Venerdì 9 ottobre, presso il Centro Sociale il Giardino di Figline Valdarno (FI), si è tenuta la penultima delle otto conferenze del progetto di invito alla lettura “La casa degli Strani”, ideato dalle associazioni Il Giardino e Circolo Letterario Semmelweis, e realizzato grazie al contributo del Comune di Figline e Incisa Valdarno. In questo penultimo incontro io e Laura Del Lama abbiamo parlato del romanzo LA RAGAZZA DI NOME GIULIO di Milena Milani. Non credo di aver bisogno di presentazioni, visto che spesso collaboro con Poliscritture, ma permettetemi due parole sull’altra relatrice.
Laura Del Lama è nata a Firenze nel 1975, è operatore tecnico del LIS (Lingua dei Segni Italiana). Oltre a racconti su riviste e antologie tra cui Drgus (Guanda, 2011) ed È tutta una follia (Guanda, 2012), ha pubblicato il romanzo Non so dove ho sbagliato (Cult/Barbes, 2009), e la raccolta di racconti A cosa servono gli occhi (Noripios 2017).
Buona lettura …
A. A.
ANGELO AUSTRALI
Oggi nella casa degli “Strani” ospitiamo Milena Milani, un personaggio che, con la sua molteplicità d’interessi, credo si sia conquistato un suo originale spazionel panorama culturale italiano della seconda metà del Novecento. È stata scrittrice, pittrice, giornalista, operatrice culturale con forti interessi per la politica, anticipatrice, con i suoi libri, di tutte le tematiche care al femminismo dagli anni Settanta in poi, soprattutto per la consapevolezza che la libertà della donna nell’Italia che usciva dalla seconda guerra mondiale, non poteva che passare da un affrancamento dagli stereotipi femminili e rivendicare una verità che s’incontrava con il bisogno di unareale conoscenza del proprio corpo. Una conoscenza fisica che anche sui desideri procurati dai piaceri del sesso, dalle sue implicazioni psicologiche, era da vivere non più solo nella condizione di subalternità all’uomo.
Milena Milani debutta in letteratura nel 1941, vincendo un concorso di poesia ai Littorali di Sanremo, ma in seguito da Savona, dove nasce nel 1917 (lei dirà permolto tempo di essere nata nel 1922), per ragioni di studio si trasferisce a Roma. Nella capitale si iscrive ai GUF, conosce Malaparte, Marinetti la nomina addirittura responsabile nazionale delle donne futuriste, ma quando inizia a frequentare il Caffè Aragnoe fa amicizia con Ungaretti, Cardarelli, Corrado Alvaro e con il gruppo dei pittori della scuola romana, la sua vicinanza al fascismo finisce. Gli habitué del Caffè Aragno, se proprio non sono già tutti antifascisti, almeno non si sentono conformati al regime, sono critici. Nel 1943, dopo aver partecipato all’occupazione di un quotidiano fascista, costretta quasi all’esilio, con il pretesto di continuare gli studi si trasferisce a Venezia.
A Venezia incontra il collezionista e mercante d’arte Carlo Cardazzo, con lui si legherà anche sentimentalmente fino alla sua morte, avvenuta nel 1963.Cardazzonel 1942 aveva aperto a Venezia La galleria del Cavallino, sulla scia dell’interesse suscitato dalle Edizioni del Cavallino, una casa editrice da lui stesso fondata nel 1935, nota per aver pubblicato una delle prime edizionidelle poesie di Leonardo Sinisgalli (1938), e le prime edizioni italiane delle poesie di Guillaume Apollinaire, Paul Éluard, Alfred Jarry, Paul Valéry. Insieme a lui Milena Milani diventa una delle figure più attive nel panorama delle arti visive che attraversano il dopoguerra.Per lei Cardazzo ha lasciato moglie e due figli, convivranno insieme per vent’anni, fuori dal matrimonio. Lo sappiamo, la legge sul divorzio in Italia sarà introdotta solo a dicembre del 1970.
Nel 1946 si trasferiscono a Milano, in Via Manzoni,dove Carlo Cardazzo aprirà la Galleria del Naviglio, diventata famosa per aver allestito la prima mostra dello Spazialismo di Lucio Fontana. È importante ricordare che anche Milena Milani fa parte di quel gruppo di artisti, anzi, è l’unica donna che aderisce al movimento spazialista. Questo ci dice qualcosa su quale sia la sua sensibilità creativa.
Come scrittrice si fa conoscere nel 1947 con il romanzo Storia di Anna Dreie, nel 1954, con i racconti della raccolta Emilia sulla diga (entrambi con l’editore Mondadori, editi nella storica collana della Medusa dedicata agli scrittori italiani, che si contraddistingueva – rispetto al verde dedicato agli scrittori stranieri – con un colore arancione della copertina). Giocando sull’autobiografia dei personaggi, in entrambi questi libri la Milani cercava di affrontare la condizione femminile di un’epoca nel rapporto con l’altro sesso. La sua scrittura è tutta tesa a decodificare le contraddittorietà dell’Io tra l’ingenuo lirismo descrittivo dell’azione e l’analisi introspettiva dei sentimenti, fatta con scrupolosità metodica ma libera, sinteticamente fluida, e tutt’altro che consolatoria. Non so se sia avvicinabile all’esistenzialismo francese, come molti indicavano in quegli anni, in realtà il suo stile, il tono della sua scrittura mi fa piuttosto pensare al realismo del cinema di Ingmar Bergman e forse, a mio giudizio, al nostro Michelangelo Antonioni. Ci troviamo insomma di fronte alla figura di una scrittrice che, sia per tematiche, sia per un’idea di letteratura, riesce a trasmetterci un forte respiro internazionale.
Quindi, nel 1964, quando Longanesi pubblica La ragazza di nome Giulio, Milena Milani ha quarantasette anni e già una certa notorietà non solo come scrittrice, ma anche come pittrice e promotrice di eventi nel campo dell’arte.
Come ambientazione La ragazza di nome Giulio attraversa tutti gli anni che precedono la seconda guerra mondiale per poi fermarsi alla soglia degli anni cinquanta del Novecento, è in questo periodo che si articola la storia di una ragazza che vive l’infanzia, l’adolescenza ed il suo passaggio esistenziale verso la maturità, quando è costretta a scoprire il significato del diventare donna in un mondo dove le perversioni degli adulti che danno sfogo ai loro istinti sulle persone innocenti, emergono con violenza dall’ipocrisia perbenista che regge quel sistema sociale. Jules in francese indica il nome maschile di Giulio, così per tutta la sua esistenza il personaggio sarà accompagnato dalla domanda del perché una ragazza porti quel nome maschile. Nel descrivere l’evento delle sue prime mestruazioni o nella scoperta del piacere sessuale con la cameriera di famiglia, o quello dei baci rubati ad Amerigo, fidanzato con Serafina, non c’è solo il bisogno di conoscere il proprio corpo, ma c’è la necessità di seguire un richiamo istintivo verso altre domande che nascono dalla solitudine della sua insoddisfazione adolescenziale. Ecco perché si può parlare a tutti gli effetti di un romanzo di formazione.
Il libro, uscito nell’aprile del 1964, fu presentato allo Strega e tradotto all’estero in più lingue, e accettato come un romanzo in grado di esprimere la presenza di una frattura esistenziale nella realtà di una giovane, capace di farsi modello per tutte le donne del mondo, ma se diventa un caso editoriale e se ne fa un gran parlare è soprattutto grazie a una certa stampa benpensante che resta scandalizzata e le affibbia l’etichetta di “pornografa”. Nonostante i molti giudizi critici positivi sul libro (oltre Ungaretti troviamo schierati in suo favore Salvatore Quasimodo, Paolo Volponi, Giancarlo Vigorelli), con l’accusa di questa presunta oscenità in autunno furono bloccate le vendite, procurando alla scrittrice e all’editore una pesante imputazione perché “scriveva e metteva in commercio il romanzo La ragazza di nome Giulio, gravemente offensivo del sentimento del pudore – inteso come quel senso di riservatezza che deve circondare tutto ciò che attiene alle manifestazioni della vita sessuale – e quindi osceno per la descrizione dei rapporti sessuali ed anche omosessuali vissuti da una ragazza ossessionata dalla continua ricerca della vibrazione dell’amore”.
Scrive Giuseppe Ungaretti, a proposito de La ragazza di nome Giulio: “È un libro avvincente, per la grazia e la profondità con la quale Milena Milani sa affrontare le più scabrose situazioni umane e sollevarle all’altezza dell’arte e della poesia. È un dovere per un vero artista affrontare qualsiasi argomento da cui possa trarre lezioni di verità e di pura e sincera espressione. Credo che i nostri tempi abbiano tutto da guadagnare a non essere ipocriti, e ormai tutta l’arte maggiore del mondo sa che nulla deve essere nascosto, colpevolmente nascosto”. Lo stesso Ungaretti che testimonierà in suo favore durante le udienze, e si metterà alla testa di un gruppo di intellettuali che si schiereranno in sua difesa prima, durante e dopo il processo, fino alla sentenza di appello.
Di tutti i passi accusati di oscenità (nelle 297 pagine di cui è composta la prima edizione ce ne sono oltre un centinaio), più ancora delle pagine conclusive dove si descrive un’evirazione, quello che sembra offendere maggiormente la corte è quando si descrivono le prime mestruazioni di Giulio. Ma quella scena del menarca, descritta a mio giudizio senza compiacimento o morbosità, riesce a raccontarci il momento di un passaggio fondamentale nella vita di una ragazza. E questo è importante: trattandosi di un romanzo di formazione il passaggio doveva esserci, non restare fuori campo, racchiudere l’evento in appena un accenno allusivo.
Dopo due anni dalla sua uscita, il 23 marzo del 1966, la scrittrice viene condannata alla pena della reclusione per sei mesi e a dover pagare una multa di centomila lire. La vicenda giudiziaria si concluderà solo a novembre del 1967, con la sentenza d’appello che l’assolverà con formula piena, stabilendo che “gli spunti erotici si inseriscono armoniosamente nel tessuto narrativo e rispondono ad esigenze descrittive che il tema della donna condannata alla solitudine suggeriva e che sono state felicemente realizzate nell’unità poetica dell’opera”.
Consiglierei di leggere il bel saggio di Antonio Armano, “Maledizioni”, pubblicato da Rizzoli nel maggio 2014. Nella lista degli scrittori italiani e stranieri processati in Italia dal dopoguerra in poi per pubblicazioni oscene, un capitolo è proprio dedicato alla nostra Milena Milani. È un saggio davvero interessante, non solo capace di ricostruire lo stretto legame che esiste tra la vita degli scrittori e le loro opere, ma anche puntuale nell’esaminare i cambiamenti sociali e culturali che hanno interessato il nostro paese per tutta la seconda metà del Novecento, visti attraverso le aule dei tribunali.
La ragazza di nome Giulio uscirà nuovamente in libreria nel 1968, a distanza di quattro anni dalla sua prima edizione ormai andata al macero, e questa volta per restarci con un merito conquistato sul campo, in barba a tutti quei tabù di un’Italia ancora incapace di esaminare fino in fondo, con lucidità, le proprie contraddizioni, perché inadeguata a comprendere le nuove tensioni emotive che nascevano nella società in quel periodo, soprattutto se a raccontarle, per la prima volta, è il punto di vista di una ragazza sola e insoddisfatta della vita che tenta, cerca, si sforza di trovare in se stessa una certa spiritualità capace di dialogare con la realtà naturale, a cominciare dal bisogno istintivo di costruire con il proprio corpo un suo personale argine sensoriale alla solitudine umana.
La storia del romanzo è stata lunga e travagliata, prima di essere accettato da Longanesi su suggerimento di Goffredo Parise, era stato rifiutato da Vittorio Sereni che lavorava per Mondadori, Domenico Porzio, Giorgio Bassani, Geno Pampaloni. La Longanesi allora era diretta da Mario Monti, e anche lui viene portato a processo con l’autrice. Lei stessa è consapevole, di aver scritto qualcosa che sta fuori da ogni schema, come scrive nell’introduzione all’edizione Rusconi del 1978: “Quel personaggio incandescente che era la ragazza Giulio mi faceva paura, perché mi ero accorta che stavo precorrendo i tempi, e inoltre sentivo che per molta gente sarebbe stato motivo di scandalo, e di vergogna. Mi chiedevo sempre più spesso che cosa avrebbe pensato mio padre, mentre di mia madre non avevo timore, perché con lei avevo più confidenza”.
In realtà la storia di Jules e della sua formazione alla vita, la sessualità libera di un personaggio fuori dagli schemi, precorre quelle rivendicazioni del femminismo che Milena Milani anticipò e condivise quando, dalla fine degli anni Sessanta in poi, iniziarono tutte le battaglie sull’emancipazione della donna.
Morirà nella sua Savona, nel 2013, all’età di 96 anni, dove era nata il 24 dicembre 1917, e dove oggi trova sede la Fondazione Museo di Arte Contemporanea, realizzato da Milena Milani in memoria del suo compagno, Carlo Cardazzo.
LAURA DEL LAMA
È sbagliato pensare che “La ragazza di nome Giulio” sia un romanzo prettamente erotico. Ancor prima che la formazione sessuale di una giovane adolescente, questa storia narra di una profonda crisi spirituale. Giulio vaga negli anni della sua giovinezza alla ricerca di risposte che il mondo degli adulti non saprà darle. Ogni personaggio che gravita intorno alla protagonista è a suo volta incompleto, a partire dalla madre la quale si scopre inadeguata a contenere questa figlia “anomala”, che sfugge i binari di un’esistenza retta. Troppo borghese, troppo ripiegata nella sua vedovanza: significativo è il rito del viaggio che la donna affronta ogni anno per l’anniversario della morte del marito, fino al paese dove l’uomo è sepolto. Viaggio che la donna vuole sostenere da sola, anno dopo anno, come se quella assenza pesasse solo a lei e non riguardasse anche sua figlia che di fatto cresce senza una figura maschile, senza un uomo a farle da guida. Per Giulio l’universo maschile è sconosciuto e forse proprio per questo ne è profondamente attratta. Ma la sua irrequietezza e la mancanza di una guida (nemmeno il povero padre Dario, al quale Giulio si affida con tutta se stessa, riuscirà nell’impresa) alimentano la sua sete di conoscenze, di esperienze.
È peccato andare con gli uomini, questo le è stato detto. Ma lei stessa ammette: “Che cos’è il vizio, se non l’abitudine di peccare, acquistata col commettere spesso il medesimo peccato?”
A niente servirà la presenza di Lorenzo, il fidanzato storico, ragazzo passivo e incapace di aggiungere alcun significato alla loro relazione. Relazione che si perpetua negli anni in una fissità sconcertante, quasi imbarazzante, e che non può bastare a un’anima inquieta come quella della protagonista. Perché Giulio ha una intelligenza spiccata e selvaggia. Ed è ben consapevole anche della sua bellezza: guardandosi allo specchio riconosce i tratti di un corpo perfetto, corpo che richiama gli sguardi degli uomini. Ma alla fine nessuno di quegli uomini riuscirà a contenere la sua irrequietezza, nessuno riuscirà a completare la nostra giovane donna a metà, nemmeno Franco l’unico ragazzo che Giulio ama veramente e nel quale ha riposto ogni speranza.
Il romanzo ebbe la storia travagliata che ormai conosciamo. Eppure, come diceva la stessa autrice: “I problemi del sesso e dell’anima, sono eterni come il mondo”.
Quindi perché tanto scalpore, tanto accanimento?
Definire bacchettona l’Italia di allora è un po’ troppo riduttivo. Era il 1964 quando uscì “La ragazza di nome Giulio”: c’era il boom economico, ma sulle spalle della popolazione pesavano ancora gli anni della guerra e della ricostruzione. Nessuno aveva avuto il tempo, men che mai i mezzi, per affrontare certe tematiche. Il problema della sessualità era un argomento che le donne stesse non sapevano sostenere nemmeno con loro stesse, chiuse nella loro intimità. Quindi quello che accoglie il romanzo della Milani è un’Italia impreparata, ancora immatura.
Così pensiamo al coraggio di questo romanzo, al gesto di prendere la penna e scrivere la storia di un’inquietudine spirituale e sessuale. A un tale atto di ribellione non può che rispondere un forte turbamento, e il Paese impreparato infatti si oppone con la censura. Il giudice durante il processo dichiarò il libro osceno in senso tecnico-giuridico e non riconoscibile come opera d’arte.
Milena Milani già da molti anni era a stretto contatto con un certo fermento culturale tutt’altro che provinciale: vive tra Milano e Venezia, scrive, dipinge, apre una galleria d’arte dove incontra i più importanti artisti dello scenario europeo e non solo. Al contrario del paese che la ospita, lei è più che pronta a affrontare certi argomenti, e lo fa in maniera talmente intelligente e sottile che anche il tribunale più preparato non può far altro che ricredersi e capitolare. E così la condanna a sei mesi di reclusione e all’ammenda di centomila lire per aver scritto un libro tanto osceno, verrà annullata in appello. Milena Milani è una donna libera e il suo romanzo, già famoso all’estero, avrà il meritato successo anche in patria.
La ragazza di nome Giulio è un romanzo indubbiamente erotico ma la fanciulla protagonista non ha niente a che fare con una le Mellisse P. che tutti un po’ conosciamo. Giulio è semplicemente una ragazza “che portava un nome maschile, che aveva in sé una insoddisfazione esistenziale perché era una creatura incompleta, che ricercava Dio, che voleva sapere che cos’era il peccato e che infine approdava alla solitudine”.
prima edizione del 1964 edizione del 1968
…sempre molto interessanti le letture e i consigli di lettura del’la Casa degli Strani’. “La ragazza di nome Giulia” di M. Milani mi riporta agli anni ’50, quando ero ancora bambina ma ricordo,nei comportamenti di cugine o amiche di età maggiore, l’ipocrisia indossata come un abito di tutti i giorni, a volte inconsapevolmente e, infine, con disinvoltura. Ovviamente poi “i fatti” importanti avvenivano ugualmente e di nascosto: dalle amiche si veniva a sapere delle mestruazioni, come nascevano i bambini, si passava alle prime esperienze amorose e sessuali. La famiglia, ma soprattutto l’istruzione cattolica impartita negli oratori, incoraggiava all’ipocrisia…Tutto quanto era nella natura avveniva di nascosto e a farci le spese erano spesso alcune ragazze piu’ “morali” delle altre, nel senso di piu’ sincere… Solo qualche anno dopo l’irruzione del ’68 modifico’ costumi e seppelli’ molti tabu’ . Credo quindi che la ragazza Giulio descritta da Milena Milani fosse molto coraggiosa e forse persino temeraria nella sua sfida aperta alle regole imposte da una società rigida, contraria ad ogni emancipazione femminile..Considero l’essersi voluta chiamare Giulio, con comportamenti e scelte conseguenti, come una provocazione rivolta a ogni forma di convenzione sociale: un segnale di forza ma anche di fragilità, di grande senso
di solitudine e di dolore per un vuoto, una mancanza da non patire, se mai da rivendicare…
Siccome sto lavorando io pure su quegli anni ’50 (A vocazzione), devo dire che sono scettico sulla portata della “rivoluzione sessuale” del ’68 («qualche anno dopo l’irruzione del ’68 modifico’ costumi e seppelli’ molti tabu’»). Certo molte cose cambiarono, ma l’apertura del Vaso di Pandora ha mostrato, sì, l’insufficienza della famiglia e dell’«istruzione cattolica impartita negli oratori [che] incoraggiava all’ipocrisia», ma non credo che abbia costruito delle strutture di pensiero o di comportamento, riferendosi alle quali i ragazzi o le ragazze più “morali” d’oggi (nel senso di più capaci di cogliere la complessità dei desideri e delle passioni che fermentano sottotraccia in ciascuno/a) possano affrontare con più chiarezza e coraggio di noi della vecchia generazione il nuovo immaginario “libero” (liberal). Che è non meno “ipocrita” di quello fascio-cattolico durato ufficialmente fino alla soglia o alla dine degli anni ’60. Tanto di cappello al coraggio di Milena Milani (di Pasolini, di molti altri) ma non scambierei per progresso o incivilimento la “mutazione antropologica” che pare si sia imposta sul piano della cultura alta e di massa “democratica”.
“Insufficienza” della famiglia e dell’istruzione cattolica è un eufemismo. Si trattava, in particolare per le ragazze più “morali” (cioè più cretine), di una castrazione in piena regola, portata avanti dalla Chiesa soprattutto per ragioni di ordine e stabilità sociali e controfirmata dalle famiglie (fossero o no coscienti del reale motivo) perché l’autonomia erotico-sentimentale era antitetica al prioritario concentrarsi sull’aspetto economico della vita.
Le difficoltà enormi a cui andava incontro chi (=la ragazza che) si ribellava (anche oltre il ’68, che nella provincia italiana penetrò assai lentamente) hanno contribuito a “distorcere” un tot di vite. In particolare quando chi si ribellava era al tempo stesso una ragazza “morale”.
La liberazione sessuale (oggi nuovamente arginata in tutti i modi possibili dagli oratori, e ci sarà pure una ragione), nonostante tutte le problematicità e le ambiguità a cui ha dato origine, è stata un reale e sostanziale progresso – certo, come tutti i progressi, bisogna imparare ad usarla. Come è sempre il caso con la libertà.
@ Elena Grammann
Non credo che l’espressione “insufficienza” della famiglia e dell’istruzione fascio-cattolica degli anni ’50 non contenga o escluda la “castrazione in piena regola”. Che, a dirla tutta, non era allora “portata avanti dalla Chiesa soprattutto” ma dalle leggi dello Stato e anche dal sistema economico (capitalistico).
Vorrei mettere in guardia da una concezione della “liberazione sessuale” che per così dire si “specializzi” (il caso di Franco Buffoni, che hai analizzato in altro post, avverte dei rischi che si corrono). Essa è sempre “arginata” o “tollerata” in qualche misura. Ancora adesso che ha assunto la forma “liberal”. Perciò non vedo “progresso” né – come ho detto ad Annamaria – passaggio ad “una contraddizione più alta”. Ho l’impressione che milioni di adolescenti soffrano quanto soffrivamo noi, non più per l’”ipocrisia” fascio-cattolica ma per “le problematicità e le ambiguità a cui ha dato origine” questa mezza rivoluzione o rivoluzione guidata dall’alto.
Il “soprattutto” non si intendeva legato a “Chiesa”, ma a “per ragioni di ordine e stabilità sociali”.
Senza liberazione sessuale niente emancipazione femminile. E già questo…
Una liberazione è una liberazione, anche se non mette in gioco l’intera struttura sociale.
Quelli che prima erano schiavi sono contenti della liberazione, anche solo relativamente a ciò per cui non sono più schiavi.
Le problematicità e ambiguità sono la nuova contraddizione. Chi vorrebbe tornare alla vecchia? Te lo dico io: nessuno. (cioè no: Houellebecq e i preti ci vorrebbero tornare).
La libertà pone sempre dei problemi che prima non c’erano semplicemente perché prima non c’era scelta.
Mi sembra che la tua idea di libertà sia molto vicina a quella cattolica: non libertà da, ma libertà per.
Non so perché vedi la “rivoluzione” 68ttina dei costumi come una rivoluzione “guidata dall’alto”. Forse perché è nata nei campus americani? Ma a parte che gli studenti che in quei campus l’hanno fatta non avevano niente di “alto” – nemmeno il marxismo è nato nelle fabbriche. E’ nato nelle università tedesche.
E se adesso quella che tu consideri una pseudo-libertà è tollerata, per molto tempo non lo è stata. Non è un progresso questo? Perché non riconosci una libertà soltanto perché non viene da Marx?
“Ho l’impressione che milioni di adolescenti soffrano quanto soffrivamo noi”
No, soffrono in modo molto diverso. Immagino che essere in un’altra contraddizione voglia dire questo: soffrire diversamente. Che la contraddizione sia a un livello più alto lo indica il fatto che c’è più autonomia e meno eteronomia.
E per finire: se anche nel mondo mussulmano ci fosse una bella rivoluzione sessuale, avremmo tutti molti meno problemi.
… sono solo in parte d’accordo su quanto afferma Ennio Abate: è vero ancora oggi le nuove generazioni nuotano spesso, ma non sempre, in un mare di confusione e ” luoghi comuni”, magari del tutto ropposti rispetto ai ‘nostri’, riguardo ai rapporti tra e corpi e spiriti in mutamento e al proprio immaginario, senza una visione d’insieme sulla storia e i problemi sociali… Comunque, secondo me, con M. Milani, Pasolini… ci fu un inizio, un vigoroso strattone a certi mascheramenti..Sfocio’ ” in una contraddizione più alta” o solo in una nuova contraddizione senza sbocchi perché poco consapevole? Tutto sommato ho conservato fiducia nei giovani che siamo stati noi e in quelli che oggi, spero, sapranno affrontare contraddizioni e ostacoli, a volte superiori alle nostre, richiedenti una lenta e lunga rielaborazione… invecchieranno anche loro e avranno qualcosa da dire a figli e nipoti.. Gli attuali movimenti giovanili non sono poca cosa
“Sfocio’ ” in una contraddizione più alta” o solo in una nuova contraddizione senza sbocchi perché poco consapevole?” (Annamaria Locatelli)
Non mi pare. A meno di non dire che la contraddizione “più alta” sia quella uomo-donna. Ma approfondiamo, se possibile.
… penso che la donna all’inizio delle sue lotte abbia dovuto in tutti i modi rivendicare il diritto di essere se stessa nella libertà e dignità dei suoi vissuti affettivi e sessuali, in una società dove era ampiamente svilita e mistificata in chiche’ costruiti per lei su misura nel tempo… Le veniva imposto di recitare sempre una parte lontana dal suo sentire ma vicina a particolari interessi economici-sociali, a cui, peraltro, molte si adeguavano volentieri, ritagliandosi alcuni vantaggi.. Forse la rivoluzione dei costumi degli anni ’60 ha saputo sollevare solo uno dei veli che nascondevano le ipocrisie e la crudeltà di una società profondamente ingiusta e, nelle sue rivendicazioni, in seguito è stata persino strumentalizzata dalle mode condumistiche, lasciandoci più sole-i, tuttavia era più che mai necessaria..altri movimenti di donne e di uomini hanno allargato e approfondito la questione della sfera privata e del suo intrecciarsi strettamente con quella pubblica, una importante leva per l’emancipazione dei popoli.. ma la strada è lunghissima…
In realtà La ragazza di nome Giulio di Milena Milani è un libro molto bello perché non sembra neppure scritto da una scrittrice italiana, e questo non solo per le tematiche che affronta in rapporto al periodo in cui si svolge la storia, tra la fine degli anni ’30 e il dopoguerra, ma perché la scrittura è libera, sciolta, la narrazione non sostenuta da piloni ideologici. Sì, parla dell’Italia, ma è un romanzo che poteva essere scritto altrove. Quando lo lessi la prima volta, alcuni anni fa, pensai proprio questo, e mi sembrava strano che una scrittrice italiana di quel periodo potesse riuscire a scrivere così liberamente e non sacrificare niente della storia. E’ proprio diversa lei, rispetto anche ai nomi di tante scrittrici note che circolavano in quegli anni e che parlavano di emancipazione femminile. Ci sta pure che Longanesi, per incrementare le vendite, lo abbia pubblicato pensando proprio al sapore scandalistico che lo avrebbe accolto, non dico di no. Infine, rispetto a quello che si scrive oggi, l’erotismo di Milena Milani è qualcosa di diverso, è ingenuo, fa quasi sorridere, ma le immagini che ci rimanda con le parole sono un’arte che ancora non si è consumata, diventata stereotipo. Quella ragazza che si chiama come un ragazzo, come storia è ancora autentica.
“perché la scrittura è libera, sciolta, la narrazione non sostenuta da piloni ideologici” (Australi)
Non ho letto i libri della Milani e quindi mi limito solo a chiedere cosa tu intendi per “narrazione non sostenuta da piloni ideologici”.
… che rispetto a certa letteratura pubblicata negli stessi anni, qui non trovo pretesti per parlare di ……… , il personaggio è autentico, si sente che non parte da un’idea per dire qualcosa sulla condizione femminile. Giulio questa condizione l’esprime vivendo la sua esistenza di ragazza fuori dagli schemi, cercando in qualche modo di trovare un punto d’incontro nel racconto, no al di fuori di esso.
SEGNALAZIONE/ AL VOLO/ AD HOC
dalla pagina di Doriano Fasoli su Facebook
Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia (…) Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi,una bella contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi eppure aguzzi e taglienti per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo autodissolti, svaniti, introvabili. Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio e della libertà (chi ha mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove chissà quando.
Elvio Fachinelli (Che bella “rivoluzione”: oggi siamo tutti soli, “L’Espresso”, n. 14, 12 aprile 1987)
A proposito di progresso…
SEGNALAZIONE (UN PO’ ANCORA MARXISTA)
Le ovvietà del progresso
– di Anselm Jappe –
https://francosenia.blogspot.com/2020/10/invisibili-ovvieta.html?spref=fb&fbclid=IwAR3N-TXk7btky-bVfK-AA7aQ9TSIs–y4eVAFs-OJ98XC9LHwxfAbABLm7E
Stralcio:
Molte persone, desiderose di riuscire ad avere un figlio in maniera «naturale», ricorrono alla procreazione assistita; cosa che però pone problemi di ogni genere. Naturalmente, in questi ultimi decenni il tasso di fertilità è diminuito fortemente, e questo molto probabilmente ha a che fare con l’eccessiva presenza di alimenti sintetici nel nostro ambiente; ma affrontarne le cause è troppo complicato e si scontra con troppi interessi ed abitudini, a tutti i livelli della scala sociale.
Meglio allora imbarcarsi in soluzioni tecnologiche, per quanto pericolose possano essere.
È questo uno dei grandi paradossi del nostro tempo: ciò che è sociale, e quindi fatto dall’uomo, viene considerato come naturale, e quindi assolutamente immutabile. Le «leggi del mercato», la «concorrenza internazionale», gli «imperativi tecnologici», la «necessità della crescita» sembrano assai più immutabili della legge di gravità. Chi propone di cambiarli, nella migliore delle ipotesi viene considerato ingenuo, se non un terrorista.
Al contrario, i limiti che la natura pone effettivamente all’uomo (ad esempio, sotto forma di insetti che vogliono, anch’essi, mangiare le piante coltivate, o dal fatto che l’essere umano sia mortale, oppure che non ha il dono dell’ubiquità) vengono considerati come se fossero sociali: sempre provvisori, in attesa di «trovare una soluzione», costi quel che costi.
Così facendo, l’umanità ammette di essere impotente di fronte alle proprie creazioni. Si tratta di un destino ineluttabile? O ci possiamo organizzare in maniera diversa?
@ Elena Gramman
Vediamo:
1. « Senza liberazione sessuale niente emancipazione femminile».
Dubbi. Il “sessuale” è separabile da tutto il resto? L’emancipazione femminile avverrebbe (dovrebbe avvenire) per stacco o separazione dal “sessuale maschile”? Si troverebbe, dunque, in direzione omosessuale (femminile)?
2. « Una liberazione è una liberazione, anche se non mette in gioco l’intera struttura sociale».
Sì, ma è liberazione parziale o particolare; ed elude la questione di quanto quel parziale o particolare resti ancora sottomesso all’intera struttura sociale non modificata. (Si pensi alle lotte anticolonialiste, che anche se vittoriose, sono state poi strangolate o bloccate in altro modo dal sistema generale capitalistico, magari mutato ma inalterato nelle sue leggi fondamentali: profitto, D-M-D).
3. « Quelli che prima erano schiavi sono contenti della liberazione, anche solo relativamente a ciò per cui non sono più schiavi.»
Beh, pare che si possa essere contenti anche della propria schiavitù (Discorso sulla servitù volontaria, Discours de la servitude volontaire di Étienne de La Boétie). Il soggettivismo come criterio assoluto chiude il discorso della liberazione invece di svilupparlo.
4. « Le problematicità e ambiguità sono la nuova contraddizione. Chi vorrebbe tornare alla vecchia?»
Ti riferisci ancora al solo ambito sessuale? No so, ma non mi pare che una situazione problematica o ambigua possa essere definita come «nuova contraddizione». La contraddizione si pone tra termini evidentemente chiari e non problematici o ambigui.
5. « La libertà pone sempre dei problemi che prima non c’erano semplicemente perché prima non c’era scelta».
Non mi pare che prima non ci fosse scelta. Almeno in teoria. Forse sarebbe giusto dire che era impedita con la violenza o la pressione ideologica, tant’è vero che, al momento in cui maturano – magari raramente – certe condizioni, la scelta si fa chiara e c’è. (Ho in mente gli esempi della rivoluzione francese o russa).
6. «sembra che la tua idea di libertà sia molto vicina a quella cattolica: non libertà da, ma libertà per».
Lottare per il comunismo è cattolico? Non mi pare. Comunque, sì, preferisco impegnarmi per la «libertà per».
(Nota presa al volo da google: «Per “libertà per” intendiamo la decisione volontaria e, appunto, liberamente scelta di colui che sceglie di dedicare le proprie energie a un obiettivo ideale in grado di mobilitarlo. La “libertà per” è il vero segreto della felicità come ci ricorda il filosofo ed economista inglese John Stuart Mill in un bellissimo aforisma nel quale afferma che non si è felici se si cerca la propria felicità per se stessa, ma si trova piuttosto la propria felicità lungo la strada quando si dedica la propria vita a una causa degna di essere perseguita (gli esempi addotti dal pensatore sono l’arte, la scienza, la filantropia)»
7. « non riconosci una libertà soltanto perché non viene da Marx?».
No, la riconosco ma non è il tipo di libertà che desidero io.
8. Gli adolescenti d’oggi «soffrono in modo molto diverso».
Sicuramente, ma non credo che la loro contraddizione « sia a un livello più alto», come la mia (esistenziale intendo) non lo era rispetto a quella vissuta in epoca fascista da mio padre o di mia madre.
…”libertà da”…”libertà per”: una distinzione significativa, ma non uno spartiacque. Negli infiniti punti di partenza delle nostre storie personali, soggettività molto spesso, credo, si impone prima la necessità di una liberazione “da”, che non coincide con la “felicità egoistica”, ma la stessa condizione per sopravvivere. Chi è in catene, dapprima lotta per spezzarle, poi agisce “per” un ideale, recuperando quel “da”, che è stato il punto di partenza…Alcuni anche contemporaneamente, nel migliore dei casi,ma la consapevolezza puo’ arrivare dopo. Se poi non tutti pervengono al “per”, è perchè ci si perde per strada tra inganni altrui ed egoismi propri…ma questa è la storia dell’essere umano, tra partenze, false partenze, ripartenze, distrazioni, trappole ben cogeniate…i “per”, infine, possono essere diversi ma che non si negano a vicenda? dove i cammini sono disparati…cerchiamo di capirci
“Beati gli operatori di pace…” 🙂
Buona domenica a tutti
.. grazie Elena, ricambio per tutti
D’accordo con Fineschi: Papa Francesco ricorda la “sinistra democristiana” e non può essere definito (né lui lo vuole) “comunista”.
SEGNALAZIONE
Fratelli di tutto il mondo, affratellatevi! Brevi note sul “papa comunista”
di Roberto Fineschi
https://www.lacittafutura.it/…/fratelli-di-tutto-il…
Stralcio:
Assunti gli individui come sostanziali, trasfigurati come persone umane, la dinamica sociale si articola come loro interazione quali enti già dati ab origine e quindi il risultato della loro interazione è meramente esito del loro comportamento individuale, come una sorta di sommatoria. Di conseguenza, se essi abdicano ai principi di solidarietà, fratellanza, mutua assistenza il mondo non può che andar male. Farlo andar bene è legato, di nuovo, alla loro decisione di fare, dal punto di vista soggettivo, diversamente. Infatti manca nell’enciclica qualsivoglia riferimento a dinamiche storiche oggettive. Il cambiamento dunque non è legato a modifiche delle dinamiche di fondo del processo storico, ma ai doveri delle persone umane di rendere questo concetto universale fino in fondo.
Sembrerebbe questo il mero modello liberale basato sugli individui sostanziali, ma in realtà c’è un elemento in più, vale a dire il dovere di fratellanza. L’atomo individuale, in quanto persona umana, ha un legame ab origine col suo simile non solo di uguaglianza formalistica, ma di dovere morale. Rispetto al mondo classico liberale c’è dunque in più la mutua solidarietà che può/deve esprimersi anche a livello istituzionale come doveri dello Stato o di altra istituzione di mediare e garantire livelli minimi di umanità correggendo eventuali storture che possano verificarsi. Il modello sociale che più corrisponde a questa prospettiva non è dunque il libero mercato, ma lo Stato paternalistico corporativo che può essere nella sua versione soft la Democrazia Cristiana del dopoguerra, nella sua versione hard il fascismo. Infatti, data la struttura sociale per quella che è in quanto non la si può modificare e che quindi include stratificazione di classe e gerarchie sociali, esistono doveri collettivi individuali e istituzionali per cui i più poveri o disagiati vanno assistiti, curati, considerati fratelli; tutto ciò, però, senza intaccare le strutture.
Insomma, a chi abbia voglia di ripercorrere gli scritti relativi alla dottrina sociale della chiesa vedrà che nihil sub sole novum. C’è però da rallegrarsi del fatto che Bergoglio punti senza mezzi termini e con coraggio, considerata la situazione attuale, verso la versione soft dello Stato corporativo paternalistico, cioè auspichi una soluzione “democristiana”, decisamente “progressista” se paragonata al crudo cinismo dei due principali schieramenti politici in campo. Che si prenda questo atteggiamento come il non plus ultra del comunismo la dice però lunga su quanto manchino analisi, idee, prospettive. Su questo c’è molto da lavorare e non resta che rimboccarsi le maniche.