di Mario Marchionne
Ciò che più colpisce in questo testo così complesso è la densità del percorso linguistico, metaforico, materico. La scelta lessicale, precisa e senza sbavature, si addensa in una sua fisicità che rimanda non semplicemente ai movimenti, ai pensieri, ai vissuti più o meno drammatici delle persone, ma alla complessità del mondo in cui si divincolano: tutto si espande si contorce si frantuma in questa realtà che non è mai astratta, sembra di buttarcisi dentro, anche con fatica, ma sempre con questo nostro mondo che, fortunatamente, non ci consente di estraniarci.
E allora le storie, le “voci” della prima parte si dispiegano ora con la forza del coraggio e del dolore, ora con la ricerca di un senso che, per l’appunto, non è mai solipsistico, ma sempre incistato in un presente vivo, anche se si parla di suicidio. Un presente mai immobile, sempre proiettato faticosamente in un futuro che, col trascorrere delle pagine e delle vicende, sembra intorbidarsi fino a definirsi come una sconfitta quasi definitiva. “Quasi” perché in realtà, anche nella desolazione politica che si evidenzia, le metafore materiche di cui parlavo all’inizio, riconducono le vicende personali e collettive, in ogni caso, alla concretezza di vissuti mai scissi dal magma reale in cui si sviluppano. Mi ha colpito la capacità di utilizzare alcuni momenti espressionistici in funzione non straniante ma di un realismo pressoché assoluto.
Il finale di Gabrio riesce a rendere, secondo me, questi elementi in un rimbalzo continuo tra la durissima realtà rappresentata senza infingimenti e i singoli vissuti, fino allo splendido e commovente finale: “Sembra alla deriva, in lotta inerte con le onde: una rondine infine vi s’apposa e la inabissa, lei volando via”. Gli elementi della natura sono intrinseci all’esperienza di Velio, che riesce a farcene partecipi proprio perché non presentano nessuna giustapposizione ma sono lì, come il respiro o il sorso d’acqua nella gola assetata.
Con Attilio entriamo nel mondo di una scuola che sfugge sempre di più da quello che dovrebbe essere il dettato costituzionale, per ingolfarsi in un processo di aziendalizzazione che tradisce miseramente il senso di una libera interazione educativa, di una ricerca finalizzata sì alla trasmissione di conoscenze ma, soprattutto, allo svilupparsi di un pensiero critico in senso complessivo. Non mi risulta che le aziende, per loro intrinseca necessità, possano permettersi un lusso del genere e allora la figura di un Attilio sempre più sperso e che evapora nel momento dei festeggiamenti per la festa di pensionamento mi ricorda certi personaggi calviniani. È un personaggio struggente, come il sospiro strozzato in gola nell’atto del disvelamento.
C’era una volta una piccola città mi ha rimandato a certe cose di Ascanio Celestini, tra il surreale e il favolistico, da moderno cantastorie ben ficcato in questa realtà sempre più sfuggente ma di una concretezza quasi sfiancante.
Con “Discanto” abbandoniamo la fase più strettamente narrativa e Velio esprime la necessità di aggredire questi tempi presenti, li prende di petto con la consapevolezza di una dolorosa ma, al fondo, forse, soltanto momentanea sconfitta. E allora cerca di ricondurre a un senso lo sgretolamento e le macerie che ci circondano: “il capitalismo è tornato ad essere ciò che da sempre vuole apparire: un dato naturale.” Soltanto che il “dato naturale” di “Voci” con tutta la sua vitalità, le incongruenze, gli scarti esistenziali ed affettivi era quello che si diceva all’inizio, mentre ora l’analisi socio-politica o come ognuno vuole chiamarla, esprime sempre più profondamente la pesantezza della sconfitta.
Che, ripeto, non è assoluta, ancora non è rappresentata dal sale romano nei confronti della civiltà cartaginese. Finché ci saranno le storie e i personaggi così vividamente rappresentati in questo libro, probabilmente la rondine riprenderà a volare.