Ti guardavo anche allora, mentre ti sporcavi le guance di cioccolata, dopo che qualcuno ti offriva un gelato. Io non te l’offrivo mai. Prima di uscire di casa mi facevo dare qualche soldo, dentro di me ripetevo che ti avrei pagato il cornetto, ma quando ti vedevo saltellare con le tue gonnelline colorate e ridere, perdevo ogni coraggio. Sudavo per tutto il pomeriggio inseguendo un pallone, e poi ogni sera al ritorno mi davo dello stupido.
A pensarci bene io e te abbiamo iniziato a parlarci davvero solo al tempo delle superiori, in attesa del bus. Ero appoggiato ad un palo, una mattina, con gli Oasis a tutto volume dentro il walkman.
“Cosa ascolti?” tu mi chiedesti, e io sentì una vampata di fuoco esplodermi dentro mentre Gallagher continuava ad urlare la sua Wonderwall.
Un auricolare a testa, così cominciò la nostra amicizia. Tu ti presentasti, come se non ci fossimo mai visti prima di allora, come se la mia infanzia non fosse mai davvero esistita. Ma alla fine ciò che importava era sapere di aver iniziato qualcosa.
Per i primi mesi il nostro fu un rapporto con una fascia oraria ben definita; dalle sette e trenta alle sette e cinquanta, la durata del tragitto dalla fermata della corriera alla scuola. Tra un pezzo dei Soundgarden e una ballata di Bryan Adams, lanciavo timidamente qualche domanda, per provare a scoprire qualcosa di più su di te.
Ogni tanto tentavo di farmi qualche iniezione di autostima dicendomi, “Non può interessarle solo la mia musica, altrimenti si porterebbe il suo walkman e se ne starebbe da sola. Forse le piace parlare con me”. E del resto ne dovetti sudare di camicie per parlarti, per parlarti davvero. Per uscire fuori dal circolo vizioso degli argomenti del circuito “scuola – musica”.
Fu quando ci si trovava nella piazza del paese al pomeriggio, con gli altri ragazzi. Io parlavo poco, e forse ascoltavo anche meno. Ma ti guardavo, da tutte le angolazioni, quasi come se ti studiassi. Tu invece sembravi sempre interessata a tutto quello che veniva sputato fuori dalla bocca degli altri. Ci salutavamo quando si arrivava e quando si andava via, poco altro. Fino a quel pomeriggio di marzo.
Una pioggia feroce costringeva a ripararsi in casa. Ma qualcosa mi disse di prendere un ombrello e fare un giro ugualmente in piazza. Tu eri lì. Seduta su una panchina, da sola. Fui quasi colto dal panico, per un attimo pensai di tornare indietro. Ma quella era la mia occasione e non potevo gettarla via così.
Avevi voglia di parlare, di tante cose, e sono sincero, molte non le ricordo nemmeno più. Quello che importava era essere insieme, e vedere che tu avevi fiducia in me. O forse avevi semplicemente bisogno di sfogarti, ma andava bene anche così. Sai cosa successe quel giorno? Diventammo amici. Definitivamente.
In quel momento vidi la cosa come un trionfo. Solo il tempo mi fece aprire meglio gli occhi. Perché esserti amico non è stato semplice. Non è stato facile ascoltare le tue confidenze che, quasi sempre, non mi vedevano protagonista. Non è facile essere qualcosa che non si è. Debbo dirtelo; non sono mai stato un buon amico. Il vero amico è sempre disinteressato. Ma nel mio caso, non è mai andata così.
Potrei scrivere enciclopedie sulle immaginarie conversazioni che avvenivano tra noi due all’interno della mia testa. Dialoghi serrati in cui ti confessavo quello che ho sempre provato per te. La realtà è stata molto diversa.
Se avessi il potere, anche una sola volta, di tornare indietro nel tempo, sceglierei il venerdì di due settimane fa, quando m’imbattei in te, in sella sulla bicicletta sul ciglio di una strada di campagna, intenta a fissare il cielo. Eri pensierosa e assorta, forse triste, quasi come a sfiorare con la mente l’imminente futuro.
Io mi fermai a scambiare due chiacchiere, e tu rispondesti con stentati monosillabi. Se potessi tornare indietro a quel momento non direi niente di più di quello che dissi, o forse non direi
proprio niente. Ma ti bacerei. Come non sono mai stato capace di fare. E come non potrò mai più esserlo.
Mi alzo dalla sedia allentandomi la cravatta. La stanza è piena di gente che non alza lo sguardo da terra. Mi avvicino a te con passi lenti ed insicuri. Dicono che sei bella come sempre dentro ad un completo azzurro, preso per l’occasione. Dicono che l’incidente ha lasciato il tuo volto intatto, e che riposi con un sorriso. Ma io non voglio guardare, io voglio ricordarti appoggiata ad una staccionata con gli occhi verso l’orizzonte alla ricerca delle sfumature di un cielo all’imbrunire. Appoggio la mia mano sul letto in noce che ora ti abbraccia e penso che ci sono troppe cose che non ti dirò mai. Ed ingoiare un “ti amo” lasciato a marcire nella bocca per anni, lascia un brutto sapore.
Il pupazzo di neve
Ismail non aveva mai visto la neve. O perlomeno, non dal vivo. Certo, in televisione, di
film ambientati in paesaggi innevati ne aveva guardati. Era andato anche a cercare su internet video provenienti dalla Siberia, dalle Alpi, dai posti più disparati, dove di rado o frequentemente, potesse cadere un po’ di neve.
Nella sua zona, la neve, era più rara dell’oro. Nemmeno sua madre l’aveva mai vista. Suo padre diceva di sì, una volta, da piccolo. Ma suo padre era lo stesso che sosteneva di aver stretto la mano a Kennedy, e di essere stato avvistato da un osservatore del Benfica che si trovava in vacanza, mentre lui con i suoi amici giocavano con una palla fatta da pezze vecchie, in mezzo alla strada. Insomma suo padre ne raccontava parecchie, e quindi anche la storia sulla neve non pareva troppo attendibile.
Tanta gente invidiava il caldo tutto l’anno. Ma per Ismail, c’era poco da invidiare. Avere la maglietta attaccata alla pelle a qualsiasi ora del giorno, a motivo del sudore, non era il massimo. Certo, quando si metteva su youtube, e vedeva i ragazzini in Siberia che se ne andavano in giro bardati come dei pinguini imbottiti, pensava che una vita intera così forse non lo avrebbe attirato più di tanto. Ma una volta, almeno una volta nella vita vedere la neve nel cortile di casa sua, quello sarebbe stato bellissimo.
Si sarebbe tolto le scarpe per provare la sensazione di sentire quella roba morbida e bianca sotto i piedi. E poi, quanto è fredda la neve? Se l’era sempre chiesto. La neve è più fredda della frutta lavata nell’acqua del fiume? Quasi certamente sì. Più fredda del ghiaccio che teneva nel frigorifero? Chissà. Ma la neve era sicuramente più affascinante di un cubetto di ghiaccio da lasciare cadere nel bicchiere prima di bere.
Se mai fosse venuta la neve, Ismail dopo essersi tolto le scarpe, aveva bene in mente cosa fare. Ne avrebbe accumulato un bel mucchio, e poi avrebbe creato un pupazzo.
Nei cartoni animati tante volte aveva visto i bambini formare i pupazzi di neve, e poi mettergli una sciarpa, e una carota per fargli il naso e due bottoni al posto degli occhi. Lui la sciarpa non ce l’aveva, dato che quando di notte la temperatura minima non scende nemmeno sotto i venticinque gradi, con la sciarpa ci fai poco. Ma questo in fondo non era nemmeno un problema, dato che Ismail sapeva bene che la neve era solo un sogno, uno di quei bei sogni da fare immerso nel sonno. Perché era un ragazzino intelligente, e lo sapeva che la neve probabilmente non l’avrebbe mai vista in vita sua.
Un giorno però fu sua madre a svegliarlo, e non il solito odore dei piedi di suo fratello, che si divertiva ad agitare l’alluce davanti al suo naso per regalargli un gradito buongiorno. Per essere precisi, fu l’urlo della madre a svegliarlo.
Ismail spalancò gli occhi, diede un calcio al fratello che ancora dormiva, e poi si lanciò fuori dalla camera, spaventato dalla cosa. Trovò la madre sulla porta di casa, bianca in volto come se si fosse trovata davanti il nonno morto quindici anni prima. E invece no. Si era trovata di fronte al bianco. Al paesaggio ricoperto da uno spesso strato di neve. Ismail non riusciva nemmeno a parlare. La neve cadeva soffice, senza far nessun rumore. Si appoggiava morbida, sul terreno rosso della strada, sulla gente che camminava con lo sguardo al cielo chiedendosi cosa stesse succedendo, sugli animali che invece indifferenti continuavano a cercare nelle scodelle il loro cibo.
Dopo alcuni secondi, finalmente si mosse. Si levò le scarpe e corse fuori. Sua madre a quel punto continuò ad urlare, ma stavolta le sue grida erano rivolte al figlio.
“Torna qui, è pericoloso!” Figuriamoci… il sogno più grande di Ismail si era materializzato, e di certo non sarebbero stati due schiamazzi a fermarlo. Accorse anche il fratello, e in men che non si dica una furiosa battaglia a palle di neve si era già scatenata. Tutti ridevano felici in paese. Era un’allegria spontanea che aveva allontanato gli interrogativi sul perché di quello strano evento. Anche la madre di Ismail ora rideva. Scuoteva la testa bonaria mentre i figli si rotolavano su quel soffice mantello di zucchero gelato.
Ismail dopo un po’ rimase solo nel cortile. Il fratello preferì tornare in casa a fare colazione. Lui invece con pazienza e impegno restò fuori per attuare la sua opera. Il pupazzo di neve. “Nei cartoni animati sembrava più facile”, pensò. Il suo pupazzo assomigliava più che altro ad una piccola montagnola informe. Non era troppo soddisfatto del suo lavoro, ancora meno quando suo fratello si affacciò dalla porta per canzonarlo.
“Forse devo esercitarmi di più”, si disse. Ma la fame iniziava a farsi sentire. Per fare il pupazzo, Ismail non aveva mangiato nulla. Decise che avrebbe ripreso dopo.
In realtà dopo non fu più possibile. La madre di Ismail gli disse che doveva andare al mercato del paese vicino a prendere della verdura. Lui tentò timidamente di ribellarsi, avrebbe preferito continuare a giocare nella neve. Ma quando la madre decideva qualcosa, non c’era più nulla da fare.
Ritornato a casa, si sentiva stanco e decise di andare a riposare. Si coprì con un lenzuolo, la temperatura era piacevole. Non il caldo solito del posto, ma nemmeno il freddo. Si stava bene. Anche se, la neve iniziava a sciogliersi.
“Amico! Amico!” Ismail aprì un occhio. Strano, avrebbe giurato d’aver sentito una voce. “Amico!Presto vieni! Esci!” Allora c’era davvero qualcuno fuori che stava parlando!
Si alzò. In casa regnava il silenzio, dormivano tutti. Possibile che nessun altro avesse sentito?
Aprì la porta di casa. Non c’era nessuno. Rimase alcuni secondi immobile a guardare la notte fuori dalla porta. Aveva già voltato la schiena per ritornare al letto quando nuovamente sentì la voce: “Amico, ma non mi vedi? Sono proprio qui davanti a te!”. Ismail strinse gli occhi per vedere oltre il buio. Non c’era nessuno. Ma notò qualcosa muoversi sul volto del suo pupazzo di neve. Si avvicinò.
Lo fece a piccoli passi. Poi accostò il suo viso a quello deforme e cadente della sua creatura. “Sì sono proprio io!” Ismail balzò all’indietro, perdendo l’equilibrio e cadendo.
“Ahahah! Ma cosa fai? Non avrai mica paura?” Il ragazzo si rimise in piedi.
“Non è possibile, sto ancora sognando…”
“No che non stai sognando. Sei sveglio. E io ti sto parlando.”
“Tu… non puoi parlare!”
“E chi lo dice questo? Tu? Bhe… certo mi hai creato, e per questo te ne sono grato. Ma adesso non puoi rinnegarmi!”
Ismail non sapeva cosa dire. Stava parlando con un mucchietto d’acqua ghiacciata.
“Va bene, lo confesso. I pupazzi di neve solitamente non parlano. Devi però riconoscere che è piuttosto strano ed insolito anche che sia caduta la neve in questo posto, non è una cosa che accade spesso…”
“No, è una cosa che non accade mai.”
“Ecco, appunto, vedi… Però tu hai desiderato così tanto di vedere la neve in vita tua, e volevi così fortemente costruire un pupazzo con le tue mani che…ecco, l’amore ha volte fa miracoli.”
Ismail non riusciva a crederci. “Mi stai dicendo che tu parli grazie al mio amore?”
“Certo! La tua felicità e la tua gioia sono così potenti che non potevo rimanere insensibile. Se proprio posso farti un appunto… non è che sono proprio bellissimo. Ma c’è da valutare che è stata la tua prima creazione, e quindi bisogna essere comprensivi…”
Il ragazzino sentiva man mano crescere dentro un sentimento di irrefrenabile entusiasmo. “Fantastico! Sì è vero, ho sempre desiderato vedere la neve in vita mia per giocarci. Ma non immaginavo certo che sarebbe successo questo!”
“E invece amico mio eccomi qui. Anche se…” Il pupazzo si bloccò lasciando nell’aria un punto interrogativo.
“Cosa?” Ismail si fece serio.
“Carissimo, come puoi sentire anche tu la temperatura sta salendo. E probabilmente te ne sarai accorto anche tu, ma io sono già più basso rispetto a stamane, quando mi hai creato.”
Iniziò a capire dove voleva arrivare.
“Ti stai sciogliendo?”
“Sì amico mio, mi sto sciogliendo in fretta. Non passerà molto tempo e di me non resterà che una pozzetta d’acqua. Ecco perché ti ho chiamato, per ringraziarti. Volevo che tu sapessi com’è stato bello sentirsi così desiderati ed amati. Anche se vivrò un solo giorno, come le farfalle, ne è valsa la pena.”
Calò il silenzio sulla loro conversazione. La gioia del ragazzo si era tramutata in tristezza.
“E non c’è nulla che io possa fare per salvarti? Io ti voglio tenere con me, voglio parlarti ancora.”
Il pupazzo sospirò. “Ragazzo mio, temo proprio che tu non possa fare niente. Solo l’era glaciale potrebbe salvarmi, me ne andrò a breve. Sono felice d’averti conosciuto.”
Gli occhi di Ismail si riempirono di lacrime. “Resterò qui con te, fino alla fine.”
“No ragazzo, non rendiamo tutto così deprimente. In fondo è pur sempre un miracolo, dobbiamo festeggiare ed essere felici”. Il mucchietto di neve parlante ebbe un fremito.
“Sai cosa faremo? Mangeremo un bel gelato!”
“Un gelato?” rispose il giovane.
“Sì esatto. Va dentro casa e prendi qualcosa che ti piace. Prendi un frutto, una banana magari. Poi vieni qui, prendi la neve con cui hai formato la mia testa e mettila su un piattino. Aggiungi il frutto e mangiami.”
“Mangiarti?”, obbiettò Ismail. Non gli sembrò una grande idea.
“Esatto, sarò un gelato buonissimo vedrai. Vedi amico mio, io comunque fra pochi minuti mi
scioglierò. Se me ne devo andare, allora permettimi di regalarti un gelato. Così mi porterai con te, e per me sarà meno doloroso scomparire.”
La voce del pupazzo si era indebolita. Forse era l’effetto del calore che lo stava squagliando, ma Ismail immaginò che fosse la commozione che aveva incrinato il suono di quelle parole.
Entrò silenziosamente in casa per non svegliare nessuno. Prese una banana dalla cesta sopra il mobile in cucina e corse fuori portando con sé anche un piattino.
“Ti farò male prendendoti la neve dalla faccia?”,domandò Ismail.
“Oh affatto! Stacca pure anche la carota non mi serve più.”
Il ragazzo mise la neve sul piatto e iniziò a mescolarla con la banana. Intinse un cucchiaino in quel gelato tanto singolare e se lo portò alla bocca.
“Buon appetito amico mio. Addio.” Il pupazzo volle salutare così il suo creatore. Ismail chiuse gli occhi, aprì la bocca e mandò giù. Altre cinque o sei cucchiaiate e il suo gelato era finito. Ora poteva anche tornarsene a dormire. Prima di entrare in casa diede un’ultima occhiata al mucchietto di neve che era rimasto davanti alla sua porta e si domandò ancora una volta se non fosse tutto solo un sogno.
Ma tornato al letto si addormentò in fretta. Ed il mattino, appena si risvegliò, corse verso l’ingresso per vedere cosa restava del pupazzo. Nulla. Solo una macchia di bagnato per terra, piccolissima, ne segnalava il passaggio nel suo cortile.
In cucina, sua madre era già sveglia. “Ismail, hai usato tu questo piattino? Ti sei svegliato
nella notte per mangiare? Non mangi forse abbastanza?”
Non fece caso alle lamentele della mamma. Quello che importava era che il piatto era lì. Sporco di banana. Non era stato un sogno allora. Mentre si vestiva per andare verso la scuola, rifletté su
quanto fosse tutto assurdo. L’unica cosa che lo riportava alla normalità era il caldo che era tornato a farsi sentire come sempre. Forse anche di più. Ismail sudava moltissimo, ed aveva la fronte completamente bagnata. Uscì di casa, e camminando l’aria da respirare gli sembrò pesantissima. Eppure guardandosi attorno, la gente che incrociava non pareva così sofferente. Lui invece sbuffava come un treno a vapore, e gocciolava come un rubinetto rotto.
“Questo caldo è terribile. Non si resiste.”
Dopo pochi minuti anche mettere un passo in fila all’altro gli parve un’impresa. Si sedette a bordo strada, ormai paonazzo. “Ma che succede?”, pensò.
“Amico! Amico mio, mi senti?”
Ismail riconobbe la voce stavolta. Era quella del pupazzo. Ma stavolta davvero non era possibile.
“Dove sei?”, disse flebilmente.
“Amico mio, sono qui, dentro di te, nella tua testa. Sono nel tuo corpo, nel tuo sangue. Sono in te ormai. E tu sei me.”
Il ragazzo faticava a tenere gli occhi aperti. I suoi vestiti erano zuppi. Ma non era sudore. Era acqua. Il pupazzo di neve era entrato in lui. Mangiando il gelato gli aveva permesso di andare in circolo nel corpo.
“Carissimo, ancora poco e sarai un rivolo lungo la strada. Ma non temere, non è la fine. Il calore ci farà salire in alto, verso il cielo. Attraverseremo il mondo, come nuvole. E scenderemo come pioggia, sulla gente, sulle città e sugli oceani. E poi ancora verso il cielo, altre cento, mille volte. E quando precipiteremo sui paesi freddi, saremo ghiaccio e forse qualche bambino ci darà un volto, facendo un pupazzo di neve. Ma quello che conta è che io e te, saremo insieme per sempre.”
… ” Il pupazzo di neve”:un racconto che non consiglierei per la buonanotte dei bambini per il messaggio lanciato, di una crudeltà inusitata.. Come del resto anche molte fiabe classiche contengono quando l’amore viene identificato con il sacrificio assoluto di se stessi … La scrittura di Y. Ferrante è peraltro molto avvincente