di Gianfranco La Grassa
I personaggi cecoviani e Oblomov hanno certamente alcuni elementi in comune. Per certi versi, i primi sono pur essi affetti da un qualche “oblomovismo”, termine (almeno un tempo) usuale in Russia per denotare certi caratteri salienti del cosiddetto “animo slavo”: la fantasia unita alla pigrizia più spinta, l’ardore tutto immaginario per una vita “nobile ed elevata” soltanto pensata, vagheggiata, ardore unito alla più completa inconcludenza e incapacità di perseguire con costanza gli “alti” obiettivi voluti nella pura e semplice immaginazione. A ciò si aggiunga l’incessante fantasticare, o addirittura sognare (magari ad occhi aperti), con progressivo infiacchimento della propria volontà, della capacità di dare concretamente senso alla propria vita.
Tuttavia, Oblomov e i personaggi cecoviani hanno anche notevoli differenze, che rinviano alla diversa epoca storica in cui essi sono situati; Gončarov crea il suo memorabile protagonista in pieno ottocento, Čhecov situa le vicende dei suoi drammi alla fine del secolo. Oblomov è il rappresentante di una classe piccolo-nobiliare ormai in decadenza, è indebitato, impoverito a causa del suo totale assenteismo, del vivere in città lontano dalla sua proprietà terriera, le cui rendite vengono progressivamente incamerate (assieme alla proprietà stessa) dallo stàrosta, una sorta di affittuario di tipo ancora parzialmente feudale, che costituisce l’embrione di una nascente borghesia agraria. Non a caso Stolz, l’amico di Oblomov, rappresenta il suo contraltare, il borghese proprietario di terra, che dirige in proprio l’azienda agricola, compie innovazioni nelle coltivazioni, ecc., arricchendosi laddove l’altro, con la sua accidia e bontà puramente passiva, arretra economicamente e socialmente.
Diversa la situazione in Russia a cavallo dei due secoli. La borghesia agraria si è già sviluppata ai limiti delle sue possibilità nell’asfittica società semifeudale, ed è ormai anch’essa in difficoltà, vivacchia senza più l’energia e la spinta innovativa concreta di uno Stolz. I personaggi cecoviani sono quindi dei borghesi colti, dediti a fantasticherie utopiche circa il futuro della società russa (e persino dell’umanità tutta), ma che conducono in realtà una vita di sostanziale sopravvivenza, di relativa decadenza, mentre avanza una nuova borghesia rurale ben più rozza e sanguigna, costituita dai kulaki, contadini arricchiti del tutto incolti, ignoranti, che si portano addosso, assieme ai soldi, l’odore di stalla, di letame.
Le grandi speranze di uno sviluppo pienamente borghese (e dunque grande-capitalistico) autoctono si sono spente presto in Russia, a causa della forza d’inerzia della struttura semifeudale di una società dominata dall’autocratismo zarista, caratterizzata dallo sviluppo del tutto insufficiente di una industria nazionale e indipendente. Il radicamento di un’industria capitalistica minimamente moderna resta confinato a poche grandi città (quasi esclusivamente a Mosca e Pietroburgo) ed è tributario, essenzialmente, del capitale straniero, in particolare tedesco ed inglese. Per il resto, esiste una certa diffusione dell’industria semiartigianale di tipo rurale, tecnologicamente assai arretrata e primitiva, fondata com’è sull’estremo sforzo lavorativo di una mano d’opera che, in larga parte, è prettamente contadina e resta pur sempre legata alla terra.
Questa struttura sociale così poco tipica di un paese capitalistico moderno, questo mare di contadini – al cui interno, con la decadenza della nobiltà feudale zarista, vanno emergendo i kulaki – appena intaccato da piccole isole operaie, è una delle principali cause della necessità stessa (non della semplice possibilità) della presa del potere bolscevica nel ’17, con la parola d’ordine della rivoluzione da parte della classe operaia poggiante sull’alleanza con i contadini poveri, ai quali venivano distribuite le terre espropriate ai kulaki; espropriazione e distribuzione non sempre effettuate concretamente, anche se formalmente decretate, per impossibilità oggettiva di esercizio del potere sovietico sulla vasta periferia dell’immenso paese, in una situazione, protrattasi per anni, di guerra civile, di carestia, ecc. Questa situazione è d’altronde anche uno dei principali motivi della difficoltà di “costruzione del socialismo”, una volta caduta la possibilità di rivoluzione in occidente, e della necessità di un accelerato processo di industrializzazione soprattutto negli anni ’30 (dei cui motivi pressanti ho discusso altre volte).
Tornando ai nostri “eroi”, la classe piccolo-nobiliare in via di rovina e di “pacifica” espropriazione da parte degli stàrosta (classe di cui fa parte Oblomov) e la borghesia ancora prevalentemente legata alla campagna, protagonista dei drammi di Čhecov, hanno in comune una caratteristica: quella di essere classi sociali “storicamente” sconfitte, dall’energia ormai fiaccata, incapaci di reagire ad un declino che le segna in profondità, incapaci di vero contatto con una realtà che sfugge vieppiù alla loro comprensione. La prima classe, tuttavia, ha avuto un lungo passato migliore del presente, uno status sociale più elevato da cui sta decadendo; essa ha ancora la memoria di una funzione storica positiva, di una funzione di classe dominante (anche se apparteneva agli strati inferiori di detta classe). La seconda, invece, non ricoprirà mai un ruolo storicamente attivo, propulsivo, è una classe di pura transizione, stretta tra un passato di sostanziale subordinazione ed un futuro privo di reali prospettive di sviluppo; essa vive quindi completamente nel presente, in un “attimo” storico che sempre le sfugge, su cui avverte – pur se confusamente, quasi inconsciamente – di non avere presa alcuna.
Solo alcuni personaggi di carattere “intellettuale” – il medico di campagna, l’eterno studente, ecc. – hanno più vivida coscienza del dramma attuale della loro classe priva di energie vitali, di effettivo avvenire; mentre tale coscienza diviene più collettiva, più corale, solo nei rari momenti in cui esplode apertamente la conflittualità latente in personaggi largamente frustrati dalla vita sonnolenta di una provincia arretrata, e come tagliata fuori dal flusso storico più effervescente di altri paesi europei. Tale coscienza, in ogni caso, non diventa mai, in nessun momento, fonte di fattiva volontà di riscatto, di impegno più tenace e prolungato, di uscita (magari di fuga) da una situazione oggettiva così ristretta e meschina; tutto viene sempre rinviato ad un futuro immaginario, alle generazioni a venire, ad eventi semiapocalittici (vago presagio della rivoluzione, non compresa però, né presentita, nei suoi reali contorni e significati politico-sociali) che fungono da vero e proprio deus ex machina.
Oblomov attraversa, è vero, un breve periodo di effervescenza e di impegno concreto, quando conosce e ama Olga; egli mangia e dorme di meno, ha interessi culturali più vivaci, progetta perfino, anche se invano, viaggi all’estero e vagheggia di interessarsi direttamente della sua proprietà terriera. Si tratta però di un momento del tutto fugace e assai atipico per il suo carattere. Egli è buono, generoso, totalmente privo di egoismi e di meschino attaccamento al suo “particolare”; ma è anche privo di spiriti vitali, è pigro e indolente in modo quasi programmatico. Messo a confronto con un mondo borghese nascente (quello dell’amico Stolz), che gli appare tumultuoso nei suoi commerci ed interessi economici assai concreti, egli è spaesato, sente questo mondo come qualcosa di pienamente estraneo al suo essere più profondo, alla sua educazione, come qualcosa di troppo volgare di contro alla memoria della sua infanzia vissuta in campagna.
Egli ricorda perciò la “dolcezza” della vita rurale, incarnatasi nella figura materna cui resta sempre visceralmente legato (la Madre e la Terra sono le due matrici fondamentali della sua personalità); ricorda il piacevole torpore delle lunghe giornate estive, il cui fulcro era per lui costituito dal riposo pomeridiano contrappuntato dal monotono ronzio delle mosche; ricorda le lunghe serate invernali, in cui si stava tutti riuniti nel calore di una stanza, in cui gli adulti, a turno, raccontavano insulse storielle che catturavano comunque la sua attenzione, nel contempo ottundendola e preparando la mente e il corpo al sonno notturno sotto tepide coltri teneramente rimboccate dalla madre o dalle servantes.
Oblomov ama la pigrizia, la sonnolenza, il torpore, i “mezzi” sogni del dormiveglia, perché ogni attività gli sembra comunque attentare alla spiritualità della vita, all’elevatezza di un nobile sentire; l’attività “sporca le mani”, involgarisce, distrae da una concezione gentile, armonica, pacificata, della vita. Se per vivere in società, per darsi da fare in modo utile, a sé e agli altri (ma più a se stessi che agli altri, nell’ embrionale società borghese), è necessario entrare in conflitto con questi altri, è necessario ferire o essere ferito, allora è per lui meglio stare a sonnecchiare, frequentando le poche persone amiche, quelle in grado di tollerare il suo carattere rinunciatario, chiuso in se stesso (pur se generoso, almeno nelle intenzioni), pauroso della vita e di ogni impegno.
Diverso certamente è l’atteggiamento dei personaggi di Čhecov, che sono dei tipici velleitari. Essi non aborriscono programmaticamente l’impegno verso la vita sociale; anzi, ne fanno spesso un gran parlare. Il loro è un cicaleccio incessante sui destini dell’umanità, sulla possibilità, e anzi ineludibile necessità, di riforme sociali, di rinnovamento radicale del costume e della cultura russe. Essi soffrono profondamente dell’ambiente chiuso e asfittico in cui sono obbligati a recitare la loro parte nel consesso civile; ma vi sono sempre particolari contingenze in cui si entusiasmano e credono di poter uscire con vigore dal soffocante condizionamento del conformismo provinciale. La loro parola d’ordine diventa allora: “fare, andare, agire, lavorare, cambiare le cose, e via dicendo”. Poi… crollano miserevolmente di fronte al più piccolo impaccio, alla menoma difficoltà in cui incappano. Lo stato d’inedia li riafferra, il gorgo dell’immobilismo si richiude su di loro, le spire di una realtà cristallizzata li riavvolge; e ad essa si lasciano andare con cupa disperazione, senza più l’anelito al meglio che, per un momento, li aveva animati e resi esseri umani più degni, più civili.
Essi ricominciano allora ad incolpare un Destino ineluttabile, si chiedono il perché di tanta sofferenza nella vita degli uomini; e non vedono altra soluzione che quella di piegare il capo, di rassegnarsi alla sorte avversa – che pensano comune a tutti gli esseri umani nell’epoca, e nella società, in cui vivono – rinviando la possibilità di riscatto ad un’epoca successiva, in cui però ad altri sarà dato di agire e di conseguire ciò che essi non potranno mai ottenere (ma perché non sanno impegnarsi, non sanno volere il perseguimento di certi obiettivi elevati). I drammi cecoviani finiscono sempre con la solitudine opprimente dei personaggi – commuove oltre ogni limite pensabile, il colloquio finale tra Zio Vania e la nipote – ma spesso con l’oscuro loro presentimento che, prima o poi, qualcosa dovrà pur avvenire, una qualche parte di felicità dovrà infine toccare in sorte agli uomini; però non più a loro ormai, bensì ad altri esseri umani che creeranno e vivranno in una società migliore, meno conflittuale ed egoistica, più armonica e pregna di solidaristica convivenza civile.
L’artista non sa dire, mediante i suoi personaggi, come tutto questo potrà avverarsi, come il futuro potrà rischiararsi di nuova luce. Tutto è avvolto in un tono di confuso presagio, quasi di desiderio che ciò avvenga più che di speranza effettiva che le vicende umane possano migliorare veramente in futuro. Il tono oscilla da un vagamente mistico, quasi religioso, annuncio di tempi più sereni, se non proprio felici, ad un ben più solido, e terreno, pessimismo circa la condizione umana attuale. Le frasi che, nel finale, i personaggi spesso pronunciano reiteratamente, manifestando un forte, quanto generico ed imprecisato, ottimismo circa il futuro dell’umanità, sono certamente poetiche, dense di emotività e di pathos, ma sembrano assai più autoconsolatorie che convinte, assomigliano al tentativo di crearsi un’immagine del tutto illusoria circa il radioso futuro per altri, pur di poter sopravvivere in qualche modo alle proprie delusioni nel tempo presente così amaro e dolorosamente vissuto.
La grandezza dell’artista si proietta, indubbiamente, sui personaggi che crea. Oblomov come Platonov o zio Vania o le “tre sorelle”, ecc., acquistano dimensioni liriche e tragiche tramite la penna di Gončarov e di Čhecov. Nei loro personaggi vi è senz’altro una certa qual grandezza, un sentire più elevato della media, delle potenzialità più che degne di considerazione per quanto restino inefficaci (pur essendo ben espresse; ma solo verbalmente). La grandezza dei personaggi è appunto il riflesso di quella degli artisti, è il modo secondo cui questi ultimi esprimono pietà, partecipazione, simpatia, per quanto di nobile vi è nell’animo degli “sconfitti”. E del resto, questa sconfitta non è mai, in Gončarov ed in Čhecov (com’è invece, ad es., nel Joyce de “I morti”), un fatto puramente individuale, esistenziale, bensì il riflesso, nei singoli, della decadenza o dell’impasse storica della classe sociale, cui appartengono i protagonisti delle loro opere. I vinti sono, in qualche modo, fra i migliori, fra i più sensibili alla catastrofe morale di una classe già dominante (anche, e soprattutto, culturalmente), alla incipiente disgregazione della società tutta che fa seguito alla progressiva decomposizione di tale classe, alla putrefazione della cultura più conformista.
Eppure, non si può non provare anche rabbia, ed un pizzico di disistima (se non addirittura, in certi momenti, di disprezzo), di fronte all’abissale passività, alla mollezza, alla mancanza di coraggio e tenacia, di queste personalità accidiose ed ignave. Oblomov sogna l’impossibile armonia del convivere sociale, riflesso immaginario della sua infanzia “felice” perché sonnolenta, ben protetta dall’amore materno e dalle cure dei servi. I personaggi cecoviani si crogiolano nei loro dolori, nella loro sconfinata amarezza, come segno di distinzione aristocratica, elitaria (e solitaria), rispetto al conformismo dei più. Essi hanno momenti di ingenuo, quanto generico ed utopico, entusiasmo nei confronti di un’umanità astratta, proiezione dei loro inconcludenti aneliti di riscatto morale; non sono però minimamente sorretti da adeguata volontà, da incisivo progetto, e scaricano così sempre le colpe dei loro reiterati fallimenti su altri.
Ognuno di loro dice spesso crudeli verità su quelli che lo circondano, che hanno influenzato e influenzano la sua vita, ma raramente, in pochi momenti di più acuta disperazione, su se stesso. Il quadro complessivo che ne risulta è crudamente veritiero circa l’inazione, la masturbazione intellettuale e morale dei vari personaggi, i quali però, presi uno ad uno, continuano – almeno sino allo scioglimento finale del dramma – ad avvoltolarsi in nevrosi infantili, in finzioni intessute di pigrizia e incapacità di vivere realmente.
Non soltanto nessuno fa nulla di veramente efficace per tentare di cambiare il corso di un Destino ritenuto ineluttabile, perché questo sarebbe ancora comprensibile in un’epoca di completa marcescenza della società e della sua cultura. Più grave è il fatto che nessuno tenta nemmeno di lasciare una più valida testimonianza di indomita resistenza allo sfacelo complessivo, di radicale non accettazione del generale conformismo, della palude morale. Tutto il fattibile viene scaricato sui posteri esattamente come su parenti e amici viene scaricata la responsabilità principale della propria nullità, della propria inettitudine a centrare un qualsiasi obiettivo appena appena vitale.
E’ quindi evidente che, accanto alla pietà, si insinua nell’animo dei lettori avveduti di Gončarov e di Čhecov la sempre più netta presa di distanza dall’insipienza dei personaggi creati da questi autori, che – e questo sembra del tutto evidente – vogliono esattamente provocare questa sensazione, poiché anch’essi manifestano chiaramente, all’indirizzo di questi personaggi, un misto di pena e di giudizio lucidamente impietoso.
giusto qualche cosetta da dire
… intanto si deve scrivere correttamente: Antòn Čhecov ;
e nel delineare, come è necessario, il personaggio Oblomov si deve citare obbligatoriamente il celebre articolo del critico letterario radicale N. A. Dobroljubov “Che cos’è l’oblomovismo” (1859); e non si può far subito un rapporto fra i personaggi di Čhecov e l’ Oblòmov di Gončaròv senza che si siano prima delineate le discendenze (letterarie) di quest’ultimo…
…che quasi tutto parte dall’Onégin di Puškin… (quel “quasi” perchè già in Der žavin e altri prima di Puškin è presente un “primitivo” oblomovismo)…
…dunque si passa dal Pečòrin di Lèrmontov e così via fino a Čhecov, e oltre in pieno secolo ventesimo… persistendo l’oblomovismo finanche durante il periodo comunista… fino ad oggi!… e credo per sempre…
“… intanto si deve scrivere correttamente: Antòn Čhecov ” (Sagredo)
Giusta obiezione. Ho corretto.
Pignoleria per pignoleria si dovrebbe scrivere correttamente: Anton Pavlovič Čechov , che è l’esatta trascrizione del russo: Антон Павлович Чехов.
Ma Čechov sarebbe ancora più vicino al russo se scritto Čekov, con una leggera aspirazione gutturale fra la k e la o.
La forma Čhecov è vecchia trascrizione italiana che di solito non usava il segno diacritico e si scriveva Checov, che un russo leggerebbe «Sesov» e non «Чехов». Deriva dalla trascrizione inglese «Chekhov» in tempi in cui i romanzi russi erano spesso tradotti non direttamente dal russo ma dalle versioni inglesi e francesi.
se queste sono le obiezioni, mi lasciano del tutto indifferente. Non sono un letterato e nemmeno ho mai insegnato letteratura. Sono un semplice lettore che, da ciò che leggo, vengo stimolato a mie riflessioni. In passato ho letto molti libri di fisica e allora possono venirmi in mente riflessioni e domande sul Cosmo. Da giovane avevo studiato bene tutti gli insetti (anatomia, fisiologia, ecc.) e anche lì mi ponevo domande; e anzi, ad un certo punto, ho tentato anche di sezionare i formicai, ma non avevo gli strumenti adatti. Ho studiato e insegnato Economia politica (ma non come “tecnica”, soprattutto come scienza delle dinamiche sociali) e lì continuo tuttora a scriverci o a fare video sull’argomento. Leggendo dei romanzi, mi saltano in mente mie riflessioni, ma che non sono certo di grande cultura letteraria. Riguardano gli stimoli ricevuti in merito alle mie convinzioni sulla vita, ecc. Quelle che mi sono formato in un certo ambiente sociale e vivendo una serie di eventi che hanno appunto impresso in me quelle convinzioni. Ti pregherei, caro Ennio, di non pubblicare le mie riflessioni sul tempo (a partire dalla lettura di Proust e di Bergson) perché non ne vale assolutamente la pena.
Condivido l’irritazione che trapela dal commento di Gianfranco La Grassa. Va bene correggere la trascrizione del nome dello scrittore russo e io l’ho fatto senza problema, ma penso che anche Ugo Foscolo si sarebbe incazzato se, pubblicando “I Sepolcri”, i lettori si fossero limitati a notare esclusivamente l’ “errore” di considerare l’upupa un uccello notturno, anziché diurno tacendo di tutto il resto.
P.s.
Appena posso intervengo sull’articolo .
Caro Aguzzi, cari miei
sono uno slavista e so quel che dico, e non dico altro
a.s.
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…e il mio Maetsro fu A. M. R.
…non si tratta di pignoleria si tratta di precisare qualcosina
… e sono stato perfino buono col signor La Grassa, perchè non ho voluto criticare il suo commento – che ai profan (Aguzzi e compagnia)i dirà qualcosa – agli slavisti soltanto “rifritture di vecchie cotolette” (Majkovskij).
per me basta così!
pardon “Majakovskij”, altrimenti ulteriore erba da dare in pasto!
Propongo che gli slavisti si buttino sulle riviste per slavisti e non rovinino ai non-slavisti il piacere di leggere riflessioni su autori e personaggi che hanno amato e di trovarle interessanti.
Mi piacerebbe molto leggere le considerazioni di Gianfranco La Grassa sul tempo in Proust e Bergson. Spero che ritorni sulla sua decisione di non pubblicarle.
Essendo stato a suo tempo un appassionato lettore di Cechov trovo questo confronto fra i personaggi di Cechov e l’Oblomov, a firma di Gianfranco La Grassa, che si dichiara un non addetto ai lavori, un intervento saggistico di rispetto, personale, fondato su presupposti letterari e storico-sociali chiari e condivisibili (Puskin resta il padre nobile che si può chiamare in causa ad occhi bendati, ma si può anche fare a meno di scomodare). La lettura del carattere dei personaggi di Cechov e l’Oblomov, così come vengono descritti nella loro dinamica interiore, trovano riscontro nella mia memoria, e vi aggiungono anche qualcosa in più. Condivido il giudizio sulla modernità dei personaggi di Cechov rispetto all’Oblomov, che non è solo di carattere storico ma soprattutto esistenziale.
Questo intervento di Gianfranco La Grassa mi fa riflettere sul fatto che la stragrande maggioranza dei letterati (compreso il sottoscritto) non saprebbero orientarsi nel campo della scienza così come il nostro sa fare in quello della letteratura.
Sagredo ha appena accennato, non da slavista, una idea prodotta dal testo di La Grassa che avrà attraversato credo la lettura di ognuno: conclude che l’oblomovismo -e quindi la stessa pigrizia dei personaggi cecoviani- persista fino ad oggi… e, crede, per sempre. Fino ad oggi e per sempre sono però due conclusioni contraddittorie: ceti rottamati e impotenti sono prodotti della storia (che è tutta di lotte di classi…). La pigrizia del “per sempre” sarebbe invece una piega antropologica, in opposizione forse alla superomista libertà del Moderno. Che non è d’altra parte nemmeno l’accidia frustrata e malevola del peccato capitale.
Spero anche io che La Grassa voglia pubblicare le sue riflessioni sul tempo in Bergson e Proust.
Mi dispiace per coloro che non comprendono l’intervento di Antonio Sagredo, che non ha bisogno di “proposizioni” e che non “rovina” un bel niente.
Le sue sono chiarificazioni che valgono per tutti e si propone disinteressato.
Ai signori Casati, Aguzzi, Grammann e altri è da proporre la lettura del saggio di Dobroljubov (su menzionato da Sagredo, che poteva dirci di decine e decine di scritti sull’oblomovismo, con perizia di esperto navigato, e di tantissime altre tematiche), e ripeto ancora che qui si tratta di interventi dilettantistici e provinciali che mancano di una panoramica profondissima a tutto spiano della letteratura russa (non pretendo che conoscano la lingua russa ovviamente): credo che sia necessaria l’umiltà e di rimettersi a chi ne sa più di loro (cosa difficile da realizzare).
Difatti Sagredo si impunta e si impone quando interventi non specialistici si arrogano il diritto di intervenire senza conoscere – se non molto relativamente o per niente affatto – e per questo suggerisce sinteticamente di partire da prima di Puškin fino ai giorni nostri.
Mi piacerebbe sapere chi di questi signori ha letto. p.e., gli splendidi saggi dei formalisti e strutturalisti russi (e non russi) su questo tema che qui si tratta. Qualcuno si inventa qui filologo slavo, linguista ecc. con prosopopea scolastica e a me mi esce fuori un risolino…
…sono una anglista e germanista che scrive su riviste di slavistica e non faccio mercato di settarismi: non separo, ma unisco, e comparo!
Le riviste per slavisti sono note al mondo per essere onnicomprensive e sono una eccellenza insuperata di lingue e letterature comparate… perchè uno slavista serio conosce perfettamente le altre lingue e varie letterature e leggere in lingue originali, e capacissimi per questo di dire delle arti di altre culture, come ricevere doni dagli specialisti non-slavisti : è uno scambio continuo, non un chiudersi in questa o altra rivista!
Anche io sono stata ammiratrice dei saggi dei grandi slavisti italiani, in primis di Ripellino che propongo di leggere… che a sua volta proponeva ai non slavisti felice di dare e di ricevere e non di separare.
@ franca rivelli
Poliscritture ha da sempre mirato al confronto/dialogo fra specialisti e dilettanti (o, in termini fortiniani, tra filosofi e tonti) evitando qualsiasi populismo o antiaccademismo preconcetti. Lo stesso Sagredo e qualche suo amico slavista hanno pubblicato varie volte su questa rivista. Ma se le ammiratrici come lei dei grandi slavisti italiani o le riviste per slavisti note al mondo ignorano Poliscritture o non si degnano di passare da queste parti, lei se la sente di imporre a dei lettori di alcune opere lette in traduzione, alle quali si sono appassionati di non aprire bocca fino a quando non abbiano letto ” il saggio di Dobroljubov” o non abbiano “una panoramica profondissima a tutto spiano della letteratura russa”?
Io proprio no.
P.s.
E comunque anche lei, oltre a qualificare con molta “umiltà” gli “interventi dilettantistici e provinciali” che noi ci possiamo permettere, non è entrata nel merito delle questioni presenti nello scritto di La Grassa.
Non so perché Antonio Sagredo e Franca Rivelli mi tirino in ballo a proposito dei contenuti di merito dell’articolo di Gianfranco La Grassa e del commento critico dello stesso Sagredo. Io, proprio perché sono un profano assoluto e non sono uno slavista nemmeno dilettante, mi sono limitato – con un po’ di ironia che non mi sembra sia stata colta – a far seguito all’errata – corrige di Ennio Abate a proposito del modo di scrivere in italiano il nome Чехов. Errata dettata da una giustificata esigenza di precisione, alla quale io ho aggiunto un’ulteriore precisazione. Limitandomi solo alla grafia del nome.
Che la mia precisazione sia corretta o sbagliata è comunque limitata alla grafia del nome e si basa sulla pratica fatta di lingue slave studiando il serbo-croato in un anno accademico a Belgrado e sulla mia curiosità di bibliofilo quando nel catalogare i miei libri cerco di rispettare i nomi stranieri. Se sbaglio, bene, niente di male. Ma solo di questo mi sono occupato.
Per il resto, che sia o no dovuto alla mia ignoranza in letteratura russa, ho letto volentieri l’articolo di La Grassa sebbene non me la senta di commentarlo proprio perché pur avendo letto i libri da lui citati, li ho letti molti anni fa e non ho tempo di rileggerli ora come sarebbe (per me) necessario fare per poter scrivere un commento in merito.
In quanto alla “pigrizia” di personaggi letterari e cinematografici, direi che può assumere diverse forme e fra queste le più diffuse sono quelle della pigrizia che impedisce di fare e quelle della pigrizia che non impedisce di fare ma che porta ad attività inutili che non concludono nulla, che servono solo a passare e dimenticare il tempo, un po’ nella tradizione dei “vitelloni” felliniani. Questi vitelloni sono personaggi reali e alcuni li ho conosciuti direttamente a Fano, mia città di origine, frequentata dal giovane Fellini che a Fano aveva un fratello studente ginnasiale e liceale in un collegio della città.
Le Simplegadi
Conducimi sulla soglia che martella la liquida torre
perché le pietre sono erranti per un desiderio della carne.
Il sangue crolla sulle strade cantando come spumosa sirena,
ma il traghetto ad ogni passo traduce la roccia alla rovina.
Quando la colomba s’accartoccia sul fiume ed Elia piange
nei canali in piena le oscure torbe discorrono coi lampioni.
Si scontrano i due Ulissi allo specchio coi fossili dei due Poteri
e la Madre non si trasmuta se la soglia è un calco della Storia.
Dublino, la troia, non è caduta per le madonne di pietra
e la soglia si muove se la Torre s’arresta al suo principio.
La paralisi ai piedi del Viceré gli fa cantare eretici salmi,
l’usuraia ha i denti cariati che segnano il nero selciato.
La città di birra e di patate e focacce di torba sanno di placenta,
la tosse dei libri parlanti espulse il negoziante come un feto.
L’epifania s’illumina come un accattone e Molly è pietosa,
il suo amante dalle scarpe gialle faceva il dandy come Bloom.
Esplose l’epifania come un occhio di bue levitando il palco,
le sorelle cucinano camicie e piselli, il tanfo delle ascelle è sparso.
Canta Stephen il corale sulla liquida soglia e i calzoni sono solidi,
il portone si chiude, i cardini sono in lacrime, i Poteri ambigui.
Antonio Sagredo
Roma, 25/26 novembre 2016
@ Sagredo
Mi spiace, ma replicare con un testo poetico in una discussione in corso – tra l’altro attizzata proprio da te con un commento niente affatto poetico – significa scantonare.
A proposito del commento della Sig.ra Rivelli e visto che ci muoviamo sul filo del puntiglio:
1)”perchè uno slavista serio conosce perfettamente le altre lingue”
Non ho ragione di dubitarne. Consiglierei tuttavia caldamente alla signora un ripasso della lingua italiana.
2)”Qualcuno si inventa qui filologo slavo, linguista ecc. con prosopopea scolastica e a me mi esce fuori un risolino…”
Sapesse che risolino mi esce fuori a me quando qualcuno si inventa capace di scrivere in italiano.
3)”per questo suggerisce sinteticamente di partire da prima di Puškin fino ai giorni nostri.”
Infatti. Io partirei dal Canto della schiera di Igor, mi sembra più serio.
4) e si potrebbe continuare. Mi fermo qui – per rispetto umano.
Mi permetto: non si potrebbe finirla qui e passare al discorso che La Grassa implicava?
@cristiana
Volentieri. Ma non mi sembra affatto che La Grassa implichi il “discorso” suggerito, mi pare del tutto autonomamente e senza particolari giustificazioni, da Sagredo.
Poi magari ho capito male.
Possibile, ma ottimisticamente credo, come ho scritto, che quell’idea, della “pigrizia” di ceti (più che classi) lasciati indietro dalla storia, per cui, secondo La Grassa, ci sono punti di contatto tra Gončaròv e Čhecov (ho fatto copiaincolla da Sagredo per non sbagliare), ecco, credo che quella pigrizia, che poi Sagredo attribuisce al sempre umano, sia un tratto psicologico che ha forse sfiorato forse ogni lettore del post. Il furore che possedeva molti nei trenta gloriosi, non potrebbe anche essersi trasformato in quella malinconica “insipienza” (con proiezioni) propria di molto discorrere del via via smagrito ceto medio? Processo che mi (ci) riguarda.
Non so. Ho letto Oblomov tantissimi anni fa, mi aveva fatto un’impressione potente proprio perché avevo riconosciuto nell’indolenza del personaggio una mia precisa tendenza – psicologica direi, perché sociologicamente o storicamente (all’epoca) farei fatica a spiegarla. Se affine o no all’accidia non saprei – sicuramente priva di quel “fummo” che all’accidia attribuisce Dante.
La “malinconica insipienza” mi pare faccia più riferimento ai personaggi di Cechov e capisco che vi si possa vedere un’analogia con la stanchezza rinunciataria di un “ceto medio smagrito”, e magari un po’ avanti con gli anni – il quale però, a differenza dei personaggi di Cechov non avrebbe neanche più la forza di prospettare una futura utopia.
Quello che preoccupa me (e mi toglie energia) è il fatto che l’Europa, culturalmente, sembra non avere più niente da dire. Credo che a un livello così radicale sia una novità. Ed è arrivata in due e due quattro.
Un commento non è una recensione. Inviterei perciò a non lasciarsi intimidire dai Feticci dello specialismo e a intervenire con il sapere di cui ciascuno dispone nel merito dell’articolo di La Grassa. Come altri hanno rilevato, esso è di tutto rispetto. (Tra l’altro, senza voler insistere nella polemica con gli slavisti, egli accoglie di fatto il concetto di base del “ tipo sociale dell’uomo superfluo” del saggio di saggio Dobroljubov “Che cos’è l’oblomovismo” del 1859 [1]).
Entro a modo mio nel merito. Certo, mi posso chiedere che tipo di lettura La Grassa fa di Gončarov e Čhecov e se gli strumenti della sua interpretazione siano aggiornati. Preferisco però lasciare agli specialisti la questione, se volessero approfondirla e non limitarsi al “vade retro, profano!”. Io trovo interessanti due problemi che la sua lettura di autori tanto lontani da noi ha proposto:
1. Il rapporto tra immaginazione e realismo.
Direi che La Grassa tiene ferma una critica drastica (per me anche troppo) all’immaginazione, tanto da far pensare a quella che nei decenni passati c’è stata per la sessantottesca” immaginazione al potere”:
“ l’ardore tutto immaginario per una vita “nobile ed elevata” soltanto pensata, vagheggiata, ardore unito alla più completa inconcludenza e incapacità di perseguire con costanza gli “alti” obiettivi voluti nella pura e semplice immaginazione”
All’immaginazione (sterile, idealistica, vaga) egli contrappone un realismo che chiamerei etico/politico e non esente da un certo volontarismo:
“Tale coscienza, in ogni caso, non diventa mai, in nessun momento, fonte di fattiva volontà di riscatto, di impegno più tenace e prolungato, di uscita (magari di fuga) da una situazione oggettiva così ristretta e meschina; tutto viene sempre rinviato ad un futuro immaginario, alle generazioni a venire, ad eventi semiapocalittici (vago presagio della rivoluzione, non compresa però, né presentita, nei suoi reali contorni e significati politico-sociali) che fungono da vero e proprio deus ex machina”;
2. L’attualità o meno di una riflessione sull’ oblomovismo (che tanto fa pensare ad una critica dell’inetto sveviano) o dei personaggi cecoviani.
Quando, infatti, scrive:
“Le frasi che, nel finale, i personaggi spesso pronunciano reiteratamente, manifestando un forte, quanto generico ed imprecisato, ottimismo circa il futuro dell’umanità, sono certamente poetiche, dense di emotività e di pathos, ma sembrano assai più autoconsolatorie che convinte, assomigliano al tentativo di crearsi un’immagine del tutto illusoria circa il radioso futuro per altri, pur di poter sopravvivere in qualche modo alle proprie delusioni nel tempo presente così amaro e dolorosamente vissuto”
fa intravvedere, attraverso la critica che egli fa dei personaggi degli scrittori russi, una forte somiglianza con la critica in ambito politico di tanti suoi scritti e video You Tube contro l’”umanitarismo”, il “buonismo”, i nostalgici del “comunismo”(o di altre ideologie per lui “superate”).
Sul piano della interpretazione critica della letteratura, La Grassa, del tutto estraneo alle mode postmoderne imperanti, continua a fondare la sua analisi su una valutazione della storicità degli autori e dei personaggi. Fa, insomma, una lettura che una volta si sarebbe detta “di classe” con echi dell’estetica marxista di Lukàcs e forse con una velata nostalgia per lo storicismo. (Gli esempi da portare sarebbero numerosi, ma per ora li salto).
Si potrebbe poi obiettare che in lui prevalga l’ attenzione agli aspetti storico-economico-politici a scapito di quelli stilistico-letterari Eppure sarebbe falso sostenere che sia sordo ad essi e alle istanze psicologiche sia degli autori che ancora una volta dei personaggi.
Porto ad esempio solo due stralci:
1. “Oblomov ama la pigrizia, la sonnolenza, il torpore, i “mezzi” sogni del dormiveglia, perché ogni attività gli sembra comunque attentare alla spiritualità della vita, all’elevatezza di un nobile sentire; l’attività “sporca le mani”, involgarisce, distrae da una concezione gentile, armonica, pacificata, della vita”;
2. “Diverso certamente è l’atteggiamento dei personaggi di Cechov, che sono dei tipici velleitari. Essi non aborriscono programmaticamente l’impegno verso la vita sociale; anzi, ne fanno spesso un gran parlare. Il loro è un cicaleccio incessante sui destini dell’umanità, sulla possibilità, e anzi ineludibile necessità”.
C’è, dunque, in lui una precisa chiave d’interpretazione marxista: è il contrasto storico-sociale che spiega le scelte stilistiche degli scrittori e i caratteri dei personaggi. Ad esempio:
“ Messo a confronto con un mondo borghese nascente (quello dell’amico Stolz), che gli appare tumultuoso nei suoi commerci ed interessi economici assai concreti, egli è spaesato, sente questo mondo come qualcosa di pienamente estraneo al suo essere più profondo, alla sua educazione, come qualcosa di troppo volgare di contro alla memoria della sua infanzia vissuta in campagna.
Infine, può essere discutibile il giudizio di valore forse moraleggiante che guida la sua lettura. Faccio ancora due esempi:
1.
“Eppure, non si può non provare anche rabbia, ed un pizzico di disistima (se non addirittura, in certi momenti, di disprezzo), di fronte all’abissale passività, alla mollezza, alla mancanza di coraggio e tenacia, di queste personalità accidiose ed ignave”.
2.
“I personaggi cecoviani si crogiolano nei loro dolori, nella loro sconfinata amarezza, come segno di distinzione aristocratica, elitaria (e solitaria), rispetto al conformismo dei più”.
Discutibile, perché è come se presupponesse che si poteva uscire da quelle loro ideologie:
“Non soltanto nessuno fa nulla di veramente efficace per tentare di cambiare il corso di un Destino ritenuto ineluttabile, perché questo sarebbe ancora comprensibile in un’epoca di completa marcescenza della società e della sua cultura”.
D’altronde quale critica, se non vuole giustificare l’esistente ( anche quello registrato dalla letteratura) non deve un po’ mordere autori e personaggi?
Nota.
[1]
Cfr. https://2018.aulaweb.unige.it/pluginfile.php/218418/mod_resource/content/1/Dickinson%20Dobroljubov%20italiano%202018.pdf#:~:text=di%20Nikolaj%20Dobroljubov&text=Il%20termine%20%E2%80%9Coblomovismo%E2%80%9D%2C%20coniato,intera%20generazione%20di%20russi%20contemporanei.
Io non so se La Grassa abbia letto il saggio di Dobroljubov, di cui si parla nel file che ho trovato, ma si capisce che le cose scritte sull’oblomovismo ne tengono di fatto conto.
non è previsto mettere un like, ma concordo con quanto hai scritto
Mi dispiace e mi scuso con tutti, se tutti si sono sentiti offesi.
Ma coi miei versi ho soltanto realizzato un principio del formalista russo Viktor Šklovskij, quello dello “straniamento”, esposto tra l’altro in un suo volume “La mossa del cavallo”, tutto qui.
@ Sagredo
Caro Antonio,
nessuno – io no di sicuro – si è sentito offeso dai tuoi versi o dall’applicazione dello “straniamento”. Sconcerta – (o almeno a me sconcerta, malgrado la mia apertura nei confronti delle tue poesie e la reiterata attenzione a tutto ciò che hai proposto in passato su Ripellino e le letterature slave) – il tuo obiettare su minuzie non di sostanza. Se uno – che non conosce il russo, è un appassionato lettore di Cechov, l’ha letto in traduzione, ci si è appassionato fino a scrivere un saggio – traslittera il nome in maniera errata, quale attentato alla fama di quel grande narratore ne viene? Era il caso di piantare tutto questo casino? Comunque, un merito ti va riconosciuto: hai costretto tutti a leggere con più attenzione il testo di La Grassa.
Gli scritti di A. M. Ripellino sono stati quelli che, molti decenni fa, mi hanno introdotto nella sconfinata pianura della letteratura russa fra Otto e Novecento. Nella mia libreria ne conservo ancora le prime edizioni. La lettura, fra gli autori russi, di A. Cechov mi ha dato , da scrittore, il gusto e la misura del racconto. L’ho sempre considerato come un maestro di questo genere letterario; perciò ho letto con attenzione e vivo interesse il breve saggio di La Grassa, dove si mettono a confronto personaggi cechoviani con l’Oblomov (anche se non sono uno slavista, avendo sempre mirato a un orizzonte letterario universale). Mi ha sorpreso la reazione di A. Sagredo a questo intervento, che ho valutato come fondato e mirato allo scopo, nel nome di una ‘cultura’ slavista per la quale egli si sente autorizzato a togliere la parola e a mortificare il nostro, senza per altro entrare nel merito delle sue affermazioni.
Voglio ricordare che la tradizione letteraria a noi pervenuta è il frutto di opere che sono passate al vaglio di comuni lettori, intelligenti e appassionati, di varia cultura, che ne hanno garantito nel tempo la qualità; al di fuori e al di sopra degli interventi di tanta critica e di tanti accademici che hanno preso degli svarioni e dei granchi colossali e che non ci avrebbero di sicuro trasmesso tanti capolavori che il tempo ha invece consacrato.
Buona parte degli scrittori e dei poeti nella loro vita hanno esercitato altri mestieri. La funzione della critica è indubbiamente fondamentale e presuppone la conoscenza di adeguati strumenti ( quando non si tratta della critica sulla critica, in una sorta di meta-linguaggio che riduce a un evanescente fantasma l’opera o l’autore oggetto di analisi). Ma anche qui il ‘dilettantismo’ intelligente potrebbe dimostrarsi più valido di un accademismo gravato da condizionamenti di vario genere e da sovrastrutture ideologiche difficili da cancellare una volta acquisite, a fronte della ‘verginità’ di un dilettante.
Con ciò voglio dire semplicemente che nel confrontarsi con altri, anche se non fanno parte di quella che si autocelebra come una élite culturale, lo si fa con umiltà e col dovuto rispetto; fermo restando che il principio della conoscenza rimane sempre quello della consapevolezza della propria ignoranza, e che il bagaglio delle conoscenze non deve essere mostrato con intento esibizionistico, dato che questo non ci garantisce affatto sul grado della nostra intelligenza.
Gestire il ‘potere’ in campo culturale è contrario allo spirito della cultura, che presuppone appunto la libertà e l’originalità. Il mio intervento (che sarà anche l’ultimo) è rivolto pure a Franca Rivelli, che non ho il piacere di conoscere, ma dalla quale sono stato chiamato in causa.
…mi ha interessato lo scritto di G. La Grassa anche perché mi ha acceso un lume nella comprensione di un romanzo che sto, proprio un caso, leggendo in questi giorni:
“IL giocatore” di F. Dostoevskij, un autore russo della stessa epoca di quelli citati. La mia Biblioteca di Quartiere, Milano sud, ha scelto questa lettura, insieme ad altre, all’nterno di un progetto per la prevenzione e la cura delle dipendenze. Nel mio quartiere infatti sono attive diverse case da gioco ed è piuttosto diffuso il consumo di sostanze che creano dipendenza …All’inizio ho provato una sorta di repulsione nei confronti dei personaggi della vicenda narrata: un gruppo di aristocratici proprietari terrieri decaduti, avventurieri, avventuriere a “sfidare il destino”, come si esprime il protagonista – un colto precettore (il giocatore, alias Dostoeovskij) al servizio di una sedicente “ricca” famiglia- nel casino’ della fantomatica città prussiana di Roulettenburg…I personaggi secondari e il protagonista sono scossi da passioni tuttaltro che utopiche, ma esaltate come tali persino con orgoglio. Pigri e privi di scrupoli, appaiono soffrire di un “oblomovismo” esasperato e degenerato, sino alla schiavitu’ masochistica nei confronti del gioco e non solo…Emblema di una classe sociale ormai allo sbando, il “giocatore” appare vuoto di valori, in lui non “aleggia” l’immaginazione utopica di un popolo “contemplativo” e tantomeno faticano a farsi strada idee nuove di cambiamento radicale, in un paese di estrema arretratezza sociale…Mi chiedo come l’insegnamento di Dostoevskij possa essere di aiuto oggi..
Gentile Annamaria Locatelli,
anche i personaggi di Dostoevskij (tutti), come Oblomov, sono ancora presenti… (lo sono?, si perché sono antecedenti agli stessi scrittori/poeti che li hanno tradotti in superficie) nella Russia odierna, come dire: furono, sono e saranno, poiché fanno parte del bagaglio genetico russo; e questo vale per tutte le restanti culture).
Tutti personaggi di tutti gli scrittori/poeti russi percorrono il territorio russo, presenti ancora oggi e non potrebbe essere diversamente) e ne definiscono la tramma dei caratteri di varie personalità. Non dico cose nuove.
I personaggi di Dostoevskij furono ossessivamente presenti e rappresentati dagli autori futuristi, p.e. Majakovskij attinge a piene mani e ne tratteggia i caratteri fino allo sfinimento, fino alle deformazione iperbolica delle sue visioni. Ma non solo questo poeta, tutti di quell’epoca attinsero perché la rivoluzione ottombrina ne liberò le potenzialità nascoste traducendole nella vita quotidiana d’allora.
E fu proprio la quotidianità ( la normalità!, come maniera di vita odiatissima dallo stesso Dostoevskij) il pericolo massino d’ogni autore, poiché non ne sopporatarono il ritorno dopo la rivoluzione… da qui i suicidi, il non scrivere più, gli esili e infine le deportazioni coatte e tutto il resto…
Termino dicendo (poiché mi sono riletto tutti gli interventi) che tutto sommato la polemica anche quando è un po’ scorretta (Sagredo) ha il merito di vivificare il dibattito (come scrive il signor Abate), ma posso assicurarvi che Sagredo (lo conosco da 30 anni) è una persona dal carattere umile e modesto ma non troppo, ed è sempre in buona fede ma non troppo, ed infine diverte i suoi amici con paradossi e giochi linguistici… ma non troppo. Quindi le sue scuse sono sincere, ma non troppo! Non si prende molto suil serio, ma non troppo.
F. R.
———————–
e se rileggete – su – i suoi versi noterete, come il suo talento tratteggia il mondo irlandese di Joyce con poche parole, perché le sue poesie sono anche dei saggi:
caratteristica fondamentale della sua poesia unita a una teatralità fittizia ma non meno reale della realtà che ci circonda. Questo scrivo per intendere meglio i suoi interventi.
Dal commento di Franca Rivelli:
“furono, sono e saranno, poiché fanno parte del bagaglio genetico russo; e questo vale per tutte le restanti culture”.
L’eterna anima slava?
Quando Cristiana Fischer, più sopra, a proposito del commento di Sagredo parlava di “piega antropologica” io ci vedevo invece una piega un po’ razzista. Pensate come suona se io mi metto a parlare di eterna anima ebraica o eterna anima africana o eterna anima meridionale e del loro bagaglio genetico.
Occhio, perché “furono, sono e saranno”, per quanto affascinante, è un po’ pericoloso.
Riconosco che piega antropologica sia una espressione approssimativa, ma l’idea la spiega meglio Franca Rivelli quando parla del bagaglio genetico russo, e aggiunge che non potrebbe essere diversamente. La meta di raggiungere un carattere umano sans phrases è mi pare fortunatamente di là da venire. Inveca chiunque viaggi riconosce: tipo fisico, sorrisi e prossimetica, prima della lingua. La cultura -che ci informa- in-forma anche corpi, volti, gesti. In lunghi processi storici e culturali. Il razzismo, certo, parte da lì: ma a posteriori, è razzismo di storia e di cultura- altrimenti di cosa, visto che abbiamo tutti due gambe e un corpo bisessuato e simmetrico quanto basta? e la parola.
@ Annamaria Locatelli: Il Giocatore ferma il punto della narrazione soprattutto sulla dipendenza. Per ragioni biografiche -ho avuto a che fare con le dipendenze- ho imparato che significano dipendenza da, e si vincono non con la persuasione ma con la forza. Di ogni tipo. La questione è quando si passa il limite in cui comanda quell’altra potenza e non più il soggetto. Accade. Ricordi la vecchia addetta al tavolo da gioco? Non era, forse non voleva essere, più padrona di sé. Potenza della dipendenza, piacere della schiavitù, che poi diventa solo schiavitù. Chissà se la Boetie scrive in un’epoca in cui entrano le droghe in Europa…
“La meta di raggiungere un carattere umano sans phrases è mi pare fortunatamente di là da venire”
Io direi sfortunatamente. Ma pian piano arriverà. Quando avremo rimescolato tutti i “bagagli genetici”.
La badante russa di mia madre, una signora laureata in matematica, si rammaricava che non si trovassero più i mandolini in Italia e le nacchere in Spagna. Forse la consolava la presenza delle gondole a Venezia.
Mi spiace che non ci capiamo. L’umano/a sans phrases è solo una astrazione. Anche se i grandi pensatori e profeti lo auspicavano, l’eguaglianza dell’umano è una meta e un principio (l’anima e i diritti) ma l’incarnazione è determinata, e questo sotto il profilo dei principi non significa niente. La signora russa aveva interiorizzato uno stereotipo culturale. Kant sulla cui passeggiata i concittadini regolavano l’orologio era… tedesco! Non saprei distinguere tra i singoli delle tribù africane, forse invece tra loro riescono, comunque tra un francese e uno spagnolo ci basta un colpo d’occhio, perlopiù. Che significa? Niente, e tutto, visto che la vita è breve, e di solito locata. L’internazionale più sfegatato, come per esempio Carlo Rovelli, non è comunque l’uomo astratto sans phrases. Il razzismo non “riconosce” differenze umane, ma storicamente determinate. Occorre negare il razzismo, non le differenze.
A completamento del mio intervento precedente voglio invitare Gianfranco La Grassa a pubblicare gli altri suoi scritti, segnatamente quello su Proust, autore col quale mi sono addormentato per tante notti di seguito, che ha messo un sigillo a un’epoca di grande cultura, bellezza e stile. Resto in fiduciosa attesa. Cordialmente.
@ Cristiane Fischer
Il razzismo dice precisamente quello che dice Franca Rivelli (si toutefois elle existe), e cioè che dato un gruppo etnico con un determinato bagaglio genetico, tutti gli individui di quel gruppo non potranno che comportarsi in determinati modi (es. essere indolenti). Da cui deriva (corollario) che se determinati comportamenti sono giudicati pericolosi o anche semplicemente negativi, è corretto che tutti i membri del gruppo etnico in questione siano fatti oggetto di trattamenti particolari, che possono andare dalla semplice emarginazione, alla segregazione, all’eliminazione fisica.
Questo è quello che dovremmo aver chiaro quando parliamo di bagaglio genetico.
Forse è meglio analizzare e rifiutare il “bagaglio genetico”. Se si intende attitudini comportamentali, consuetudini di cibo, matrimoniali, rituali, questo bagaglio c’è. Chiamarlo genetico è arbitrario. Ma nessuno è senza “bagaglio”, storico, culturale. Si dice che il biondo dei veneti sia correlato al granturco come cibo prevalente, invece che grano. La “razza” alpina è di pelle bianca, una nonna.
Uno slavo -perché sono triestina- lo più o meno riconosco nell’allure. Non capisco che problemi ci siano in questo. Il razzismo è una perversione, ma prenderlo sul serio negando le differenze determinate è assurdo.
Il punto è “le differenze determinate”.
Adattamento all’ambiente geografico? Incroci matrimoniali per lo più circoscritti? Pratiche di allevamento ed educative? Cultura del cibo? Condizioni climatiche? Abitare certe terre ha finora donato alcune specificità. E, per esempio, certe zone in Sardegna registrano una longevità eccezionale degli abitanti. Perché questi tratti dovrebbero essere preliminari al razzismo?
Temo proprio che non ci capiamo. Non sono i tratti in sé che sono preliminari al razzismo, ma il ritenere che l’appartenenza a una determinata etnia o gruppo comporti necessariamente per gli appartenenti a quel gruppo certe determinazioni – morali molto più che fisiche (es. la pigrizia, l’indolenza, l’avidità, l’astuzia immorale ecc., oppure, al contrario, la laboriosità, l’intraprendenza, l’affidabilità, l’onestà ecc.).
Il tutto era partito dall’assai deterministico “furono, sono e saranno” legato a un sedicente bagaglio genetico russo o slavo o che so io.
Poi – a me i particolarismi non piacciono, ma questa è una questione di gusti. (La signora russa non aveva interiorizzato uno stereotipo culturale, la signora russa ci teneva alle differenze: che fossero e restassero chiare. Io preferirei che scomparissero sempre di più. O meglio che diventassero del tutto irrilevanti. Non sono di quelli che ci tengono alle loro radici. E neanche a quelle degli altri. Per niente.)
Luigi Luca Cavalli-Sforza :
“non esistono le razze, esiste il razzismo”.
Ma io che faccio qui o altrove se il boia non ha un nobile rancore sulla lingua
e mescolare non sa con l’accetta dell’attesa e dell’accidia un colore di Turner.
Il Nulla azzera i giudizi sui patiboli, e il resto di un delirio è nello specchio.
E dov’era vissuto il mio corpo quando offriva sangue alla sua ombra?
a. s. 2011
@ Elena Grammann, non so se parliamo dell’espressione bagaglio genetico di Franca Rivelli, che respingo, o della realtà possibile di individui senza radici (o piuttosto senza limitazioni?). Non credo che esistano. Ma forse il nostro italiano astronauta 60enne potrebbe prefigurare un soggetto del genere. Credo che il tipo umano generale sia inesistente, siamo limitati comunque quindi specifici. Non è un passaggio logico quello che individua dei tratti e poi li applica a tutti gli individui del gruppo. Non accade così. Succedono delle somiglianze, rimandi. È tutto più fluido e mobile, eppure esistono aspetti che si richiamano, e si riconoscono.
Diversi interventi, allontanandosi dal discorso sul merito del saggio di La Grassa, toccano il problema molto dibattuto dell’esistenza o meno di caratteri permanenti, di “eredità genetica”, nei popoli. Giovanni Ragno crede di tagliare la testa al toro – come si dice – scrivendo lapidariamente: «Luigi Luca Cavalli-Sforza: “non esistono le razze, esiste il razzismo”». Ma anziché ridurlo a una frase dovrebbe rileggere meglio l’opera di Cavalli-Sforza e prendere atto che questo autore usa anche il concetto di razza, almeno in alcuni suo lavori, e pone il discorso su basi ben più articolate.
Si è, ormai, comunemente d’accordo che non esistono le “razze” in senso biologico e zoologico, relativamente all’uomo. Cioè gli umani non si suddividono in sottospecie come, ad esempio, i cani, o i bovini, o i gatti. Le sottospecie animali sono, infatti, quasi tutte create artificialmente dall’uomo con la selezione negli allevamenti.
In natura esistono piuttosto delle diverse specie appartenenti allo stesso genere, come il cavallo e l’asino. La differenza di specie produce, nel caso di incroci sessuali, la nascita di animali sterili, come il mulo.
L’homo sapiens, sia il tipo arcaico sia il tipo moderno, costituisce l’unica specie vivente del genere “homo” e biologicamente non si differenzia in razze.
Tuttavia il concetto di “razza” ha vari significati nella letteratura scientifica e nel linguaggio comune e fino agli anni Novanta era largamente utilizzato nei testi di antropologia e in quelli di geografia e ancora oggi diversi studiosi lo usano e in alcune branche, come l’antropologia criminale, è di uso piuttosto comune.
Era usato e in parte è ancora usato, non in senso biologico ma in senso descrittivo, per indicare la diversità di caratteri somatici ereditari, quindi propri del patrimonio genetico dei gruppi etnici o tipi umani.
E da qui possiamo riferirci in modo più appropriato ai lavori di Cavalli-Sforza e dei genetisti che, come lui, hanno applicato le risorse della genetica allo studio dei tipi umani, per ricostruirne la storia evolutiva e la sua cronologia.
Nel nostro DNA ci sono dei “marcatori genetici” in cui è riassunta la nostra storia evolutiva e più è ampia la differenza fra un tipo e l’altro più antica è la divisione dei tipi dal medesimo tipo originario. La distribuzione nello spazio geografico dei marcatori genetici permette di ricostruire, attraverso lo studio della cosiddetta “deriva genetica”, le varie fasi di divisione e di emigrazione dei gruppi e della colonizzazione umana dell’intero pianeta.
Quindi, se è vero che abbiamo tutti un’origine comune risalente a circa cento mila anni fa e a un ceppo umano residente in alcune zone dell’Africa, è anche vero che poi il ceppo comune si è suddiviso in gruppi e popoli che, sottoposti ad evoluzione separata, hanno assunto caratteristiche diverse.
Il razzismo – sbagliando – riporta le differenze evolutive a una fissità di razza e in particolare all’affermazione che una razza è superiore alle altre. Che avrebbe, cioè, nel patrimonio genetico il titolo per affermare una superiorità in termini di capacità, di intelligenza, di cultura, di senso morale ecc. Questo, ovviamente, è ciò che Cavalli-Sforza nega. Anzi lui, che ha condotto le sue prime ricerche genetiche fra i pigmei, afferma esplicitamente che non esistono differenze in termini qualitativi e indica i diversi tratti culturali nei quali i pigmei sono superiori agli europei: ad esempio nella conoscenza della foresta e nell’adattamento a quell’ambiente, nello sviluppo di tecniche di caccia senza armi o con armi poverissime come una semplice lancia di legno, nel senso sociale e morale (fra i pigmei, sembra, non esistono i delitti e i reati abituali in Europa), nella capacità di essere sereni e felici e altro ancora.
Quindi i gruppi o tipi umani si differenziano ma la differenza non indica una superiorità o inferiorità ma solo un diverso adattamento all’ambiente e al proprio corso storico. Claude Lévi-Strauss sosteneva che non esistono popoli primitivi, ma popoli che si sono culturalmente evoluti in modi diversi. Il concetto di “popolo primitivo” nasce dal confronto in negativo degli europei fra la loro storia e la storia dei presunti popoli primitivi. Ma è un inganno, perché anche i cosiddetti popoli primitivi che vivono oggi, vivono nell’epoca della loro modernità e non in quella del loro passato “primitivo”.
Se la differenza fra gruppi o tipi umani deriva dalla separazione e dall’evoluzione in condizioni diverse, che cos’è che si indica con “evoluzione”?
Si indica, in primo luogo, una diversificazione genetica, limitata solo ad alcuni marcatori. Di tanto in tanto nascono individui che, non si sa bene il perché, presentano delle mutazioni in qualche nucleotide e quindi in qualche gene. La mutazione può essere positiva o negativa, utile o dannosa, e ci pensa la selezione naturale a eliminare o “addormentare” quelle dannose e a trasmettere, di generazione in generazione, quelle utili. Ed è così che la mutazione positiva diventa prevalente e dopo qualche migliaio di anni interesserà tutti gli individui dello stesso popolo e questo popolo si differenzierà da altri popoli discendenti da individui che non sono portatori della mutazione o che sono portatori di mutazioni diverse. Naturalmente, una mutazione può anche discendere da incroci fra individui di popolazioni diverse che generano, col tempo, una popolazione diversa da quelle originarie.
Ciò vale molto per il lontano passato e meno per oggi. Con la completa colonizzazione del pianeta Terra e la saturazione di ogni suo spazio i popoli sono molto più in contatto e gli incroci più frequenti, per cui i marcatori genetici diventano sempre meno caratterizzanti. Tuttavia questo è un processo che richiede migliaia di anni per diventare non solo significativo ma predominante.
Una mutazione positiva per un popolo che vive in un determinato ambiente, può essere negativa per un popolo che vive in un ambiente diverso. Ciò comporta un progressivo adattamento dei fattori genetici all’ambiente in cui si vive.
L’ambiente contribuisce a determinare la selezione naturale delle caratteristiche genetiche e ancora di più delle caratteristiche somatiche esterne, come il colore della pelle, degli occhi, dei capelli, il peso corporeo, l’altezza, la resistenza al caldo o al freddo (la capacità di sudorazione e di dispersione o ritenzione del calore). Queste caratteristiche mutano, per adattamento, più in fretta delle mutazioni genetiche non somatiche e non visibile all’esterno.
Infine vi è anche una mutazione culturale, ad esempio la differenziazione delle lingue dovuta alla separazione di popoli che hanno avuto in passato una stessa origine e una stessa lingua. Questo tipo di mutazione è più veloce e a volte bastano poche generazioni perché una popolazione cambi la propria lingua (e cultura).
Le mutazioni, da quelle genetiche millenarie a quelle somatiche di adattamento all’ambiente a quelle culturali, presentano poi, nel comportamento degli individui dello stesso popolo, delle variabili che determinano la varietà di caratteri e di personalità, sia nei tratti congeniti, di nascita, sia in quelli di acculturazione individuale (appartenenza a una certa famiglia, a un certo ceto sociale ecc.).
Da tutto questo ne segue che gli individui di uno stesso popolo presentano una serie di tratti comuni ma anche tutta una serie di specifiche differenze individuali e non ci sono mai due individui identici, nemmeno fra i gemelli monovulari monocoriali (che condividono non solo lo stesso ovulo ma anche la stessa placenta).
La varietà umana è forse la sua ricchezza maggiore.
La “pigrizia” è un elemento caratteriale e prevalentemente, se non unicamente, culturale (incide un po’ anche l’ambiente, soprattutto il caldo e il freddo, il deserto e la città). Quindi un popolo può essere, in senso lato e fatta una grossolana media, più “pigro” di un altro, se la “pigrizia” deriva da tratti culturali propri di quel popolo e circostanze, tempi e ambienti comuni. Ma quando avviene una cosa del genere, vuol dire che quel tratto comportamentale che definiamo “pigrizia”, con un giudizio di valore negativo, nella cultura di quel popolo non è “pigrizia” ma qualcos’altro che assume, per loro, un valore positivo.
Se invece è connotato negativamente dagli stessi “pigri”, allora vuol dire che non appartiene al popolo, ma solo a una più ristretta parte di esso e al limite solo a pochi individui. Pertanto l'”oblomovismo” (o sindrome di Oblomov) non può essere un tratto culturale e caratteriale permanente né di tutto un popolo, nemmeno nell’ambito del linguaggio dell’antropologia culturale.
Può però assumere un significato simbolico, e in quanto simbolico estensibile a un intero popolo in una determinata fase della sua storia, quando una situazione di crisi e di stagnazione sociale e culturale sembra indicare un periodo di decadenza, di tramonto, di rapido cambiamento negativo e di mancanza di prospettiva di tratti culturali e sociali importanti di un popolo.
In questa situazioni coloro che si “lasciano andare” possono diventare più visibili e caratteristici di coloro che reagiscono, la “passività” può sembrare più naturale dell'”attività” per uscire dalla situazione di crisi. Perché la passività si inscrive nella prosecuzione di una tradizione, magari solo come nostalgia e rimpianto, mentre l’attività si qualifica nella ricerca e nella costruzione delle innovazioni.
E nel periodo in cui è vissuto Gončarov non vi sono solo i fatalisti, i rinunciatari alla lotta, ma anche quelli che alla lotta non hanno rinunciato e che lavorano per una Russia diversa, proiettata verso il futuro.
D’altro canto, un po’ di “oblomovismo”, in tante forme diverse ma con tratti analoghi, lo troviamo in tutti i popoli e in tutte le epoche storiche, perché è un elemento caratteriale che si ripete in una parte, piccola o grande, di ogni popolazione. Può dipendere solo da particolarismi individuali oppure, se riguarda molte persone, da circostanze storiche comuni. Perché ciò che riguarda una parte numerosa o la maggioranza o la totalità di un popolo deriva sempre o dal patrimonio genetico, somatico e culturale, o da circostanze storiche (sociali, economiche, sanitarie ecc.) comuni.
Attualmente, la generalizzata paura del Covid è un tipico tratto culturale dovuto alle circostanze (della realtà e della narrazione che se ne fa) e non ha nulla a che fare con il patrimonio genetico.
“Diversi interventi, allontanandosi dal discorso sul merito del saggio di La Grassa” (Aguzzi)
Appunto! Ma perché succede questo? Cosa rivela? Non sarebbe da evitare ?
Penso di sì. Capisco che non sempre un articolo proposto sul sito possa suscitare curiosità o l’attenzione che l’autore si aspetta. Alcuni commentatori, nel momento in cui compare su Poliscritture potrebbero avere altro per la testa, ma allora non sarebbe meglio non commentarlo o proporre in un apposito articolo il tema o i temi che gli stanno più a cuore?
Alcuni interventi -quelli su razza, o caratteri permanenti di una etnia, o di una cultura- sono però congruenti con un aspetto del testo di La Grassa, per il paragone che egli compie proprio iniziando il suo testo “I personaggi cecoviani e Oblomov hanno certamente alcuni elementi in comune.” Interventi rivolti a scoprire la “sostanza” di tali elementi in comune.
Anche le osservazioni puntuali di Sagredo e di Franca Rivelli sulle discendenze letterarie dell’oblomovismo sono congruenti con il testo, in quanto rinforzano con altri apporti letterari il paragone stesso che La Grassa istituisce.
Forse l’argomento cui non si è dato seguito è quello sociologico, dello stato psicologico e culturale di gruppi in esaurimento sociale. Anche se Annamaria Locatelli lo ha proposto, legandolo a una lettura collettiva dei problemi posti da un altro autore coevo ai due, in un quartiere milanese che ha altrettali problemi di disgregazione.
@ Fischer
Se queste “congruenze” vanno bene a La Grassa lo dirà lui, se vuole. Io preferirei che si entrasse puntualmente nel merito delle cose da lui scritte e che si discutessero anche le tesi implicite del saggio. Come ho cercato di fare. Ma non insisto oltre.
Son d’accordo con Cristiana che la discussione sui caratteri, permanenti o no, non esorbitava dall’articolo di La Grassa (non più di un discorso su immaginazione e cambiamenti). Che poi le discussioni tendano ad avvitarsi su se stesse, questo è un po’ un problema dei blog.
D’accordo comunque per rilanciare con qualcosa di più pertinente, ma per me ad esempio non è facile, dovendomi rifare a ricordi di letture un po’ “antiche”.
Se il punto tuttavia è psicologia individuale vs condizionamenti storico-economici (molto ben esposti da La Grassa, fra parentesi), a me sembra che Oblomov, pur rappresentando certamente un intero ceto, sia un personaggio fortemente individuale, che coglie una possibilità dell’essere umano in generale: la possibilità dell’astenersi, del non agire, dell’immaginare anziché fare, del contemplare (non diversamente, in fondo, dall’egotismo stendhaliano o da Rousseau che, in abito armeno, passa le giornate immerso nella rêverie). E’ vero che Gončarov fa di Oblomov un tipo russo (mentre Stolz, già nel nome, è il tipo “tedesco”), ma è anche vero che egli guarda al suo personaggio con simpatia , e che viceversa Olga, perfettamente felice nella vita iperattiva con Stolz, a un certo punto è colta da un senso di vuoto, di vertigine e inutilità di fronte a tutta questa attività, e come dall’impressione che la sua felicità sia un autoinganno che si è volatilizzato (tutto questo a memoria, chiedo scusa se non è preciso). Questo può essere visto come una critica da parte dell’autore all’incipiente capitalismo (generalizzo), ma anche come il suggerimento che la “vita activa” non è semplicemente il polo positivo, opposto al polo negativo della pigrizia come tendenza alla vita contemplativa; e che la prima non è interamente “buona”, così come la seconda non è interamente “cattiva”.
Con Cechov faccio più fatica, perché La Grassa fa riferimento soprattutto al teatro che è ciò che io conosco/ricordo meno. Però, a proposito di dire e non fare, non posso fare a meno di pensare a un racconto che mi aveva colpito moltissimo: La mia vita. Lì il protagonista ci prova, non si può dire che non ci provi. Il fatto che il suo tentativo sia individuale, che si metta a coltivare la terra e a cercare di istruire i contadini (se ricordo bene) invece di fondare un partito, può essere giudicata un’azione inefficace ma non si può dire che non sia azione. Che l’impresa, agraria e sentimentale, fallisca, questo, secondo me (e dichiaro la mia grande ignoranza dei contesti che, se vuole, mi preciserà La Grassa), non dipende tanto da una situazione socio-economica o da un bagaglio genetico, quanto dal fatto che Cechov è un narratore realista. E nella realtà le imprese, comunque vada, falliscono.
(Dopo aver proposto questa tesi abbastanza inutile e difficilmente sostenibile me ne vado a lavare i piatti del mezzogiorno, la cui rigovernatura in tempi consoni è, per l’appunto, fallita.)
Elena Grammann:
3)”per questo suggerisce sinteticamente di partire da prima di Puškin fino ai giorni nostri.” Infatti Io partirei dal Canto della schiera di Igor, mi sembra più serio.
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Prima di Puškin non intendevo di certo rifarmi a “Il canto delle schiere di Igor”, mica sono scemo.
Tant’è che faccio il n ome del poeta settecentescoDeržavin (“prima di Puškin” intendevo questo e non altro) per indicare un periodo della storia letteraria russa in cui è apparso per la prima volta una sorta di primitivo oblomovismo.
E siamo alle solite: non si riesce proprio a riconoscere i propri confini!|
Quel “canto” credo che la Grammann non l’abbia letto mai, altrimenti non avrebbe mai scritto la corbelleria n. 3: questo si che è davvero per nulla serio. Anzi denota rancore e presunzione ridicoli forse nei miei riguardi, ma sono fatti suoi di cui per nulla mi toccano.
E allora non ha mai letto il celebre saggio di Roman Jakobson sul più grande poema epico slavo. Se ci fosse stata una microcopica traccia di oblomovismo di certo il linguista Jakobson ne avrebbe scritto.
E ora chiudo per sempre con questa Elena Grammann così come chiudevano per sempre i poeti russi il chiacchiericcio di una qualsiasi Maria Ivanovna!
…e mi taccio
a. s.
Wow!
– Ma, Sig. Sagredo/Rivelli (e già questo…), lei la riconosce l’ironia quando la incontra? Non mi pare (e già questo…)
– Rancore e presunzione nei suoi confronti? E perché mai?
– Mi è perfettamente chiaro che il Canto della schiera di Igor non c’entra nulla con Oblomov e soci (questa era l’ironia, la prossima volta metterò un cartello).
– Inoltre la stupirà sapere che il Canto della schiera di Igor era il mio poema preferito nella corposa antologia di poemi epici della scuola media (ebbene sì, alla scuola media avevamo una meravigliosa antologia di poemi epici). Naturalmente ho letto solo i brani dell’antologia, non sono una slavista. Sono solo una che ne ha conservato un ricordo (che mi permette di distinguerlo perfettamente dall’Oblomov).
– Lei non può (quanto teatralmente, per Dio!) chiudere per sempre con me. Perché io con lei non ho neanche aperto. Io mi sono rivolta a una tale Franca Rivelli (personaggio ridicolo q.b.).
Saluti
Mi dolgo, da personaggia seriosa quale sono (ancora sempre stata), di non saper incidere di fino col coltello, ma… Complimenti! Diretta, al cuore dei costumi da scena, in spogliatoio.
Sì, qualcosa sta cambiando (per dire dei tempi che viviamo).