di Ennio Abate
4 dicembre 2020 – Che pesti – di Alberto Zino (qui)
Ho trovato sulla rivista ALTRAPAROLA questo scritto ironico e saggiamente impertinente verso parecchi stereotipi che hanno corso tra i fan più ingenui della psicanalisi. Quando scrive: “Se una persona sapesse a cosa va incontro quando fa una domanda di analisi, non la farebbe mai. Una buona parte delle arti analitiche consiste anche nel lasciar credere alla persona che le cose stiano effettivamente come lei pensa o spera; mi rendo conto che non è il massimo della morale”, parrebbe dar credito a certi pregiudizi popolari contro gli “strizzacervelli”. E, invece, subito dopo ribadisce un dato decisivo: “la psicanalisi non è una morale né una credenza, neppure un’essenza o un’idea del bene. L’analista non fa finta e non inganna. Tuttavia, all’inizio, sa che deve lasciar correre una serie di cose, di parole, perché non può sempre strozzare l’analizzante alla prima seduta”.
Zino difende cioè quel tipo di psicanalisi che non “non prevede per l’umano alcun spinterogeno, portiera o carburatore di cui invocare la messa a punto”. E spiega il perché: “Altrimenti si continua a diventare medici o preti. Nulla contro le due categorie, anzi. I primi hanno salvato e salvano uomini, donne e bambini – le bambine vengono più raramente nominate -, i secondi salvano le anime. Siamo a posto. Siamo sempre stati a posto. Siamo sempre stati salvati.” Ma il passo che più mi ha colpito, per le considerazioni insolite e per l’enormità del problema che solleva, è il seguente:
“La coscienza. Un mistero. Nel 1915 Freud rinuncia a dare alle stampe il saggio che aveva scritto sulla coscienza, lo prende e lo getta nel camino, che naturalmente era acceso. Così, non c’è mai stato un saggio sulla coscienza.
Altre volte abbiamo ricostruito quella storia, suggerendo che forse non è stato un caso. Freud si era accorto di qualcosa che, se leggiamo la sua elaborazione, in particolare il capitolo VII de L’interpretazione dei sogni, quando parla del rapporto tra la coscienza e la traccia mnestica, possiamo notare. Aveva capito una cosa a tutt’oggi inquietante: scrivere sulla coscienza è impossibile. Strano, qui c’è davvero un lieve gioco di specchi.
Possiamo scrivere infinite volte sull’inconscio, probabilmente non facciamo altro, forse nessun autore ha mai fatto altro in realtà, ma non possiamo scrivere neanche una parola sulla coscienza. La ragione di ciò la trovate nascosta, in modo lieve ma sapiente, in quel capitolo VII, dove Freud dice: la coscienza non ha memoria.
Non è niente, passa. La coscienza è un luogo preso a prestito per un attimo, dove passano le cose, le idee e naturalmente, soprattutto, le parole. Ma, poiché non ha ricordi, tutto ciò che passa, un attimo dopo non c’è. Dove vanno le cose che trascorrono nella coscienza? Curioso che, dopo Freud, tutto il ‘900 si è interrogato al contrario: dove vanno le cose che spariscono? Dove vanno le cose dell’inconscio? Freud si fa la domanda opposta: dove vanno le cose della coscienza posto che non vanno da nessuna parte? Che peste, le sue domande.
In realtà, sapeva. L’aveva scritto già anni prima. La coscienza non ha serbatoio, non ha ricordi, né reminiscenze o memoria, è questa l’alienazione costitutiva della nostra struttura. La memoria, il disco rigido, è l’inconscio. Tutto ciò che passa, poi finisce lì e da là tramite un infinito ricordo continua a investire ciò che passa dalla coscienza, anche solo per un attimo.*
Anche se la coscienza non ha una memoria, manifesta, è il risultato esplicito del nostro vissuto. Nella sua dinamicità segue un movimento a spirale, la cui direzione deriva dalla libera volontà (o libero arbitrio).
Un mio amico, scultore e restauratore di orologi d’epoca, rappresentò l’immagine della spirale attraverso un orologio-scultura che ne richiamava il movimento. Mi piace ricordarlo perché adesso è vecchio e malato, e sta raggiungendo l’apice della sua spirale.Quando era poco più che bambino, in tempo di guerra, suo padre si uccise dopo essere stato torturato dalle SS. Per accettare questa tragica realtà egli scavò per tutta la vita nella propria coscienza, fino a focalizzare mentalmente questo simbolo della spirale che gli consentì di non distruggere tutto quello che vedeva prendere vita davanti ai suoi occhi, soprattutto i sentimenti.
E’ stato lui a farmela scoprire, passandomi il testimone, dopo avermi iniziato allo studio di C. G. Jung.