Covid, appendice 2:  homo sapiens anglicus, homo sapiens sapiens

di Paolo Di Marco.

Questo articolo va collegato al precedente pubblicato l’11 novembre 2020 (qui) e fa parte di un più ampio studio dell’autore di cui si è riferito qui. [E. A.]

Per uscire dalla situazione attuale dobbiamo prima liberarci dai paradigmi sbagliati che ancora ci guidano, altrimenti ci troviamo come gli inglesi a combattere il virus  con fucili e filo spinato. (v. appendice 1).

Balaklava, la carica dei 600
  • Il primo paradigma, implicito ma proprio per questo più pericoloso, è che la pandemia vada affrontata di per sé, e non in congiunzione con gli elementi di fondo da cui nasce: la distruzione degli ambienti originari, la catena di crisi innestate dal cambiamento climatico, la totale pervasività e cecità della ricerca del profitto. Come titolava il Manifesto qualche mese fa, ‘il problema non è tornare alla normalità, è la normalità il problema’.
  • Il secondo paradigma, corollario della pervasività cieca del profitto, è quello della medicalizzazione ad oltranza, con una catena perversa: abbandono della prevenzione a favore delle cure e della sanità pubblica a favore di quella privata,—>prevalenza di operazioni chirurgiche e farmaci brevettati,—> indifferenza ai rischi ambientali e al benessere sociale e individuale.
  • Il terzo paradigma è una costellazione di ideologie, prassi, credenze che portano ad una visione guerresca del nostro rapporto, e del nostro corpo in particolare, con l’ambiente esterno.

Partiamo da qui: Batteri, virus, parassiti sono stati da sempre un agente potente nel modellare l’evoluzione dell’uomo, in un quadro dinamico di azioni contrastanti: agenti patogeni distruttivi che forgiavano nei sopravvisuti difese immunitarie, agenti che si integravano coll’organismo in un processo simbiotico (ma in delicato equilibrio, con fasi di cooperazione intervallate da momenti virulenti), agenti che se ne stavano tranquilli se non erano disturbati. Il risultato è un organismo umano in cui ad ogni cellula corrisponde almeno un altro organismo del bioma, dove il sistema immunitario non lotta da solo coi nemici esterni, ma usa anche i batteri interni come parte integrante[1]. Un organismo che non può essere visto come un’isola ma come elemento integrato in un ambiente, che ne viene determinato e lo determina. su due fronti: nelle interrelazioni che formano il nostro corpo individuale, nelle interrelazioni che formano il corpo sociale. Sul piano corporeo tutto passa attraverso la frontiera del corpo umano: pelle+ narici+bocca-tratto gastointestinale-retto su una superficie sottilissima occupata da milioni di microorganismi con cui abbiamo stabilito un rapporto di reciproco vantaggio, che va dalla coesistenza alla simbiosi; frontiera pattugliata dal sistema immunitario; sistema lasciato privo di adeguato addestramento dall’igiene esasperata e dall’alimentazione industrializzata;

E sul piano sociale la nostra frontiera era l’insieme delle relazioni sociali di primo e secondo livello, dai familiari ai colleghi di lavoro al medico di famiglia; tutte relazioni che le nuove organizzazioni del lavoro hanno seccato o incrinato.
frontiera deprivata di molti componenti preziosi sotto l’attacco di antibiotici, sostanze chimiche corrosive, creme alteranti l’equilibrio.

I primi passi per ripartire da qui sono quei rari medici che cercano di intervenire sul bioma, ricostruendone l’equilibrio, anche con metodi inusuali[2], dall’inserimento di vermi simbionti benigni al trapianto di merda. Al di là degli esempi ci danno una lezione importante: ritrovare la strada della coesistenza pacifica coll’ambiente dei microorganismi.  Il che porta ad una riflessione a catena sul cibo che mangiamo, su come lo alleviamo/coltiviamo, sulle nostre abitudini di vita.

Non è un caso se il virus, pur avendo conseguenze su tutti i soggetti[3] ha colpito in maniera differenziata: per malattie preesistenti, per adeguatezza del sistema immunitario (anziani ma non solo), per colore della pelle (il che riporta ad alimentazione e abitazione), per zone abitative. Un virus classista. (Come classista, ça va sans dire, sarà il vaccino).

Con questo virus, grazie anche al vaccino, forse riusciremo a convivere, come con l’influenza. E il prossimo? La possibilità di una coesistenza pacifica a lungo termine ha una sola grossa condizione: un ristabilimento dell’equilibrio tra noi e il nostro ambiente. E insieme il cambiamento dei tre paradigmi.

Come? Ripartiamo dalla frontiera, e dal problema da cui nasce la teoria delle catastrofi:[4]

Se siamo all’esterno di un certo raggio il cane non attacca; se siamo all’interno attacca. Il comportamento dipende da un solo fattore. Ma se siamo sulla frontiera intermedia il suo comportamento non è più prevedibile, i fattori in gioco aumentano (il vostro odore, il suo stato d’animo,…). In termini matematici è una catastrofe, perché una funzione unidimensionale diventa multidimensionale, come si vede dal grafico, la proiezione dello spazio effettivo a più dimensioni sul piano dà origine ad un cambiamento brusco (una cuspide).

è come il problema di costruire 4 triangoli equilateri con 6 fiammiferi. Si risolve solo rendendosi conto che non ha una soluzione nel piano.

Il passaggio da homo sapiens anglicus ad homo sapiens sapiens avviene solo quando impariamo muoverci sull’unico spazio, complesso, dove esistono le soluzioni.

Le soluzioni alla pandemia sono solo nello spazio dove ci sono contemporaneamente salute, medicina, ambiente e rapporti sociali.

Non ci siamo molto vicini. Si à parlato di ‘dittatura sanitaria’, di scientismo, ma qui di scienza se ne è vista poca: una passerella sguaiata di idraulici in camice bianco, tutti rigorosamente bidimensionali.[5] Le poche eccezioni ai terrapiattisti, ovvero quelli che come gli epidemiologi dovrebbero avere una formazione a più livelli disciplinari, assenti dal consesso decisionale del CTS.

Ma adesso che il cielo con Maradona ha acquistato una dimensione in più, un aiutino ce l’aspettiamo. Come titolava anni fa il Vernacoliere: ‘Chernobyl ha fatto il miracolo: gli è nato un pisano intelligente!’.

Pensare in più dimensioni è anche un’abitudine. Non c’è bisogno di essere scienziato per farlo. Ma uno scienziato dovrebbe essere più abituato.

Bibliografia

caveat: la maggior parte delle ricerche qui presentate è in preprint, senza ancora una revisione dei colleghi (peer review)(in particolare i preprint su medRXiv e BioRXiv)

  1. Laxminarayan et al., Science 10.1126/science.abd7672 (2020)
  2. relazione/simulazione Bambin Gesù, 🙁https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/30/ecco-come-si-propaga-il-coronavirus-dopo-un-colpo-di-tosse-in-una-stanza-chiusa-la-video-simulazione-del-bambino-gesu-di-roma/5985143/
  3. Nature NEWS 29 October 2020Why schools probably aren’t COVID hotspots. https://doi.org/10.1038/d41586-020-02973-3, Buonsenso, D., De Rose, C., Moroni, R. & Valentini, P. Preprint at medRxiv https://doi.org/10.1101/2020.10.10.20210328 (2020)
  4. Lessons from applied large-scale pooling of 133,816 SARS-CoV-2 RT-PCR tests, https://doi.org/10.1101/2020.10.16.20213405
  5. Statistical illiteracy isn’t a niche problem. During a pandemic, it can be fatal Carlo Rovelli, The Guardian, 26/10/2020
  6. Long-term exposure to air pollution may be linked to 15 percent of COVID-19 deaths globally, according to a new study.Published in the journal Cardiovascular Research on Tuesday, the research from German and Cypriot experts analysed health and disease data from the United States and China relating to air pollution, COVID-19 and SARS; da Nature Briefing, 27/10/2020
  7. Paolo Di Marco, Bilanci d’impatto ambientale e mappe di rischio, CLUP 1984
  8. Association of County-Wide Mask Ordinances with Reductions in Daily CoVID-19 Incident Case Growth in a Midwestern Region Over 12 WeeksEnbal Shacham et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.28.20221705
  9. The Risk of Indoor Sports and Culture Events for the Transmission of COVID-19 (Restart-19)Stefan Moritz et al, C doi: https://doi.org/10.1101/2020.10.28.20221580
  10. Longitudinal monitoring of SARS-CoV-2 RNA on high-touch surfaces in a community settingAbigail P. Harvey et al doi: https://doi.org/10.1101/2020.10.27.20220905
  11. Optimal COVID-19 quarantine and testing strategiesChad R. Wells et al https://doi.org/10.1101/2020.10.27.20211631
  12. CO2 measurements in instrumental and vocal closed room settings as a risk reducing measure for a Coronavirus infection, Manfred Nusseck et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.26.20218354
  13. COVID-19 infections following outdoor mass gatherings in low incidence areas: retrospective cohort study, Oren Miron et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.22.20184630
  14. COVID-19 Infections Following Physical School Reopening, Oren Mironet et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.24.20218321
  15. Airborne Pathogens in a Heterogeneous World: Superspreading & MitigationJulius B. Kirkegaard et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.24.20218784
  16. Kimberly A. Pratheret et al, Airborne transmission of sars-cov-2. Science, 370(6514):303{304, 2020
  17. Prevalence of COVID-19 in Adolescents and Youth Compared with Older Adults in States Experiencing Surges , Barbara T. Rumain et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.20.20215541
  18. COVID-19’s unfortunate events in schools: mitigating classroom clusters in the context of variable transmission, P. Tupper et al https://doi.org/10.1101/2020.10.20.20216267
  19. The incubation period of COVID-19: A scoping review and meta-analysis to aid modelling and planning, Prakashini Banka et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.20.20216143
  20. Cognitive deficits in people who have recovered from COVID-19 relative to controls: An N=84,285 online study, Adam Hampshire et al https://doi.org/10.1101/2020.10.20.20215863
  21. Analytical solution of equivalent SEIR and agent-based model of COVID-19; showing the bounds of contact tracing, Huseyin Tunc et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.20.20212522
  22. Effect of park use and landscape structure on COVID-19 transmission rates, Thomas F. Johnson et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.20.20215731
  23. A placebo-controlled double blind trial of hydroxychloroquine in mild-to-moderate COVID-19, Vincent Dubée et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.19.20214940
  24. Real-time tracking and prediction of COVID-19 infection using digital proxies of population mobility and mixing, Kathy Leung, et al https://doi.org/10.1101/2020.10.17.20214155
  25. Quantifying Asymptomatic Infection and Transmission of COVID-19 in New York City using Observed Cases, Serology and Testing Capacity, Rahul Subramanian et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.16.20214049
  26. Modelling SARS-CoV-2 transmission in a UK university setting, Edward M. Hill et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.15.20208454
  27. How to remove the testing bias in CoV-2 statistics, Klaus Wälde, https://doi.org/10.1101/2020.10.14.20212431
  28. The effect of influenza vaccination on trained immunity: impact on COVID-19, Priya A. Debisarun et al, https://doi.org/10.1101/2020.10.14.20212498
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  31. Nature NEWS FEATURE 06 October 2020Face masks: what the data say
  32. Nature NEWS FEATURE 08 July 2020Update 23 July 2020 Mounting evidence suggests coronavirus is airborne but health advice has not caught up
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  42. David Quammen, Spillover, Norton 2012
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  60. MATHEMATICAL ANALYSIS OF COVID-19 TRANSMISSION DYNAMICS WITH ACASE STUDY OF NIGERIA AND ITS COMPUTER SIMULATION, Agbata C.et al, org/ 10.1101/2020.10.20.20216473

 

Note

[1] ref 47

[2] v. ref 46, 47, 53; il fatto che questi organismi non siano brevettabili e quindi profittevoli è uno dei maggiori ostacoli alla loro diffusione, dato che non entrano nei prontuari e nella panoplia dei rappresentanti farmaceutici che informano la gran parte dei medici.

[3] v. ref 20

[4] v. ref 59. Oggi è un ramo della teoria del caos.

[5] La triste storia delle scienze della vita nelle università italiane data dal 1848, e dalla sconfitta dei fisiologi ad opera dei classificatori. Ma è storia per altri momenti. Ne scrissi secoli fa ne ‘I protagonisti della storia d’Italia’ della C.E.I.

 

 

 

 

 

 

14 pensieri su “Covid, appendice 2:  homo sapiens anglicus, homo sapiens sapiens

  1. Concordo praticamente su tutto. Con un piglio scientifico questo articolo riepiloga quanto è stato più volte detto in molte sedi, e io stesso ne ho scritto nella fase iniziale della pandemia: ma con una cultura da praticante di discipline umanistiche e non scientifiche.
    La conclusione è comunque la stessa: «La possibilità di una coesistenza pacifica a lungo termine ha una sola grossa condizione: un ristabilimento dell’equilibrio tra noi e il nostro ambiente. E insieme il cambiamento dei tre paradigmi».
    ***
    Ma è una conclusione più enunciata e auspicata, più morale, che concreta, perché se ci fermiamo qui non abbiamo ancora toccato le radici dei problemi che affrontiamo e delle soluzioni che cerchiamo.
    Come trasformare in progetto quanto è qui auspicato? E che problemi giganteschi si devono affrontare per poter trasformare il desiderio di soluzione in progetto “ingegnerizzato” di soluzione?
    ***
    Tocco qui alcuni punti che – a mio parere – sono punti chiave.
    *
    1) Di Marco scrive di «pervasività cieca del profitto», «catena perversa», «indifferenza ai rischi ambientali e al benessere sociale e individuale».
    Ma da dove viene questa umana «catena perversa»?
    A mio parere viene dalla stessa “natura”: non natura umana in particolare, ma natura in senso lato. Poi la spinta naturale diventa cultura, organizzazione sociale ecc. ecc., ma l’origine è in comportamenti “naturali” ed “evolutivi” propri di tutti gli esseri viventi, vegetali compresi. Che è la tendenza a espandersi il più possibile, a occupare l’ambiente, a colonizzarlo, a trasformarlo secondo le proprie esigenze, ad aggredire ogni altra specie che sia di ostacolo.
    In questo periodo, oltre alla pandemia e a tanti altri fenomeni allarmanti, assistiamo anche all’invasione dei calabroni asiatici che, introdotti per errore o per altri motivi in Italia dove prima non esistevano, stanno divorando letteralmente e distruggendo gli allevamenti di api da miele. No so come andrà a finire, ma intanto assistiamo a un tipico comportamento naturale: i calabroni asiatici si espandono a danno dei precedenti abitanti dello stesso territorio e si espandono con modalità selettive. Costituiscono un danno diretto minimo per animali come i cani o i buoi o altri grossi mammiferi, ma un danno catastrofico per gli animali di cui si nutrono, fra cui in particolare le api da miele.
    Fin dai tempi più lontani a cui gli studi scientifici e storici ci permettono di risalire, piante e animali si sono sempre comportati così.
    E così si è comportato l’homo sapiens arcaico e moderno (sapiens sapiens), le cui continue migrazioni sono sempre state espansioni di un gruppo a danno di altri gruppi, o, nei casi in cui la sostituzione non era possibile o non conveniente, in mescolamento con altri gruppi. Mescolamento da posizioni di forza, come gruppo dominante, o da posizioni di sconfitta, come gruppo non dominante.
    Già Tucidide notava che la storia è una storia di re, di come si fanno guerra, di come si ammazzano. Ma dire re significa dire un popolo, un particolare popolo con un particolare “marchio” etnico e culturale.
    Se risaliamo a seimila anni fa, il periodo più antico di cui possiamo, sia pure a frammenti, ricostruire la storia attraverso una documentazione scritta, quella documentazione ci dice proprio questo: i diversi popoli sono organizzati in forme di statualità di tipo monarchico e imperiale; i confini sono sempre instabili; appena il regno A mostra segni di debolezza c’è subito un regno B che gli fa guerra per sottometterlo e per trarne i vantaggi economici e di altro tipo che se ne possono trarre, sia a vantaggio della famiglia del sovrano e della nobiltà che partecipa all’esercizio del potere, sia anche della popolazione tutta: commercianti, artigiani, professionisti, contadini che si allargano in nuove terre e ottengono altre risorse, ad esempio il controllo, vitale per quelle economie antiche, di fiumi e fonti d’acqua per irrigare i campi.
    Ma la tendenza imperialistica dell’uomo è sempre stata rivolta anche al controllo, alla domesticazione, alla depredazione, alla trasformazione del territorio e di tutti i suoi elementi minerali, vegetali e animali.
    *
    2) Che c’è, ora, di nuovo? C’è che mentre la natura, con le sue risposte, riesce a mantenere l’equilibrio ecologico sia con le api da miele sia, scomparse queste, con il calabrone asiatico, come con tutti gli altri vegetali e animali, uomo escluso, perché nessun vegetale e animale è capace di uscire dall’equilibrio ecologico, di spezzarlo, di annientarlo, di distruggere la natura e ogni ostacolo che la natura pone.
    L’uomo, al contrario, si è evoluto con tanto successo che è arrivato alla capacità di distruggere l’equilibrio ecologico, o meglio, di distruggere quel particolare equilibrio ecologico in cui si trova ad essere in cima alla catena vivente, capace di predare tutto e di non essere predato (come specie, non come singolo individuo) da nessun altro.
    Ma la risposta della natura sta, forse, ponendo un limite a questa presunta e arrogante capacità dell’uomo, e si corre il rischio di catastrofi ecologiche sempre più gravi, a danno dell’uomo.
    *
    3) Pertanto la soluzione che auspichiamo deve per forza, per via culturale, andare contro l’istinto “naturale” dell’uomo. L’uomo, cioè, deve porre un limite a se stesso, forzando la sua stessa natura che lo porta a superare e vincere ogni limite.
    Non è problema da poco e concretamente vuol dire un sacco di cose alle quali le società umane (suddivise in Stati non sempre in buoni rapporti fra loro e tendenti ad attuare strategie di espansione) non sembrano ancora preparate e non sembrano volersi distaccare da tutti i paradigmi di comportamento basati su due illusioni concomitanti: la prima, che le risorse della natura siano pressoché infinite e che i problemi che affrontiamo siano mali passeggeri; la seconda, che il progresso scientifico risolverà tutti i problemi, sia pure pagando dei costi lungo il percorso, come pandemie, malattia degli ulivi, invasione dei calabroni asiatici ecc. ecc. Costi considerati, tutto sommato, temporanei e sopportabili.
    *
    4) Ma quel che è peggio è che le due uniche soluzioni possibili (fuori dalle illusioni menzionate), non sono prese in considerazione da nessuno, perché sono proprio e decisamente contro la tendenza naturale all’espansione come specie.
    La soluzione, infatti, richiede che l’impatto ecologico, cioè l’aggressione umana contro l’insieme delle complessità ambientali, non solo diminuisca il ritmo di crescita, ma regredisca in assoluto. Ma come è possibile? Le ipotesi sono tre:
    a) La prima nasce dalle illusioni menzionate, e a mio parere non realistica: trovare un modo di espandersi pur diminuendo in assoluto l’impatto ecologico negativo.
    Espandersi vuol dire: i) aumento della popolazione, come continua a verificarsi; ii) miglioramento della qualità di vita con aumento dei consumi, delle tecnologie disponibili, della facilità di trasporti e viaggi, della concentrazione urbana, della diminuzione delle ore di lavoro ecc. ecc.
    b) La seconda nasce dalla convinzione (condivisa da pochissimi) che il mantenimento e il miglioramento della qualità di vita è incompatibile con l’aumento della popolazione, che fa da moltiplicatore ai consumi di ogni tipo e quindi ai danni ambientali collaterali, per cui è necessario non aumentare ma diminuire la popolazione, diminuire l’occupazione del territorio, diminuire il numero di abitanti per chilometro quadrato. Solo meno persone, sempre più meno, possono sostenere un parallelo aumento dei consumi. Quindi, mantenendo l’opzione del miglioramento della qualità della vita, cercare l’equilibrio ecologico nella diminuzione della popolazione.
    c) La terza soluzione, tutta culturale e controfattuale rispetto alla natura umana, è quella di ricercare l’equilibrio, con la diminuzione dell’impatto negativo sull’ambiente, in un mutamento dei comportamenti umani. Sostituire al concetto di qualità della vita basato sostanzialmente sui consumi e sulla tecnologia, un concetto basato sulla diminuzione dei consumi e della tecnologia.
    Le teorie della «decrescita economica» (o crescita sostenibile, o crescita felice) non tengono adeguatamente conto di due controindicazioni: una è che la decrescita richiede un’organizzazione sociale completamente diversa. Si tratterebbe di cambiare i paradigmi economici , politici, giuridici, ma anche quelli culturali e psicologici di miliardi di persone. La seconda è che se la decrescita non prevede anche un arretramento, o quantitativo della popolazione o quantitativo dei consumi, nuovi parametri di “sviluppo sostenibile” non saranno sufficienti a fermare l’impatto ecologico negativo. Non si tratta solo – a mio parere – di cambiare il tipo di produzione e di consumi, ma di diminuire in modo significativo e in termini assoluti sia la produzione sia i consumi.
    E, per il momento, l’impresa mi pare impossibile.
    *
    5) Non vedo nessuna esperienza sociale e politica degli ultimi duecento anni andare in questa direzione. Anzi, il problema è sempre stato quello di esaltare «le magnifiche sorti e progressive». Come cambiare radicalmente questa tendenza, se se ne negano e oscurano e nascondono le radici e anche i sostenitori della “decrescita felice” non si allarmano per l’aumento della popolazione e negano di voler ridurre la qualità della vita con la diminuzione del consumo, limitandosi a prevedere strategie di consumo diverse?
    E in che modo diverse? Basta eliminare la produzione di beni considerati non necessari e fabbricare frigoriferi che durino vent’anni e non cinque o telefonini che durino cinque anni e non uno, dopo di che diventano obsoleti? Non credo che ciò basti; e in ogni caso come attuare questo programma, che è di per sé già un programma minimo?
    *
    6) Che tipo di rivoluzione richiederebbe? Non quella sovietica, non quella maoista, non quella castrista, che non hanno mai provato a farlo, anzi hanno sempre fatto il contrario, o, se per qualche periodo ci hanno provato, non ci sono riusciti e hanno presto abbandonato il tentativo. Non quella alla Pol Pot, che oltre al genocidio di massa perpetrato, se fosse continuata sarebbe sicuramento tornata – come il Vietnam – a una tradizionale politica di sviluppo economico.
    *
    7) Potrebbe farlo una società alla Orwell o alla Huxley (Il mondo nuovo)?
    Forse, ma sicuramente sarebbe una società in cui gli individui perderebbero la libertà e sarebbero suddivisi in tipi a, b, c, e il sacrificio di nascite e di consumi sarebbe riservato soprattutto ai tipi “c”.
    *
    8) Io, naturalmente, non ho soluzioni. Mi accontenterei, per il momento, che se ne discutesse, mentre mi pare che il tema della sovrappopolazione sia oggi un tabù e quello della riduzione dei consumi un altro tabù: per tutti: destra, sinistra, sindacati.
    *
    9) Intanto, la natura persegue le sue strategie, cieche o non cieche che siano, e le condizioni di vivibilità del pianeta Terra sono in fase di diminuzione. Nonostante tutte le grida e le lamentazioni degli ecologisti contro l’attività umana e la produzione di anidride carbonica, secondo la maggioranza degli studi sul problema del riscaldamento globale, sembra che questo dipenda dalle attività umane solo in parte minima, dal 2% secondo alcuni a un massimo del 30% secondo altri. Il resto è “normale” attività della natura, che già in passato, anche prima che l’uomo si affacciasse sulla Terra, ha visto ere glaciali alternarsi a ere molto calde. Vuol dire che la natura, periodicamente, pone limiti ora più forti ora più blandi all’espansione dell’homo sapiens. Per cui, anche a prescindere dai comportamenti sciagurati, ci sono comunque problemi ecologici da affrontare in modo corretto e coraggioso, non alla Greta Thunberg, o alla papa Francesco, che proibisce ogni controllo delle nascite.

    1. Due questioni da chiarire, ma prima una precisazione: in tutti gli studi sul riscaldamento globale l’elemento antropico (in tutte le sue forme, compresi gli allevamenti intensivi) è dominante; la forchetta del 2-30% di cui Aguzzi parla non trova riscontro in alcuna pubblicazione ‘revisionata dai pari’ che io conosca.
      Il punto centrale della ‘decrescita equilibrata’ è sempre stato il fuoco impervio del dibattito. Ma una soluzione c’è, e già KM alla fine dei Grundrisse ne accennava: lo sviluppo delle forze produttive oggi è tale da permetterci molto di più di quello che immaginiamo…ma dovremmo riservarci uno spazio assai più ampio per dibatterne.
      Sul profitto e la sua forza distruttiva non andrei troppo indietro nella storia: basti notare come oggi si muove; e l’elemento pessimistico da sottolineare è l’inerzia enorme del suo cammino: perchè se poche centinaia di persone comandano il movimento dei capitali, rispondono però a centinaia di milioni di anonimi che a loro affidano i loro risparmi: sono mia cugina, tua sorella, i fondi pensione americani che danno i loro soldi a Blackrock e agli altri fondi di investimento, e da loro pretendono un ritorno del 3,5,10%. Facendo saltare dalle loro sedie gli amministratori in 24 ore se i ritorni sono scarsi. E che il ritorno si affida al petrolio o all’olio di palma loro non sanno e non vogliono sapere.

  2. Vedo che Luciano [Aguzzi] ha preso sul serio la domanda che avevo posto presentando la Lettera aperta di Rita («cosa si può fare di più e meglio?») e provo ad aggiungere alcune considerazioni critiche alle sue, per incoraggiare la riflessione in questa direzione:

    1. No, la «catena perversa» che oggi si è globalizzata non « viene dalla stessa “natura”» o da una «natura in senso lato» che poi (solo poi!) « diventa cultura, organizzazione sociale ecc.». Questa tesi naturalistica e evoluzionistica tende a sminuire il salto di libertà (in bene e in male) rappresentato dall’apparizione della specie umana sulla Terra e poi dalla sua contortissima storia; e induce a pensare troppo deterministicamente o a convalidare come inarrestabili (quasi fossero “contro natura”) certe tendenze vitalistiche distruttive, che Luciano descrive così: « la tendenza a espandersi il più possibile, a occupare l’ambiente, a colonizzarlo, a trasformarlo secondo le proprie esigenze, ad aggredire ogni altra specie che sia di ostacolo.».

    (Ma cosa c’è di “naturale in senso lato” nell’esempio dei “calabroni asiatici” da lui fatto? Niente. Se arrivano, come la pandemia, in Italia, è solo perché la globalizzazione, fenomeno storico, ha permesso un altro “salto”(in bene e in male) permettendo anche ai calabroni di espandersi secondo il loro «tipico comportamento naturale» nel nostro habitat dove prima non c’erano).

    Quindi, almeno dalla comparsa della specie umana sul pianeta, si dovrebbe parlare – come minimo – di processo conflittuale tra comportamenti naturali e comportamenti culturali. Per cui non credo si possa stabilire la continuità “naturalistica” che Luciano dà quasi per scontata: « piante e animali si sono sempre comportati così. E così si è comportato l’homo sapiens arcaico e moderno (sapiens sapiens)». E’ una forzatura unilaterale: non considera i numerosi tentativi – magari minoritari e marginali – che in tutte le società umane sono stati compiuti per frenare, disciplinare, educare i comportamenti “naturali”. ( Foscolo: « Dal dì che nozze e tribunali ed are/ dier alle umane belve esser pietose /di sé stesse e d’altrui» (Dei Sepolcri); Leopardi: «Impose a Mercurio che fondasse le prime città, e distinguesse il genere umano in popoli, nazioni e lingue»(Storia del genere umano).

    2. « Già Tucidide notava che la storia è una storia di re, di come si fanno guerra, di come si ammazzano. Ma dire re significa dire un popolo, un particolare popolo con un particolare “marchio” etnico e culturale.».

    Ma nel frattempo abbiamo anche avuto:

    « “Oh gentiluomini, il tempo della vita è breve!
    Trascorrere questa brevità nella bassezza
    sarebbe cosa troppo lunga.
    Se viviamo è per marciare sulla testa dei Re.
    Se moriamo, o che bella morte, quando i Principi muoiono con noi.
    Ora per le nostre coscienze le armi sono giuste.
    Quando l’intenzione nel portarle è ragionevole.”

    [William Shakespeare, Enrico IV]

    Oppure:

    « Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
    Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
    Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
    Babilonia, distrutta tante volte,chi altrettante la riedificò?
    In quali case di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
    Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,i muratori?
    Roma la grande è piena d’archi di trionfo.Su chi trionfarono i Cesari?»

    (Brecht, Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?)

    E se, indubbiamente, c’è stata e persiste « la tendenza imperialistica dell’uomo[…] rivolta anche al controllo, alla domesticazione, alla depredazione, alla trasformazione del territorio e di tutti i suoi elementi minerali, vegetali e animali», «negli imponenti rivolgimenti dell’atropocene delieneatosi a partire dal secolo scorso è riemersa dalla profondità dei secoli l’affermarsi dell’individualità come insegna liberatoria dei subalterni. Non appropriazione signorile, arma d’esclusione e sfruttamento, in obbedienza alla legge del più forte, ma avvera mento di una promessa antica secondo la quale il libero sviluppo di ciascun individuo è possibile solo nel libero sviluppo di tutti, ovvero in un salto di paradigma che metta a nudo la falsa individualità dei pochi, la loro fraudolenta libertà» ( Velio Abati, Cene, in «Fughe», Manni 2020).

    3. Sì, «l’uomo […] si è evoluto con tanto successo che è arrivato alla capacità di distruggere l’equilibrio ecologico, o meglio, di distruggere quel particolare equilibrio ecologico in cui si trova ad essere in cima alla catena vivente», ma a me pare “religione naturalistica” (passivizzante) aspettarsi o intravvedere nella pandemia o in altre catastrofi «la risposta della natura». Il « limite a questa presunta e arrogante capacità dell’uomo» (capitalista) può essere posto solo da “uomini non capitalisti”. Che per via culturale (e politica!) siano capaci di riorganizzare – è accaduto in passato e può accadere oggi o in futuro – una lotta efficace « contro l’istinto “naturale” dell’uomo» (capitalista) per divincolarsi dalle illusioni che si chiamavano una volta “progressiste” (risorse della natura pressoché infinite, religione positivistica della Scienza).

    4. «Che tipo di rivoluzione richiederebbe? Non quella sovietica, non quella maoista, non quella castrista, che non hanno mai provato a farlo, anzi hanno sempre fatto il contrario, o, se per qualche periodo ci hanno provato, non ci sono riusciti e hanno presto abbandonato il tentativo».

    Ma perché strizzare l’occhio o fare un pensierino a favore di una società alla Orwell o alla Huxley (Il mondo nuovo)? Nessuno di noi ha soluzioni ed è giusto auspicare che si discuta di questi problemi. Ma io eviterei la rimozione della storia da cui veniamo ( o almeno della storia della corrente calda del marxismo da cui veniamo) che mi pare di cogliere nei ragionamenti di Luciano. «Un ristabilimento dell’equilibrio tra noi e il nostro ambiente. E insieme il cambiamento dei tre paradigmi.[“ la pandemia vada affrontata di per sé…;medicalizzazione ad oltranza…;visione guerresca del nostro rapporto, e del nostro corpo in particolare, con l’ambiente esterno”]può essere al massimo un ideale regolativo ma è nei conflitti che bisogna stare e scavare col pensiero.

    P.s.
    Sull’aumento della popolazione insiste da tempo Pierluigi Fagan. Sarebbe bene usare le sue riflessioni.

  3. @ Ennio Abate
    Come è capitato altre volte, siano d’accordo pur nel dissenso (reale e/o apparente).
    So bene che la storia ci offre tanti esempi di controtendenze e che il riduzionismo evoluzionistico potrebbe (può, deve) essere smentito. Ma citare poeti ci aiuta in senso culturale e morale, ma poi le citazioni si fermano lì.
    Il problema, per rovesciare la tendenza, è che l’uomo, abituato a vincere ogni ostacolo della natura, questa volta veda se stesso come ostacolo e vinca se stesso, regolando i propri comportamenti non sulle eredità che ci vengono dall’evoluzione ma sulla coscienza e conoscenza culturale che ci dice (che dice a una ristretta minoranza, purtroppo) di limitarci, di continuare il nostro cammino in accordo e in equilibrio con la natura dismettendo i comportamenti negativi.
    Ma il problema che io ho posto è: come convincere otto miliardi di persone, associazioni, partiti, Stati che la via è questa?
    E si riuscirà a operare la trasformazione prima che siano le prevedibili catastrofi a obbligarci a farlo, magari con una situazione molto peggiorata e con una popolazione da ritorno al medioevo, per numeri e tecnologie?
    **
    Apprezzo l’opera di Pierluigi Fagan e di pochi altri che trattano anche il problema della sovrappopolazione, ma di quanto incidono nei comportamenti politici delle classi politiche, classi dirigenti, e “classi” di massa?
    Il nostro disaccordo (reale o apparente), sta sempre nel fatto che tu ragioni in termini di lotta sulla base di una cultura che riflette più sul tempo breve e medio che sul tempo lungo, e che tende, quindi, a sottovalutare i comportamenti che hanno radici profonde e più che millenarie e a sopravvalutare quelli che hanno radici più prossime, cadendo più facilmente in illusioni e disillusioni periodiche. Se vuoi dirlo in altri termini: sei più ottimista e attivista e “volontarista” di me.
    Ma poi il problema rimane, qualunque siano i sentimenti, le idee e le strategie preferite: come arrivare a un cambiamento radicale di comportamento che non riguardi solo poche migliaia di persone ma tutta la popolazione del pianeta e le classi dirigenti e politiche che ci governano?
    In quanto a Orwell e Huxley, non credo proprio di strizzargli l’occhio. Le considero due distopie da incubo. Quel che ho detto più volte è che il governo dei sistemi complessi, sempre più complessi, sempre più, nel senso da me precisato, “contro natura”, porta tendenzialmente all’accentramento del potere e alla “militarizzazione” della vita umana stretta fra regole sempre più limitanti. Prospettiva che per me è da considerare catastrofica, ma anche inevitabile, se le tendenze attuali non subiranno un drastico cambio di rotta nei termini discussi: diminuzione della popolazione, diminuzione dei consumi, recupero di un concetto di qualità della vita basato su valori molto diversi da quelli del consumo, del divertimento superficiale e, in poche parole, delle varie “droghe” culturali che oggi vengono propinate e accettate dai più.

  4. @ Paolo Di Marco
    1) Sulla parte del commento dove parla della «decrescita equilibrata» siamo d’accordo. Aggiungo che i «milioni di anonimi che a loro affidano i loro risparmi» lo fanno perché non ci sono alternative praticabili, soprattutto dai piccoli e medi risparmiatori. “Bitcoin”, criptovalute, valute digitali hanno inizialmente offerto una alternativa con forte impronta libertaria, antistatalista se non anticapitalista, ma sono poi diventate a loro modo altre forme di gestione capitalistica. E comunque, la volatilità di questi strumenti è sconsigliata ai risparmiatore non esperti che cadrebbero in trabocchetti e ci rimetterebbero “culo e camicia”, come si dice con espressione popolare.
    L’ideale (ma c’è un ideale in questo campo?) è di investire i risparmi, sotto forma di azioni e comunque di partecipazione societaria, in aziende produttive virtuose. Ma in genere questo tipo di azienda, oggi, non offre né sicurezza di conservazione dei capitali investiti né redditività almeno pari ad altri investimenti con lo stesso livello di rischio. La “sinistra”, il cooperativismo, i sindacati non hanno mai creato – e hanno prestato poca attenzione al problema – un comparto economico virtuoso e attrattivo dei capitali provenienti dal piccolo e medio risparmio. Più spesso è capitato di avere offerto partecipazioni “militanti”, ma economicamente a fondo perduto, o quasi. Mi pare logico, dunque, che mia cugina o tua sorella preferiscano investire i risparmi dove trovano più sicurezza e più rendimento, tenendo anche conto che il risparmio è quasi sempre legato a progetti di vita: la propria, o quella dei figli, o per garantirsi un arrotondamento della pensione. Progetti di vita legittimi e ai quali non si può chiedere di rinunciare in nome di una qualsiasi forma di militanza. Nella storia del comunismo c’è sempre stata molta avversione per il risparmio, considerato fonte di ineguaglianza e di alimentazione di mentalità capitalistiche, e ancora oggi, ad esempio in Italia, il notevole peso fiscale sulle attività economiche legate al risparmio e sulla stessa conservazione del risparmio, peso fiscale più che raddoppiato nel corso degli ultimi vent’anni, è quasi per intero dovuto a leggi approvate da governi di centrosinistra e con l’appoggio, spesso su proposta, della sinistra. Quanti voti ha fatto perdere alla sinistra il famigerato ministro Visco, detto popolarmente «il Dracula del fisco»? La sua riforma ha degli aspetti positivi, di razionalizzazione, di lotta contro l’evasione, di tassazione di redditi che prima sfuggivano al fisco, ma ha anche aspetti ed effetti perversi che colpiscono anche i piccoli risparmiatori, per cui anche i piccoli si sono sentiti aggrediti e non protetti e spinti verso politiche fiscali più liberali e meno vessatorie, anche a livello burocratico e di controlli invasivi. A Milano, per vecchia tradizione, fino agli agli anni Sessanta, il ceto medio investiva i suoi risparmi nell’acquisto di uno o due appartamenti, perché, si diceva, il “mattone è sicuro”. Se ne ricavava un reddito che equivaleva a una pensione. Ma poi, con successive leggi dette di “equo canone”, e successivi gravami fiscali e burocratici, investire in appartamenti è diventato spesso solo una fonte di rogne, di fastidi, di vertenze giudiziarie, di perdita economica. E il settore edilizio, oggi, in Italia, presenta molteplici anomalie rispetto alla situazione tedesca o inglese o di altri Paesi. E il peso della sinistra nel determinare questa situazione negativa è stato fortissimo, perché non si è limitato, come avrebbe dovuto e come sembrava essere nei programmi, a garantire aiuto e assistenza ai ceti più deboli nel trovare una abitazione e nel conservarla a condizioni sostenibili, ma ha punito pesantemente i proprietari, piccoli e grandi, e spesso ha favorito e protetto inquilini che erano più ricchi del proprietario, perché le leggi non discriminavano e non si basavano sull’accertamento delle reali condizioni reciproche di proprietari e inquilini e tanto meno lo faceva la magistratura nella fitta selva delle cause in materia.
    *
    2) Sulla prima precisazione: «la forchetta del 2-30% di cui Aguzzi parla non trova riscontro in alcuna pubblicazione ‘revisionata dai pari’ che io conosca», posso osservare quanto segue:
    2.1) Se il fattore antropico è superiore al 30%, fosse anche al 100%, la mia argomentazione complessivi sulla serietà del problema, sulla difficoltà di risolverlo e sulla necessità di discuterne in modo appropriato e non secondo le tendenze politiche stagionali, risulterebbe rafforzata. Quindi, per me, che non sono esperto in questo campo e mi baso su conferenze e letture divulgative, non cambia nulla, o cambia in peggio, se mi si dice che sbaglio.
    2.2) Tuttavia, se sbaglio, non sbaglio a casaccio o per capriccio, ma con dei motivi. Purtroppo su questo tema non ho un archivio di appunti e devo andare avanti a memoria, da lettore comune di qualche libro, di qualche saggio, degli articoli di giornale e di qualche articolo e documento di varia fonte.
    Ricordo che ai tempi dell’uscita del libro del cosiddetto «ambientalista scettico» Bjorn Lomborg se n’è discusso in molti articoli e si sostenevano, non ricordo i nomi ma si trattava comunque di esperti e docenti universitari (lo stesso Lomborg è docente universitario) tesi molto diverse e l’impatto delle attività antropiche veniva stimato, da un livello minimo dello 0,7% secondo alcuni, a un livello “prevalente”, ma non quantificato, secondo altri. Questi erano i due estremi e mi pare che grosso modo lo siano ancora oggi. Lei afferma che «in tutti gli studi sul riscaldamento globale l’elemento antropico (in tutte le sue forme, compresi gli allevamenti intensivi) è dominante». E l’ho letto altre volte anche in documenti ufficiali di vari enti che si occupano dei problemi del riscaldamento globale e delle politiche da attuare. Ma cosa vuol dire “prevalente” e “dominante”? Non è possibile quantificare meglio e documentare metodi, procedure e risultati con più esattezza?
    2.3) Nel corso del 2019 mi sono trovato in due occasioni, come spettatore, a seguire dibattiti sul problema. In un caso si discuteva partendo dall’enciclica «Laudato si’» di papa Francesco, nell’altro partendo da un libro di Greta Thunberg. In entrambe le occasioni vi erano tre oratori, di cui uno di formazione tecnico-scientifica, eppure il succo del discorso, completamente vuoto di precisi dati scientifici, era: «Il capitalismo è cattivo, bisogna cambiare vita, creare una nuova umanità». Bene, d’accordo. Ma come, come stanno le cose di preciso? In entrambi i casi ho posto la domanda: ma quanto incide l’attività umana sul riscaldamento globale, visto che ci sono studiosi che sostengono che incide in percentuale bassa, sul 2%? Perché se incide solo relativamente, tutto il discorso cambia di parecchio. Non senza imbarazzo, il “tecnico” mi ha risposto, nella prima occasione, che il 2% non era un dato inattendibile e che l’incidenza antropica era sul 30%. Nella seconda occasione che superava “il 26%”.
    Tecnici impreparati? Cattiva divulgazione? Attenzione alla propaganda politica e non ai dati scientifici dei problemi? Può darsi, ma andiamo avanti. Mi sono ricordato che in un articolo di Wikipedia si citava uno studio, più recente delle polemiche sul primo libro di Lomborg, che stimava l’incidenza antropica fra il 6 e il 26%.
    2.4) L’«effetto serra» è un effetto naturale, indispensabile alla vita sulla Terra, ed è dovuto all’esistenza di un’atmosfera. La temperatura media del pianeta è variabile e instabile e, grazie all’effetto serra, si tende a un equilibrio che si ottiene, a secondo del variare delle condizioni che interagiscono, con un aumento o una diminuzione della temperatura media. Ciò è sempre avvenuto, anche quando l’uomo non c’era ancora e anche prima della rivoluzione industriale. Quindi, alterazioni della temperatura con effetti non stagionali ma durevoli per lunghi periodi sono fenomeni naturali a prescindere dall’attività umana.
    2.5) Sull’effetto serra influiscono molti fattori, dall’attività dei vulcani alle variazioni del calore emanato dal sole e ricevuto dalla Terra, dal regime del vapor acqueo, dell’umidità, delle correnti del mare; dal ciclo dei “gas serra”: anidride carbonica, metano, ossido di azoto, gas fluorurati e altri, e altri fattori ancora. Quale sia il peso dei diversi fattori e come esattamente interagiscano fra loro con rapporti di causa ed effetti sia diretti sia indiretti o in catena, non lo sappiamo con certezza e precisione.
    2.6) Quindi, nel valutare l’incidenza antropica sull’effetto serra, ci si basa:
    a) Sull’osservazione dei fenomeni e sull’intuizione, ma non dimostrata da esperimenti che risultano difficili o impossibili. L’espressione «effetto serra» risale al 1824 e da allora, l’osservazione a occhio nudo, potremmo dire, ha via via convinto sempre più studiosi che la temperatura media del pianeta era in aumento e che questo aumento era dovuto, in parte almeno, alle attività dell’uomo, e in particolare all’aumento di emissione dei gas serra, specialmente dell’anidride carbonica. Ma solo a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso il problema si è posto anche in termini politici ed ecologici e non solo in termini climatici, e si è via via accresciuto l’allarme sugli effetti negativi per l’uomo.
    b) All’osservazione intuitiva si sono aggiunti metodi scientifici più rigorosi, consistenti in sistemi di osservazione e misurazione più precisi e in modelli di simulazione del clima e quindi delle variabili in gioco. Ma un esperimento condotto con modelli di simulazione non equivale a un esperimento diretto e i risultati cambiano a secondo del modello che si adotta. Un documento dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico – Intergovernmental Panel on Climate Change: foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente allo scopo di studiare il riscaldamento globale) del 2007 (se ricordo bene) stimava l’ulteriore aumento di riscaldamento alla data del 2080 da un minimo di 1,6% a un massimo di 6,5%, secondo il modello adoperato. Questa gigantesca forchetta ci dice molto sull’ancora scarsa precisione dei modelli climatici.
    2.7) Siamo pertanto in un campo in cui ancora tutti i dati in gioco sono discutibili e non sicuri. Sicuro è il graduale aumento della temperatura, sicuro è che le attività umane incidono sul fenomeno, ma non si è sicuri sui livelli di incidenza. Vi è ancora una notevole zona grigia di incertezza sulle cause, sugli effetti e sulle conseguenze in termini di vita umana.
    2.8) Nelle mie letture ho poi incontrato dei dati che, da profano, mi paiono contraddittori. In un documento ufficiale ho letto che l’emissione di anidride carbonica è ora il doppio di quella che si avrebbe naturalmente, senza le attività umane. In un altro ho letto che dal 1960 ad oggi l’emissione di anidride carbonica è aumentata del 25%. Sono conciliabili i due dati?
    2.8) E comunque, complessivamente, in che percentuale l’attività umana incide? Dobbiamo accontentarci di una valutazione qualitativa più che quantitativa dicendo “in modo prevalente”? In un articolo divulgativo e riassuntivo della Commissione europea per l’energia e i cambiamenti climatici leggo:
    «La CO2è un gas serra prodotto soprattutto dall’attività umana ed è responsabile del 63% del riscaldamento globale causato dall’uomo. La sua concentrazione nell’atmosfera supera attualmente del 40% il livello registrato agli inizi dell’era industriale. Gli altri gas serra vengono emessi in quantità minori, ma catturano il calore molto di più della CO2, a volte mille volte di più. Il metano è responsabile del 19% del riscaldamento globale di origine antropica, l’ossido di azoto del 6%».
    Complessivamente, se questi dati fossero esatti, avremmo un 88% di responsabilità delle attività umane? Quindi il termine “prevalente” lo possiamo sostituire con “88%”?
    Ma non tutti sono d’accordo con questi dati e altri enti ufficiali di vario tipo ne hanno pubblicati di diversi e con percentuali inferiori. In che misura gli interessi politici ed economici pesano sull’elaborazione dei dati e li distorcono?
    2.9) Non possiamo ignorare che la gestione dei dati, e delle stesse ricerche e dello stesso meccanismo delle pubblicazioni «revisionate dai pari» non è neutra, ma sottoposta a molteplici pressioni politiche ed economiche, e che i gruppi di ricerca e i ricercatori che dissentono difficilmente hanno spazio per esprimersi in sedi “ufficiali” e su riviste sottoposte alla «revisione dei pari». Sono note le polemiche sull’affidabilità della “peer review” e sui fattori extra scientifici che l’influenzano. Spesso le riviste operano una discriminazione preliminare, scartando articoli validi ma non ritenuti in linea con i fini e gli interessi della rivista, e sottopongono alla “revisione tra pari” solo gli articoli di cui preliminarmente hanno già approvato l’orientamento. O capita anche di peggio: talvolta si scartano preliminarmente articoli che pure sono validi e in linea con gli orientamenti della rivista, ma che sono scritti da persone antipatiche al direttore o alla redazione e legate a “cordate” universitarie clientelari diverse.
    La garanzia di obiettività e di esattezza della “peer review”, pertanto, è meglio di niente, ma tutt’altro che priva di difetti.
    2.10) Vi è poi un altro grosso problema, strettamente legato alle politiche ecologiche dei diversi Stati: la diversa valutazione sui danni e sui benefici del riscaldamento globale. Anche ammesso che, sul piano scientifico, si arrivasse a un accordo sui dati e sui meccanismi di azione delle attività umane rispetto ai fenomeni climatici, ciò non porterebbe automaticamente a politiche conformi e concordate, perché gli effetti del riscaldamento globale sarebbero comunque diversi nelle diverse aree del pianeta e in pari tempo sarebbero diversi gli interessi degli Stati e delle loro popolazioni.
    2.11) Il documento della Commissione europea che ho citato, in un altro suo passo afferma: «L’attuale temperatura media mondiale è più alta di 0,85ºC rispetto ai livelli della fine del 19° secolo. […] Un aumento di 2ºC rispetto alla temperatura dell’era preindustriale viene considerato dagli scienziati come la soglia oltre la quale vi è un rischio di gran lunga maggiore che si verifichino mutamenti ambientali pericolosi e potenzialmente catastrofici a livello mondiale. Per questo motivo, la comunità internazionale ha riconosciuto la necessità di mantenere il riscaldamento sotto i 2ºC.».
    Però Putin ha dichiarato che un aumento delle temperature di due gradi sarebbe positivo per la Russia perché renderebbe abitabili immensi territori della Siberia ora disabitati. Certo i problemi della Siberia sono diversi da quelli delle zone del Centro Africa in via di desertificazione e da quelli del Brasile che vuole sfruttare le proprie risorse forestali.
    Ma anche per altri aspetti la valutazione delle conseguenze è oggetto di controversie. In Inghilterra alcuni scienziati hanno affermato che un aumento della temperatura di due gradi causerebbe un aumento di morti per patologie sensibili al caldo, ma altri hanno controbattuto che si risparmierebbero un maggior numero di morti per le patologie sensibili al freddo, per cui due gradi di calore in più diminuirebbe, e non aumenterebbe, in Inghilterra, la mortalità complessiva.
    ***
    Il problema presenta aspetti scientifici e aspetti politici e quelli politici solo in parte dipendono da quelli scientifici. Ciò indubbiamente complica la ricerca di soluzioni condivise ed estese a tutto il pianeta.
    Ad esempio, in Europa è stata pressoché unanime la denuncia delle politiche brasiliane tendenti alla riduzione delle foreste amazzoniche, «polmone del pianeta».
    Eppure la densità della popolazione brasiliana è di 23 abitanti per chilometro quadrato, mentre quella media dell’Europa è di 73 e quella dell’Italia di 199,70. Dunque, sarebbe più giusto che fossero gli europei a ridurre la popolazione e a ripristinare la copertura forestale che avevano fino a due secoli fa e che poi hanno distrutto quasi completamente. Fino agli inizi dell’Ottocento si poteva viaggiare da Parigi a Napoli sempre all’ombra di boschi e foreste. Anche queste foreste erano «polmoni del pianeta» che andrebbero ripristinati. O la critica al Brasile è solo ipocrisia e difesa del proprio tornaconto?

    1. Caro Aguzzi, veri tutti i limiti della ‘revisione dei pari’ ma perlomeno si controllano i dati. Cosa assente da conferenze e anche libri spesso. Ricordo con piacere burlesche conferenze di Zichichi che spiegava alle suore come la teoria dell’evoluzione non fosse scientifica: accompagnato da una discreta mimica faceva concorrenza a Troisi….ovviamente il giovanotto è anche uno scettico del clima. O imbarazzanti audizioni alla Camera di Rubia sullo stesso tema.
      I dati sul clima sono molto chiari: il ‘riscaldamento globale’ è effetto antropico oltre il 90%. E chi dice diversamente o è analfabeta o in malafede. Ma non prendere le mie affermazioni senza controllo. I dati sono visibili chiaramente (anche nell’IPCC) in forma grafica, con il famoso e a suo tempo (quasi vent’anni fa) discusso ‘bastone da hockey ‘ : l’andamento della temperatura ha un andamento ‘morbido’, con onde (cicli) lunghe (millennarie) e corte (secolari);(se posso lo carico sul sito poi); su questo andamento morbido (smooth in inglese) a un certo punto si inserisce una linea ripida, colla forma appunto della parte terminale del bastone da hockey. Ed è una salita ripida e progressivamente crescente della temperatura. Da dove viene: dato che il clima ha molta inerzia, questa ‘impennata’ della temperatura (che comincia alla metà secolo XX) è il risultato di effetti accumulati che risalgono alla rivoluzione industriale e progressivamente aumentano. Non è un effetto serra naturale ma antropogenico.
      E il bello deve ancora venire. I climatologi rimpiangono amaramente di avere sottopesato le notizie che fornivano per paura di spaventare il colto e l’inclita. Ma ora toccherà spiegare più drammaticamente che la situazione è pressochè irrimediabile. E che gli accordi di Parigi sono come il bambino che mette il dito nel buco della diga…
      ma questo richiede discorsi più ampi.

  5. P.S. Se la frase di Putin è vera vuol dire che è un burlone (o bluffatore): non so se tutti hanno visto gli enormi incendi in Siberia (!) quest’estate; ed è solo l’inizio, perchè col riscaldamento si sta sciogliendo il permafrost siberiano, che tiene intrappolato metano e e altri combustibili in quantità….hanno anche stimato cosa comporterebbe, ma è meglio non saperlo.

  6. SEGNALAZIONE

    Gli untori
    di Claudio Vercelli
    https://moked.it/blog/2020/11/29/gli-untori/?fbclid=IwAR1hdZpSZUF9T-TcAiSJDir11MmupJF-Kd2FBdxXQ4BAW1MQmcupDfzf1Tw

    Stralcio:

    Nel caso della pandemia di SARS CoV-2 che stiamo attraversando, è evidente il banco di prova per la società internazionale così come per ognuno di noi. Poiché la sanità e la salute pubblica costituiscono un gigantesco territorio di interessi, dove si giocano alcune delle partite più importanti non solo per l’esistenza collettiva ma anche per le finanze mondiali. Da questo punto di vista, la manipolazione di dati e fatti, di idee e cognizioni, non è mai occasionale né casuale, rispondendo semmai ad una precisa logica che rimanda ad interessi identificabili. Ma anche per questo è non meno strategico rifiutare quella che è la vera cornice della falsificazione, ossia il complottismo. La logica del complotto sta alla comprensione della realtà così come la paranoia si rapporta alla salute mentale. Ha infatti una sua linearità, un suo inesorabile nocciolo pseudo-logico, quindi un rivestimento di falsa scientificità; soprattutto, si presenta come un approccio di critica ai poteri costituiti (la «verità alternativa» tanto più preziosa dal momento che ha una natura iniziatica, rivelata solo a coloro che intendano prendere “coscienza” delle mistificazioni di cui sarebbero vittime da parte dell’«informazione ufficiale») quando, invece, quasi sempre ne costituisce l’intima ossatura. Ciò che disorienta, o crea certezze fittizie, infatti, serve soprattutto a nascondere il vero nocciolo dei conflitti. Nella totalità dei casi, chi aderisce alle teorie del complotto riversa contro i suoi critici, riflettendola e poi rovesciandola, l’accusa di essere un falsificatore o comunque un banalizzatore. Al riguardo, ritornando all’ecosistema della comunicazione online, si è parlato, con grande efficacia, di una sorta di «Far Web» (Matteo Grandi), dove all’assenza di regolamentazioni – peraltro inapplicabili se ad esse si dà la stessa cogenza delle norme della vita materiale: le relazioni in campo virtuale non sono per nulla assimilabili in tutto e per tutto a quelle dove c’è la tangibilità del rapporto fisico diretto – si somma il bisogno esasperato degli individui di mettersi in mostra, ovvero di proiettare immagini, spesso artefatte, di se stessi e del proprio pensiero, spesso scatenando vere e proprie tempeste di rabbia e furore. Un esempio del rapporto tra disordine comunicativo, populismo e demagogia, disintegrazione di quelle intermediazioni che servono invece a comprendere il senso delle cose senza cadere nei tranelli della mistificazione, è il diffondersi dei cosiddetti «docu-verità», quelle produzioni documentarie, in formato di pellicola fruibile su internet, che si presentano con le caratteristiche di denuncia di una manipolazione quando essi stessi invece la contengono. Mischiando notizie più o meno verificate e affermazioni decontestualizzate a ricostruzioni strumentali, sovrapponendo il credibile al fantasioso, ne distillano una miscela velenosa. Sono la parodistica imitazione del reportage, del giornalismo di indagine e d’informazione, della stessa nozione di “servizio pubblico”. Il caso più recente è la diffusione di «Hold-Up», documentario cospirazionista, firmato e autoprodotto dal giornalista Pierre Barnérias, circolante sulle principiali piattaforme si streaming con un grande numero di visualizzazioni e diventato un vero e proprio caso nazionale in Francia, tanto da spingere esponenti del governo a sconsigliarne la visione. Si tratta del catalogo delle principali teorie del complotto (il virus è stato prodotto in laboratorio e poi volutamente diffuso tra la popolazione; un ruolo importante, se non fondamentale, sarebbe quello svolto dai miliardari planetari come Bill Gates, dioscuri del “potere mondiale”; l’idrossiclorichina sarebbe una valida risposta alla pandemia; la mascherina costituirebbe un bavaglio utile solo a togliere la libertà al “popolo”; i vaccini in corso di produzione potrebbero generare catene di mutazioni genetiche e così via) accreditato dalla viva voce di alcuni studiosi che si pongono in posizione di dichiarata ostilità verso la «dittatura sanitaria». Il salto di qualità che Hold-Up fa fare ai suoi spettatori è quello di trasformare le inevitabili incertezze, dinanzi ad una situazione pandemica della quale molti faticano a cogliere natura ed evoluzione, in sospetto e poi deliberato rifiuto di ciò che viene presentata come la versione di comodo dei poteri costituiti. Ancora una volta l’elemento indice è il ricorso alla paura come strumento per confondere le acque. Quanto essa possa corrispondere a precise strategie di disinformazione e, quindi, di manipolazione, è un terreno sul quale si deve continuare ad indagare, poiché alla razionalità e alla ragionevolezza si accompagna sempre il bisogno di trovare un rifugio nella falsificazione, soprattutto se essa si presenta con il volto rassicurante di un lenitivo all’angoscia del momento.

  7. Ci risiamo! Questa gente di buone intenzioni, che condanna i cattivi complottisti, da Qanon a Holdup, insieme a tutti i ‘grandi’ giornali sdegnati. E non usa la testa per fare un minimo di distinguo. Così è ormai diventata cultura comune (anche su Wikipedia) etichettare di complotto tutte le analisi serie che contestano le narrazioni ufficiali. Avevano già cominciato con piazza Fontana, continuato per tutta l’epoca delle stragi, si erano schierati con la commissione Warren e le sue panzane (annullate dieci anni dopo ma per i nostri giornali ancora buone), e via cantando fino all’11 Settembre.
    Qanon e il suo derivato Holdup in realtà non parlano di complotti ma costruiscono una narrazione del mondo, creano un mito unificante per tutti gli imbecilli incolti e frustrati che vivono però contraddizioni reali. E’ la variante laica e e che corre sull’etere degli evangelici che in decine di milioni hanno votato Trump e Bolsonaro.
    E lasciamo in pace per favore i complotti e le congiure, che dai tempi di Giulio Cesare sono invece altra cosa.

  8. SEGNALAZIONE DA FB

    Pierluigi Fagan

    MORTE E LIBERTA’. Mi si è presentata ieri, plasticamente, la radicalmente differente forma delle società tra quella cinese e quella occidentale. La cosa di per sé non farebbe notizia, ma per un aspetto induce a riflessione. Ieri infatti abbiamo qui da noi contato 993 morti per Covid in un solo giorno, che si sono sommati a gli altri 57.000 cumulati nei nove mesi precedenti. Solo ieri 3000 negli USA per più di 280.000 in totale. Ormai siamo assuefatti a questo monotona contabilità, la diamo per “naturale”, un accidente del destino che tocca sopportare.
    Ma la mattina di ieri, mi ero anche letto un reportage dalla Cina dell’inviato di Repubblica F. Ceccarelli, che è anche l’inviato stabile della testata nel Paese di Mezzo. Mi spiace citare un “articolo a pagamento”, ma proverò ad accennarne il contenuto perché dà da pensare. Il giornalista racconta del suo recente rientro in Cina dall’Italia. Tamponato prima di partire, pluritamponato al suo arrivo e comunque obbligato come chiunque entri in Cina ormai da mesi, a 14 giorni di reclusione in un Covid hotel per ultima sicurezza. Purtroppo, però, lì giunge l’esito dei tamponi fatti all’aeroporto: positivo. Fortunatamente asintomatico, si farà 40 giorni di reclusione in 18 mq (foto allegata) in un’altra struttura dedicata, senza luce naturale ed alcun contatto umano (si comunica via smartphone coi medici) in attesa dell’allineamento in negativo di tre tamponi (nasale, faringeo, anale), ripetuti due volte. A quel punto, si torna al Covid hotel e si torna liberi solo dopo altri 14 giorni e tamponi negativi finali, 54 giorni, quasi due mesi e solo perché positivo.
    Naturalmente, il reportage fa senso se lo si legge, se si leggono i particolari della fredda reclusione ed i “modi” cinesi, senz’altro efficienti ma decisamente poco caldi e simpatetici. Ma lo stesso giornalista, immaginando un ipotetico dialogo con una autorità cinese, osserva che tutto questo sta da una parte con 4.634 morti su 1,4 miliardi di persone mentre dall’altra, la plurima salvaguardia delle nostre libertà sociali ed individuali (la cui limitazione ci fa per altro molto infuriare), presenta un conto di 58 mila morti su 60 milioni. Altresì, noi viviamo in emergenza permanente, salvo un po’ di allentamento estivo, ormai da mesi, mentre i cinesi dopo più di due mesi di blocco ferreo, ora sono tornati ad un vita normale. Diversi quindi distribuzione, peso e durata dei sacrifici, da una parte a salvare dalla morte, dall’altra a salvare la libertà.
    Detto ciò occorre aggiungere due considerazioni. La prima è che le cifre riportate vanno prese a grana grossa. C’è chi obietterà che il computo dei morti da noi è viziato e chi invece sa che le morti sono sottostimate, così come altri, poco inclini alla riflessione, diranno che le morti cinesi sono ampiamente sottostimate. Saranno sicuramente sottostimate ma non cedo di molto per semplici ragioni logico-logistiche-statistiche sulle quali però eviterei un inutile dibattito. Mi spiace aver perso la fede nel dialogo ma dopo mesi di estenuanti discussioni con contatti che pure ritenevo razionali se non intellettualmente coltivati, mi sono reso conto non solo che ad alcuni mancano nozioni basiche ad esempio di statistica e logica elementare, ma ciò che è peggio non hanno nessuna intenzione di acquisirle sebbene uno spenda anche tempo per condividerle per comune spirito di ricerca. Alla fine la sproporzione evidente c’è comunque ed i due diversi “modi” si stagliano con sufficiente chiarezza e contorni precisi.
    La seconda considerazione è l’evitare comparazioni con giudizio. Intendo il fatto che “società cinese” o “società occidentale” sono due interi da prender complessivamente e tra loro incommensurabili, il come si è trattata la pandemia dipende da un gran numero di fattori, anche storici, culturali, antropologici oltreché politici ed economici. Quindi, anche ogni “giudizio” su quale dei due modi sia migliore è improprio. Probabilmente un occidentale inorridirebbe sul dispotismo del modo cinese ed un cinese inorridirebbe sull’egoismo individualista occidentale. Marziani non coinvolti in senso valoriale a fare da terzi, non ne abbiamo.
    Ad un cinese coinvolto nella “lotta di popolo contro il nemico virale” in cui ognuno si sacrifica per un bene superiore di tipo collettivo, come dice il Ceccarelli, una società in cui migliaia di famiglie ancora dopo nove mesi piangeranno i loro morti addirittura sotto Natale nel mentre altri insorgono perché non liberi di farsi la meritata sciata a Courmayeur o Cortina, sembrerà una società di animali pazzi. Così ad un occidentale, il ferreo e spersonalizzato, kafkiano per certi versi, controllo panoptico delle invisibili autorità cinesi che per salvare la normalità sociale non si fanno scrupolo di sacrificare la normalità individuale.
    Poco peso hanno in termini di differenza le considerazioni sul benessere del sistema economico. E’ stata ed è una preoccupazione simile per le autorità dei due sistemi culturali anche se alla riprova dei fatti, il modo cinese che inizialmente qui sembrava scriteriato, si è poi rivelato il più logico dal punto di vista di tecniche gestionali epidemiche. La terapia d’urto che praticamente elimina il virus dalla circolazione nelle reti sociali salvo chiusura ermetica o molto controllata dei confini, si è rivelata la più logica ed efficace rispetto a quella della gestione con convivenza controllata nel lungo periodo, anche dal punto di vista del bilancio economico.
    Se dunque ci siamo vietati l’inutile “Barabba o Gesù?” facendo della retorica comunitaria che sogna una società social-confuciana piuttosto che della retorica libertar-individualista che accetta di pagare i suoi prezzi in nome di diverso paradigma, perché scrivere un post? Ce lo dice il giornalista di Repubblica con cui concordo: “ La pandemia è un evento unico, un groviglio di fattori biologici, statistici, sociali, economici, politici e culturali. Sfida le nostre categorie e il nostro senso comune. Poteva essere l’occasione di fare un passo in avanti nella comprensione della complessità, invece mi sembra che, ancora più di prima, abbiamo urgenza di risposte semplici, ricette assolute, responsabili da accusare, immunizzazioni veloci.”
    Ecco, questo sì. Penso che alla fine anno, il prezzo complessivo dell’evento che si conta in morti, debilitati di medio-lungo periodo, disoccupati, nuovi poveri, imprese fallite o seriamente compromesse, vari problemi psichici ed un lungo disagio personale e collettivo diffuso, andrà pesato e valutato se invitabile o diversamente gestibile. Ma tale riflessione abbisognerà di una mentalità in grado di tenere assieme quel “groviglio di fattori” perché sprecheremmo il prezzo pagato se continuassimo ora ad evidenziare un punto, ora l’altro in un infinito girotondo delle opinioni, alcune anche immotivatamente urlate in stato di evidente disagio psico-cognitivo. Se è vero che “ciò che non ti uccide, ti rende più forte”, se cioè l’esperienza, spesso soprattutto quella negativa, è severa maestra di cose che ignoravamo, occorrerà una posata riflessione, prima ancora che sul cosa abbiamo fatto e come l’abbiamo fatto, sulla nostra capacità di assumere quel “groviglio di fattori” che compongono ogni problema complesso.
    Converrà farlo perché la nostra era sarà connotata da un gran numero di problemi fatti di “grovigli di fattori” e se di tali problemi vogliamo darci comune condivisione per poi dibatterli e deciderne le possibili soluzioni, sarà il caso di porci prima il problema di “adeguamento delle nostra mentalità alle cose”. Se le cose sono complesse, la nostra mentalità ha parecchio lavoro da fare.

  9. Segnalazione

    MANIPOLAZIONI: GUERRA AL VIRUS? O MEGLIO LA RESISTENZA CONTRO LA GUERRA AL VIRUS? NUOVI EROI? AH, LENIN! (E.A.)

    Il “geniale” spot tedesco che dichiara guerra al Covid. O ai cittadini?
    MAURIZIO GUERRI
    https://antinomie.it/index.php/2020/11/30/il-geniale-spot-tedesco-che-dichiara-guerra-al-covid-o-ai-cittadini/

    Stralci:

    Proprio facendo esperienza e tesoro di come le guerre sono state condotte negli ultimi decenni oggi dovremmo essere scettici circa la possibilità sia che si possa dichiarare guerra a un virus, sia che la guerra possa essere utilizzata come metafora in grado di coinvolgere i cittadini a condividere consapevolmente comportamenti finalizzati al contenimento dei danni legati all’epidemia. Certo noi possiamo operare singolarmente e collettivamente per circoscrivere e per contrastare gli effetti di una epidemia, ma perché il governo tedesco decide di utilizzare l’immagine della guerra?
    Un’osservazione a margine – che poi tanto marginale non è – in merito alle due tipologie di guerre che caratterizzano la contemporaneità: dietro a questi conflitti non dichiarati (ma praticati), oppure dietro a queste guerre contro qualcosa che non può essere un avversario in una guerra si sono nascoste e si continuano a nascondere guerre effettive, materiali, con centinaia di migliaia di morti in carne e ossa (civili e bambini compresi) con tragedie collettive di portata immane. Nessuno di questi conflitti camuffati – proprio in virtù della loro genesi – non solo non è mai riuscito a concludersi con un accordo di pace, con il raggiungimento di un nuovo ordine politico, non solo quasi tutti continuano a trascinarsi in modo più o meno sotterraneo come conflitti, ma hanno pure avuto una ricaduta non compresa e non percepita ancora a sufficienza sulla vita civile nei paesi che proprio queste guerre hanno scatenato. Scatenare la “guerra contro il terrore” ha implicato forti limitazioni della libertà individuale e collettiva che permangono in vigore ancora oggi anche nei paesi non direttamente coinvolti nei conflitti. In nome della libertà democratica globale si sospende la libertà democratica all’interno delle nazioni. Ma la minaccia infinita del terrore è tale, da non consentire più il ripristino di ciò a cui ho rinunciato per “difendere la libertà”.

    Mai come in questo spot la parola «eroe» è usata in modo differente rispetto a tutti gli impieghi che ne sono stati fatti fino a oggi. Qui «eroe» non è nemmeno chi semplicemente limita la propria mobilità come forma di contrasto all’epidemia, ma chi si riduce all’inazione e chi si appiattisce senza pensare, senza collaborare a una decisione, senza agire. Questo nuovo eroe deve solo obbedire a un «destino», pertanto deve abdicare pure alla propria responsabilità. Ma d’altra parte questo eroismo del non decidere nulla e del non prendere posizione su nulla era preannunciato dal tipo di rapporto che è stato istituito in tutto lo spot tra cittadino e stato, tra cittadino e storia. Nel sequel dello spot il rovesciamento paralizzante della figura dell’eroe è ulteriormente rafforzato: «Tempi speciali, richiedono eroi speciali». Eroi così «speciali» che sono tutt’altro che eroi o segnano la mutazione genetica della figura dell’eroe, la sua trasformazione in uno zombi. Tutto deve essere accettato in nome di un destino di cui il governo e le istituzioni sanitarie sono gli unici depositari e su cui i cittadini (o meglio i consumatori) sono privi di competenza. Un cittadino chiamato a pensare, a decidere su ciò che è giusto o sbagliato e con ciò a essere eticamente e politicamente responsabile non solo non è nemmeno preso in considerazione, ma addirittura è implicitamente rappresentato come un pericolo. Non è tanto l’epidemia in quanto tale a essere un pericolo assoluto e che minaccia «tutto ciò in cui credevamo», ma questa concezione destinale applicata allo stato a svuotare l’idea stessa di cittadinanza.
    «È facile essere un eroe nel 2020», dice l’eroe di sé stesso nello spot, basta non pensare, non decidere, non assumersi una responsabilità, basta non fare nulla, dove il fare nulla è uguale a conformarsi al «destino». Ma che essere umano è quello che abdica a ogni decisione etica, alla dialettica politica? Hannah Arendt in Vita activa utilizzava il termine «metabolismo». Estirpata la dimensione etica e politica dell’essere umano – come ci invita a fare lo spot del governo tedesco – rimane solo il suo «metabolismo».

    Nello spot si evita accuratamente qualsiasi riferimento all’idea di cittadinanza, di responsabilità, di giustizia, attraverso cui invitare gli uomini e le donne tedesche a limitare la propria mobilità. Più che coinvolgerci attivamente e consapevolmente a non organizzare feste danzanti o aperitivi si spinge ben oltre grazie all’introduzione della metafora della guerra e grazie alla centralità della nozione di destino. Più che un video che si rivolge a una comunità politica è un breviario da 1 minuto e mezzo che si rivolge alla massa dei clienti, è un manuale del consumatore all’epoca del neoliberismo; seguite l’esempio dell’eroe dello spot: trascinatevi dal letto al divano, non ponetevi domande, ingozzatevi di pop corn, guardate la tv, intrattenetevi davanti al computer – almeno finché avete tutto questo – e comunque vada anche quando sarà finita la pandemia per favore continuate a non porvi domande (e a non porcele), non pensate, non agite, non preoccupatevi della polis (perché non esiste più), non preoccupatevi dell’ecumene (anche quella è in pericolo, ma non importa), state tranquilli siete in buone mani, nelle mani del destino. Anzi, nelle mani del neoliberismo.

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