di Rita Simonitto
Dopo ” Jamaica Rum” (qui) e “Straocio” (qui) questo è il terzo racconto del trittico che Rita Simonitto ha dedicato ai “disagi socio/familiari che si riflettono sui giovani”. [E. A.]
C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia.
La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”
“La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”.
Chi non ha mai sentito questa filastrocca da bambino! Pur sapendo che si sarebbe ripetuta all’infinito, pur tuttavia si continuava a stare lì, nell’attesa che forse qualche cosa sarebbe cambiato…
Era un’ottima lezione di vita che stava a significarci quanto spesso ripetiamo la stessa solfa, nella speranza che qualcosa possa suonare di diverso.
Forse era Federico a non averla mai udita: la sua non era certo una famiglia in cui si raccontavano le fiabe né tantomeno le filastrocche, ma invece come si faceva a guadagnare soldi in fretta e come gestirli oculatamente.
Suo padre, infatti, di gradino in gradino era diventato direttore di una grande banca portando avanti la tradizione di famiglia seguendo la linea paterna. In altre parole, era come se invece di essere nato sotto il classico cavolo, fosse nato direttamente in banca.
Sua madre, invece, dopo la Laurea in Scienze della Comunicazione, si era dedicata all’approfondimento delle materie economiche in particolar modo quelle legate al marketing.
Cosicché, quando Federico tornava a casa da scuola, quelle poche volte in cui riusciva a trovare i suoi due genitori assieme a tavola con lui (e lui si liberava dalla presenza invasiva della governante che si era messa in testa di fargli anche da educatrice), percepiva di essere caduto dalla padella alla brace.
Poiché i suoi, dopo i brevi momenti informativi su come lui andasse a scuola, se avesse o no la morosetta e altre quisquilie del genere, si lanciavano nelle loro discussioni di natura finanziaria: i loro toni di voce si alteravano e l’insostenibilità della situazione spesse volte lo faceva alzare dalla tavola, con sorpresa da parte dei suoi, stupiti che lui non fosse interessato a temi così vitali e importanti.
E così fu che Federico pensò che era meglio darsi all’ippica. Ma non come battuta bensì in modo serio.
Per quelle volte che aveva frequentato i maneggi e montato un cavallo, aveva capito che almeno con un cavallo ci poteva parlare!
E lo faceva, soprattutto con quello che montava più spesso, gli parlava, lo accarezzava e il cavallo alzava il muso, poi glielo strofinava addosso e con uno spruzzo dalle froge gli faceva intendere che aveva capito. E Federico si sentiva appagato.
La sua prima ragazza fu Rosalba, una sua coetanea, 16 anni tutti pepe e sale, che lo corteggiò fino a portarselo a casa consumandosi lì il primo rapporto sessuale di Federico che non sapeva se esserne entusiasta oppure no, a differenza di Rosalba che poco ci mancò facesse un comunicato stampa a beneficio delle sue amiche. Quella relazione durò quel tanto che doveva durare: finito il Ginnasio e con l’ingresso al Classico, di comune accordo si lasciarono ripromettendosi di continuare a vedersi, più o meno intimamente, quando ne capitava l’occasione e la voglia. Ma di voglia Federico ne aveva poca anche perché si era un po’ buttato a studiare quasi a scacciare quella sensazione di non appartenenza che sperimentava e che comunicava soltanto a Fulmine, il suo cavallo. Fulmine lo ascoltava, asseriva con la testa facendo ondeggiare qua e là la sua folta criniera fulva e, con una cavalcata libera, alla fine si concludeva quella anomala conversazione.
Gli istruttori del maneggio avevano intravisto che quel ragazzo era particolarmente dotato nel contatto con i cavalli, non soltanto con Fulmine ma anche con altri che cavalcava quando il suo beniamino era impegnato in qualche competizione.
Così gli proposero di frequentare un corso triennale per ottenere il brevetto per diventare istruttore di equitazione. Federico si senti onorato per quella proposta e inoltre ciò gli avrebbe permesso di continuare quella esperienza di contatto empatico che i cavalli danno quando ti fanno sentire un tutt’uno con loro, cavallo e cavaliere, e donandoti una ebbrezza adrenalinica senza pari. L’esperienza che lui aveva fatto con Fulmine, ad esempio, che capiva subito se Federico era di cattivo umore e allora raspava a terra passando da uno zoccolo ad un altro come a dimostrare il suo disaccordo, quella sensibilità emotiva che lui non trovava in casa pur essendo lì che lui se l’aspettava, rappresentò una spinta importante ad accettare quella proposta e decidere in tal senso. Si ponevano però due ordini di problemi: il primo, facilmente risolvibile, ovvero guadagnarsi la Maturità. Il secondo, affrontare i suoi genitori comunicando loro la sua opzione di vita.
Il primo step si risolse anche abbastanza brillantemente; la sua performance ebbe un buon riconoscimento con grande soddisfazione di tutti, parentado allargato compreso.
Il secondo, invece, quando Federico comunicò il suo intendimento a fare un corso per diventare istruttore di equitazione, scatenò nella sua famiglia una furia così devastante che lo lasciò interdetto. Ma lo riconfermò ancor più sulla positività della sua scelta, che sentiva sempre più necessaria. Da qualche parte almeno si sentiva capito.
Suo padre lo diseredò e la sua consorte si produsse in continue crisi isteriche ogni volta che Federico varcava l’uscio di casa.
Per sua fortuna, Federico aveva qualche cosa di suo, un piccolo appartamento e una entrata, anche se modesta, che gli erano arrivati dal lascito del nonno quando era passato a miglior vita.
E così uscì di casa.
Federica l’aveva conosciuta al maneggio e se ne invaghì non solo perché era una bella ragazza sportiva, anche se un po’ segaligna, ma perché immaginò che quella uguaglianza nel nome di battesimo implicasse anche, automaticamente, una identità di vedute. E, per quanto l’esperienza di Federico gli attestasse il contrario (la sua partner era volitiva e quando decideva una cosa quella doveva essere), lui non si rassegnava,continuando a pensare che prima o poi si sarebbero capiti e sarebbero vissuti d’amore e d’accordo. Nel frattempo lui aveva iniziato il suo corso trovando un altro cavallo (Fulmine molte volte era via per partecipare a delle gare), il quale, pur non avendo la stessa empatia con Federico del suo predecessore (o forse invece sì, sentendo in qualche modo che il suo cavaliere non gli si donava completamente), aveva stabilito un buon rapporto. Aram (così si chiamava il suo nuovo partner equino) comunque lo aveva accettato, e non gli nascondeva la sua gioia fin dal momento in cui lo vedeva arrivare da lontano, nitrendo a non finire e alzandosi sulle zampe posteriori come una specie di danza di benvenuto…
Lì al maneggio Federico aveva trovato il suo mondo e questo fatto gli permetteva di procedere con successo in quella esperienza formativa fino alla realizzazione del brevetto.
Federica, pur essendo una brava cavallerizza, ma lo faceva per diporto, non tollerava che il suo (quasi) fidanzato si immergesse così pienamente in quella sua passione. No, non che lui le stesse portando via tempo o attenzioni (fra l’altro anche lei, nel suo Corso di laurea in Odontoiatria, era particolarmente impegnata!) ma… non lo tollerava. Punto e basta.
Al suo corso di studi lei si coinvolse affettivamente con un docente. E poiché, a dirla tutta, la sua storia con Federico non la stava soddisfacendo sotto nessun profilo, decise di troncare adducendo a giustificazione che lo studio la prendeva tantissimo e non riusciva a gestire contemporaneamente altri impegni, soprattutto affettivi.
Federico ne fu turbato, ne parlò con Aram il quale lo guardò con i suoi grandi occhi, le pagliuzze dorate parevano vibrare nello sfondo dando loro quell’effetto di traslucidità che sembrava comunicare una piena partecipazione al problema.… Federico a sua volta si commosse, si asciugò gli occhi con la criniera del cavallo e poi si fecero una bella galoppata uscendo nella campagna adiacente al maneggio.
Così come accade nella vita che, nella sua imperscrutabilità, sembra, a volte con perfidia, metterci il bastone tra le ruote, ecco che poco tempo dopo che Federico aveva conseguito il suo brevetto e si apprestava a perseguire ulteriori perfezionamenti, suo padre ebbe un infarto.
Fu preso per tempo, operato, ma il decorso di riabilitazione fu impegnativo e implicò la necessità di una lunga degenza ospedaliera per tenere sotto monitoraggio l’andamento delle cure.
Federico ne fu turbato e preso dentro un vortice di sentimenti contraddittori. Certo che provava affetto per suo padre, però era come se quell’omone disteso su quel letto di Ospedale non lo riconoscesse più. Sì, fors’anche perché se lo ricordava un po’ più magro, ma il problema era che non sapeva che cosa dirgli. Gli sorrideva, e suo padre rispondeva al sorriso, gli diceva un laconico “Come va, oggi” e suo padre, altrettanto laconicamente, rispondeva “Oggi va un po’ meglio. Dov’è la mamma?”
“Papà, la mamma è fuori, adesso te la chiamo e ci diamo il cambio”.
Gli lanciava un bacio sulla punta delle dita, dopo avergli stretto la mano, ricambiato, e poi se ne andava. Il fatto era che non sapeva che cosa raccontare di sé, della sua vita, non poteva parlargli della sua quotidianità impegnata al maneggio!
Il genitore che lui ricordava era troppo lontano per poterlo richiamare e condividere insieme le memorie! Gli venne alla mente quando lui era bambino e suo padre lo faceva sedere sulle ginocchia e, caracollando con le gambe, gli cantava la canzoncina “Clo, clo… cloclo cavallo, la mamma vien dal ballo…”. Sì, c’era stato anche quel tempo lì, ma era durato pochissimo! E poi anche lì c’entravano i cavalli! E poi e poi… come andava avanti quella canzoncina? Non se lo ricordava.
Sua madre sì che la riconosceva. Era sempre lei, tale e quale con le sue arie di accusa per farlo sentire colpevole di tutto…
Quando faceva la sua quotidiana visita a suo padre, a volte trovava accanto al suo letto la Dott.ssa Giulia Tor … (forse il cognome era troppo esteso per poterci stare dentro il cartellino di riconoscimento),la quale teneva la mano del malato e gli faceva dei lunghi discorsi, sul tempo, su alcune cose che erano successe fuori e Federico vedeva come il genitore rispondesse con piacere a quelle minuzie di vita quotidiana, lui che aveva sempre preferito parlare dei massimi sistemi.
Un giorno Federico incontrò la Dott.ssa Giulia in corridoio, lei lo fermò, gli diede comunicazione che suo padre stava migliorando e che presto sarebbe stato dimesso. Avrebbe avuto comunque bisogno di un servizio infermieristico domiciliare e Federico le rispose che aveva sentito che sua madre si era già mossa in quella direzione.
“Bene, bene”, rispose la dottoressa e si lasciarono.
Un giorno si incrociarono casualmente al Bar interno dell’Ospedale, “Signor Sereni”, si sentì chiamare. La Dott.ssa Giulia gli fece un cenno e gli disse, “Venga, le offro un caffè”.
“Ma no – replicò lui arrossendo – Non sia mai detto. Tocca a me. Con tutto quello che ha fatto per mio padre, ho notato le attenzioni che gli ha dedicato. No, no. Tocca davvero a me. Mi sento in debito e non saprei come sdebitarmi!”.
Ridendo lei rispose “Allora mi offra una cena! Ma no, come non detto! Scherzavo”.
“No, no – replicò Federico -. la prendo in parola. Ha qualche locale di sua preferenza o scelgo io?”
“Ci sto. Scelga pure lei!”
E così, con quella incombenza sulle spalle, Federico cercò di riannodare i fili di quando, studente di Liceo, bazzicava con i suoi compagni in locali alla moda. E il fatto che il tutto potesse permetterselo facendolo mettere in conto a papà, oggi questo non era proponibile. Doveva ridimensionarsi nelle sue scelte.
Si orientò verso un locale non “stellato” ma che aveva fatto della modestia il suo ‘brand’. La cena fu soddisfacente, parlarono del più e del meno. Giulia era di piacevole eloquio e Federico scoprì, con sorpresa, che era in grado di gestire la conversazione meglio di quanto avesse immaginato.
Lei era divorziata, il fatto era accaduto quasi subito dopo il matrimonio, sembrava ci fosse stato un tradimento in mezzo, ma né lei disse di più e né Federico lo chiese.
Rimasero d’accordo di rivedersi e così fu che incominciarono a frequentarsi anche a seguito dell’idea, da parte di Giulia, di andare a trovare ‘quel signore così simpatico (il padre di Federico) e vedere come stava’.
A lui non sembrò una granché bella idea, ma lasciò fare. Come era accaduto in Ospedale, Giulia si prese tutta la scena e Federico si trovò nella posizione di comparsa che osserva la recita in cui anche la comparsa dovrebbe avere un posto, ma invece ciò non accade.
Al maneggio ne parlò con Agata, Aram era stato spostato in un’altra scuderia. Agata era una cavalla deliziosa, giocosa ma anche obbediente ai comandi. A volte Federico aveva l’impressione che Agata ridesse. E pure questa volta quando, mentre la strigliava e le raccontava la sua problematica familiare, e poi le chiese che cosa pensasse di tutto ciò, Agata alzò il muso, nitrì forte e sì, rise. Ne era certo. Aveva riso.
Già, pensò. Solidarietà femminile.
Prese avvio così una relazione che a Federico non piaceva ma vi si adattava lo stesso.
Giulia si era quasi istallata in quella grande casa, i genitori di lui (nel frattempo suo padre aveva incominciato ad alzarsi e piano piano a muoversi per casa) la invitavano spesso a pranzo. A tavola ridevano e scherzavano, sembrava essersi costituita una nuova famiglia dove era come se Giulia fosse la loro figlia e lui l’ospite che si trova lì per caso.
Aveva cercato di parlarne con Giulia ma lei gli rispondeva che erano tutte sue fisime perché era lui che non riusciva a condividere quei momenti piacevoli che là si stavano verificando. Lo accusava di essere una persona isolata, poco partecipativa… al che Federico non sapeva che cosa ribattere e quindi lasciava lì la conversazione e se ne andava.
Ma anche con Agata le cose non andavano meglio. Gli unici momenti di ‘contatto’ erano diventati quelli di ‘lavoro’, se così si potevano chiamare gli addestramenti con gli allievi di equitazione. E’ che non riusciva a trovare con quella cavalla quella adesione empatica che aveva trovato sia con Fulmine e sia con Aram.
Federico aveva incominciato ad innervosirsi per un nonnulla e questo aveva ripercussioni non soltanto con Giulia, con la quale era stato programmato un fidanzamento in pompa magna facendo gongolare di gioia i signori Sereni che già immaginavano la loro casa allietata da nascite, nascite, nascite.
Il problema era che si innervosiva anche con Agata la quale mostrava di non gradire le intemperanze del suo cavaliere. E un giorno gli rispose a ‘muso duro’, ma non metaforicamente bensì di fatto, dandogli una musata e buttandolo a terra. Fu un momento drammatico per tutti e due che non sapevano come uscire dalla situazione incresciosa in cui si erano venuti a trovare. Federico aprì lo stallo permettendo così ad Agata di uscire scalpitando nel prato e in tal modo sfogarsi.
Fu costretto però a parlarne con il suo compagno di squadra perché si poneva il problema di cambiare cavallo. Al momento, il rapporto con Agata era compromesso e doveva passare un po’ di acqua sotto i ponti.
Ma, nello stesso tempo, anche Federico doveva prendersi qualche giornata di riposo. Sarebbe stato meglio!
Per concordare il da farsi si trovarono ad un Bar vicino al maneggio e lì, prendendo un aperitivo e piluccando qualche cosa, Federico sentì il bisogno di aprirsi con il suo collega riassumendogli a grandi linee i motivi del suo nervosismo: si sentiva come trascinato con la corda al collo verso un fidanzamento che lui non aveva voglia di contrarre ma nello stesso tempo non sapeva come ribellarsi. Il suo ascoltatore non si azzardò a fare commenti di sorta anche se gli dispiaceva per la situazione incresciosa nella quale Federico stava annaspando. Lo stimava sia nel suo lavoro e sia come uomo, sempre rispettoso e attento alle esigenze degli altri. E poi era affascinato dal modo che aveva di trattare con i cavalli.
Eppure l’episodio con Agata segnalava che si era creata una incrinatura destinata più facilmente ad allargarsi che a chiudersi.
Incominciarono a trovarsi a quel Bar quasi quotidianamente e Federico, che era stato sempre morigerato nel bere, aveva scoperto che qualche bicchiere in più lo faceva stare meglio, si sentiva più facilitato nel parlare. Anche se ancora non era rientrato al lavoro e non si era confrontato con il nuovo cavallo con cui avrebbe dovuto iniziare a collaborare, percepiva un Federico che gli stava piacendo di più di quello di prima…
Giulia, tutta presa dai preparativi di quel fidanzamento ‘megagalattico’, non aveva fatto caso a quel cambiamento di umore del suo moroso, diventato loquace a volte anche a sproposito. Il signor Sereni senior sì se ne era accorto, ma ormai le cose erano in marcia e così dovevano marciare. Il suo motto era “quando fai una scelta, la devi portare avanti fino in fondo. Fino a che qualche prova contraria non intervenga”.
E di ‘prove contrarie’, nonostante tutto, il signor Sereni senior non ne vedeva all’orizzonte.
Il giorno del suo rientro in scuderia, Federico si sentiva un po’ agitato, non era il solito nervosismo, la solita irritazione bensì un pensiero che gli si arrotolava addosso e lui non riusciva a sganciarsi: “come sarebbe riuscito a parlare con quel nuovo cavallo?”. Così pensò che, se avesse bevuto un po’, le parole le avrebbe trovate, così come era successo in quell’ultimo periodo nel quale gli sembrava che quelle gli fluissero docili dalla bocca.
Si fece qualche bicchiere e si avvicinò all’animale: non capì dallo sguardo turbato di Furore che c’era qualche cosa che non andava e che forse era il caso di mantenere una distanza di sicurezza.
A differenza di Federico, Furore aveva annusato la paura che, nonostante le apparenze, pervadeva quell’uomo che avrebbe dovuto portare in groppa. Quando la vicinanza fu ad un palmo dalla briglia, con un nitrito disperato, Furore si alzò sulle zampe posteriori e si abbatté sul fantino.
Conegliano, 28.07.2020
…trovo questo trittico di racconti di Rita Simonitto un quadro desolante sulla crisi senza ritorno di molti giovani di oggi al passaggio nell’età adulta…Troppo condizionati da famiglie impositive, fin dall’infanzia, sotto vari profili sono come perseguitati da un “destino” negativo…In particolare mi colpisce la vicenda di Federico che era riuscito, conclusa la maturità, a dare una svolta alla sua vita, fuori dagli schemi familiari, e dimostrando coraggio e determinazione nel seguire una strada non tracciata ma soddisfacente per lui, dove riusciva a coniugare lavoro e presenze affettive…Purtroppo, e come davvero succede, non basta un unico atto di coraggio se non si persevera nella volontà di tagliare i ponti e costruirsi davvero un’ “altra” storia. Cosi’ viene di nuovo irretito nella vecchia realtà da cui era sfuggito…sensi di colpa, pesanti retaggi familiari mai recisi, una “scelta” non voluta e, infine, la caduta nell’alcol confermano la debolezza senza ritorno del giovane uomo, sino al tragico epilogo… I tre racconti ci dicono anche di una società che guarda solo alle apparenze di successo, quando poi i nodi vengono al pettine sono tragedie e i giovani restano le vittime piu’ esposte
Quella storia lì, del re sul sofà (spregevole, no? solo i fannulloni come i re ristanno sul sofà e ordinano alla serva -l’amante delle Mille e una notte- di raccontargli una storia, che la serva rimanda, e rimanda, e rimanda… ) ci fa imparare da bambini che le storie al re noi non le raccontiamo. Abbiamo altro da fare? Anche, ma soprattutto non siamo serve e servi compiacenti. Quindi: alleanza tra le nonne che raccontano, e i bambini, che sappiano bene che il re sta lì, e noi da un’altra parte. E “poche storie”!
Ma, la storia di oggi? I rapporti femminili di Federico sono ripetizione, come nella filastrocca. E’ il Re (c’era una volta…) di una storia che non avrà mai compimento.
Mancano nella memoria autocensurata di Federico i versi successivi della filastrocca, il terzo e il quarto gonfi di nutrimento “con le tettine piene/per darghele ai putei”. In realtà, come si scoprirà nella tragica fine, Federico diventa incapace di regolare fluidamente la sua vita emotiva, la fonte si è contratta, ridotta al contatto corporeo animale. Lo schema narrativo lineare è fatale, segue il cammino degli anni, ma ha già individuato il punto di rottura, la debolezza che ha prodotto il rifiuto (“putei non le vol, la mama ghele tol”). E invaliderà il futuro.
Gent. Rita Simonitto, ho letto con interesse il suo racconto. Nei suoi confronti voglio avere un atteggiamento discorsivo e non da critico (perciò ne parleremo davanti a una tazza di thè). Per troppi anni ho scritto recensioni, e voglio dismettere questo abito, almeno nel sito di poliscritture che è uno spazio aperto al libero confronto, e non condizionato dall’industria culturale. Ho sempre prestato più attenzione ai testi degli autori che non ai saggi critici, una volta che mi sono liberato dagli studi accademici, improntati prevalentemente verso la saggistica. Questo per dire che nel rapportarmi a una scrittura creativa non ho preconcetti, e che se c’è del buono ne sono partecipe.
Adesso possiamo cominciare la nostra conversazione (il thè lo versa lei?): l’argomento di carattere esistenziale che tratta ha un valore generale, un intento educativo, ed è una realtà nella quale mi sono imbattuto ripetutamente nella mia esperienza di vita e di insegnante, come osservatore, in modo anche più tragico (la droga al posto del vino). Se lo scopo è quello di sensibilizzare i genitori trovo che sia stato raggiunto. Potrebbe essere anche una pagina di analisi psicologica (a questo proposito devo dire che rispetto al precedente racconto ho riscontrato un linguaggio meno ‘saggistico’, che dal punto di vista letterario è tutto di guadagnato, quando si accompagna a un lessico espressivo ed incisivo). La trama del racconto è solida e conseguente, c’è una progressione abbastanza spontanea e logica; (a questo punto delle mie riflessioni sorseggio un po’ di thè e cerco di darle qualche modesto e personale parere).
Questo denso racconto, che ha un po’ del ‘canovaccio’, se sviluppato al suo interno potrebbe sfociare in un romanzo di un certo spessore. Nelle mani, ad esempio, di uno scrittore come Francis Scott Fitzgerald, che ha cornici ambientali vicine al suo racconto, questa trama diventerebbe un significativo romanzo (“…ma io non sono Pirandello!”. Già, ma bisogna avere l’audacia e l’accortezza di guardare agli esempi dei grandi scrittori…). I protagonisti del racconto, per come si rapportano fra di loro, avrebbero un sacco di cose da dirsi, guardandosi dritti negli occhi. Invece restano sempre in ombra, non vengono mai allo scoperto, specialmente le donne, mute, salvo qualche frase convenzionale. E’ attraverso il dialogo che si scandaglia l’animo dei protagonisti, fino a raschiare il fondo del barile, volendo (Dostoevskij docet). Ma non voglio caricarla di eccessive incombenze; diciamo più semplicemente che dovrebbe esserci un certo equilibrio fra il racconto e i dialoghi. Questo limite l’avevo ravvisato anche in ‘Straocio’. Inoltre, l’autore è un ‘deus ex machina’ e come tale dovrebbe restare nascosto. Una trama non è mai scoperta o troppo intenzionale, la narrazione si fa da sola, prende la mano allo scrittore e non viceversa (entro certi limiti, se il racconto è ‘a tesi’, come può essere nel suo caso, considerata la relazione fra l’incipit favolistico iniziale e l’epilogo). A tutto ciò concorrono dialoghi, riflessioni interiori, interventi dell’autore, descrizioni ambientali come elementi vivi della narrazione, e altro ancora. Di sicuro lo spazio di un racconto ‘soffre’ nel contenere tutti questi elementi, ma l’indirizzo deve essere questo. Soprattutto niente fretta di arrivare alla conclusione, la narrazione deve nascere e crescere dentro il racconto e morire di morte naturale. (Buono questo thè, ci voleva proprio!).
In ogni caso, non c’è niente fuori dalla nostra portata. Ci vuole tanta pazienza, vere motivazioni (che lei ha), e coraggio da vendere: “Qui si parrà la tua nobilitate”. Per adesso non aggiungo altro. Volendo rendere completa questa piacevole conversazione aspetto un suo commento (intanto finisco di bere il thè). Con simpatia e solidarietà.
Ma un racconto non è una narrazione, è altro: è il suo “meccanismo narrativo” -quanti ce ne sono!- significante in proprio.
La narrativa comprende racconti e romanzi, per favore…
La narrativa non è la narrazione, questa è “successione” nella scrittura, organizzata creativamente. La narrativa è una branca letteraria. Per mestiere io ho fatto narrazione per anni e anni. La narrativa si classifica in università.
@ Annamaria
Certamente abbiamo, come aspetto fenomenico, una società che, come dici tu, Annamaria, “guarda solo alle apparenze di successo”. Ma c’è a monte un altro problema ben più grosso, vale a dire l’incapacità affettiva da parte degli adulti nel saper gestire le vicissitudini emotive dei giovani: per cui o danno troppo oppure troppo poco. Le relazioni emotive rappresentano il sale della nostra esistenza e spesse volte, delusi da quelle, traiamo più soddisfazione nel rapportarci con i nostri amici a quattro zampe. Ma noi siamo esseri sociali, ragion per cui rabbrividisco di fronte all’espressione utilizzata in occasione delle misure anti Covid 19 in cui si parla di “distanziamento sociale”. Ma si tratta solo di una ‘bestemmia’ culturale in luogo della definizione più corretta di “distanziamento fisico” o invece (pur accantonando le carenze culturali che purtroppo oggi accompagnano buona parte delle nostre espressioni), non sta denunciando (quasi una specie di lapsus freudiano) una drammatica realtà: ovvero non siamo più essere sociali che, pur nella loro individualità, sono in grado di condividere il ‘noi’ sociale, bensì ‘branchi’ che si muovono spinti sulla scia delle tendenze del momento?
‘Branchi’ che hanno bisogno di un capo branco, oppure ‘gregge’ il cui pastore può essere anche indolente ma che ha i cani a far rigare dritte le pecore eventualmente ribelli?
Non voglio fare di ogni erba un fascio mettendo tutti i giovani e tutti gli adulti confusi nel mucchio. Volevo solo far notare le tendenze che, ad osservare bene, sono sotto gli occhi di tutti. A saper guardare. Ma abbiamo perso anche la capacità, oltre quella di ascolto, di saper guardare! Sinceramente sono stanca di sentir sempre dire, di fronte a qualsiasi evento drammatico: “era imprevedibile”, “non c’erano evidenze”, “chi lo avrebbe mai detto”! Ora è vero che non è nelle nostre competenze sapere il ‘come’, il ‘dove’ e il ‘quando’. Ma ciò che dovrebbe (purtroppo uso il condizionale) essere nelle nostre competenze è la capacità di assumerci le responsabilità e tenere conto dell’esperienza nostra o altrui e anche attingendo a quel grande serbatoio indiziario rappresentato dall’arte.
@ Cristiana
Purtroppo i “Re” ci sono sempre, incoronati istituzionalmente oppure dai nostri bisogni sia di qualcuno o di qualche cosa (ideologia, ad esempio) che dia seguito alle nostre emergenze. E da questa ‘proiezione’ poi rimaniamo intrappolati, dipendenti e crediamo che non sia da fare altro che rovesciare i rapporti di potere. Con il risultato che non possiamo mai essere liberi di mollare il controllo. E’quello che ci comunica anche la filastrocca della serva la quale, sì, tiene inchiodato il Re sul sofà ma nello stesso tempo è costretta a stare lì anche lei. O, a livello letterario più sublime, i racconti delle Mille e una notte, quando la bella e astuta Shahrazäd procrastina la sua uccisione tenendo impegnato il Re persiano Shahrivär con novelle che si agganciano all’infinito l’una all’altra. Sì, ha salva la vita, ma è condizionata, non è libera di fare altre scelte.
Quanto alla ripetizione del protagonista nella scelta delle donne (ovvero, nell’essere scelto dalle donne) potremmo notare una differenza fra le prime due che ‘agiscono’ soltanto, sembrano non avere alcun pensiero, e l’ultima, Giulia che invece mostra qualche diversità rispetto alle altre che prendono e mollano a loro piacere. Giulia tiene banco ma Federico intuisce che quella donna ‘ripete’ le modalità denigratorie che sua madre ha sempre avuto nei suoi confronti. E il giovane (forse non più giovane) ne prende paura. Però, dramma nel dramma, anche la sua cavalla Agata, dalla quale lui si aspetta comprensione non gli ‘corrisponde’! Anzi, gli “ride” davanti!
L’illusione di Federico di trovare nel rapporto con i cavalli quella piena corrispondenza emotiva che disperatamente aveva cercato in famiglia viene a crollare drammaticamente. L’alcool, con la sua ‘disponibilità’ ad essere sempre a portata di mano e l’ebbrezza che fa da cornice non ininfluente, sembra allora il valido sostituto. Ma la paura resta. Ed è ciò che non sfugge a Furore il quale non vuole abbattere Federico bensì la paura di cui lui è portatore.
@ franco casati
con altrettanta simpatia e stima.
Qui il discorso si fa un po’ più lungo e complesso sia perché tocca vari punti e sia perché offre vari spunti di riflessione. Ma intanto mi soffermo su uno in particolare il quale, toccandomi personalmente, fa sì che mi senta di parlarne.
Nel frattempo mi accomodo anche io, e sorseggio un po’ di the (davvero delizioso. Che cos’è? Di gelsomino?).
Il punto verte sulla “narrazione che si fa da sé”: “Una trama non è mai scoperta o troppo intenzionale, la narrazione si fa da sola, prende la mano allo scrittore e non viceversa (entro certi limiti, se il racconto è ‘a tesi’, come può essere nel suo caso, considerata la relazione fra l’incipit favolistico iniziale e l’epilogo).” Così lei scrive.
Niente di più vero e di doloroso.
L’incipit può venire da qualsiasi parte, viene non chiamato, solo che poi incomincia a volere un credito di cui io non so nulla e quindi cerco di soprassedere, solo che quello incalza e così il viaggio ha inizio. Quante volte in queste avventure di scrittura ho pensato ai versi di Antonio Machado: “Caminante, no hai camino, sino estelas en la mar. Caminante son tus huellas el camino y nada mas: caminante, no hai camino se hace camino al andar”.
E il senso via via prende strada con il procedere del racconto, ad esempio: “perché quel nome e non un altro? Che cosa ci può stare intorno? Ci possono essere suggestioni letterarie o storiche che possono intervenire a dare un contributo? Ci possono essere cortocircuiti fra quella storia puramente immaginaria (in quanto sta nella mia mente) e la realtà contingente?”.
E poi tutto questo va dosato, non si può dire tutto e subito anche perché… a volte, inopinatamente, è come se cambiasse scenario, cambia recita e si va da tutt’altra parte… E io, arrancando ma curiosa di sapere che piega prenderanno gli eventi, cerco di seguire la nuova messa in scena.
Anche per queste ragioni (ovviamente non le sole, senza dubbio anche perché scrivere non è la mia occupazione principale) l’equilibrio fra narrazione e dialoghi non sempre è possibile. E questo è ciò a cui assistiamo anche nel nostro quotidiano: persone (o, a dir meglio, maschere di persone) che continuano a raccontare, raccontare ma non c’è un dialogo.
Perché il dialogo presupporrebbe la compresenza dell’io e dell’altro e quando ciò non avviene c’è solo un ‘narrare solipsistico’.
(Ottimo questo the ma mancano i pasticcini! La prossima volta li porterò io!)
Quanto al deus ex machina, nelle rappresentazioni teatrali greche aveva una funzione molto importante, vale a dire sancire che quanto stava accadendo nello sviluppo di quegli eventi dipendeva unicamente da lui. Gli umani (ma anche gli eroi o altre divinità) erano solo strumenti nelle sue mani. Ciò che poi, abilmente, si trasformò, andando avanti nella Storia, nel “Deus vult” o, drammaticamente, nel “Gott mit uns”.
Ma gli antichi, che sottomessi erano ma non scemi, trovarono un escamotage: far parlare il coro, diventato a sua volta un personaggio che commentava – a volte a vantaggio dello spettatore – ma anche redarguiva i protagonisti quando tendevano a deviare dalle strade tracciate facendone vedere loro i rischi. Non era una promanazione del potere del Dio quanto un interprete a beneficio del pubblico. Un po’ quella che dovrebbe (dovrebbe!!!) essere la funzione dell’intellettuale. Ma lasciamo perdere.
Tornando ai testi, certo che sì, che corro il rischio di cadere nella deriva saggistica! Il problema è che oggi, a differenza di un tempo quando il lettore era curioso, desideroso di farsi le sue domande e, soprattutto, altre dinamiche socio-economiche accompagnavano la lettura che diventava fonte di apprendimento e di maturazione lenta, i tempi oggi sono strettissimi e si corre danzando sull’orlo del baratro. E non si può attendere (o, almeno io, alla mia non più verde età, non me lo posso permettere) e quindi ritengo che sia importante ‘mostrare’ (e non ‘dimostrare) ciò che succede e ciò che potrebbe succedere.
Al prossimo appuntamento!
Sua devota Rita S.
Gent. Rita Simonitto, ho preso atto del suo commento che completa la nostra amabile conversazione (davanti a una tazza di thè). Ho visto che lei ha preso per la tangente, ma non la contesto, perché si è firmata ‘sua devota’; sono io, invece, che mi devo scusare per essermi dimenticato dei pasticcini. Confermo l’appuntamento per il prossimo racconto, intanto segua i miei consigli, senza teorizzare troppo. Vedrà che in poco tempo farà concorrenza a Susanna Tamaro, che vive poco distante da lei, senza disturbare Pirandello; e, forse, potrà andare a bere il thè anche con Claudio Magris, all’Antico Caffè S. Marco. Intanto riceva un caro saluto da uno scrittore che abita nella città di Dante (che qui discusse la ‘Quaestio de aqua et terra’, ospite dei Della
Scala) e di Shakespeare che vi immortalò la sua Giulietta; e che per prima udì risuonare gli amorosi Carmi di Catullo. Dalla mia città le invio anche un detto popolare:
“Veronesi tuti mati, Vicentini magna gati, Padovani gran dotori, Venexiani gran signori”.
Senza dubbio può essere “secante” prendere per la “tangente”! Soprattutto quando diventa problematico (perché non ci si ricorda più l’enunciato di Euclide) definire l’area da questi segmenti circoscritta. Ma poi sarebbe così importante? Boh. Non lo so. Andiamo lisci!
Quanto ai modelli che mi propone, grazie, no.
Di Susanna Tamaro, in tutta sincerità, ho apprezzato molto il suo libro “Per voce sola” trovandolo innovativo sia nei contenuti che nello stile. Poi, e parlo da incompetente, non ho più trovato stimoli originali bensì un adagiarsi in un certo mainstream. Ma ovviamente, la mia voce non fa testo.
Per Claudio Magris, invece, che apprezzo nella interezza di pensatore, come scrittore non mi appassiona. Poi, è chiaro che un the non si nega a nessuno e men che meno se viene servito in quella meraviglia delle meraviglie che è l’Antico Caffè San Marco!
Per cui vorrei mutuare la battuta di Woody Allen il quale, a qualcuno che lo rimproverava di credersi Dio, rispose “Beh, bisogna pur avere un qualche modello a cui ispirarsi!”.
Quindi meglio Pirandello e Dostoevskij.
Comunque rinviamo ulteriori approfondimenti al prossimo rendez-vous non solo nell’attesa dell’ottimo the (con pasticcini, secchi, per favore!), ma anche perché mi sento stimolata dalle sue osservazioni, su cui si può anche non concordare ma che comunque aggiungono altri punti di vista.
Con affettuosa stima.
Rita S.
Cara Rita,
ho letto il tuo racconto “C’era una volta un Re…”. Come va lì a Conegliano?
Spero di avere tue notizie e anche di sentirci via telefono.
Ti ricordi Venezia, Castello 559…?
Un abbraccio,
Tiziana Pozzessere
Cara Tiziana, che piacere avere tue notizie! Ho pregato Ennio di trasmetterti il mio indirizzo mail così possiamo riprendere il nostro contatto.
Rita Simonitto