di Domenico Melillo
Domenico Melillo vive a Roma. Ha la mia stessa età ed è stato un mio compagno di classe nella scuola elementare e media. Fino a poco tempo fa ha fatto il medico. Nel 2004 pubblicò con la casa editrice Pagine la sua prima raccolta di poesie. La prefazione era del poeta, scrittore e saggista Elio Pecora. La nota, nel risvolto di copertina, la firmò Franco Arminio.
Durante quest’estate ci siamo frequentati molto di più. Ci siamo fatti compagnia nel tempo del Covid 19. Ho riletto a lungo le sue poesie. Alcune contengono versi che rimangono impressi: «Sa di sole / la notte», «Interpretare il giorno, qualche volta, / è coniugare un verbo irregolare», «E sentirete in qualche strana voce / la nostra storia, la vostra, perché ognuno / è la voce dell’altro», «mentre nascondo la vergogna / di sapermi uomo che, per esserlo, / si nutre del sangue della specie». Figlio unico, mi ha raccontato delle sue estati da studente, trascorse a lavorare in fabbriche svizzere dove stavano i suoi genitori: «Ci siamo ritrovati, padre e figlio, / in fabbriche del nord, ed era un tempo / di gioia difficile.» E abbiamo riso insieme per la puntualità con cui la Svizzera gli fece arrivare la pensione. Gli ho chiesto se dal 2004 ad oggi ha continuato a scrivere poesie. Mi ha risposto affermativamente e gli ho proposto di sceglierne qualcuna da presentare al pubblico di Poliscritture. L’ha fatto. I primi quattro testi sono tratti da «Alianti Canopi», gli altri sei sono inediti e fanno tutti parte di una sezione dal sottotitolo “In morbo salus” di una ipotetica, seconda raccolta. (D.S.)
Da «ALIANTI CANOPI»
Era nell’anta chiusa di un armadio,
interamente a specchio, la sequenza
degli eventi che prefiguravo.
Perché i bambini, loro sì, già sanno
l’intero percorso: erano linee
chiare, tracce sul mio viso,
eredità genetiche sommerse
ma tutte squadernate in quel riflesso.
Lì passava il futuro, era la serra,
il giardino fatato. In lontananza
rappresentavo isole felici.
Bisognava restare, non distrarsi,
saltare oltre il cerchio dell’immagine
con furbizia sottile, non dissolvere
nell’ovvietà del giorno quella favola,
il miraggio infantile.
***
Il cambio della termica, talvolta,
è nella frana, nel crollo del costone.
Inutile la cloche, gli avvitamenti
ad annusare un filo d’aria calda
servono solo a scivolare d’ala.
E più cabri, più avverti il precipizio,
lo stallo. Meglio perdere, planando,
quota e rassegnarsi al prato
di fortuna. Al volo serve il vento
contrario, correnti ascensionali.
Ma è sulla terra il punto fisso, il chiodo
che lega il filo. A richiamarmi al suolo
può bastare l’aprirsi di una crepa.
***
Ci sono albe stinte appese al muro,
calendario invisibile, e partenze
chissà quante volte differite.
Io sono l’astronauta di riserva
che vive il cielo in un simulatore,
palestra di continui allenamenti.
Così, poco a poco, perde senso
lo scopo del viaggio. Basta a illudere
l’attesa di attendere.
Nessuna gara, né vittoria o resa.
Mi muovo a bordo campo, o fermo al palo,
atleta dell’attesa.
***
Mi piacerebbe vedere la faccia
del dissotterratore, archeologo o becchino,
quando, trovato il sito e aperto il fosso,
troverà parte di me nel quinto vaso
canòpo. Io già da ieri, infatti,
sulla porta di casa, sbreccio e scavo
il mio contenitore, il vaso esubero
per chiudervi dentro la mia voce,
un respiro, segni del mio tempo
che mi lascia reliquia; non l’effetto
di un chirurgo disassemblatore.
E, scoperchiando il vaso, un frullo estremo,
uno scompiglio di sillabe e fonemi
prenderà il volo. E io, ancora io,
soffio di parole.
***
INEDITI
I
Ci deve essere un clic,
un segnale d’allarme sconosciuto,
se la notte presenta, all’improvviso,
un suo tributo di facce, e di parole,
questuanti affetto, vecchie
bancarottiere d’amore.
Vorrei trascorrere il mio sonno
in una parentesi d’assenza,
senza calcoli algebrici di dare
e avere, non sentire mia
l’insonnia come un credito del giorno.
II
L’aria che aspiro la mattina pare
una scia della notte. E come spuma
lasciata dallo scafo si scompone
il sogno appena spento. Resta il dubbio
se tutto è stato in fondo un’apparenza.
Ora, su, dai, lavora, spremi
il succo della terra,
plasma la creta
del nuovo giorno, raspa sull’aia
come ogni altro animale, spera e attendi,
come attendi ogni giorno,
che prima della sera
si avveri un nuovo sogno ad occhi aperti.
III
Ognuno ha un ruolo, vedo manifesti
con facce gigantesche appese al muro
questuanti un voto, come dire:
dimostrami che esisto.
E c’è la compassata meraviglia,
la mia intendo, di sapere come
così osata virtù abbia bisogno
di tanto spreco. Ho in tasca,
e lo chiuderò presto nel forziere,
un chicco di Strampelli,
seme di fili bassi e spighe nere,
darà buon pane, oppure sarà cibo
per formiche e passeri in inverno.
Tutto sta qui: il nutrimento e il tratto
di un rigo di sangue alla caverna.
IV
Eppure, mi dico, certe mattine,
ignorandolo, trovo
l’interruttore giusto, la chiave
per alzare la testa, sentirmi
come un girasole al primo raggio.
Deve essere, forse, nel distrarsi
il senso delle cose e per capire
ignorarne il linguaggio. Rimanere
ciottolo dall’onda levigato
predisposto allo sguardo.
V
È stato ieri,
non un tempo di più,
che, bambino,
disteso sul muretto del Convento,
parapetto sul vuoto,
immaginavo piogge di meteore,
stelle cadenti, se vuoi,
dove la luce confina con l’essenza,
il demiurgo, la mente,
il primo motore immobile
su questa palafitta di paure
per l’altro che covo dentro.
Oggi coltivo
l’arte di perdermi, trascino
aspettative sepolte nel passato
e mi figuro immense luminarie
sfavillanti al buio del mio niente.
VI
Che poi, nell’evenienza di invecchiare,
apra una vasta scia la memoria,
lontanissimi varchi, e un po’ cancelli
il passato recente è una fortuna.
Perché comincia da un appannamento
l’amaro ritorno. Gli addii
restano nelle mani chiuse a pugno.
E che parole vuoi che dica, amore,
al mattino assolato se già siamo,
nel cerchio che nasconde una vertigine,
un sorriso sfocato, l’indicibile
oltre l’orizzonte degli eventi.
Bellissima questa lettura! Ricordi, sogni ,realtà . Che bella quella del bambino disteso sul muro del convento….!
Tanto anche mi piacciono i passaggi da tristezza ad allegria, come risvegliarsi da un sogno con la forza ancora di credere nel futuro comunque esso sia.
Il coraggio della non più facile età.
Complimenti tanti!
son tutti versi molto interessanti. Mi ha colpito la seconda delle prime e la sesta delle inedite
..veramente belle queste poesie di Domenico Melillo.
L’autopresentazione dell’autore,in terza persona come per stabilire un distacco nella familiarità, è una nota umoristica molto originale…
Tra le poesie del primo gruppo mi ha colpito molto la terza dove il tema dell’attesa appare centrale nell’esperienza del poeta: “atleta dell’attesa”, che immagino come esercizio doloroso. Solo il viaggio, perduto ogni scopo:
“…Basta a illudere/ l’attesa dell’attendere”. L’attesa cosi’ descritta sottintende la dimensione umana in un’assenza pungente …
Nella quarta poesia delle inedite il poeta, in qualche misura, ribadisce un concetto analogo quando, per un risveglio particolarmente felice, si chiede il perchè di quella parentesi di una giornata serena e pensa:
“Deve essere forse nel distrarsi/ il senso delle cose e per capire/ ignorarne il linguaggio” Come un invito a lasciare in disparte il peso ingombrante dei nostri pensieri per cogliere la vita nel verso giusto…
Molto bella la quinta poesia inedita per quel ricordo straordinario del poeta bambino disteso nella notte sul muretto a precipizio di un convento ad ammirare le stelle e l’universo. Con quella consapevolezza già acquisita di trovarsi “…su questa palafitta di paure/ per l’altro che covo dentro.” L’aspirazione alla luce è un motivo ricorrente, come volondo su un aliante che pero’ poi, necessariamente, plana verso il suolo, la realtà che ci riprende…Sono poesie cariche di speranza, di sogno, ma c’è anche un rigore realistico e scientifico nell’operare del poeta..
@ Annamaria
“L’autopresentazione dell’autore, in terza persona”
Preciso che la presentazione non è di Domenico Melillo ma di D. S. [Donato Salzarulo]
.. mi scuso con Donato Salzarulo e con l’autore
Forse va bene – ma forse anche non dovrei commentare essendo in qualche modo parte in causa – essere cedevoli e rassegnati:
“se la notte presenta, all’improvviso,/un suo tributo di facce, e di parole,/questuanti affetto”
oppure
“il succo della terra,/plasma la creta/del nuovo giorno, raspa sull’aia/come ogni altro animale, spera e attendi,/come attendi ogni giorno,/che prima della sera/si avveri un nuovo sogno ad occhi aperti”, ma basta cedere a una specie di destino trascendente che ci vuole queruli e questuanti.
Santoiddio, così ficcati in terra, ogni creatura umana è un verme. Perchè disperazione? La speranza dà forza, e pure la dimentica, quando si comincia. E’ vero che siamo un popolo di vecchi, me too, e allora? che vuol dire?