di Rosanna Galbiati
È un quadro strano, forte. Vorrei dire ambizioso. Vi campeggiano solo simboli che hanno una tale pregnanza da racchiudere entrambe le esistenze nella loro individualità e nella loro contrapposizione. È un giudizio lucido, distaccato, sull’esistenza conclusa del padre e insieme uno sguardo preveggente sul futuro del figlio.
Nella lettera 397, subito dopo la morte del padre, nell’Aprile ‘85, leggiamo queste parole:
“...Quando mi scrivesti di non riuscire a lavorare come al solito i primi giorni, hai la mia completa comprensione perché lo stesso accadde a me. Davvero furono giorni quelli che non si possono dimenticare facilmente. Eppure l’impressione generale non fu terribile, solenne soltanto. La vita è breve per tutti ed il problema sta nel farne qualcosa di valore. Oggi di nuovo ho dipinto meglio....”.
Nella lettera successiva:
“…Sono ancora molto impressionato da quanto è accaduto da poco - quindi ho continuato a lavorare in silenzio queste due ultime domeniche”.
Queste brevi parole per un commiato da una vita fino all’ultimo piena di contrasti, sono una prova della chiusura di quest’anima che nella giovinezza si esprimeva leggendo e ricopiando poesie e in seguito comunicherà solo nei quadri. Infatti del quadro parla nella lettera 429:
“…ti mando una natura morta di una Bibbia aperta quindi in un tono spezzato di bianco rilegata in cuoio, contro uno sfondo nero, con un primo piano giallo - marrone ed un tocco di giallo limone. L’ho dipinta d’impeto in una sola giornata...”.
Nella stessa lettera, proprio nelle righe precedenti, scrive:
"...Zola crea, non pone uno specchio dinnanzi alle cose, crea magnificamente, ma crea, infonde poesia, ed è per questo che è tanto bello...”
Attraverso Zola, attinge d’istinto alle radici artistiche più profonde e guarda dentro e oltre la realtà per scorgerne il significato originario, l’ultima nascosta matrice. Il suo sguardo però, non lacera l’oggetto; anzi, investendolo di una luce diversa, sembra restituirgli, ancor più forte e intensa, la sua forma e il suo significato. È una sensibilità nuova, eppure ancora intensamente e oggettivamente romantica. Certo è la religione a dare questo ancoramento solido e positivo, dove però parlano i simboli. Infatti, la tradizione religiosa orientale, fatta propria dal mondo protestante, non ammette la rappresentazione di Dio.
Qui abbiamo l’impressione di assistere a una manifestazione trascendente come se uno sguardo gettato dentro l’Arca avesse colto il giudizio del Dio innominabile.
Una Bibbia s’impone solenne, poderosa come un incunabolo: è rilegata in pelle e con gli angoli in ottone. Uno di quei libri che da soli mettono soggezione e i cui pesanti fermi di chiusura aumentano ancor di più il senso del sigillo e il timore reverenziale a rimuoverlo. Ora sta aperta sul leggio al capitolo LIII di Isaia. A lato una candela spenta.
La funzione è finita: una scena che Vincent ha visto ripetutamente e deve essere stata uno dei primi ricordi della sua fanciullezza.
Questa volta però, in primo piano, appoggiato trasversalmente, sta un povero libretto, oltretutto gualcito. È “La joie de vivre” di Zola[1]
L’atmosfera del quadro cattura con risonanze inafferrabili, forse anche contrastanti, ma composte in grande equilibrio.
Il colore ocra delle pagine trabocca e si diffonde a tutto il piano d’appoggio, ancor più caldo e soffuso per l’opposizione allo sfondo scuro, marrone come la notte della brughiera.
Su tutto par di sentire quello che resta nell’aria quando si sono spente le ultime note di quella musica che risuona diversa in ogni cuore.
Può essere il dialogo tra un pianoforte deciso o un flauto impertinente e un contrabbasso solenne o la malinconia dell’oboe. E poi una musica severa, conclusiva, che conosce gli ampi spazi dello spirito romantico.
È un omaggio austero alla figura del padre.[2]
Al suo confronto è ben misera cosa l’altro libro, così piccolo e disordinato che l’accostamento sembra addirittura irriverente. Eppure sta in primo piano e su di lui la luce piove più intensa: il suo è un colore vivo, un giallo che sembra conservare ancora la traccia dell’ocra da cui emerge. La sua tonalità introduce una musica nuova; pur trasandato, ha infatti il sopravvento sulla staticità marmorea dell’altro: è la nuova sensibilità che s’insinua tra il vecchio severo romanticismo etico e lo incrina con una moralità diversa e non indegna. È la vita che vince sulla morte; l’attualità che scorre e palpita incerta contro la rigidità dei Comandamenti scolpiti una volta per tutte nella pietra.
È – pur con la perplessità di un punto di domanda – la gioia di vivere e addirittura la felicità che gli audaci con fatica e rischio conquistano.
Questo libretto può quindi rappresentare il trionfo della gioia intima e consapevole, che risponde solo a se stessa e in se stessa ha significato e difesa.
In questo caso ci troveremmo dinanzi all’ultimo addio di Vincent a quell’avventura mistica che l’aveva invischiato per lunghi anni e dalla quale si era risvegliato all’ultimo momento, come un agnello che riesce a sfuggire alla sua morte, non lasciandosi umiliare, non restando muto davanti ai suoi tosatori, in opposizione ai vv. 7-8 del testo di Isaia dove “la vittima è portata al macello senza aprire bocca”.
Sbagliarsi su Dio è un errore veramente tragico: è l’errore più grave, anche perché la fede, che è il sentimento più puro dell’amore, è al tempo stesso, il germe della violenza più spietata verso di sé e verso gli altri.
Allora questo dipinto sarebbe la trasposizione pittorica di una pagina vigorosa scritta nel settembre ‘83, dalla povera terra della brughiera, in un momento quasi allucinato per miseria, solitudine, rimpianti e rimorsi, tra la quasi-fuga dall’Aja e il ritorno di necessità alla casa del Padre:
“...penso sia vero quanto dice Victor Hugo: “Il y a le rayon noir et il y a le rayon blanc”. A parer mio Papà possiede in maggior grado le rayon noir e Corot le rayon blanc, ma hanno tutti e due un rayon d’en haut… …il rayon noir ha un lato pericoloso... …So che Papà è Papà, ma c’è qualcosa oltre questo fatto, ossia quel che potrebbe chiamarsi il rayon blanc. In esso trovo ci sia una pace più definita e vera ed in esso si accentra maggiormente la mia attenzione. Quanto a Millet, egli è più d’ogni altro l’uomo che possiede, questa luce bianca”.
Le rayon noir: l’identificazione col male della vita, fino a diventare il servo sofferente, l’uomo dei dolori.
Quanto abbiamo scritto fin qua, è certo giustificato. Però c’è dell’altro.
Quel piccolo libro sembra deposto lì come un’offerta: un gesto che il figlio ha certo compiuto diverse volte, quando con letture moderne voleva portare l’aria dei tempi nuovi nella mente dei genitori.
Nella lettera 399 con un solo segno ortografico “la joie? de vivre”, rileva la contraddittorietà di questa espressione e forse del romanzo.
La vita di Pauline, infatti, è quella di un agnello sacrificale ed egli ha capito fino in fondo la ricerca di Zola. In questo caso il libro vuole rassicurare il Padre.
L’esistenza rimane, nei suoi valori e nelle sue scelte fondamentali, sempre la stessa, quella che discende dall’insegnamento antico e che il padre nelle sue parole e nella sua vita, ha testimoniato. Tra il Vecchio e il Nuovo c’è una inevitabile continuità, il povero curato di campagna è stato il servo disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben ha conosciuto il patire (Is.LIII), ma anche Vincent rimane – come tante volte ha ripetuto – fedele nella sua infedeltà.
Qualche giorno dopo aver spedito questa tela, dirà che al pittore non resta che trovare un altro lavoro o morire di fame. Così ci si rassegna alla prima soluzione… “Tranne alcuni martiri”.
E ci sentiamo di aggiungere: “Con un’impazienza febbrile del sacrificio”. Come Pauline.
Vincent continua chiarendo ancor di più il suo travaglio:
“ci sono circostanze in cui si deve scegliere tra il proprio lavoro e il non aver nulla da mangiare, oppure tra il cibarsi ed il rinunciare al lavoro…. In alcuni casi preferisco la prima soluzione e non penso di sbagliare perché mentre noi non restiamo, il lavoro resta e la cosa principale è di creare; preferisco avere pochi anni creativi piuttosto che anni dedicati a pensarci sopra ed a rimandare di farlo”.
Nel quadro c’è tutto questo.
L’arte è un sospiro che racchiude tutto, mentre le parole si inseguono senza mai dire tutto.
La tragedia è che prevarrà la continuità con il padre, il distacco da lui rimarrà solo un progetto. Cercato, senza dubbio e con un bisogno struggente che si ripercuote sui volti più nobili: Padre Millet, Padre Michelet, Padre Israëls, Pére Tangui e forse anche nel buon Roulin.[3]
Eppure, per strade incredibilmente lontane e in terre diverse, sarà sempre simile al padre. Mai sarà uno jaculator Dei: sul suo volto non comparirà il sorriso del giullare di Dio. Nemmeno per lui risuoneranno i canti lieti del cap. LII di Isaia, mai lo inonderà la luce della Trasfigurazione (Is.42).
La creatura di anni lontani, Sorrow l’addolorata (a lui così speculare che giustamente la monografia della Benedikt Taschen, scritta da Ingo F. Walther e da Rainer Metzger, porta incisa sul primo volume) questa creatura, ripiegata su se stessa nella posizione fetale, si inarcherà come un agnello sgozzato, appeso al gancio del suo sacrificio.
Negli anni, anche il piccolo libro senza pretese, lo seguirà fedele.
APPENDICE
La personalità Van Gogh, già presentata da altri secondo gli schemi psicanalitici (cfr. Jaspers e Bonicatti, Recalcati), viene qui accostata attraverso le categorie del Dott. E. Bach medico inglese innovatore nel campo della medicina naturale e oggi fin troppo in voga, a scapito della sua conoscenza (altro destino che l’accomuna a questo artista).
Oggigiorno si sente parlare dell’intelligenza delle piante e del loro accordarsi in un’intesa reciproca (Stefano Mancuso) ma questo medico nato nel 1886, lascia una prestigiosa posizione e apprezzati risultati di ricerca medica, per spostarsi da Londra nel Galles, dove vivendo a contatto con la natura, individua la psicologia di 38 piante e mette a punto una possibilità di cura rivolta anche alle persone più sprovvedute.
Mi è venuto spontaneo mettere in relazione aspetti di una personalità oltremodo complessa come quella di van Gogh con le definizioni chiare e lineari che di questi caratteri dà il dott. Bach.
Ad esempio, V. Gogh è, secondo l’interpretazione di questo medico, Centaury, il fiore del servizio, dell’attenzione ai più poveri, ai più infelici. Quanto van Gogh sia Centaury è palese in tutta la sua vita e come sia il carattere Centaury l’ho voluto dimostrare con quello che forse è addirittura il libro da lui preferito: “La joie de vivre” di E. Zola.
Ora, la protagonista de “La joie de vivre” (1884), è un’incarnazione perfetta di Centaury, la personalità forse più sensibile e delicata fra quelle individuate da Bach, sempre protesa a cogliere e a soddisfare le esigenze altrui, a farsi tutto per tutti, completamente dimentica dei suoi desideri e delle sue aspirazioni.
È bene fermarsi su questo libro, perché lo abbiamo trovato protagonista di un quadro che Vincent ha dipinto in un momento decisivo della sua vita e ritornerà in un altro dipinto, a distanza di anni e di luoghi.
È così significativa questa lettura che vale la pena di riassumerla.
Pauline, una bimba di circa sette anni rimasta orfana di entrambi i genitori e provvista di un ricco patrimonio, viene affidata alla tutela di uno zio che vive con la moglie e il figlio in un paese di provincia.
Il lettore è catturato dalla ammirazione entusiastica e innamorata con cui la descrive Zola e sente, ancor prima di trovarlo scritto sulla pagina, che Pauline è davvero una dolcissima fatina. È lei la luce di quel mondo avido e gretto, senza cedimenti o incertezze. Anzi, crescendo, conserva tutto il suo fascino con un’intensità, se possibile, ancor più radiosa.
Di pagina in pagina, si può capire come una simile presenza possa davvero essere un’ancora nella vita. La sua generosità, ancor più che sui personaggi, scende benefica su Zola, che aveva incominciato a pensare al romanzo dopo la morte della madre, quando insopportabile gli sembrava un mondo senza speranza e senza Dio.
Pauline diventa donna e, depredata di ogni sostanza, armata soltanto della sua dedizione che si allarga ai più poveri, ai più malati, ai più derelitti, ai più scaltri, rimane – felice – in quella casa, a servire tutti, al posto della serva di cui ormai ha preso il posto.
Nella seconda parte del romanzo, Zola, scendendo nell’ambiguità dell’animo di questa sua creatura, ne evidenzia la bontà per così dire andata a male e il dramma di Pauline viene portato alla luce quando, in un impeto appassionato, le fa dire al cugino di cui è sempre stata innamorata:
“…gli lascio anche il resto, purché mi voglia bene”. Questa è proprio Pauline: una fame smisurata d’affetto per cui nessun sacrificio mai basterà a ripagarlo, fino a perdere se stessi. È incredibile come questo personaggio aderisca perfettamente alle brevi parole con cui il dott. Bach presenta il carattere Centaury: “Buoni, tranquilli, gentili…estremamente ansiosi di servire gli altri…presumono troppo dalle loro forze…diventano più servi che aiutanti…”
Se il romanzo non è il ritratto di una donna ideale e nemmeno l’esaltazione di un valore che da solo potrebbe dar senso alla vita, è – a dispetto dello stesso Zola – una descrizione acuta della personalità Centaury come la definisce nelle sue brevi note Bach nelle sue potenzialità positive fino ai suoi aspetti più involuti. Centaury: quel confine dove la magnanimità rischia di confondersi con il pigolio che cerca rifugio e assistenza.
Certo fa pensare che negli stessi anni in cui Freud, con i suoi studi, toglieva corazze e veli all’animo umano, anche Bach, con uno sguardo incredibilmente schietto, quasi con un lieve tocco e brevi parole, individuava e offriva una proposta per curare le radici segrete e infette che gli scrittori avevano da sempre analizzato.
Noi oggi sappiamo che Pauline non può aiutarci a vivere e l’ambiguità antifrastica del titolo (che nega nel momento in cui afferma) per noi ha ormai liberato tutta la sua ironia sarcastica (che del resto- non Van Gogh- ma lo stesso Zola nel 1889 aveva dovuto amaramente riconoscere). Nonostante ciò, la bontà di quella bimba resta ugualmente un miracolo dell’esistenza che andrebbe accolto con rispetto e riconoscenza, come una meravigliosa pianta, che purtroppo, se abbandonata a se stessa, a un certo punto della sua esistenza, diventa invasiva e soffre della sua stessa esuberanza.
Non c’è però ombra di dubbio che Pauline, nella sua infinita capacità di donazione, fu per Van Gogh, come per Zola, una incantevole eroina.
Se l’impulso ricevuto all’inizio è quello di servire, nella vita c’è sempre qualcuno da servire.
Come c’è sempre qualcuno da salvare.
Dopo questa lettura ci pare più facile comprendere il significato del piccolo libro gualcito posto come offerta e contrapposizione alla Bibbia.
Note
[1] Cfr. “La vita di quest’uomo”, vol. I e II libro da me scritto nel 2000 ma non ancora pubblicato.
[2] Il padre di Van Gogh fu un rigido pastore calvinista che ricoprì incarichi in umili canoniche, anche perché non era dotato di un facile eloquio. Fu sempre aiutato dagli altri fratelli nel sostentamento della famiglia. Il rapporto con Vincent, il primo figlio, fu irto di gravi difficoltà. Morirà per un ictus dopo un’ennesima lite tra loro.
[3] Padre Millet, pittore di scene bucoliche, della cerchia di Barbizon (luogo vicino a Parigi) dove un gruppo di pittori viveva insieme condividendo l’amore per la campagna e l’ispirazione realista. È stato per Vincent un grande ideale come uomo e come artista; quando incomincia a dipingere ne ricopia i lavori, soprattutto il seminatore. La sua biografia scritta da A. Sensier l’ha entusiasmato fino a diventare per lui una lettura costante, anche se gli è capitato di travisare il contenuto. Si è staccato da questo modello solo quando è giunto a Parigi nel 1886. Nel 1890, chiuso nel manicomio di Saint Rèmy, ricopierà alcuni suoi quadri.
Padre Israël Josef, pittore olandese padre di Isaac, anch’egli pittore, si è sempre ispirato alle visioni naturali prediligendo il contatto immediato con la realtà.
Michelet fu uno storico con una forte impronta morale, letto e riletto da Vincent per il quale ha rappresentato una guida imprescindibile. In un momento di difficoltà nei rapporti con Theo, identifica se stesso con Michelet, mentre Theo è Guizot, storico reazionario.
Père Tangui aveva in Parigi una rivendita di colori e ospitava anche i quadri di alcuni giovani pittori.
Roulin è il padre di una numerosa famiglia conosciuta ad Arles dei cui componenti Vincent farà diversi ritratti. Gli sarà vicino con grande umanità nelle gravi traversie che lo condurranno nell’ospedale psichiatrico di Saint Rémy.
- Rosanna Galbiati ha insegnato lettere al liceo scientifico di Lodi e al Virgilio di Milano. Nel 2000 ho pubblicato con la Nuova Ipsa “Essere il Quadro, Le asanas e i fiori di Bach” con lo pseudonimo di Anin Cormani.
Trovo molto significativo questo scandaglio nell’animo e nel vissuto di Van Gogh, condotto, con sensibilità e intelligenza, attraverso l’interpretazione dei soggetti rappresentati nel quadro, resi significativi dal colore e avvalorato dallo studio pregresso.
Non arrivo a capire tuttavia la conclusione dell’analisi del significato “Dopo questa lettura ci pare più facile comprendere il significato del piccolo libro gualcito posto come offerta e contrapposizione alla Bibbia”. Perché ‘contrapposizione’ alla Bibbia e non, invece, ‘continuità’, dato che Pauline, nella sua personalità e nel suo destino, sembra richiamare la figura del Servo di Jahvè del cap. LIII di Isaia, che è anche una delle profezie cristologiche più importanti? Anche l’accostamento a Centaury mi sembra che avvalori questa ipotesi. Mi è sfuggito qualcosa della sua conclusione?
La ringrazio per aver compreso a fondo il quadro che ho voluto presentare. Ho atteso a risponderle perché quello che abbiamo commentato è la conclusione di una vita e di un rapporto.
Invece, attraverso il piccolo libro, davanti a noi si apre la complessità dell’esistenza del figlio e la vastità del suo epistolario. Come bene ha detto lei, c’è continuità tra i due mondi che però è tanto ricca e complessa da risultare difficile riassumerla: più facile è leggere quella fede che rimane incrollabile nei principi etici, nel proposito di aiutare chiunque si trovasse in difficoltà, pronto con il suo spirito organizzativo ( o fantasia creativa ) ad esperire soluzioni per aiutare chi stava peggio. Perfino nel manicomio di Saint Rèmy arriva con perspicacia a giudicare intollerabile la situazione in cui sono costretti i ricoverati e alla quale, con un po’ più di rispetto sociale, si sarebbe potuto già a quei tempi trovare qualche rimedio.
Più ampia e quindi più difficile da riassumere è la continuità con gli insegnamenti appresi.
C’è quasi una prosecuzione tra la Bibbia e il povero libretto: grande rimane l’empito spirituale che avvolge l’intera sua esistenza dall’inizio alla fine, dalla esaltata religiosità giovanile che gli faceva ripetere continuamente, come una giaculatoria, il versetto della prima lettera ai Corinzi: “triste ma sempre esultante”, al motto di Pangloss, il protagonista del Candide, traboccante di ottimismo e di verbosità, che senza essere sfiorato da nessun dubbio, indifferente a ogni male e catastrofe, si sente di asserire: “Tutto va per il meglio e questo è il migliore dei mondi possibili”.
Ritrovarglielo sulle labbra in qualsiasi situazione, fino alla fine, è un rifiuto della speculazione filosofica, ma è anche l’asserzione di fedeltà a un Principio che non è comprensibile. È la traduzione ironica, che può ribadire a ogni piè sospinto, di quell’altro concetto che si porta nell’animo e che esprime con parsimonia, in via eccezionale: “Soffrire senza lamentarsi, è la sola lezione che dobbiamo imparare nella vita”.
In questa accettazione, è stata grande la sua fedeltà: il povero libretto, squassato dalle temperie stesse dell’esistenza, ha ormai scardinato la “immensa e ieratica” solennità della Bibbia: abbandonato a sé stesso è logoro, malridotto, consumato, ma anche più vero: è questo il dramma che Vincent ha vissuto e che da allora si ripercuote fino ai nostri giorni: la continuità sì, nei valori inconcussi, fondamentali e però anche una discontinuità inevitabile portata dalle nuove generazioni.
Questa riflessione è stata esposta con molta forza ed incisività da Annamaria Locatelli: le sue parole mi hanno fatto finalmente decidere a risponderle ed è consolante pensare di condividere con altre persone tanto attente e sensibili la cura di questo libretto che forse attende di essere in qualche modo rabberciato. Quindi continuità, ma nella critica e nell’opposizione. Se mi posso permettere, in quello che scrive Locatelli, si avverte una verità così profonda da lasciare scorgere una esperienza personale che non può che essere sofferta. Mi sento di ringraziare e condividere.
Aggiungo soltanto alcuni appunti tolti dalla biografia di quest’uomo:
la sua fede resta salda come i suoi principi morali: non lo abbandona mai la fiducia nel lavoro silenzioso, che risponde alla propria coscienza:
“… la coscienza è la bussola dell’uomo e benché a volte l’ago possa deviare, benché a volte ci accorgiamo di qualche irregolarità quando ce ne serviamo per seguire una direzione, si deve tuttavia cercare di seguire le sue indicazioni… L’uomo si aggira su questo strano mondo provvisto solo di questa bussola particolare, che a volte per altro impazzisce. Allora può capitare che ci si trovi risucchiati là dove il male si confonde con il bene, per giunta scherniti da chi si è attenuto prudentemente alla riva.”
Nella pittura trova concetti religiosi espressi con più efficacia che nelle prediche.
L’accettazione della vita, senza un lamento, e l’accettazione della morte come legge imperscrutabile che accomuna tutti gli esseri, dal vecchio ronzino che si può incontrare per le strade di Parigi, alla spiga di grano che muore nella terra o è macinata tra le pale del mulino, rimarrà fino alla fine il caposaldo del suo sentire.
Si resta stupefatti nell’ascoltare la chiarezza, direi senza dubbio la luminosità del messaggio raggiunto nel travaglio di una vita quasi assurda, messaggio che rimane nascosto in alcune opere eppure consegnato come dono: certo sarebbe bello leggere insieme anche questi quadri. …………………………………………………………………………………………………
A testimoniare la conoscenza e il suo costante interesse per l’argomento religioso, scegliamo tra le tante alcune considerazioni:
“Il Cristo di Renan non è mille volte più consolante di tanti Cristi di cartapesta che ti scodellano in quegli stabilimenti Duval chiamati Chiese Protestanti, Cattoliche o altro?…”
Nel giugno dello stesso anno, dopo aver ricevuto uno scritto dal giovane Bernard, infarcito di citazioni bibliche:
“…Il Cristo soltanto… ha affermato come principale certezza la vita eterna del tempo, il nulla della morte, la necessità e la giustificazione della serenità e della dedizione. Egli ha vissuto serenamente, come il più grande artista di tutti gli artisti, sdegnando sia il marmo che l’argilla o il colore, e lavorando sulla carne viva. Vale a dire che questo artista inaudito e quasi inconcepibile per lo sfruttamento ottuso dei nostri cervelli nervosi ed abbrutiti, non faceva né statue, né quadri, né libri: lo afferma ad alta voce – egli faceva… (nel testo) degli uomini vivi, degli immortali…Questo grande artista – il Cristo – se disdegnava scrivere dei libri sulle idee (sensazionali), ha certamente sdegnato meno la parola parlata, la parabola soprattutto.
(Che seminatore, che mietitura, che albero di fichi! ecc.).
Queste parole dette – che da gran signore prodigo non si degnava neppure di scrivere, sono fra i più alti – il supremo – vertici raggiunti che diventa forza creatrice, pura potenza creatrice.
Queste considerazioni, mio caro amico, ci portano ben lontano, ben lontano; ci sollevano al di sopra della stessa arte. Esse ci fanno intravedere l’arte di creare la vita, l’arte di essere dei vivi immortali. Esse hanno dei rapporti con la pittura. Il patrono dei Pittori, San Luca, medico, pittore, evangelista, che ha per simbolo ahimè, nient’altro che un bue, è là per darci speranza. Eppure la nostra vita vera è ben umile, quella di noialtri pittori che vegetiamo sotto il gioco avvilente delle difficoltà di un mestiere quasi impraticabile su questo pianeta ingrato, sulla superficie del quale “l’amor dell’arte fa perdere il vero amore”.
Vero è che dall’inizio alla fine della sua avventura pittorica e della sua vita, Vincent resta il Seminatore.
Van Gogh è un pittore che amo molto (Les deux fillettes è tra i quadri più perturbanti che io conosca), ma certi suoi aspetti biografici qui affrontati non li conoscevo, per cui ho apprezzato molto l’articolo.
La ringrazio e condivido con lei una mia riflessione.
Peccato che non si sappia nulla di questi bimbi imbronciati: sembra che sui volti il pittore abbia già letto il corso della loro vita o, più verosimilmente, abbia proiettato su di loro la pellicola antica dell’intricato rapporto con Theo.
SEGNALAZIONE DA FB
Adriano Barra
LA QUESTIONE DEL DIARIO / 1136
“ Maggio 1996 [Epigrafe] – « Ho letto anni or sono l’Epistolario di Van Gogh. Sarebbe bene che non cadesse mai nelle mani industriose dei letterati. Io non penso che quello sia soltanto il frutto di una esigenza morale e di un piacere, ma anche di un profondo bisogno professionale di chiarezza, né più né meno che un Trattato della pittura. Magari in un senso più romantico. È l’Epistolario per un rapporto di colore e di linea, un aiuto cioè all’esperienza del dipingere. Che sia detto bene è un fatto, anzi così bene da pensare a un perfetto scrittore: tuttavia la perfezione di questo diario nasce da un’altra perfezione, che è quella di una pittura ciecamente creduta. Tutto ci poteva esser detto con minore robustezza e con minore proprietà, che sarebbe stato lo stesso. » (Renato Birolli, Taccuini, agosto 1936) “.
Volendo riprendere il giudizio di Adriano Barra che avevo già letto in passato, mi sento di scambiare qualche riflessione.
Caro lettore,
penso che sia d’accordo con me nel riconoscere che ci sono libri che si chiudono subito alla prima pagina mentre altri ci catturano fino all’ultima. Non solo: a volte in poderosi volumi non troviamo nulla di importante per noi, mentre altri parlano alla nostra esistenza anche solo con una parola, a volte l’ultima. Così è la vita: può lasciarci indifferenti o una sola scintilla può sprigionare un grande fuoco. È pur vero che sia scrivendo sia leggendo di qualcuno, si va alla ricerca anche di una traccia di noi stessi o la si rifiuta. Nulla di eccezionale: che l’epistolario di Van Gogh sia ricco di riflessioni su una quantità incredibile di argomenti, dall’arte, alla religione, alla condizione della donna e ancora di più, è un dato di fatto. Come lo è la sua scrittura sciolta, spontanea, efficace, un dono naturale probabilmente assorbito dalla madre e arricchito dalle inesauste letture. Qui mi fermo, anzi, per il vero cancello quanto ho scritto, per lasciare la parola a personaggi importanti:
“ Van Gogh senza avere nessuna pretesa letteraria e senza sapere che stava scrivendo un libro, scrisse uno dei grandi libri del nostro tempo” questo è il giudizio di H.Miller.
Ascoltiamo quello di Jasper che, quando si e imbattuto nell’epistolario, ne è stato avvinto fino a dedicargli uno studio:
“Mi sembra che la fonte intima dell’esistenza si apra per un istante, che i recessi più profondi della vita vengano alla luce…
…E’ questa una delle testimonianze più commoventi della nostra epoca. Questo ethos esiste indipendentemente dalla psicosi, anzi in essa si consolida”.
Aggiungo solo che, nella sua ricerca di un senso a questo nostro vivere e nella sua ansia di infinito, troviamo lettere degne dei suoi quadri e immagini così intense che non si possono dimenticare. Se non prendo troppo spazio, come esempio del suo stile schietto e colloquiale, riporto una riflessione: “La scienza – il ragionamento scientifico – mi sembra essere uno strumento che andrà molto lontano.
Ecco perché: si supponeva che la terra fosse piatta. Era vero: lo è ancor oggi, da Parigi a Asnières, per esempio. Il che non impedisce che la scienza dimostri che la terra è soprattutto rotonda, il che ora nessuno si sogna di contestare. Attualmente, nonostante tutto ciò, crediamo ancora che la vita sia piatta e che vada dalla nascita alla morte. Solo che anch’essa, la vita, è probabilmente rotonda, e molto più vasta in estensione e in capacità dell’emisfero che noi attualmente conosciamo. Nelle future generazioni, è probabile che faremo luce su questo argomento così interessante e allora la scienza stessa potrà – speriamo – arrivare a delle conclusioni più o meno parallele alle dichiarazioni di Cristo, relative all’altra metà dell’esistenza.”
Volendo concludere mi pare giusto ricordare che quest’uomo scriveva su tavoli di povere locande dopo giornate di una estenuante fatica. Eppure le sue lettere erano incredibilmente precise curate e se non risultavano tali, cosa che avveniva raramente, si scusava. La sua era una corrispondenza vissuta, ampia, completa e tale la richiedeva: che avrebbe pensato dei moderni messaggini?
Comunque buona lettura.
Penso che Renato Barilli in questo commento sull’Epistolario di Van Gogh non tenesse conto che può esserci una componente spirituale ad alimentare l’arte, al di là della ricerca, della tecnica e della valenza espressiva. Infatti, questa ‘Natura morta con Bibbia e candelabro’, comunque la si interpreti, non si può negare che ad ispirarla non sia il tema della sofferenza interiore, quella legata alla spiritualità (la Bibbia) e quella legata all’esperienza umana, testimoniata dal romanzo di Zola. Van Gogh è stato un artista segnato dal dolore, che ha rappresentato nelle sue opere figurative, dove i colori sono espressione di gioia e di sofferenza, due facce della stessa medaglia. Il valore della sua testimonianza pittorica sta anche nel fatto che la sua arte è ancora legata alla dimensione del Sacro. Un artista, ad esempio, come Caspar David Friedrich ha saputo creare un binomio fra ispirazione cristiana e valore pittorico che gli ha consentito di toccare vertici rappresentativi molto arditi; così come più indietro nel tempo, il Beato Angelico o il sommo Giotto, tanto per citare tre artisti di epoche diverse.
Dopo avere perso i contatti col Sacro l’arte moderna si è impoverita. Questo è un tema sul quale la critica contemporanea si sta confrontando da tempo e al quale ha dato un fondamentale contributo la ricerca teorica di Hans Sedlmayr.
…trovo l’articolo di Rosanna Galbiati scritto in maniera mirabile e dal contenuto forte per i numerosi spunti di riflessione presenti, in quanto non si tratta di un mera interpretazione e commento a un dipinto del grande artista V. Van Gogh, realizzato subito dopo la scomparsa del padre. Interpretazione che viene illuminata sia dai pensieri e dai sentimenti che lo stesso artista espresse al fratello Theo in una delle sue lettere subito dopo il lutto, sia, e soprattutto, dalla lettura dello stesso dipinto, carico di significati simbolici. Il tema rappresentato ci riporta infatti ad una tematica universale: il rapporto, mai concluso del figlio con il padre, non necessariamente biologico, che ci ha”formato”, con tutto il carico emotivo, di convinzioni e di prassi che questo comporta,e nello stesso tempo il desiderio lancinante del figlio di prendere le distanze da un modello che si frappone alla realizzazione della piena identità …V. Van Gogh riassume questo dramma, che si perpetua nel tempo di generazione in generazione, concretizzandolo nell’mmagine di due “oggetti”, messi a confronto , come omaggio al padre e come sfida per un radicale cambiamento di prospettiva: la Bibbia immensa ed ieratica e il piccolo e “gualcito” libro “La joie de vivre” di E. Zola… L’artista vuole comunicare ancora con il padre trapassato, forse per ribadire il suo programma di vita che comporta un tuffo radicale e senza sconti nella vita stessa, fuori dagli schemi dolorosi a cui si era sempre e solo ispirato il padre, senza tuttavia tradire quel nucleo di valori morali di riferimento, una continuità nella diversità…Penso che questo passaggio di crescita e trasformazione individuale, che Rosanna Galbiati ci descrive cosi’ bene, sia, o sia stato, molto difficile per tutti, ma soprattutto quando il padre impersona una delle “Chiese” possibili, vedi cattolica, protestante o comunista, con tutto il loro apparato vincolante…Mi sembra che anche F. Fortini, nell’ultima sua poesia pubblicata sul blog, ne abbia detto..
Gent. Rosanna Galbiati, in effetti ero in attesa di una sua risposta ai miei dubbi. L’esperienza insegna che non si può mai essere affermativi tout-court; mi piace pensare che questa rappresentazione pittorica di Van Gogh possa essere, in un certo senso, una metafora aperta, e come tale avvii nel fruitore un flusso di pensiero libero e creativo. Ho affermato una continuità fra la Bibbia e il libretto sgualcito del romanzo di Zola senza tuttavia pretendere di garantirne l’interpretazione, così come non riterrei possibile dire una parola definitiva sul rapporto dell’artista col padre. Il materiale di indagine, ampio, di cui lei dispone le consente di esplorare più a fondo questa realtà, sofferta e mutevole quanto lo può essere la vita. Trovo convincenti le sue affermazioni, proprio perché si rapportano a un piano comportamentale di Van Gogh (anche se ispirato dalla fede) che separa l’umano dal divino, riservando quest’ultimo all’insegnamento del Cristo.
La presenza del Sacro nell’arte risale ai primordi dell’umanità e pensare, come sostiene certa cultura, che si possa bellamente farne piazza pulita è un atteggiamento che abbassa i valori umani, e ne penalizza i simboli culturali.
La ringrazio per la sua attenzione, anche troppo generosa, e le rinnovo i sensi della mia stima per la qualità del lavoro che lei sta portando avanti.
Non può credere quanto le sue parole – forse anche di eccessiva stima – mi hanno fatto però un incredibile piacere sollecitandomi a continuare nella lettura dei quadri e della personalità di questo artista che, come mi permettevo di accennare, mi piacerebbe molto poter ancora condividere con persone come lei.
Trovo molto opportuno il suo suggerimento per chiarire il rapporto con il padre – cosa che per brevità non avevo ritenuto di approfondire.
Adesso riporto alcune espressioni di Vincent:
“Theo, ho smesso completamente di litigare con papà ormai da molto tempo perché ho capito che papà non ha mai riflettuto su alcune cose veramente importanti né mai ci rifletterà, che si aggrappa ad un sistema e ragiona soltanto in base ad esso e non ragiona (né mai lo farà) in base ai fatti…
… hanno la stessa paura di accogliermi in casa che avrebbero se si trattasse di un grosso cagnaccio…
…Chiunque si sentisse dire continuamente “Sei pazzo”, oppure “Stai mettendo in pericolo l’armonia della famiglia” oppure “Sei indelicato”, reagirebbe con tutte le sue energie…
…Quoiqu’il en soit, nella sua collera Papà mi ha gridato né più né meno di una bestemmia, maledicendomi. Tuttavia, l’anno scorso mi era già toccato udire qualcosa del genere e, grazie a Dio, ho trovato in me una nuova vita e nuove energie…
… Ebbene, figliolo, suppongo non ci sia ragione di dare tanta importanza alla maledizione di Papà.”
Il racconto di Vincent ha la rapidità di una cronaca e sembra ancora di sentir le voci che trascendono durante la lite.
Nel riferimento che torna per ben tre volte solo in questa lettera e, proprio nella proclamata indifferenza, emerge lo sgomento di chi è stato colpito dalla maledizione paterna, una maledizione biblica.
Era questo infatti l’insegnamento inculcato fin dai primi anni di vita, in famiglia e al catechismo: contro la nuova energia che reclamava i suoi diritti, il potere spirituale della canizie era incontrastabile.
La religione, anche in questo caso, ha solo impresso il suo crisma su un sentire ancora più remoto. Leopardi, ad esempio, che a 21 anni, si era già affrancato dalle concezioni clericali, nella lettera in cui annuncia al padre la sua fuga, inaspettatamente scrive:
“L’ultimo favore ch’io le domando, è che se mai le si desterà la ricordanza di questo figlio che l’ha sempre venerata ed amata, non la rigetti come odiosa, né la maledica…”
Theodorus Van Gogh aveva un fisico severo e la sua religiosità profonda doveva fare i conti con un carattere autoritario e facile all’ira. Anzi, forse proprio la religione, con il modello paterno rigido e intransigente che proponeva, costituiva un sostegno a questo aspetto della sua personalità.
D’altra parte doveva essere anche un uomo di grande sensibilità e dolcezza, se qualcuno arrivava addirittura a giudicarlo troppo tenero nell’educazione del figlio.
Da qui forse un comportamento contraddittorio. In ogni caso il figlio sapeva di poter contare sul padre, pronto a dare per lui anche l’ultima camicia, come potremmo raccontare anche più diffusamente.
Ancora grazie e a presto, attento ed esperto lettore.
Rosanna Galbiati
Chiedo scusa, ma mi corre l’obbligo di aggiungere alcune precisazioni a testimoniare le difficoltà in cui si dibatteva questo padre e anche il suo affetto.
Quando all’Aja, Vincent si trovò invischiato in una pesante situazione avendo preso su di sé la responsabilità di una povera prostituta in attesa di un figlio e già madre di una creatura, deciso anche a sposarla, fu il padre a recarsi da lui veramente con tanta comprensione fino a portare indumenti e inviare addirittura qualche aiuto finanziario: in una famiglia numerosa che viveva in ristrettezze, con l’aiuto di Theo.
Quando poi, in un paese del Drenthe, dove si era trasferito per cercare di salvare la sua pittura, era rimasto senza sostentamento dopo che Theo- stanco delle sue pressioni perché si facesse anche lui pittore ( tra l’altro lettere con fondamento logico e di grande bellezza ) aveva saltato un invio, ebbene il figlio piomba nella casa paterna come se niente fosse.
Questa è la complessità dell’esistenza.