di Donato Salzarulo
Nella curva d’autunno c’è chi muore da solo. Intubato, affamato d'aria, dentro una gabbia di vetro.
LA VETTA
La vetta è l’abisso.
Stanotte ti ho sognato su un altopiano.
La strada era ingannevole,
di quelle polverose, da tratturo.
Portava verso un luogo inesplorato.
Un po’ temevo, un po’ ero curioso.
Sono andato avanti con la macchina,
voltando e svoltando s’arrampicava
miracolosamente sulla montagna russa
dei miei occhi dormienti.
Infine, ti ho abbracciato. Eri la cima,
la mia punta aguzza, eretta
sul vuoto tutt’intorno.
Mi sono svegliato assai turbato.
«Hai paura di morire», mi ha detto
Giuseppina.
«Sì, in effetti.»
Questa volta non è come a marzo.
Allora, si andava verso primavera.
Ora è autunno e ci aspetta un lungo
inverno.
L’INVITO
Era mio. Era mio quell’invito
a venirmi a trovare, a passeggiare
sul sentiero delle prugne, ad uscire
dalla quarantena che ingigantisce
le solitudini del cuore. Avrei voluto
mettere il dito nella piaga, spezzare
la catena dei contagi, assaggiare
i pensieri di luce fioriti sulle tue labbra
gli imprevisti aperti dalla mente,
i disagi svaniti negli intervalli
della scrittura.
———————-Il progetto si fa strada
sotto gli occhi, scoprendosi altro da ciò
che è, vivendo il gioco di un Io
che si frantuma, spuma di un sogno
vissuto, toccato con le mani,
accarezzato, baciato e abbracciato:
la casa vuota, l’armadio malandato,
il cappello lacerato, lo specchio graffiato…
Il nostro mondo è malato.
Ha bisogno di cure e di amore
di germogli che crescano e rose che sboccino
di un cervello che ancora funzioni.
IL SEME DELL’ASSENZA
Un altro trasloco ora è in corso.
Avviene sul dorso del tempo.
Da me sottolineato, mi fa soffrire
l’immagine di questo libro venduto
su una bancarella a un euro o poco più.
A Grottaminarda salvai una Rossanda,
un Auerbach e un tomo completo
delle opere di Bilenchi.
Pensavo
che potessero interessarti
anche le righe cancellate dei versi
malnati e non perfezionati
dai tuoi occhi. Piantiamolo
qui il seme dell’assenza.
Se la poesia nascesse soltanto
dall’amore consumato in presenza,
le opere di Dante e non so di quanti altri
non esisterebbero.
Tutto è giocato sul vuoto del prima
e del dopo, sul turbamento
della vetta in sogno abbracciata.
Ci siamo salutati col sole e
lo splendore degli elianti.
Così cambiai scuola e passai
dalle elementari alle medie.
DIETRO LA MASCHERINA
Risplendono di giallo
ai primi di novembre
le foglie del melograno,
mentre il cedro imperturbabile
si spinge sempreverde verso il cielo.
Non c’è nessuna guerra tra loro,
nessuna gara. È la fanfara d’autunno
che regala queste note di colore
insieme all’ululato non lontano
di sirena. Non so se produttivo,
nelle mie vene scorre il sangue
di un uomo ancora vivo.
Dietro la mascherina mi sorridono
gli occhi, mentre stringi le mie mani
di brina fra le tue, belle calde.
LA TUA LIBERTÁ
La società non è un portapenne,
né una sfera di cristallo. L’epidemia
è una catastrofe che può aprire
nuove vie. Guardando in faccia la morte,
puoi legarti con più forza alla vita.
Non sei quel dente di leone
che illuminava solitario i nostri occhi
durante l’estate con gli amici
sorridenti sulla panchina
C’è un virus che circola, un’energia,
un’aria, una molecola di cielo
che puoi respirare ed ospitare.
C’è un impasto di male e bene,
una creta che puoi plasmare,
confinandoti su questa pagina,
saltando legami, subordinate,
calendari da sfogliare.
Sei oltre l’essere, il dolore
delle spalle, la foglia sul valico
che disturba l’universo.
A domanda rispondo.
La tua libertà non è quella
di chi la urla in piazza come
un macigno da scagliare
contro il mondo. È l’amore,
la cura, l’accettazione paziente
dell’enigma avvolgente.
LE BASTAVA UNO SGUARDO
Le bastava uno sguardo per scovare
i quadrifogli più belli dentro un prato.
Non le portava però molta fortuna.
Era invasa da un male
che radunava venti di tempesta
nel suo grembo, un male misterioso
che nessuna scienza poteva allontanare,
nessun’arte curare.
—————————————-Morì.
Confortata dal pianto di un amore
corale, ma impotente.
PER DARE VOCE
A Cologno le pompe funebri
lavorano a ritmo serrato.
Almeno queste imprese non hanno
di che lamentarsi. Anche le Chiese
officiano, sebbene con numeri
limitati di fedeli.
————————Non so chi possa
consolarsi per questa strage. Io
mi sconforto più dei giorni di quasi
primavera. Io non riesco a comprendere
come sia stata possibile tanta
insipienza, tanta oltraggiosa imprevidenza
delle molte autorità.
——————-Allora per ingoiare
l’angoscia studio le ragnatele
dei marciapiedi, i rivoli d’erba
che li attraversano, verticali e
orizzontali, le scrostature del manto
che diventano figure di teste
di cavallo, scheletri, urne
cinerarie, fratture dei bordi;
ammiro cachi che maturano
indifferenti su rami spogliati,
fotografo tronchi malignamente,
ingrossati, intrichi di chiome ancora
per poco vivacemente colorate.
————————–E m’arrabbio.
E prenderei volentieri a calci certi
figuri, certi lugubri monatti
televisivi.
Tornando a casa,
incontro gli occhi celesti di Francesca,
la seconda nipote che ci attende.
«Non arrabbiarti, nonno, scrivi…
Forse è il modo migliore
per dare voce al dolore.»
CAMMINI ALL’OMBRA
Ogni uomo una porta semiaperta che dà su una stanza per tutti. T. Tranströmer
Sto attento all’incresparsi,
al corrugarsi del tuo viso,
al trasformarsi della pelle in bozzi
d’aria, rigonfiamenti d’asfalto
ammalorato sulla strada.
Fiorisce il muschio sulla cute
dei capelli, sulla nuca vissuta
sempre ad occidente.
————–Cerchi l’oriente sulla pagina,
la risorgiva degli incontri,
l’accavallarsi dei tarsi,
le grandi caverne sui tronchi
tormentati.
Cammini all’ombra
delle robinie piantate trent’anni fa,
radicate in questo luogo, pronte
a sopportare il prolungato
inquinamento della città.
Le loro ferite sono tutte visibili
e non rimarginabili.
Non puoi paragonarti a loro,
se anche stamattina hai cercato
il colpo di reni, lo slancio
verso l’alto. Sei qualcosa di più
di un rametto in cerca d’azzurro.
Forse anche qualcosa di meno:
un viandante imbevuto di veleno.
IN PIENA LUCE
È nella penombra, nei chiaroscuri che la vita si conduce. Perciò m’affido al sogno, ai suoi bagliori, al desiderio d’espormi in piena luce.
Stanotte, sulla strada d’ogni giorno,
all’altezza del giardino d’una villa,
assai fuori dalle sbarre della cinta,
mi è apparso un fiore grande e sconosciuto,
più bello di una peonia o di una calla.
Un fiore erotico, una meraviglia
da fotografare. Ma avevo dimenticato
il cellulare. Volevo mandare a casa
Francesca. Ma poi ho pensato
“Meglio che a prenderlo vada io stesso”
(Anche nel sogno avevo i miei segreti)
Nell’andare e tornare ho perso
il fiore, la visione…Che si è spostata
tra i banchi di una classe un po’
svogliata. Per ravvivarla
impegnavo le mie forze a spiegare
qualcosa d’importante come
l’opposizione in una poesia
tra simbolismo e… allegorismo (forse).
L’altro movimento mi sfuggiva.
Mi sono adagiato allora su quella
scolastica tra romanticismo
e classicismo. E qui il risveglio.
II
Io non realizzo il mio desiderio, lo svuoto.
Anche il sogno mi fa l’esame di realtà
Così vola via l’attimo, il kairos, l’occasione.
Per distrazione, per mancanza di attrezzi,
per legami troppo stretti alla segretezza
della propria intimità. Così vola via anche
la vita, questa bolla leggera d’infinito.
Non era un fiore del male quello
che il sogno figurava, ma una poetica,
un carattere, uno stile d’esistenza.
La curva d’autunno impone certamente
una revisione, una verifica d’urgenza.
DI CHI SI CHINA SULLE PAROLE
Mi piacciono le piante
Che s’arrampicano rigogliose
Lungo i muri o quelle che non temono
Le rupi e fioriscono
Con boccioli che insaporano
I nostri piatti più semplici.
Penso ai capperi così tanto amati
E raccolti da Ledo, mio cognato
Nell’ultima vacanza salentina.
Ora sono solo e lui è ancora più solo
Al cimitero
Che tenerezza le belle acetoselle
Con le loro foglie a cuore
Ammirate d’estate col mio amico.
Viva la vita, dicono, Viva la vita
Vegetale. Ma senza questa
Non sarebbe possibile neanche quella
Dell’animale ferito. Non sarebbe
Possibile convocare
Il mio album d’immagini sul foglio.
Grazie, quindi, grazie a questo
Mondo che mi regala il respiro.
E siamo qua io e te.
Io a confessare il mio groviglio
Indefinito, le mie paure, i miei lampi
I miei sconforti e tu a cercare
Di tradurmi in parole, a trovare
Un metro per i sentimenti, una misura
Per i pensieri, un ritmo, un ritorno
Avvolgente del silenzio.
Un vuoto eterno della mente.
Ora respiri. Poi pensa a un altro giro.
A un altro giorno dove tutto questo
Non sarà luce bianca di felicità,
Ma occhi amorevoli di chi si china
Sulle parole e indovina il grigio
Di questo mattino, il rumore ovattato
Delle foglie cadute e accartocciate,
Il cammino lento sul marciapiede
Di un pedone in mascherina
Con le mani dietro la schiena
intrecciate.
———————-Sono forse quelle
Di mio padre che negli ultimi anni
Smaniava avanti e indietro
E aveva trovato nel lavoro
Anche da pensionato, la sua droga
Portentosa.
—————–Hai paura di morire
E non sai come salvare la voce.
Non sai come strappare la spina
da questa rosa.
Novembre 2020
Di Donato Salzarulo so soltanto quello che ho appreso da questo sito: dirigente scolastico (all’ombra della bandiera italiana), attivamente impegnato in politica, frequentatore assiduo di testi filosofici, narratore analitico e descrittivo della realtà di Bisaccia, piccola patria; ora lo scopro come poeta, con una sequenza di testi. Perciò mi sono immerso nella lettura di queste poesie per capire, ove egli fosse interrogato, se ha delle risposte credibili del perché scrive poesie (richiesta avanzata su questo sito).
Poesia libera da schemi tradizionali, senza rime e assonanze, con scarse figure retoriche, vicina alla prosa nel dettato e nel lessico. Un percorso umano che si snoda su due piani: quello della realtà ( con una forte componente descrittiva) e quello della spinta che la trascende. Il mondo vegetale e le presenze umane, una natura scandagliata per ricrearla in forme antropomorfe, la familiarità dei rapporti , la sfiduciata tristezza si proiettano in dimensioni di alterità, dove l’accettazione e il desiderio si equilibrano a vicenda, in una visione interiore che si apre a un ignoto che viene accolto in uno spirito di fiduciosa rassegnazione . Il covid come la lava dello ‘sterminator Vesevo’ e il poeta come la ginestra.
Avanzerei qualche riserva a livello espressivo, dal punto di vista formale; ma l’intento di conciliare i due piani di cui sopra comporta un prezzo.
Questa mia lettura non sarà sicuramente adeguata, ma pago lo scotto del fatto che da tempo mi sto allontanando dalle parole, in cerca del silenzio, per sentire ‘la Voce’. Anche negli spazi di questa poesia mi è parso di coglierne una lontana eco, pudicamente nascosta e virilmente affrontata:
“Sei oltre l’essere, il dolore
delle spalle, la foglia sul valico
che disturba l’universo”.
“(…) E’ l’amore,
la cura, l’accettazione paziente
dell’enigma avvolgente”.
“(…) Così vola via anche
la vita, questa bolla leggera d’infinito”.
Queste potrebbero essere, secondo me, alcune delle motivazioni di Donato Salzarulo che lo hanno spinto nell’agone poetico.
…le poesie di Donato Salzarulo in tempo di pandemia, cioè alla presenza della “Morte”, mi sono sembrate un lungo sofferto monologo all’inseguimento del significato della vita e dell’attaccamento profondo ad essa, nonostante..Un viaggio notturno, alla “luce piena” del sogno, quando paure, desideri, pulsioni, affetti bussano alla mente del dormiente senza difese…La luce del giorno sbiadisce le cose, sono i grandi appuntamenti quelli che contano: la cima da abbracciare, dopo faticosa scalata, per sentirsi interi, prima dell’abisso…(chissà perchè mi ha richiamato l’immagine dell’uomo vitruviano), le assenze, infinite presenze, come quella di una giovinetta prematuramente scomparsa, le mani calde di chi sa confortare e, giovane nipote, consigliare, la bellezza della natura, ma anche il dolore da accettare..la rinuncia ad ogni lotta che non comprenda la cura e l’ amore…”la vita, questa bolla leggera d’infinito” da noi chiede rispetto, sembra suggerirci…poesie non di resa, ma allo specchio di una sconfitta, sapendo raccogliere pagliuzze luminose
A leggere queste poesie – sono così piene di piante, di erbe, di fiori – ho pensato alla Nazione delle piante di Stefano Mancuso; “Viva la vita, dicono, viva la vita” dicono le piante e scrive Salzarulo, e lo dicono a ben vedere, sapienti e longeve come sono nel loro insieme contro i sapiens sapiens così tanto insipienti – È vero, non si riesce “a comprendere / come sia stata possibile tanta / insipienza, tanta oltraggiosa imprevidenza” – Abbiamo eletto la rosa a fiore di bellezza, può essere, perché no, ma tocca tagliare il gambo perché non vi siano spine; meglio tenerlo, con le sue spine.
APPUNTI
1
Il tono prevalente di queste poesie di Donato [Salzarulo] mi sembra di pacata e trattenuta tristezza. Ed è facile riconoscersi nella sincerità e semplicità con cui vengono espressi sentimenti oggi comuni a moltissimi in questo tempo di pandemia: la paura della morte, l’indignazione e lo sconforto per «tanta / insipienza, tanta oltraggiosa imprevidenza / delle molte autorità». O in sentimenti più circoscritti di nostalgia per la cancellazione di un mondo culturale che è stato significativo per noi (il cenno a Rossana Rossanda o ad Auerbach e a Bilenchi).
2.
Nei versi: «La curva d’autunno impone certamente/ una revisione, una verifica d’urgenza» da lettore tendenzioso vedo una verifica che – in modo diretto o indiretto – riguarda proprio la poesia. Lasciando da parte le concezioni più facili della poesia («Se la poesia nascesse soltanto / dall’amore consumato in presenza»), a me pare che in queste appena pubblicate Donato voglia misurare il valore della poesia di fronte alla realtà di un mondo che ci sgomenta sempre più: caotico, drammatico, tragico, illeggibile persino dagli scienziati. L’accenno in exergo («Nella curva d’autunno/c’è chi muore da solo./ Intubato, affamato d’aria,/ dentro una gabbia di vetro») non è soltanto un omaggio ai tanti che dall’inizio di quest’anno tremendo si sono “assentati”. Donato coglie un’ «assenza», un venir meno di qualcosa di più fondamentale. Anzi parla di «seme dell’assenza». E pianta questo strano «seme dell’assenza» al centro della sua poesia.
4.
Ma assenza di cosa? In un mondo che s’è ammalato («Il nostro mondo è malato») cosa è venuto meno? E c’era prima o una volta? Di certo, dai versi si capisce che questa cosa l’io poeta la cerca dove può. Nei sogni: «Stanotte ti ho sognato su un altopiano»; «m’affido al sogno», «Anche nel sogno avevo i miei segreti», « Anche il sogno mi fa l’esame di realtà», «Non era un fiore del male quello / che il sogno figurava». Nella rammemorazione di persone care morte: «Le bastava uno sguardo per scovare / i quadrifogli più belli dentro un prato. / Non le portava però molta fortuna.». Nelle immagini intatte e rigogliose di tante piante («germogli che crescano e rose che sboccino») che sembrano confermare l’esistenza di una natura ancora rassicurante e serena: «Risplendono di giallo/ ai primi di novembre / le foglie del melograno,/ mentre il cedro imperturbabile / si spinge sempreverde verso il cielo./Non c’è nessuna guerra tra loro»). In figure femminili beneficamente protettrici: « mentre stringi le mie mani/ di brina fra le tue, belle calde».
5.
In questa ricerca l’extra poetico (la pandemia) è collegato esclusivamente alle stagioni: «Questa volta non è come a marzo./Allora, si andava verso primavera./ Ora è autunno e ci aspetta un lungo /inverno». La storia umana mi pare fuori campo. Lo è un po’ anche la polemica sociale, forse troppo blanda e bonaria: «A Cologno le pompe funebri/Lavorano a ritmo serrato»; « Anche le Chiese/ officiano, sebbene con numeri/ limitati di fedeli». La politica anche è fuori, ridimensionatasi a falsa ricerca di libertà: «La tua libertà non è quella/ di chi la urla in piazza come/un macigno da scagliare/ contro il mondo». E la rabbia dell’io isolato («E m’arrabbio./E prenderei volentieri a calci certi/ figuri, certi lugubri monatti/ televisivi») resta vana. Non può più farsi ragione di un “noi” per ora inesistente. E a me pare che la metafora del mondo malato che «ha bisogno di cure e di amore» lasci sullo sfondo ( e fuori dalla poesia) anche il problema del che fare; e cioè di come e se si possano ancora costruire realmente le condizioni in cui siano possibili quelle cure e quell’amore di cui pur sentiamo il bisogno.
6.
In fondo l’io poeta si deve riconoscere « viandante imbevuto di veleno » – qui echi danteschi nella figura – ma non può più raggiungere la «vetta» e nemmeno rappresentare («fotografare») il «fiore erotico, una meraviglia». Se «la vetta è l’abisso» e la bellezza intravista sfugge («nell’andare e tornare ho perso /il fiore, la visione»), poco conta trattenere della Tradizione «qualcosa d’importante come /l’opposizione in una poesia / tra simbolismo e… allegorismo». Lo stesso tentativo di difendere la vita contro la morte («Guardando in faccia la morte,/ puoi legarti con più forza alla vita») appare disperato. E l’«accettazione paziente /dell’enigma avvolgente», che ci slegherebbe da reazioni vane almeno «per dare voce al dolore» appare in fondo superfluo, poiché « vola via anche / la vita, questa bolla leggera d’infinito». Restano le piante («Che tenerezza le belle acetoselle») e i loro inni alla vita («Viva la vita, dicono, Viva la vita/ Vegetale»). Ma la minaccia di morte torna assillante, anche se si ripresenta in una immagine paterna: « Il cammino lento sul marciapiede/ Di un pedone in mascherina / Con le mani dietro la schiena/ intrecciate.// Sono forse quelle/ Di mio padre che negli ultimi anni / Smaniava avanti e indietro».
Carissimo Casati, “poeta” forse è un po’ esagerato. Diciamo innamorato, cultore di poesia, frequentatore abbastanza assiduo di versi e realizzatore in proprio, come tanti, dall’adolescenza. L’amore poteva finire lì, come spesso capita con gli amori adolescenziali. Invece, no. La “lunga insidia”, come la definii in un sonetto del 1983, me la porto ancora addosso e si possono leggere tracce di questa mia attività in vari luoghi e siti, a cominciare proprio da Poliscritture.
Scrivi: «Poesia libera da schemi tradizionali, senza rime e assonanze, con scarse figure retoriche, vicina alla prosa nel dettato e nel lessico.» Beh, non so quanto la mia poesia sia “libera da schemi tradizionali”. Mi piacerebbe che lo fosse. Certo, se intendi per “schemi tradizionali” generi come sonetti, ottave, canzoni, ecc. indubbiamente in queste composizioni non sono ripresi, ma c’è una certa “tradizione del nuovo” (Sereni, la linea lombarda, ecc.) di cui avverto gli echi. Quanto a “rime e assonanze”, ce ne sono, invece abbastanza, a cominciare dai quattro versi posti in esergo: «Nella curva d’autunno / c’è chi muore da solo. / Intubato, affamato d’aria / dentro una gabbia di vetro.» Nel primo verso ci sono ben tre U che assuonano. Assuona pure “cUrvA” e “AUtunno”. Sono consonanti poi le tre N. Nel terzo verso poi “IntubATO” e “AffamATO” rimano e allitterano “denTRO” e “veTRO”…
Si fidi di me, gentilissimo Casati, il “legame musicale” tra le parole c’è. Non esibito, ma c’è. Sono versi, credo, che si leggono abbastanza facilmente. Certo, non hanno una “cantabilità” (giambica) del tipo, “La nebbia agli irti colli /piovigginando sale”; ne hanno una più dissonante, più vicina alla prosa, come scrivi tu, ma ce l’hanno. Tra l’altro, ti confesso che, scrivendo questi quattro versi, ad un certo punto, mi è venuta la tentazione di renderli tutti e quattro settenari: «Nella curva d’autunno / c’è chi muore da solo. / Intubato, affamato / d’aria dentro una gabbia / di vetro». Nel leggerlo, il doppio enjambement poteva “mimetizzare” proprio la perdita d’aria del terzo verso e il restare da solo del vetro…Però, ho rinunciato a questa “mimesi”. Mi sembrava proprio un espediente poetico che, in nome di una “bellezza metrica”, faceva perdere dignità a quel povero “intubato, affamato”. Ho preferito, allora, lasciare i versi così, nella loro “imperfezione” e “impurità”.
Questa mia scelta vale per tutti i componimenti: levigo, perfeziono, ma non molto. Non voglio il verso perfetto, perché la vita non è perfetta.
Quanto alle “figure retoriche” anche queste, caro Casati, ci sono. A cominciare dalla metafora della “curva d’autunno”. Ma sono d’accordo con te. Non esagero. Perché non mi sembra giusto esagerare nel tasso di figuralità. Voglio assicurarmi una leggibilità e un contatto col lettore anche a costo di una serie di imperfezioni. Quindi, capisco che tu possa avere «qualche riserva a livello espressivo, dal punto di vista formale». Sarei felice, se questa riserva me la esplicitassi meglio. Nella vita c’è sempre da apprendere.
Per il resto, ti ringrazio per le tue osservazioni.
Cara Annamaria, grazie per il tuo commento. Sono d’accordo con te: queste mie poesie, ma non solo queste, sono «un lungo sofferto monologo all’inseguimento del significato della vita e dell’attaccamento profondo ad essa». Come dicevo prima a Casati, non sono “un poeta laureato” né un poeta di mestiere. I poeti laureati non li amava Montale, figurarsi io. Scrivo sotto urgenza: «La curva d’autunno impone certamente /una revisione, una verifica d’urgenza.» E mi espongo, metto in piazza i miei sogni, “in piena luce”. Vivo «il gioco di un Io / che si frantuma, spuma di un sogno /vissuto, toccato con le mani.» Non ho perciò identità sostanziali da sbandierare. Cerco «l’oriente sulla pagina / la risorgiva degli incontri / l’accavallarsi dei tarsi, / le grandi caverne sui tronchi / tormentati». Quindi, poesia come oriente, come risorgiva, accavallamento, grande caverna del corpo-mente…Un lungo lavoro di ricerca, “una lunga insidia”.
Gent. Donato Salzarulo, mi stanno bene le sue riserve, ma lei non faccia l’errore di prendere con valore assoluto alcune mie osservazioni formali, intendevo sottolineare la modernità della sua poesia in quanto non vincolata da tradizionali espressioni poetiche (metri, rime, metafore ecc.), il che non significa che non ci siano o che sia meno poesia, anzi. E’ più difficile esprimersi in libertà che al riparo dell’endecasillabo. Qualche caduta mi sembra riferita solo ai toni, nel passaggio da uno alto a un altro inferiore, ma anche questa può essere solo una mia personale impressione. Ho letto con piacere i suoi versi e apprezzato molto, oltre che l’aspetto espressivo, la verità sostanziale della sua poesia, quella di una via di ricerca, di fuga. Alla fine, sì, ho cercato di interpretare a mio modo alcune strofe per significare che nel suo discorso può ravvisarsi un’apertura verso la trascendenza. E’ solo Franco Casati che parla, un modesto narratore, che si esprime in modo sommario e sintetico, ma cerca di rapportarsi agli altri con sincerità. Con stima e apprezzamento.
Caro Adelemo (ar), hai fatto bene a pensare al libro di Stefano Mancuso, sebbene io non l’abbia letto. Io ho sul tavolo il libro di Emanuele Coccia: «La vita delle piante. Metafisica della mescolanza» (Il Mulino, 2018). Sia chiaro, la mia poesia non è riuscito ancora ad assimilare la lezione fondamentale di questo libro. Sostiene alcune idee importanti del tipo: «Non c’è nessuna guerra tra loro, nessuna gara». «Cammini all’ombra /delle robinie piantate trent’anni fa, / radicate in questo luogo, pronte / a sopportare il prolungato /inquinamento della città. /Le loro ferite sono tutte visibili /e non rimarginabili.» «Che tenerezza le belle acetoselle /Con le loro foglie a cuore /Ammirate d’estate col mio amico. /Viva la vita, dicono, Viva la vita // Vegetale. Ma senza questa / Non sarebbe possibile neanche quella / Dell’animale ferito. Non sarebbe /Possibile convocare /Il mio album d’immagini sul foglio. /Grazie, quindi, grazie a questo /Mondo che mi regala il respiro.» Ma il quadro – e lo dico a mia vergogna – è ancora tradizionale. È quello amorevole di figlio di una famiglia contadina. Per limitarmi solo ad alcuni punti, Coccia, invece, sostiene:
a) che ci sia una vera e propria rivoluzione interna alla botanica e nei rapporti tra questa scienza e la zoologia: «per lungo tempo è stata una scienza paralizzata dal senso di inferiorità rispetto alla zoologia, che da sempre è stato il canale attraverso cui la scienza biologica ha posto le domande più importanti sul vivente. Abbiamo chiesto sempre a cani, gatti, elefanti, coccodrilli, uccelli, e così via di svelarci i segreti dei corpi. Abbiamo chiesto sempre a degli animali di iniziarci ai misteri della vita e delle sue forme. Per secoli, la botanica si è allora limitata al compito di passare in rassegna, recensire, classificare l’infinita varietà delle forme vegetali. È stata per anni soprattutto sistematica vegetale.» Che cos’è il “vivente” possiamo chiederlo oggi alla botanica: cioè alle erbe, alle siepi, alle ginestre, agli alberi. Un gruppo di pionieri, tra cui Stefano Mancuso, ha iniziato «a porre alle piante domande che non erano mai state poste prima e hanno fatto, della botanica, una sorta di metafisica della vita alternativa a gran parte della tradizione occidentale»
b) «L’aspetto più spettacolare di questa rivoluzione è sicuramente quello che riguarda l’intelligenza. È stato possibile dimostrare che la pianta è perfettamente consapevole di ciò che accade intorno e dentro di essa, e che è dotata di una memoria e di un’intelligenza che, se non hanno bisogno di un sistema nervoso e di un cervello, non sono meno acute di quelle degli animali. Questo tipo di osservazione permette di capire fino a che punto la presa zoocentrica ci ha impedito di affermare l’identità tra la vita e il pensiero. Solo perché abbiamo chiesto ad un animale (in primo luogo l’animale umano) di rivelarci la natura dell’intelligenza, abbiamo impedito a noi stessi di pensare all’intelligenza vegetale o all’intelligenza batterica. È a causa del narcisismo animale che continuiamo a supporre che solo la presenza di un sistema nervoso garantisce la presenza dell’intelligenza. Se crediamo che le neuroscienze ci riveleranno il segreto del pensiero e della coscienza, è solo perché siamo ossessionati dagli animali. L’elenco delle scoperte potrebbe aumentare, e un giorno dovremmo scrivere e raccontare la storia della rivoluzione nel modo in cui guardiamo la pianta prodotta da questa generazione di scienziati.»
Di fronte a quest’idea sconvolgente, la mia poesia esita. Tanto è vero, che dopo aver camminato all’ombra delle robinie, scrivo: «Non puoi paragonarti a loro, /se anche stamattina hai cercato /il colpo di reni, lo slancio /verso l’alto. Sei qualcosa di più /di un rametto in cerca d’azzurro. // Forse anche qualcosa di meno: /un viandante imbevuto di veleno.» Certo, la poesia se la cava per il rotto della cuffia “qualcosa di più” e “qualcosa di meno”. Ma non mi sembra che faccia il passo decisivo di riconoscere convintamente intelligenza alle piante. Forse mi blocca la mia storia.
c) Grazie alle scoperte della botanica, «la biologia ha profondamente rivisto la vulgata darwiniana che aveva fatto della guerra, della competizione e della lotta di tutti contro tutti la forma trascendentale del rapporto dei vivi. Si è scoperto che una delle invenzioni e dei progressi più grandi della vita sul pianeta, la costruzione della cellula eucariotica non è spiegabile attraverso la competizione e la selezione, ma solo attraverso un processo di simbiosi, di collaborazione, di ibridazione tra due organismi autonomi che si fondono per costituirne un terzo. Non sono l’ostilità e la guerra che permettono alla vita di migliorarsi e di cambiar forma ma la solidarietà.»
d) La foresta come modello di coabitazione: «per capire come convivere basta rivolgersi a una foresta, perché è il modello di coabitazione in cui il tasso di ostilità è di gran lunga inferiore a quello di qualsiasi comunità animale. Al di là dei giudizi dati sul libro, [La vita segreta degli alberi di Peter Wohlleben] si è trattato di un gesto epocale: per la prima volta la foresta, che da secoli è l’opposto della città, ciò che esiste al di fuori – foresta viene da foris – del politico diventa il modello del politico, diventa anzi il politico per eccellenza.»
e) Siccome la pianta è un organismo autotrofo, essa svolge un ruolo epistemologico molto importante: «Con la pianta, la biologia è obbligata a pensare la logica dell’interrelazione di tutti gli esseri viventi sotto una forma diversa di quella del consumo reciproco e dell’entropia. Il miracolo e il paradosso (anche termodinamico) delle piante è che mostrano la capacità della vita di costruirsi a partire quasi dal nulla, da ciò che non vive, e di moltiplicarsi come spontaneamente. Ma soprattutto la pianta mostra il fatto che ogni vivente vive una vita che anima indifferentemente il proprio corpo e quello di infiniti altri individui di altre specie.» La poesia con la sua ammirazione per le piante intuisce questo loro ruolo epistemologico: «Mi piacciono le piante / Che s’arrampicano rigogliose / Lungo i muri o quelle che non temono / Le rupi e fioriscono / Con boccioli che insaporano /I nostri piatti più semplici.»
f) «Una pianta non è solo una vita che ha acquisito una forma specifica e diversa dalle altre, ma la vita in quanto potere di vivificare le forme più diverse e più lontane dalla propria forma, o l’impossibilità di definire la vita attraverso la forma in cui vive. Le piante ci mostrano che i viventi costruiscono e iniziano una vita che alimenterà e vivificherà altri viventi che se stessi, che renderà vivi altri soggetti.
Per dirla in maniera un po’ più radicale, ogni vivente costruisce una vita che saranno altri a vivere, costruisce un corpo che diventerà il pasto di altri, il teatro della vita altrui. E questo passaggio di vita che è l’alimentazione, l’atto attraverso cui si vivifica un corpo altrui o si assume la vita di un’altra specie diventa qualcosa di sublime a causa delle piante. Quando mangiamo, in fondo cerchiamo e troviamo la luce solare che le piante hanno insufflato nel corpo minerale di Gaia. Il cibo non è altro che questo commercio di luce che si trasmette di mano in mano, di specie in specie, di regno in regno, e che continua a illuminare il pianeta, assicurando, giorno dopo giorno, continuità e vicinanza tra la Terra e il Sole. O, se vogliamo, nelle piante diviene particolarmente evidente il fatto che la vita è qualcosa che viene sempre da un altro vivente per andare verso un altro vivente.»
Questo “commercio di luce” è un fatto straordinario. Ed è quello che vedo in azione nel processo di costruzione e trasmissione culturale.
Caro Adelelmo, ci sarebbe molto altro da dire. Ma queste citazioni riportate, tratte da una conversazione di Riccardo Venturi con Emanuele Coccia apparsa su Doppiozero, fanno capire l’importanza del tema da te sollevato. Grazie per il tuo intervento.
Ho avuto la fortuna di incontrare il dott. Sarzarulo lo scorso anno quando ha tenuto un laboratorio di poesia nella classe dove insegno. All’inizio ho provato un po’ di soggezione: davanti a me un signore elegante nei modi, colto ed esperto di poesia. Poi l’ho osservato comunicare coi bambini e interagire nella lingua che solo i poeti conoscono. La soggezione è svanita: rincorrevo come i bambini il suo giocare con le rime e le assonanze sperando così di fermare il tempo per ampliare gli spazi della parola poetica. Ho letto queste poesie, questo intreccio d’autunno, di morte e di vita. Ho provato una malinconia profonda e mi sono sentita una piccola foglia di acetosella. Ho cercato di controllare il dolore, ma qualche lacrima mi ha tradita. Ogni volta che la poesia mi abbraccia, sento un nuovo mutamento. Grazie per queste immagini di uno struggente autunno.
Caro Ennio, la lettura che proponi della mia “Curva d’autunno” mi pare sostanzialmente condivisibile. Mi limito quindi ad accennare soltanto a ciò che non capisco o che mi suscita perplessità. Mi riferisco in particolare al punto 5: «La storia umana mi pare fuori campo. Lo è un po’ anche la polemica sociale, forse troppo blanda e bonaria […]. La politica anche è fuori, ridimensionatasi a falsa ricerca di libertà», ecc. Ecco, non riesco a capire come fanno ad essere fuori campo storia, polemica e politica, quando queste poesie mi sembrano persino troppo impregnate da queste attività.
Immaginiamo per un attimo che la situazione prospettata nell’ultima poesia fra cento anni si verifichi: «Ora respiri. Poi pensa a un altro giro. / A un altro giorno dove tutto questo / Non sarà luce bianca di felicità, / Ma occhi amorevoli di chi si china /Sulle parole e indovina il grigio /Di questo mattino, il rumore ovattato /Delle foglie cadute e accartocciate, / Il cammino lento sul marciapiede / Di un pedone in mascherina / Con le mani dietro la schiena /intrecciate.».
Questi “occhi amorevoli” di un lettore o di una lettrice, a indovinare “il grigio / di questo mattino” ci metteranno poco, tanto è la poesia stessa che l’enuncia chiaramente. Per capire, invece, questi quattro versi «La società non è un portapenne, / né una sfera di cristallo. L’epidemia /è una catastrofe che può aprire / nuove vie» avranno probabilmente bisogno di una nota a pié di pagina di carattere storico che informi l’ignaro lettore sulla pandemia diffusasi in questi anni, e sul dibattito che, a partire da Thatcher, si è sviluppato sulla società (esiste o non esiste?), ecc. Potrei moltiplicare gli esempi. Ma sono convinto che anche le poesie più “stagionali”, nel senso dell’essere legate all’autunno, sarebbero incomprensibili, senza spiegazioni capaci di evocare la situazione che stiamo vivendo: «È la fanfara d’autunno /che regala queste note di colore /insieme all’ululato non lontano /di sirena. Non so se produttivo, /nelle mie vene scorre il sangue /di un uomo ancora vivo.» Perché questo ululato di sirena? E perché l’io poetico si chiede se è ancora “produttivo” o meno?… Il solerte commentatore dovrà spiegare, sempre nella famosa nota a pié di pagina, che si allude alla dichiarazione di un Presidente di Regione, secondo il quale morivano anziani, «persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese».
Forse i “poeti laureati” criticheranno questi testi per essere troppo legati alla congiuntura che stiamo vivendo. Vorrebbero magari parole più appuntite, più penetranti, più lucide sulla condizione umana. Non so. Al momento, meglio di così non so fare. Come dicevo ad Anna Maria non ho identità sostanziali da sbandierare. Cerco «l’oriente sulla pagina / la risorgiva degli incontri / l’accavallarsi dei tarsi, / le grandi caverne sui tronchi / tormentati». Quindi, poesia come oriente, come risorgiva, accavallamento, grande caverna del corpo-mente…Un lungo lavoro di ricerca, “una lunga insidia”.
Per finire, mille grazie davvero per i tuoi appunti di lettura.
Gentilissima maestra Calcabotta, grazie a lei per i suoi vivi apprezzamenti. Le giornate di poesia coi bambini mi mancano moltissimo. Spero di poterle riprendere in un futuro non lontano. Come si fa a non essere malinconici in queste settimane?…Cordiali saluti
@ Donato [Salzarulo]
… allora le nostre fragili parole
piene di un lontano sociale
già precipitavano in minoritaria lucidità
ma resistevano, mentre precipitavano
(E. A., Prof Samizdat)
Come al solito avrò esagerato con la mia pretesa di chiedere più storia, più politica, più polemica sociale nella poesia (ai poeti). A me pare sempre mancante e insufficiente. (L’ho scritto ossessivamente, tante volte). Anche dall’immaginario lettore postero, che fra cento anni dovesse fermarsi sui versi che oggi si vanno scrivendo, chiederei le stesse cose. A meno di non riuscire a immaginare – ma quanto ottimismo ci vorrebbe? – che entro i prossimi cent’anni scoppi una rivoluzione, per cui non ci sarà più bisogno in poesia di più storia, più politica, più polemica sociale.
Più prosaicamente. Ho scritto:
1. “La politica anche è fuori, ridimensionatasi a falsa ricerca di libertà” per dire che appunto è morta, è finzione, è spettacolo; e noi siamo coinvolti dal disastro del ceto politico di governo e d’opposizione (di questa città e di questo Paese). Non mi consola né mi rassegno a denunciare la sua innegabile “insipienza”.
2. La polemica sociale mi è parsa blanda e limitata ai cenni a Chiesa e pompe funebri, mentre con questa gestione della pandemia stanno riassestando un’altra volta forme di “capitalismo” (la parola sarà inadeguata o logora, ma non ce n’è altra, se non vogliamo sostituirla – e sarebbe una regressione a mio parere – con Male metafisico o non strettamente storico).
3. La storia umana mi pare fuori campo perché nelle tue poesie è la quotidianità che è in primo piano. E perché c’è l’io, anzi anche un io/noi, ma è troppo pensieroso, desideroso di gioia e di piante. E la storia umana ( e disumana) con la quale volevo/vorrei che i poeti si misurassero ( ricordi: https://www.poliscritture.it/2017/02/22/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano-abbastanza/) forse manco ci può entrare in poesia. Deflagrerebbe il verso, si scomporrebbe la forma. (Come ai tempi ferrei delle Avanguardie, quelle storiche).
E, dunque, è un’esigenza mia, furiosa e oscura. Non ce l’ho con te, non sono critiche che vogliono bersagliare in particolare i tuoi versi. Anzi forse oggi in poesia storia, politica, polemica sociale, possono esserci proprio come tu e altri le mettete. Io, infatti, non riesco più a scrivere poesie di questi tempi.