di Giulia Baneschi
Questo è il secondo intervento su Fughe di Velio Abati. Il primo si legge qui. Altri sono pubblicati sul blog di Velio (qui). E. A.]
Per me leggere Fughe è stata una vera e propria esperienza. Mi verrebbe quasi da dire di aver compiuto come Dante un vero e proprio viaggio: alla fine di questa lettura necessariamente se ne esce diversi, ogni prosa ti permette di costruire un albero di riflessioni. Del resto leggere, scrivere e confrontarsi con altre “voci” è ciò che veramente permette ad ogni individuo e, nel nostro caso, a noi lettori, di testare la famosa “uscita dal sé” senza mai abbandonare un principio di realtà: “non si dà comprensione se non ci si abbandona all’opera, se non si diventa l’opera; d’altra parte non si è in grado di parlare , di riprendere la nostra voce se ad un certo punto non si mette alla porta l’opera” (Politèia, p.150). Ogni prosa di Fughe è scritta con un lessico ricercato, scelto: credo che, oltre alle tematiche trattate, sia proprio questo aspetto linguistico a renderlo un testo interessante, stimolante e di un certo livello. Tant’è che io stessa, durante la lettura, non nego di essere ricorsa all’utilizzo del dizionario. Ed è proprio in questo gesto di ricerca della parola che ho ritrovato la fatica del concetto: saper assegnare il giusto nome alle cose e imparare ad interpretare il mondo circostante senza cedere ad una seduzione di decodifica immediata, quasi sempre imposta dall’alto, è la base dell’acquisizione della capacità di comprensione. È Gramsci che ogni volta ci ricorda che “anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia”[1]. I dati statistici ad oggi sembrano però proiettare una catastrofe, vista la regressione della scolarizzazione di massa. Il mondo scolastico, progressivamente abbandonato, non solo da chi dovrebbe governarlo, ma anche da chi dovrebbe frequentarlo, sembra guardare, seduto su una sponda, come uno stoico naufrago, l’incedere del mondo virtuale, ormai osannato. Questi dieci mesi di pandemia, ci hanno reso consapevoli di quanto il digitale sia utile, ma anche di quanto non necessariamente positivi siano gli usi che se ne fanno: basti pensare al dilagare delle fake news e alle loro conseguenze. Simone Weil, filosofa, scrittrice e attivista partigiana di origine francese sosteneva che è proprio il porre “le maiuscole a parole vuote di significato”[2] a generare catastrofi. La deriva, quasi naturale, alla quale sembra di approdare, è quella di una progressiva incapacità di lettura del reale, un credere senza verificare. Il fasullo status di iper-comunicabilità nel quale siamo immersi ci distoglie dal ruolo di corresponsabilità che tutti noi abbiamo nella distruzione della reale socialità: “mi colpisce l’auto-inibizione al dialogo tenacemente praticata nei nuovi mezzi, generati da internet, curvati al monologo” (Sulle domande del lettore, p.164). Diventa per questo sempre più fondamentale il bisogno del confronto e del dialogo critico, mai disgiunti, da una pratica costante di lettura e riflessione. Questo è uno dei più grandi insegnamenti che Velio ha trasmesso a noi studenti: il nostro compito è di continuare a praticarlo come un sapiente esercizio cinese. Come Velio è stato e continua ad essere di ispirazione per noi, Fortini lo è stato per lui in questo. Ricordato come amante della conversazione, per lui “non c’era un termine formale alla sua lezione, ad un certo punto si trasformava in altro […] Via via gli studenti si alzavano dalle sedie finché rimanevano i soliti quattro o cinque. Oramai parlava del suo mondo […] Una volta ci confidò perché non faceva precedere nessuna introduzione al suo corso. Solo la strada percorsa fino alla fine avrebbe potuto spiegare gl’inizi.” (Cartella, p.84).
È insomma continua la sollecitazione, in alcuni casi implicita in altri esplicita, che Velio muove esortando non a giocare ad avere un pensiero critico, ma a costruirlo davvero: è necessario ricordarsi sempre che quando ci si interroga su un’opera, su un autore, su un documento si sta compiendo un’operazione di produzione di senso complessa, che comporta simultaneamente un giudizio sull’oggetto e uno su se stessi. “La meta educativa più difficile è il ricorso consapevole sia alla pratica del lettore implicito che a quella del lettore storico” (Lettere, p. 138). Ciò che ho potuto apprendere durante il mio percorso universitario è che i due più grandi pericoli in cui penso possa incorrere ogni studioso sono il revisionismo e una visione teleologica della storia. È sempre molto facile giudicare dogmaticamente qualcosa che, andando indietro nel tempo, inizia ad avere contorni sfumati; come allo stesso tempo è facile giudicare qualcosa che ci sembra perfettamente chiaro senza avere uno sguardo lungimirante. Lo sforzo interpretativo nei riguardi di una parola, di un testo, di un evento, del passato in generale è da ritenersi autentico se e solo se tiene conto del codice di espressione e del contesto storico di produzione. È solo l’interpretazione storicizzante che in un certo senso può salvarci, l’unico antidoto contro il “mito dell’immediatezza”, che ci farebbe scontare la pena – la stessa dei dannati infernali – di essere costretti alla fissità, perché incapaci di aver trasceso l’immediato, allungando uno sguardo sul futuro. Sarà l’unica a salvarci, anche perché consapevole che il significato e il valore della parola “portano impresso il conio” di chi comanda (Parole p.147). Da qui ovviamente se ne deduce che non esiste una verità con la V maiuscola, esiste la verità storica che per emergere ha bisogno di conoscenza: “la verità non è, se non viene comunicata, se non la si scambia come il pane caldo di forno”(Giacinto, p.78).Del resto della fascinazione e mistificazione della realtà nella quale viviamo, responsabili sono certamente i meccanismi capitalistici, la prosa “C’era una volta una piccola città” è illuminante a tale riguardo. La critica dura rivolta verso la Repubblica che ha messo in vendita a prezzo modico l’istituto della democrazia, favorendo il libero mercato, la privatizzazione e il “farsi concorrenza tra i cosiddetti imprenditori di se stessi” è la dimostrazione di quanto la storia sia scritta dai vincitori. La risultante non è solo il disinvestimento nel settore pubblico, ma anche la “catastrofe della soggettività” (Franamenti, p.133), l’impoverimento linguistico unito a quello dell’animo. Soltanto il costante “ricordare a noi stessi che la conoscenza è un diritto fondamentale della persona […] non una merce […]” (Attilio p.26) permetterà “la ripresa delle fila […] per provvedere alla liberazione umana”(C’era una volta una piccola città, p.38). Soltanto la presa di coscienza che anche l’attuale situazione in cui ci troviamo, ovvero una delle prime pandemie da globalizzazione, non sia un problema solo sanitario, ma anche ecologico e umano è la chiave. Potrebbe essere un’occasione importante di crescita se solo riuscissimo a guardare tutti un po’ più in là della nostra intoccabile zona di comfort. Grazie di cuore Velio, Fughe, è un vero e proprio breviario: ad ogni rilettura si prova davvero il piacere di una nuova scoperta.
[1]Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Gramsci_-_Quaderni_del_carcere,_Einaudi,_I.djvu/509
[2]Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, Farina Editore, Farina editore 2019, p.25