la levatrice. Per quanto tenuto lontano dall’andirivieni e dal concitato movimentonella casa della nonna in Via dei Fiori, dove mi avevano costretto a stazionare con mio fratello, ebbi la sensazione che qualcosa d’importante stesse accadendo. Infine, fummo ammessi nella camera da letto e demmo un’occhiata curiosa e veloce al nuovo essere…
Più nitido il ricordo successivo: quello di mamma col cuore scompensato probabilmente per la fatica del parto e sicuramente per il cattivo funzionamento della sua valvola mitralica, come ebbi modo di comprendere quasi vent’anni dopo. In quella casa con le piante grasse e dove durante la notte continuavo a sognare di rotolare lungo il dirupo che si vedeva sotto la finestra, in direzionedel monte Calvario e della fontana della Tufara, ci sono io bambino che piango disperatamente e che, quasi rimproverandole, a voce alta, domando alle donne: «Cosa avete fatto a mamma mia?… Cosa avete fatto?…».
Anche questa casa non c’è più. È stata abbattuta dal Piano di Recupero ed ora c’è una strada tutta asfaltata che consente alle macchine di arrivare in piazza Convento. La chiamano Tangenzialina. Minaccioso il dirupo è rimasto lì.
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Dopo quattro anni di lavoro nella masseria pugliese, nel 1956, i miei comprarono la casa di Via Vescovado Vecchio: un sottano al numero 12 e due vani soprani al numero 14. La casa aveva due porte e una scala di legno interna che consentiva d’accedere dal sottano, adibito a cucina, al soprano che fungeva da studio-salotto e da camera da letto. Dal 1956 al 1967 ho dormito, mangiato, giocato, studiato, sognato tra queste mura. Uscivo sulla strada, facevo due passi e mi trovavo in piazza del Carmine, dove c’erano ben due chiese: quella dei Morti e quella del Carmine che dava appunto il nome alla piazza. Lucia, la mia nonna materna, non si perdeva la prima messa e spesso si affacciava sulla porta di casa…
In piazza, se voltavo a destra e continuavo su corso Romuleo, andavo verso la salita delle Forge e il Castello; se giravo a sinistra, andavo verso la Piazza senz’altra precisazione. Per i bisaccesi il centro storico ha quattro piazze così nominate: “luchianë-la-chiesia” (piazza Duomo), “luCarminë” (piazza Carmine), “la chiazza” (la Piazza) – qualche volta si aggiungeva “la chiazza r’ lubusciardë” (piazza del Bugiardo, perché c’era un bar il cui proprietario aveva questo soprannome) – e, infine, “lucumentë” (piazza Convento).
Quando una trentina d’anni fa, ormai lontano da questa casa dal 1967, lessi la prima pagina introduttiva del saggio di Marc Bloch, «I re taumaturghi», mi alzai dalla sedia e per un po’ feci su e giù per la stanza. «Ecco perché la mia strada si chiama Via Vescovado Vecchio, perché un tempo dalle mie parti c’era il palazzo del Vescovo.»
Lessi e rilessi il brano di Marc Bloch, fin quasi a impararlo a memoria: «Il 27 aprile 1340, frate Francesco, dell’Ordine dei Predicatori, vescovo di Bisaccia nella provincia di Napoli, cappellano del re Roberto d’Angiò e in quel momento ambasciatore del re d’Inghilterra, Edoardo III, si presentò dinanzi al doge di Venezia.». Siccome stava per scoppiare la famosa guerra dei cent’anni tra Francia e Inghilterra, il vescovo di Bisaccia doveva convincere il doge a schierarsi dalla parte di Edoardo III. Fra gli argomenti utilizzati vi era quello dei re capaci di guarire che dà avvio all’indagine dello storico.
Ovviamente a me interessava l’esistenza a Bisaccia di un Vescovado, esistenza che ricerche successive mi permisero di confermare. Dalle mie parti per più di quattro secoli, dal 1100 circa al 1513, data della bolla con cui il pontefice Leone X accorpò la diocesi di Bisaccia a quella di Sant’Angelo dei Lombardi, c’era stata una sede vescovile.
Non so spiegare perché, ma questa notizia, oltre che lustro al paese, sembrava dare un certo lustro alla mia strada e alla casa in cui ho trascorso fanciullezza e adolescenza. Forse l’aureola storica compensava la materialità di una via priva di condutture d’acqua potabile fino a metà degli anni Settanta. Eravamo già a Cologno, quando l’avvocato Rago, che abitava in un palazzo a metà strada, si fece promotore di una richiesta, rivolta non so se al Sindaco o al responsabile dell’acquedotto pugliese, per estendere la tubatura dell’acqua dalla vicina piazza Carmine alla via. Gli risposero affermativamente, purché i diversi residenti si pagassero l’attacco. Cosa che i miei fecero. Da quel momento, quando d’estate tornavamo a Bisaccia per le ferie, non dovevamo andare più a riempire barili o secchi d’acqua al fontanile. Cosa che succedeva dal 1958. Prima ancora andavamo alla Fontana vicino al Macello.
Fu sempre negli anni Settanta che i miei ristrutturarono la casa per abbellirla e fornirla di servizi (scala interna, bagno, pavimento, ecc.) adeguati. Facile immaginarsi il loro dolore quando il paese venne colpito dal terremoto del novembre 1980. Un dolore tollerabile, tutto sommato, visto che la casa mostrava soltanto qualche lesione, facilmente riparabile, tant’è che, dopo il sisma, abbiamo trascorso tra quelle mura diverse altre estati. Nel paese, intanto, si discuteva della ricostruzione. Per mio padre non c’era nulla da ricostruire. Bisaccia non aveva subito crolli di case come a Sant’Angelo o a Conza. E neanche morti. Le vittime, infatti, erano state soltanto due.
Quanto alla frana, era storia vecchia. Il paese stava bene dove stava. Mio padre se ne infischiava delle analisi dei geologi dell’Università di Ancona o del gruppo interdisciplinare di Napoli. «Figlio mio, son tutte chiacchiere per giustificare la massa dei soldi su cui vogliono mettere le mani.».
Il dolore dei miei genitori si fece più intenso dal 1986. L’Amministrazione comunale incollò sulle porte il cartello INAGIBILE e la casa andava sgomberata, ma non se ne fece nulla per altri nove anni. Meno male. A mio padre, morto il 13 giugno del 1991, giorno di Sant’Antonio, patrono del paese, fu risparmiato lo scempio di vedere la casa abbattuta. All’evento non poté, invece, sottrarsi mia madre. A fine estate del 1995, con l’aiuto dei miei cugini, dovemmo sgomberarla. Letto, comodini, armadio, comò, tavoli, sedie, cristalliera, cassa, scaffale, tutto finì nel sottano di nonna Lucia. La casa fu abbattuta e la mamma, morta il 19 aprile 1999, non ebbe più il piacere di rimetterci i piedi dentro. Ne rientrammo in possesso nel 2005, dopo mille peripezie, andirivieni per le scale del Municipio e colloqui col Sindaco pro-tempore, gli uffici tecnici preposti e l’architetto incaricato.
Dieci anni per ristrutturare e rendere antisismica una casa che aveva già dato una buona prova della sua resistenza durante il terremoto…Roba da non crederci!… Alla fine una porta venne chiusa e trasformata in finestra, il bel portale scomparve, anche il balconcino tornò ad essere finestra, il sottano venne leggermente rialzato, la scala e il bagno vennero spostati e, conclusione finale, tutto ci apparve più stretto e meno bello di prima…
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Per ultimo, non posso non citare un’altra casa dove ho vissuto dall’ottobre 1955 a giugno 1956. Era la casa di zia Francesca, sorella di mio padre, e della nonna Concetta. Si trovava in Via dei Fiori. Posta quasi a pianterreno (si salivano soltanto due gradini), era composta di due vani: quello d’entrata-cucina e quello più interno con il lettone e il comò. Avevo compiuto sei anni, dovevo andare in prima elementare e, siccome alla masseria pugliese non c’era scuola, i miei decisero di affidarmi a nonna e zia, che furono ben contente di curarmi. La zia aveva allora 35 anni e risultava una vedova di guerra: zio Vito, un cugino di mia madre con cui s’era sposata civilmente prima di partire per la campagna di Russia, non essendo più tornato, fu considerato disperso. Così fui provvisoriamente “adottato” dalle due donne e curato come un figlio. Con loro imparai un sacco di cose ed ho vissuto dei momenti felici: quello della vendemmia, le celebrazioni del Natale e della Pasqua, la grande nevicata del Cinquantasei…
Quella casa, in cui la mattina all’alba udivo lo scalpiccio dei muli dei contadini che andavano in campagna, ora non è più tale: declassata a garage dal Piano di Recupero, è permanentemente chiusa e custodisce poche e inutilizzabili suppellettili appartenute alla zia.
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La ricostruzione post-terremoto è stata una ferita troppo grande per non continuare a parlarne. Tante volte, infatti, gira e rigira, la discussione ritorna a questo punto di partenza. Non c’è bisaccese con un barlume di onestà che non riconosca questa verità: non è stato il terremoto a distruggere questo paese ricco di storia, ma la sua ricostruzione. Progettata male e realizzata peggio.
Ogni tanto Gilberto Casarella si aggrega agli amici del bar Solazzo. È architetto. Si è laureato nell’anno accademico 1985-86. La sua tesi in urbanistica affrontava proprio questi problemi: «Analisi e prospettive d’intervento nell’area del “cratere”». Quando parla lo fa con cognizione di causa e riesce abbastanza a chiarire le idee ad uno come me che, pur essendo legato al paese, conserva, giocoforza, una certa distanza.
Incuriosito, un pomeriggio ho chiesto a Gilberto di prestarmi la sua tesi. È un lavoro ben fatto. Divide la materia in quattro parti: la prima ripercorre l’esperienza italiana, scegliendo come esempi emblematici i terremoti del Belice e del Friuli; la seconda delinea le caratteristiche generali della situazione socio-economica relativa ai 25 comuni oggetti di studio (Comunità Montana Alta Irpinia, parte dell’Alto Sele e del Terminio Cervialto); la terza tratta delle nuove iniziative artigianali e industriali previste dagli art. 21 e 32 della legge 219/81; la quarta ed ultima tratta della ricostruzione fisica degli abitati e analizza i Piani di Recupero adottati nei vari comuni. «Essi oltre a fornire degli elementi conoscitivi, descrittivi delle varie situazioni, sono stati visti nel rapporto abbandono/conservazione e valorizzazione, nelle possibilità operative innescate, nel ruolo giocato dall’ente locale.» (pag. 3)
La mia attenzione si focalizza sul Piano di Recupero del comune di Bisaccia. Il terremoto non è apparso disastroso, ma ha accelerato i fenomeni franosi. Il primo sopralluogo è affidato ai geologi dell’Università di Ancona. Nel loro documento scrivono: «il duplice risanamento, per la difesa dalle frane e dai terremoti, appare estremamente costoso e certamente antieconomico; da qui l’opportunità di trasferire il centro abitato in territorio più idoneo, ove le nuove costruzioni potranno essere realizzate secondo le moderne tecniche antisismiche» (pag. 65). Quindi: cari cittadini, salutate la Torre e la piazza, la Chiesa e il Convento, e trasferitevi altrove…
Una successiva “indagine geologico-tecnica e geognostica”,condotta dal prof. F. Ortolani, è meno drastica: qualcosa si può recuperare. Così nell’ottobre del 1981, confortata da questa relazione, l’Amministrazione comunale adotta un Piano di Recupero in cui circa il 50 per cento del patrimonio edilizio appare risanabile, portato a circa il 60 per cento con la successiva variante del 1983.I vani da demolire risultavano essere, in tutto, 540 e i nuclei familiari da delocalizzare circa 400. Essi non si trovavano nel nucleo più antico del centro storico, ma in quello più recente, costruito ai suoi margini.Al momento dell’adozione del Piano, la popolazione residente era di 4781 abitanti; quando Gilberto scrive la tesi, nel 1985, se ne contavano ufficialmente 4.761. Insomma, ragionando a tavolino, si poteva pensare che, almeno, un migliaio di persone sarebbe rimasto ad abitare in corso Romuleo o nelle zone più antiche del paese. Nulla da fare.
A quarant’anni di distanza, il risultato è sotto gli occhi di tutti: Bisaccia vecchia è morente, la stragrande maggioranza delle porte restano chiuse, gli abitanti si riducono ad una manciata di poche decine e girando per le sue strade e i suoi vicoli si può toccare con mano lo scempio che è stato compiuto.
I tipi di intervento previsti dal Piano di Recupero erano sei: restauro, risanamento conservativo, manutenzione ordinaria o straordinaria, ristrutturazione edilizia, creazione di spazi liberi.
Alcuni spazi liberi sono stati realizzati (ad esempio nella Valle, dove al posto delle case c’è ora l’anfiteatro; in Largo Campanile Vecchio dove hanno realizzato un parco giochi o qualcosa di simile), ma il patrimonio edilizio è diventato un mosaico in cui si trova di tutto: abitazioni restaurate ed altre lasciate così com’erano prima del terremoto, case ristrutturate e abbandonate, palazzi cadenti e altri che mostrano soltanto le loro strutture portanti e che quasi certamente non saranno mai completati. Ho in testa un esempio per tutti: il palazzo “rëlumierichicchë, cioè di Michele Cafazzo, tutt’altro che un “piccolo medico”, come suggerirebbe il soprannome.
Arco col palazzo Cafazzo Palazzo Capaldo in stato di abbandono
Figlio d’arte – suo padre, nel 1953, salvò con un salasso la vita di mia madre – , s’era trasferito a Siena dove era diventato primario in un ospedale. Durante l’estate tornava al paese e le sue figlie giocavano con le mie. L’ho incontrato spesso nel saliscendi delle scale municipali. Sgombrato il palazzo, non ha potuto più avere la gioia di riabitarlo. Cosa che non possono più fare nemmeno le figlie. E guaio su guaio non riescono forse neanche a venderlo. Chi lo comprerebbe? Chi ha soldi da buttare in un mercato edilizio in cui se costruisci una casa e vuoi venderla non riesci a recuperare neanche il costo dei materiali impiegati?… Bisaccia vecchia è un museo, un salotto estivo per affezionati.
Ieri, mentre Agostino mi faceva per l’ennesima volta il racconto di come è stato distrutto questo centro storico, è passato Nino, un amico geologo. Gli ha chiesto di riferirmi le parole usate dall’architetto Roberto Pane, quando l’Amministrazione comunale, col Piano di Recupero decise di demolire i 540 vani prima citati. S’intendeva con tale provvedimento alleggerire i “costoni” dell’antico abitato per prevenire movimenti franosi. «L’idea di alleggerire i costoni è come togliere qualche ciuffo di capelli alla testa di un gigante». Così avrebbe detto a significare l’inutilità dell’opera.
Il professor Pane,dopo il terremoto, fu in prima linea come promotore e presidente del Comitato interdisciplinare di coordinamento della ricostruzione. Inoltre, insieme a Piero Gazzola e Cesare Brandi, fu l’estensore della “Carta di Venezia” – pietra miliare per il restauro moderno.
A Bisaccia la sua azione, quale coordinatore del gruppo interdisciplinare dell’Università di Napoli, fu quella di impedire l’abbandono dell’intero paese, così come inizialmente prospettato dall’Istituto di geologia di Ancona. Forse proprio per questo fu successivamente estromesso dal gruppo interdisciplinare.
«Il fatto è che ricostruire case e casupole nei vecchi vicoli – sostiene Agostino – verificarne la proprietà e la residenza, valutarne il fabbisogno e procedere con lavori di taglio e rammendo, basato sul fabbisogno reale di chi in questo paese viveva e lavorava, era opera faticosa e richiedeva scelte politiche e civili rispettose del territorio e della sua storia, scelte anche difficili…Più facile delocalizzare, più facile costruire nuove stecche, realizzare progetti fotocopia, abitazioni standard di 45 o 72 metri quadri e invitare le famiglie a trasferirsi. Molti non l’hanno fatto a cuor leggero. Molti hanno continuato spesso a tornar nella vecchia abitazione…».
“Stecca” del paese nuovo Via centrale di Bisaccia nuova
Alla fine ha vinto la “modernità incivile” come la chiama Franco Arminio…
Nella sua tesi Gilberto quasi prefigura ciò che sarebbe successo. Lo fa ragionando sulle carenze evidenti degli atti amministrativi:
- Il Piano di Recupero è privo di norme di attuazione. Queste vengono adottate soltanto nell’ottobre del 1984 e lo fa il commissario prefettizio, perché Salverino De Vito, Sindaco di Bisaccia, è dimissionario. Nella tesi non c’è scritto. Questo politico, però, è uno dei responsabili principali di quanto è successo. Originario del paese, verrà rieletto Sindaco nelle elezioni successive e resterà in carica fino al 1995. Senatore della Repubblica dalla Quinta all’Undicesima legislatura, sarà Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno nel 1° e 2° governo Craxi e nel 6° governo Fanfani (da agosto 1983 a luglio 1987).
- Nelle norme di attuazione sono indicate le Unità Minime Progettuali (UMP) e le Unità Minime di Intervento (UMI), ma il laureando fa giustamente notare «l’incapacità dell’Amministrazione di saper coordinare i proprietari all’interno di una proprietà eccessivamente frammentata» (pag. 66-67). Risultato: «A più di cinque anni dal terremoto, nessun intervento di recupero è stato avviato. Per contro è partita la ricostruzione nelle campagne e nel Piano di Zona» (pag. 67).
Sullo spreco della ricostruzione nelle campagne, meglio stendere un velo pietoso. Sono state trasformate in ville per la gita di Pasquetta ruderi di proprietari che non conoscevano una zappa e un aratro e mai e poi mai avrebbero messo piede in un campo agricolo; quanto al Piano di Zona, invece, Gilberto osserva che «si è rigorosamente quantizzata la necessità di attrezzature pubbliche […], si è disposta la costruzione di ulteriori 530 vani nel P.E.E.P., si è quantizzato un P.R.G., su una previsione demografica al ’95 di 7.500 contro gli attuali 4.700 residenti.». Cioè, mentre per il Paese vecchio e per il centro storico, si temporeggiava, non si faceva nulla o quasi nulla, si favoriva la tendenza già in atto della popolazione bisaccese ad abbandonare sottani, soprani, loggette, prive di garage e posti macchina, per costruire, negli anni pre-terremoto, alla Cupa, lungo la Cavallerizza, sulla strada nazionale o ai Calli, negli anni post-terremoto, al Piano Regolatore.
L’architetto laureando giustamente scrive:
«Il centro antico di Bisaccia è interessato da un lento e continuo fenomeno di abbandono. Da tempo gli interessi edilizi dei bisaccesi convergono verso una località (Piano Regolatore) situata all’incirca a tre km dall’antico centro e separata da quest’ultimo da un netto taglio di frana. Questa località è totalmente squallida ed amorfa, e non ha neppure un nome, a meno che non si voglia considerare tale quello del Piano Regolatore. Essa è stata infra-strutturata e lottizzata in seguito al terremoto del 1930 ed è da allora che si sono innescati i richiamati fenomeni di abbandono.» (pag. 67).
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Edoardo, mio nipote, vive a Cologno come me. In questi giorni sta qui e dorme nella casa di Via Monticello acquistata dopo la morte dei miei genitori. Quella di via Vescovado è stata ereditata da mio fratello e mia sorella. Edoardo sta nel centro storico e gioca con Lorenzo che abita al Piano Regolatore. Il più delle volte viene lui giù, accompagnato da Rosanna, la madre, che è mia cugina; qualche volta mi capita di accompagnarlo su. In uno di questi giretti mi ha chiesto il perché ci sono due paesi. Ho girato attorno alla domanda e gli ho chiesto, a mia volta: «quale ti piace di più?…». Ci ha pensato un po’ su ed ha risposto: «Quello del Piano è più moderno…Quello del centro è più bello.». Ecco, i responsabili della ricostruzione bisaccese, non hanno saputo coniugare modernità e bellezza; questo capisce un ragazzo di tredici anni…Possibile che non l’abbia capito, quando era ancora vivo, Salverino De Vito? Possibile che non l’abbia capito Gerardo Delli Bove, uno dei più stretti collaboratori del Senatore e Ministro, che recentemente ha rivendicato di esserne stato lo “zerbino”. Ecco, testuali, le sue parole: «Nella mia ‘vita politica’ sono stato, per mia espressa volontà, lo “zerbino” di una sola persona e per me è stato un notevole onore esserlo; l’ho fatto con volontà e dedizione per una persona eccezionale come il Senatore De Vito, al quale sono grato per tutto quanto ha rappresentato per me e averlo fatto per un Uomo [sic!…Proprio così, con la maiuscola] del genere non ha prezzo: lo rifarei per un milione di volte!». Contento lui…
Non so se sono altrettanto contenti i 3.800 bisaccesi rimasti che, nella stragrande maggioranza, dormono al Piano e spesso tre volte al giorno per passeggiare scendono in Piazza Duomo o al Convento. Il paese sta morendo, è diventato un museo da visitare, ma gli abitanti non se la sentono di abbandonarlo. Il proprio cuore, la propria storia è qua: sotto la Torre, in questo Corso e tra questi vicoli. È questo “presepe” che andava reso moderno.
«In questo modo – scrive nella sua tesi Gilberto – i residenti del vecchio centro saranno il risultato di un’operazione affidata al caso. Di sicuro l’operazione contribuirà in modo cospicuo alla ulteriore frantumazione della già ridotta e smembrata comunità. Né del resto è stata avanzata l’ipotesi di una migliore distribuzione della proprietà fondiaria, di adeguamento delle abitazioni alle necessità della vita contemporanea, in modo da creare una valida alternativa alle nuove abitazioni.» (pag. 69)
La gestione fallimentare è tutta qui. O, almeno, una parte. Il fallimento è più ampio. È ormai scritto nei libri di storia.
Paolo Speranza, raccogliendo le testimonianze e i reportage dei più grandi scrittori e giornalisti italiani sul terremoto, raccolta che si può leggere in Rete, ha scritto: «Neppure agli osservatori più critici, tuttavia, riuscì allora di immaginare il livello di corruzione e di malgoverno, di sperperi e di scempi ambientali, perpetrati negli anni ’80 da politici del Sud e imprenditori del Nord, da costruttori d’assalto e tecnici rapaci.».
Su questo continua ad insistere Agostino: «Citano Rossi-Doria, ma non hanno mai capito nulla…Dimenticano di dire che l’illustre economista aveva sempre escluso trasferimenti di popolazione e prevedeva il recupero dei paesi con interventi capillari, molto precisi e rispondenti ai bisogni dei vari luoghi. Un conto sono le aree interne, un conto l’area metropolitana. Aveva suggerito, completamente inascoltato, che fossero varate per le due diverse aree, due leggi diverse di ricostruzione…La sostanza è che De Mita e De Vito per conservare i loro incarichi e l’equilibrio interno alla DC pagavano il loro prezzo alle varie correnti democristiane…Così Bisaccia è stata ricostruita non dai muratori locali o da imprese edilizie della zona, ma dalla Venturini, dalla Del Favero o dalla Mucafer, e tutto è stato progettato dalla Multiprojet…Insomma, i soldi dovevano arrivare anche al Nord…».
Agostino, Gilberto, Nino, Franco, Marino e tanti altri hanno realizzato, a partire dalla metà degli anni Ottanta e per quasi un decennio, “Controra”, una pubblicazione che affrontava questi problemi e sosteneva dei punti di vista alternativi giusti, ma inascoltati come quelli di Rossi-Doria. Peccato che i protagonisti non pensavano di fare un po’ “un’altra storia” di questo paese e non riescono a recuperarne tutti i numeri pubblicati. Potrebbero tornare utili fra pochi mesi, per riflettere sulle proprie ragioni e passioni a quarant’anni di distanza dal terremoto.
Un fatto è certo: la ricostruzione scellerata post-terremoto è un capitolo della storia d’Italia; essa non ha soltanto smembrato e danneggiato una comunità come quella bisaccese, ha fatto scomparire per decenni dal dibattito pubblico nazionale le questioni meridionali, ha favorito lo sviluppo della Lega Nord, ha accelerato la crisi della prima Repubblica.
Discuterne è quasi necessario in un momento in cui sono in arrivo notevoli risorse dall’Europa e la Regione Campania non brilla certo per sensati progetti d’investimento, dal momento che ha dato il via libera a un nuovo polo scolastico a Bisaccia, pur avendo questo mio amato paese niente meno che quattro edifici scolastici, ritenuti tutti “inagibili, in stato di pericolo…”, anche se due di essi sono stati costruiti dopo il 1984 e sono, per definizione, antisismici.
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Stamattina, mentre tornavo dal mio acquisto dei giornali, guardavo sulle Scalelle la fila di case non ricostruite. Ne stavo fotografando una col cellulare. Mi si è avvicinato un signore: «Che vergogna!… Questo paese era un gioiello e lo stanno lasciando morire così…».
Non conosco questo signore. Forse è un visitatore estivo, qualcuno scappato via dall’afa di Napoli o di Foggia, un osservatore esterno, un uomo disinteressato e, proprio per questo forse, appassionato dalla bellezza dei luoghi, del profilo di una casa che si sta trasformando in rudere.
Non ho avuto nulla da opporgli.
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Michele Panno in un libretto di poesie, raccolte l’anno scorso per celebrare i suoi 80 anni, scrive:
«In questi anni bui, dalle nostre parti sono transitati solo uomini rapaci, armati di patetiche inosservanze che, rispolverando vecchi riti, sono riusciti a raschiare il fondo. Avrebbero potuto alimentare il territorio di piante fruttuose, ma si sono limitati ad un losco commercio di fiori recisi altrove. Hanno prosciugato l’intero umore e svuotato tutti questi borghi che i nostri padri, per millenni, avevano colmato di tanta vita.»
Anche in questo caso, non ho nulla da opporgli.
3 Agosto 2020
Gent. Donato Salzarulo, leggendo il suo resoconto storico su Bisaccia ho incontrato due nomi che, da veronese, mi sono familiari: Piero Gazzola e Cesare Brandi. In questo sito di Poliscritture, Ennio Abate lo ricorderà meglio di me, è stato pubblicato qualche intervento di Michele Nigro sull’opera del compianto poeta Arnaldo Ederle; attualmente il Nigro sta curando il carteggio fra il critico d’arte veronese Gian Luigi Verzellesi (col quale ho avuto ottimi rapporti) e lo storico e critico d’arte Cesare Brandi. Mi riservo a questo proposito di tenerla informata a pubblicazione avvenuta e a parlarne su questo sito. In quanto all’architetto Piero Gazzola, del quale ho conosciuto la figlia nella bella villa di famiglia di S. Ciriaco di Negrar (Vr), per la comune amicizia con la grande pittrice veronese Matilde Sartorari, Verona lo ricorda per la magistrale ricostruzione da lui effettuata di insigni monumenti storici danneggiati dalla guerra.
Il professor Pane, da lei nominato, aveva visto giusto, in quest’ottica, ma purtroppo il potere non è mai stato nelle mani dei migliori. Con l’occasione le porgo i miei più cordiali saluti.
“ In uno di questi giretti mi ha chiesto il perché ci sono due paesi. Ho girato attorno alla domanda e gli ho chiesto, a mia volta: «quale ti piace di più?…». Ci ha pensato un po’ su ed ha risposto: «Quello del Piano è più moderno…Quello del centro è più bello.». Ecco, i responsabili della ricostruzione bisaccese, non hanno saputo coniugare modernità e bellezza; questo capisce un ragazzo di tredici anni…Possibile che non l’abbia capito, quando era ancora vivo, Salverino De Vito? Possibile che non l’abbia capito Gerardo Delli Bove, uno dei più stretti collaboratori del Senatore e Ministro,” ( Donato)
Mi ha molto colpito questo passaggio per le implicazioni che ci vedo dietro. Ad esempio, non solo la contrapposizione paese vecchio-paese nuovo ma quella tra Sud e Nord Italia. E mi sento di dire una cosa che forse non sarà facilmente condivisa: coniugare modernità e bellezza mi pare un obiettivo astratto, una cosa impossibile, perché la modernità nasce sempre da una rottura (forse dolorosa e inevitabile) con il “prima” (e non solo sul piano estetico, della bellezza). In breve, a me pare che esista una bellezza della modernità (penso alla ricerca della Bauhaus) e una bellezza dell’antico (penso all’arte greca) o del medievale (cattedrali romaniche e gotiche) o del pre-industriale (nella cui dimensione rientrerebbe Bisaccia “vecchia”) inconciliabili tra loro. (O conciliabili soltanto in minima parte). Come esiste – non dimentichiamolo – una bruttezza (o lati brutti) della modernità come lati brutti dell’antichità etc. Perché? Perché dietro (o sotto) la bellezza e la bruttezza di un paese, di una città, di una petropoli ci sono diverse e contrapposte economie (ma anche culture e immaginari). Discorso complicatissimo. Per ora mi limito a questo spunto, che non giustifica – spero sia chiaro – la “ferita” inferta a quel paese e che Donato giustamente lamenta e denuncia.
Su alcuni riferimenti alla questione meridionale, ho trovato opportuno rispondere ad alcuni post di Delli Bove, Franco Arminio e Oscata Borgo rurale cui faccio rimando. Condividendo a pieno l’analisi descritta, di recente commentando i luoghi e i paesaggi irpini tra i quali ho riconosciuto, di Bisaccia via cafaro, l’ ho definita la via delle logge, la strada rimasta piu’ originale nella esistenza dei loggiati, non abbattuti dal terremoto ma, trasformati in fatiscenti restaurazione con marmi in sostituzione delle scale in pietra come la mia abitazione e dei miei fratelli che abbiamo ereditato da mio babbo. Non voglio scendere in espressioni sconvolgenti in materia ricostruttiva sintetizzando in “HANNO FATTO CARNE DI Porco NORD E SUD” con la differenza che al sud il 40% dei miliardi arrivato nelle tasche dei professionisti, geometri, architetti, ingegneri, geologi ecc non e’ stato investito nel