di Samizdat
Ma come si fa a passare da «Proletari di tutto il mondo, unitevi!» a «Meritevoli di tutto il mondo, unitevi!»? Da Marx a Berlusconi & C.?
Non ho mai capito l’insondabile evoluzione di tanti compagni del PCI, del PSI, dello Psiup, della “nuova sinistra” che da pensanti di sinistra mi paiono diventati pensanti di destra. Posso sbagliarmi, è vero. Come oggi si dice, destra e sinistra sono categorie obsolete. Non delimitano più posizioni politiche e culturali precise. E a volte davvero vacillo quando cerco di misurare la mia vicinanze o distanza da La Grassa, Fagan, Formenti, Visalli, Caminiti e Aguzzi stesso (tanto per fare i nomi di alcuni che seguo sulle pagine FB). E però, siccome i contrasti si ripresentano, posso fingere che non ci siano? Né mi sento di annegarli nella notte buia del «né di destra né di sinistra», in cui i colori di tutte le vacche sono – come si sa – indistinguibili. Allora, In attesa che una mente geniale scopra le nuove categorie esplicative che sostituiscano quelle deteriorate, continuo, sia pur con riserve a usare le vecchie. In modo – spero – critico e problematico.
Ora su Poliscritture, che capta gli umori di una cultura in subbuglio, che ti succede? Che Luciano Aguzzi, amico e commentatore ormai assiduo, prendendo spunto da un brano di Scurati (qui) – non l’avessi mai proposto! – il quale, nel suo secondo volumone di «M» ha immaginato un Mussolini meditabondo sulla inaffidabilità (per il suo progetto) dello «scadente materiale umano» rappresentato dagli italiani, «popolo di adulatori e di mugugnatori, di delatori accaniti», è partito con una filippica strabordante di commenti, un vero inno alla meritocrazia, sostenendo che:
- bisognerebbe togliere «tutta una serie di mediazioni e distorsioni fra ciò che l’individuo è per le sue qualità e ciò che è per la sua posizione giuridica»;
- bisognerebbe «eliminare il più possibile l’assistenzialismo parassitario (di basso, di alto e di altissimo livello), mettere ognuno di fronte alle proprie responsabilità»;
- se «ognuno [sarà posto] di fronte alla responsabilità personale della propria condizione, sarà costretto a mettercela tutta per migliorare»;
- bisogna lasciar perdere «le mitologie egualitarie» perché «il sentimento della disuguaglianza non è più riferito alla condizione di lavoro ma a una considerazione più generale, di tipo ideologico» che «genera in molti casi invidia e odio sociale, in altri casi ammirazione e fa dei fortunati delle star»;
- «l’uguaglianza, per quanto è possibile, come l’assistenza ai più poveri, ai malati ecc. ecc., va recuperata non in forma di diritti assistenziali slegati da ogni forma di merito ma in forma di solidarietà libera e volontaria»;
- bisogna combattere «un sistema fiscale da rapina che soffoca e punisce i più capaci e i più produttivi per premiare gli incapaci e gli improduttivi (e favorire la corruzione e i favoritismi clientelari)»;
- bisogna affermare il «principio di sussidiarietà» [ndr: in diritto, è il principio secondo il quale, se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l’azione];
- «lo Stato, usurpando via via ogni terreno di azione prima riservato ai cittadini, uccide anche la cultura e lo spirito di comunità e con esso la solidarietà libera»; e invece deve «restringere i suoi poteri restituendoli in parte agli enti territoriali e in gran parte ai cittadini» o alla «base [che] saprebbe meglio gestire e conciliare merito e assistenza, libertà e solidarietà, e [così] ci sarebbe quel rifiorire di iniziative dal basso che oggi sono soffocate [dal] centralismo statalistico»; e «il «materiale umano» da «scadente» diventerebbe certamente migliore»;
- si potrebbe, però, provare anche un’«altra alternativa»: «un regime ancora più autoritario, diciamo pure dittatoriale, alla cinese, con però non un Mussolini o un caudillo latinoamericano qualunque, ma con una classe dirigente a suo modo “illuminata”»;
- «l’emulazione solo morale non funziona. Il merito dev’essere premiato in forme concrete» e perciò «occorre che la cultura del Paese, il sentire comune, abbracci il merito e lo indirizzi alle forme virtuose»;
- «i migliori non hanno mai avuto il problema di trovare lavoro. Spesso è il lavoro che ha cercato loro».
Questo suntino delle tesi di Aguzzi – con echi di Rousseau, di Michels, di Weber, ecc. – l’ho faticosamente redatto dopo due orette di lettura masochista, facendomi strada faticosamente nella sterpaglia di una prosa in apparenza limpida ma lussureggiante e insidiosa. Riferimenti storici, letterari, antropologici, sociologici, scientifici. Divagazioni. Ricordi autobiografici da ragazzo, da adulto, da pensionato. Esempi paradossali e cervellotici (devo per forza citare quello del «pullman turistico con cento persone a bordo, di sesso, età, condizioni fisiche, psichiche e culturali diverse»). Precisazioni sottili. Osservazioni empiricamente inattaccabili (chi può negare, ad esempio, il «degrado della scuola», il «soffocamento burocratico e fiscale delle aziende innovative», lo spettacolo dei «troppi giovani d’ingegno costretti ad emigrare per trovare spazio»?). Attenuazioni delle sbandate autoritarie. Rivendicazione indefessa di un positivismo scientifico tutto «fatti» contro il tutto «ideologia» di cui le altre (in questo caso) s’ubriacherebbero.
La lettura dapprima mi ha suscitato una qualche ammirazione e persino un po’ di soggezione (“ma vedi questo quante cose che sa!”). E poi un’irritazione crescente (“ma, insomma, dove va a parare?”). Alla fine, andando alla sostanza ho dovuto dirmi: queste sono posizioni di destra. Le ho sentite uscire dalla bocca di Berlusconi, di Salvini, di esponenti del PD, di ministri vari. Sono, magari, una variante liberal-libertaria di quelle. E Aguzzi non smentisce, quando anguillescamente ribatte:
«Grammann pensa di poter riassumere la mia posizione nello slogan: «Più società, meno stato». Potrebbe anche essere vero, se si precisasse di che società e di che Stato si sta parlando. Io parlo di uno Stato ridotto alle funzioni minime e di una società basata sul principio di sussidiarietà applicato fino in fondo, il che oggi non avviene da nessuna parte».
Cioè la gerarchia non si tocca. E io che ancora me la meno con il comunismo!
Devo per forza simpatizzare, stavolta, con le reazioni immediate e scandalizzate di Cristiana Fischer:
«ci sarebbero solo o pigri approfittatori o meritevoli impegnati. Si tratterebbe quindi di trovare un sistema sociale che reprima i primi e premi i secondi. Non appare il lavoro come brutale e necessaria costrizione che, se uno può, non ci si applica. Mica tutti possono lavorare con piacere e creatività!»; « L’emulazione virtuosa riesce lei a calarla nel lavoro scadente, precario, insufficiente a sbarcare il lunario?».
E condividere in pieno quelle di Elena Grammann:
«La proposta Aguzzi, mi sembra riassumibile nel noto slogan “Più società, meno stato”»; «l’idea che c’è sotto è che certe cose (anche primarie) non sono un diritto dell’individuo, ma una gentile concessione dei ricchi, che generalmente sono ricchi perché in diversa e in parte forse inevitabile misura sfruttano i poveri.»
La quale – concretezza contro infinito intrattenimento – suggerisce pure un sano atteggiamento per non lasciarsi catturare nelle spire elucubratorie di Aguzzi:
«In linea generale, il trattatello di Aguzzi mi interessa poco, perché a ognuno dei suoi argomenti / proposte si potrebbe naturalmente controbattere, se solo si avesse la competenza necessaria. Io non l’ho, d’altra parte non vorrei nemmeno accogliere alla cieca le tesi / proposte di Aguzzi, non è prudente, soprattutto quando le tesi non consonano con l’esperienza personale»
E fa benissimo a contrapporre agli esempi edificanti di Aguzzi e dei suoi studenti il suo:
«Mio figlio è un singolo individuo capace di aggiornarsi, con competenze diversificate e dotato di notevole duttilità. Infatti ha trovato lavoro. A 550 euro al mese».
Ma niente da fare. Aguzzi non coglie la violenza che esercita sciorinando la vastità, impadroneggiabile anche dal lettore più ben disposto, dei suoi commenti martellanti. Che seppelliscono ogni seria possibilità di dialogo. E non lasciano scampo, poiché si capisce che è attrezzato per continuare all’infinito, tirando fuori sempre altri pezzi da una sua inesauribile enciclopedia storica, filosofica, cosmica. Quando poi, come tutti gli ex, utilizza i passati Lari della sinistra contro chi vorrebbe proteggerne almeno le verità elementari senza passare alla destra:
«Se è per questo, ha detto tutto anche Lenin, teorizzando e organizzando il partito delle avanguardie, non degli uguali o dei meno capaci. E prima ancora l’hanno detto sempre e tutti, compreso Gesù Cristo che ha scelto gli apostoli con un criterio selettivo e gli utopisti classici che hanno messo a capo della società i più meritevoli. Altro discorso è se il merito debba comportare anche dei privilegi oppure no. Ma che ci siano differenze e che i migliori siano gli elementi trainanti mi pare che ci sia un comune consenso da migliaia di anni e sotto tutti i cieli e i regimi».
non resta che arrendersi. E malinconicamente chiedersi: Poliscritture, vetrina illuminata sul Web, dove compaiono testi vari di amici e collaboratori, selezionati a cura di E. A. per una certa qualità di scrittura e nessuna censura politica, con questa libera (ma anche sterile) discussione dove va? Vale la pena di continuare?
Casualmente stasera per mail mi arriva questo articolo: https://www.firstonline.info/de-rita-il-declino-della-politica-nasce-dalla-negazione-del-merito/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-del-date-d-date-mtext-date-y_1135
Merito è una parola, non necessariamente il senso si intende secondo le idee espresse da Aguzzi. Per il cattolico De Rita la valorizzazione del merito poggia su una sostanza eterea, inafferrabile, e soprattutto non concorrenziale: la fiducia. “Come la teniamo assieme la società?”
L’intervista a De Rita mi pare soprattutto una bordata contro i grillini . Ecco, invece, una riflessione che aiuta a riflettere sulla complessità dei meccanismi sociali e politici che i “meritocratici” occultano. E’ lunga ma preferisco copiarla interamente invece di mettere il semplice link. [E. A.]
SEGNALAZIONE
“La meritocrazia non è un meccanismo di liberazione, ma un’ideologia pericolosa”
Alessandro Bonetti intervista Vittorio Pelligra
https://www.sinistrainrete.info/societa/19458-vittorio-pelligra-la-meritocrazia-non-e-un-meccanismo-di-liberazione-ma-un-ideologia-pericolosa.html?highlight=WyJtZXJpdG9jcmF6aWEiLCInbWVyaXRvY3JhemlhJyIsIidtZXJpdG9jcmF6aWEnLiJd
Abbiamo intervistato Vittorio Pelligra, professore di politica economica all’Università di Cagliari, che nella sua rubrica Mind the economy sul Sole 24 Ore ha sollevato un interessante dibattito sulla meritocrazia
Bonetti: Lei sottolinea come molti movimenti che si definiscono progressisti, liberali, di sinistra abbiano introiettato l’idea di meritocrazia. Pensiamo a Blair, Obama, Renzi. Qual è la grande contraddizione?
Pelligra: Più che una contraddizione è un equivoco, nel senso che l’idea di merito è solo apparentemente semplice. È in realtà un concetto complesso, sia dal punto di vista filosofico sia dell’implementazione operativa: merito di cosa, merito per chi? Quanto “merito”?
L’equivoco nasce in buona fede nel tentativo di dare risposta a domande reali. Spesso queste risposte, però, sono diventate semplicistiche scorciatoie. E così, a sinistra l’idea di merito è assurta a una sorta di antidoto alle disuguaglianze. Si afferma che l’attuale struttura sociale tende a rigenerare le disuguaglianze, perché punta più agli esiti che alle opportunità. Quindi se riuscissimo a far partire tutti dalle stesse opportunità potremmo isolare l’effetto della dotazione di partenza dal merito e dall’impegno individuale e perciò diventerebbe possibile incentivare l’impegno premiando il merito stesso. Questo è un tentativo lodevole, ma è logicamente impossibile.
Infatti, tutto quello che è impegno è fortissimamente determinato da elementi che non sono impegno, come l’essere nato in una certa famiglia, in un certo paese, in un determinato momento storico. Oggi sappiamo che il processo di accumulazione di capitale umano funziona attraverso un meccanismo di complementarità dinamica: riesco a imparare se ho imparato ad imparare. Lo stesso impegno, dunque, produce risultati differenti in base alle dotazioni iniziali che dipendono totalmente dalla fortuna.
E infatti le condizioni per poter ottenere risultati ottimali da un percorso scolastico si formano molto prima dell’accesso a quel percorso. Le componenti non cognitive del capitale umano (perseveranza, autocontrollo, capacità di posticipare le gratificazioni, ecc.) si formano ben prima dei 6 anni. Queste cose, naturalmente, non sono frutto del merito, eppure hanno un impatto fortissimo su quello che chiamiamo “impegno”. Premiare l’impegno vuol dire, dunque, premiare qualcosa che si è sviluppato grazie a fattori al di fuori del nostro controllo. Ecco il fraintendimento di fondo. Quello del merito più che un ideale praticabile è una retorica, che nasce per dare risposte semplici a domande molto concrete e molto complesse. Le disuguaglianze richiedono una risposta, ma la soluzione scelta da una certa sinistra è una scorciatoia.
Bonetti: Ad esempio?
Pelligra: Mi colpisce molto lo slogan di Obama: “you can if you try” (se ci provi ce la puoi fare). Provarci significa studiare e impegnarsi, ma si sottintende che l’impegno sia una pura scelta personale. Qui si apre il vero aspetto critico, quello che ho chiamato “asimmetria delle valutazioni”. Lo slogan “se ci provi ce la fai” si porta dietro, non esplicitata, l’implicazione morale che se non ce la fai è perché non ci hai provato abbastanza. Questo è l’aspetto perverso della retorica della meritocrazia, che porta non solo a premiare chi ce l’ha fatta, ma contemporaneamente anche a disprezzare (provare disdain) chi non ce l’ha fatta. Ma se uno non ce l’ha fatta, non vuol dire che non si sia impegnato. Non ce l’ha fatta perché magari stava salendo una salita oggettivamente non scalabile.
Bonetti: La retorica del merito può aver contribuito alla scomposta reazione populista a cui stiamo assistendo negli ultimi anni?
Pelligra: Certamente. Penso che sia una delle sue radici più forti. Il disorientamento di tanti di fronte al populismo nasce dal fatto che non capiscono quanto questi fenomeni siano legati alla retorica del merito che loro stessi hanno alimentato. Non puoi vendere questa retorica a persone in difficoltà, schiacciate da mutamenti sociali di portata storica, come la sparizione della classe media, che stanno provocando enormi disagi. Non puoi rispondere alle persone travolte da questi mutamenti dicendo “studia”.
Mi ricordo la risposta dell’allora ministro dell’Istruzione Bussetti in visita in Campania, che a una domanda su nuovi fondi per le scuole rispose: “No, vi dovete impegnare di più”. Questo genere di risposte crea risentimento. E i populismi si nutrono di esso. Il punto è che la risposta ai populismi è stata la negazione della legittimità di questo risentimento. Un risentimento che però legittimo lo è, almeno in parte. Il discorso sulla meritocrazia è uno snodo importante. La meritocrazia non è un meccanismo di liberazione, ma un meccanismo che rigenera oppressione.
Bonetti: Un altro esponente dell’area liberal-progressista, Tommaso Padoa-Schioppa, nel 2003 scrisse un articolo in cui diceva che nell’Europa continentale erano necessarie riforme per riportare i cittadini a contatto con la durezza del vivere. Il pensiero sottinteso era che dalla rinnovata lotta con le difficoltà della vita quotidiana sarebbero emersi i meritevoli. Chi si fosse impegnato di più ce l’avrebbe fatta. Padoa-Schioppa fu poi ministro con Prodi, il che ci dà una conferma ulteriore che una parte della sinistra si è innamorata di una certa retorica. Quello che Padoa-Schioppa ci disse in quell’articolo è che i meccanismi di mercato dovevano tornare a regolare la vita delle persone. Qual è il legame fra il ruolo del mercato e l’ideologia del merito?
Pelligra: Anche qua c’è un equivoco, quello secondo il quale necessariamente il mercato premia il merito in maniera automatica. Questo non fa parte del pensiero liberale tradizionale: von Hayek e lo stesso Hume erano perfettamente coscienti che il mercato non premia il merito, ma una serie di circostanze al di fuori della dimensione individuale. Per esempio, quando studiamo la concorrenza, sappiamo benissimo che i prezzi di mercato non sono legati a scelte dei singoli. Anzi, i soggetti sono price-taker, ossia prendono i prezzi come dati. Questo perché i prezzi, così come i salari, emergono dall’interazione di un numero enorme di fattori, che hanno a che fare con le contingenze più varie. Se ho un certo talento, non c’è merito o demerito nel coltivarlo o no, perché riguardo al frutto di quel talento può esserci un eccesso di domanda o di offerta. Quello che riesco a ottenere dallo sfruttamento di un talento è determinato da elementi esterni (come domanda e offerta) e indipendenti dalla mia volontà o dal mio impegno.
Quindi, che il mercato premi il merito individuale è un equivoco di fondo. I liberali dovrebbero prenderne le distanze, perché espone la loro visione del mondo a una critica semplice e distruttiva, che in realtà non è un’implicazione logica di una società di mercato. Una società di mercato può funzionare perfettamente anche senza la meritocrazia così intesa.
Bonetti: Nei suoi articoli lei ha scritto che come rimedio all’ideologia della meritocrazia si dovrebbe rivalutare la dignità del lavoro, ossia trasformare una società di cittadini-consumatori in una di cittadini-produttori, che trovano gratificazione nel produrre beni e servizi che possono essere utili al resto della comunità. Qual è la radicale differenza economica e filosofica fra questi due tipi di società?
Pelligra: È una questione di enfasi. Siamo già produttori, non solo di beni materiali, ma anche di capitale umano e sociale. Il punto è che la rappresentazione praticamente esclusiva che viene data dei cittadini è quella di consumatori. Da questa narrazione discende quindi che ciò che bisogna tutelare è la capacità di consumare.
Porre l’enfasi su un lato o l’altro della medaglia non è neutrale, neanche per la politica economica. Se voglio tutelare principalmente il tuo essere consumatore, devo proteggere soprattutto il tuo potere d’acquisto. Se invece descrivo e concepisco i cittadini principalmente come produttori, devo tutelare maggiormente la possibilità di lavorare. In un certo discorso queste cose diventano equivalenti: se il lavoro viene visto esclusivamente come un mezzo per procurarsi un reddito e poi poter spendere, allora quando il lavoro non è più necessario basta che ti fornisca il reddito che avevi prima (o una sua parte). Ma le cose non stanno esattamente così, perché il lavoro ha un valore in sé. È quel partecipare alla creazione che umanizza il mondo e rende lavoratori e lavoratrici ancor più uomini e donne. È un’occasione per generare.
Tutta questa dimensione del lavoro e della sua dignità sparisce nella visione dei cittadini come consumatori. È una perdita di senso enorme: perdita di una finalità, della possibilità di essere membri stimati di una comunità, di operare con impegno, creatività e autonomia con e per le persone che hanno intorno. Eliminare questo senso è una ferita di cui paghiamo le conseguenze. L’ho chiamata “espropriazione capitalistica di un surplus esistenziale”, riecheggiando Marx. È come se perdendo il lavoro e ricevendo un sussidio io fossi espropriato di quello che realmente sono. È una ferita quasi più profonda e dolorosa della perdita di lavoro in sé. A tal proposito, alcuni studi di John Layard mostrano che per compensare la perdita di benessere derivante dal diventare disoccupati il soggetto dovrebbe percepire 2 volte e mezzo il reddito che percepiva lavorando. Significa che quando smetto di lavorare ciò che perdo è molto più del reddito: è il senso di sentirmi membro attivo e utile di una comunità.
Bonetti: L’ideologia del merito attribuisce l’insuccesso nel trovare un’occupazione o nel raggiungere il lavoro desiderato a un de-merito individuale, a una mancanza di impegno.
Pelligra: Certo, secondo quelle lenti vuol dire o che non ti sei formato abbastanza o che non ti sei impegnato abbastanza o che non ce l’hai messa tutta.
Bonetti: Esatto. Ma si sviluppa anche un atteggiamento sprezzante da parte di chi ce l’ha fatta verso chi non è riuscito a raggiungere la posizione lavorativa che voleva, un lavoro stabile o una vita soddisfacente.
Pelligra: Un altro elemento che emerge e ci fa capire gli effetti distorsivi della retorica meritocratica è il proliferare di quelli che David Graeber chiamava “bullshit jobs”. Stiamo progettando e moltiplicando lavori senza senso o addirittura socialmente dannosi. Questo nasce dal fatto che oggi tutti i lavori sono considerati interscambiabili in quanto a valore, perché se sono innanzitutto un consumatore, l’importante è che a fine mese io porti a casa lo stipendio. Che lo faccia costruendo bombe o accudendo anziani non cambia niente. Se una persona che produce bombe e una che accudisce anziani vengono pagate allo stesso modo, il prestigio o valore sociale associato ai due lavori è identico, perché è quello associato al valore di mercato. Non tiene conto di esternalità e motivazioni intrinseche.
La questione del disdain (disprezzo ndt) con cui chi ce la fa rischia di guardare a chi non ce la fa è una forma di neo-aristocrazia. Mi colpisce molto una riflessione di Michael Sandel: quando c’era l’aristocrazia, gli aristocratici erano molto coscienti del fatto che i loro privilegi fossero legati a una questione di nascita. Non potevano dire “è merito mio”, cosa che invece i neo-aristocratici oggi fanno, senza tener conto dell’influenza della famiglia, ad esempio.
Quando uno “ce la fa”, avviene un fenomeno di overconfidence: è molto difficile psicologicamente non attribuire il proprio successo al proprio impegno o alle proprie capacità. Di conseguenza diventa più facile sminuire quelli che hanno avuto meno successo.
Perciò, il punto non è tanto la questione del merito, ma forse quella del de-merito, perché rende instabile la società, crea risentimento e ha forti effetti di perdita di senso. Soluzioni immediate non ce ne sono, ma almeno bisogna porre il problema. Uno degli aspetti che più mi colpisce è la reazione dei liberali a queste riflessioni. I liberali danno il concetto di merito per scontato e non si rendono conto che in realtà è controproducente per la loro visione del mondo.
Bonetti: In definitiva, se l’ideologia meritocratica non è neanche liberale, che cos’è?
Pelligra: È un’ideologia. Che si è affermata con il supporto di forze di destra e di sinistra, liberali ed egualitarie. È un grande equivoco, perché da una parte il merito è stato considerato indispensabile per il funzionamento del mercato e quindi è stato assunto dalla visione liberale come un elemento necessario, cosa che non è vera. Dagli egualitari invece è stato visto quasi come un meccanismo di emancipazione: creiamo uguaglianza di opportunità e poi lasciamo che le cose vadano in base all’impegno di ciascuno. Ma l’uguaglianza delle opportunità non esiste ed è difficile ottenerla.
Bonetti: Quali sono le implicazioni del superamento dell’ideologia del merito?
Pelligra: Innanzitutto ripensare il sistema fiscale. Se siamo produttori almeno tanto quanto siamo consumatori, punire fiscalmente il lavoro significa penalizzare un’attività che genera valore indipendentemente dalla sua dimensione economica e monetaria. Si svilisce un ruolo, proprio perché non ci si rende conto della dignità intrinseca del lavoro.
In Italia c’è poi una distribuzione geografica delle competenze scolastiche, linguistiche e matematiche impressionante, con una disuguaglianza enorme a sfavore del Sud. Vogliamo chiederci cosa genera questa distribuzione così diseguale? Il problema non è solo la qualità dei sistemi scolastici. Il problema è che i ragazzi arrivano a scuola con dotazioni e competenze differenti. Se si vuole investire nella formazione di capitale umano, bisogna farlo prima che i ragazzi entrino a scuola, per esempio evitando che le famiglie giovani con figli siano i soggetti più a rischio di povertà. Si sta mettendo sulle spalle dei figli di queste coppie una zavorra che si porteranno dietro per tutta la vita. Si sta rendendo la scuola un meccanismo di ri-generazione delle disuguaglianze. Questo è esattamente il meccanismo aristocratico, per cui il beneficio che trai da un percorso educativo non dipende tanto dal percorso educativo stesso ma da come sei arrivato all’ingresso di quel percorso.
I dati mostrano come chi ha competenze elevate a 6 anni continuerà a svilupparle e aumentarle, mentre chi ha competenze basse perderà posti in classifica. Al passare del tempo, tanto più tardi si interviene con il sostegno pubblico, tanto minore sarà il rendimento. Oltre una certa età, fra 10 e 12 anni, sarebbe meglio da un punto di vista economico che i soldi investiti in educazione siano investiti in infrastrutture, perché diventa troppo tardi. L’effetto di quegli investimenti diventa minimo. Ad Harvard, Raj Chetty e altri hanno studiato il rendimento dell’investimento in 130 progetti pubblici, attuati negli USA negli ultimi decenni, dall’educazione ai voucher per la casa. Mappando il rendimento di questi progetti, hanno scoperto che questo è tanto più alto quanto più bassa è l’età dei beneficiari.
Tutti questi fenomeni, soprattutto l’accumulazione di capitale umano, funzionano attraverso la logica della complementarità dinamica: quello che accumuli oggi ti aiuta ad accumulare domani. Vale sia per la crescita che la decrescita.
AL VOLO/ LA TIRANNIA DELLA MERITOCRAZIA DI H. M. SANDEL
Tra l’altro non siamo noi a scoprire il dramma del ceto medio americano, e a seguire di quello europeo, perché in La tirannia della meritocrazia di H. M. Sandel, edito negli Usa (e recensito in Italia dal premio Nobel Angus Deatone e da Ann Case al festival dell’economia di Trento) vengono sottolineati come gli effetti della meritocrazia, incorporata nelle leggi del modo di produzione capitalistico, per l’accresciuta concorrenza di merci e mercati finanziari, hanno prodotto un disastroso vuoto verso l’alto da parte di settori sempre più ricchi e settori intermedi sempre più impoveriti, frustandoli e deprimendoli a tal punto che centinaia di migliaia di americani, soprattutto bianchi muoiono di alcolismo, abuso di antidolorifici e oppiacei e di suicidi.
( DA https://www.sinistrainrete.info/politica/19090-michele-castaldo-la-paura-americana-e-occidentale.html?highlight=WyJtZXJpdG9jcmF6aWEiLCInbWVyaXRvY3JhemlhJyIsIidtZXJpdG9jcmF6aWEnLiJd)
AL VOLO/ RICORDATEVI ALMENO DEL RIFORMISTA KEYNESIANO CAFFE’
In quello che sarà uno dei suoi ultimi lavori, nel 1986 Federico Caffè pubblica una raccolta di saggi chiamata emblematicamente “In difesa del Welfare State” che in qualche modo può essere considerata il suo lascito alla cultura economica italiana. In questo lavoro l’economista ci offre una serie di considerazioni che mettono in chiaro quelli che lui considera punti imprescindibili come ad esempio
insistere su una politica economica che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale.
Federico Caffè
Per Caffè l’egualitarismo deve soppiantare la meritocrazia in quanto questa viene considerata strumento del neoliberismo, volta a mantenere il predominio delle classi più agiate. Ma non è una critica sterile, riprendendo le tesi di Amartya Sen, per Federico Caffè è infatti fondamentale preoccuparsi dei punti di partenza, delle cause sociali che provocano una sostanziale ineguaglianza di opportunità tra chi nasce ricco e chi invece non può permettersi percorsi di studio e professionali di alto livello. Per questi motivi il neoliberismo è considerato “intellettualmente datato e socialmente retrivo”.
La risposta non può che essere la riaffermazione del pensiero Keynesiano, che promuove una “visione del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale”. In un pensiero quanto mai attuale seppur espresso oltre 30 anni fa, Caffè si scaglia contro chi auspica la fine dello stato sociale richiamando un fantomatico “eccesso di assistenzialismo”: “lo stato del benessere è una conquista ancora da realizzare faticosamente, non un intralcio fallimentare da scrollarsi di dosso. Una efficienza priva di ideali ci riporta al clima intellettuale che ha consentito di designare l’economia come una ‘scienza crudele”. L’economia del benessere diventa quindi la ricerca dei principi da utilizzare come guida nelle decisioni di politica economica, lo strumento per determinare gli standard minimi delle condizioni di vita e studiare i metodi utilizzabili per assicurare quegli standard a tutti i cittadini.
(https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/18244-claudio-freschi-ritratto-di-un-riformista.html?highlight=WyJtZXJpdG9jcmF6aWEiLCInbWVyaXRvY3JhemlhJyIsIidtZXJpdG9jcmF6aWEnLiJd)
AL VOLO/ OCCORREVA «ATTENUARE QUEL DIAFRAMMA DI PROTEZIONI CHE NEL CORSO DEL VENTESIMO SECOLO HANNO PROGRESSIVAMENTE ALLONTANATO L’INDIVIDUO DAL CONTATTO DIRETTO CON LA DUREZZA DEL VIVERE, CON I ROVESCI DELLA FORTUNA, CON LA SANZIONE O IL PREMIO AI SUOI DIFETTI O QUALITÀ»
Anziché rinnovarsi opponendosi a quel processo di deregolamentazione dei mercati e dei capitali, la sinistra ha nel corso degli anni Novanta fatto suo quel verbo, in maniera a volte inconsapevole, assumendo in positivo le categorie politiche, economiche e sociali del liberismo e operando una rimozione di quelle su cui si era sempre fondata la propria analisi: il conflitto tra capitale e lavoro. Una mutazione questa che l’ha condotta a lasciarsi ammaliare da forme di propaganda come quella racchiusa nelle parole di Romano Prodi che, nel 1996, commentando la vendita del patrimonio industriale, aziendale e bancario pubblico italiano da lui gestita a capo dell’IRI, si definiva «il re delle privatizzazioni», rimproverando gli italiani di non possedere «la cultura della libertà, dell’antimonopolio, del rispetto del singolo piccolo operatore economico»[vii]. È esattamente in quella direzione che si è mossa la propaganda liberista di cui è stata vittima e, al tempo stesso, portavoce la sinistra italiana negli ultimi vent’anni. Stridono oggi le parole di Prodi, alla luce delle politiche di privatizzazione dei servizi pubblici e strategici del paese. Come ancora ancora stridono le parole di chi proprio di Prodi fu ministro dell’economia tra il 2006 e il 2008: Tommaso Padoa-Schioppa, il quale nel 2003, dalle pagine del Corriere della Sera, affermava la necessità di attuare nell’Europa continentale «un programma completo di riforme strutturali […] nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola […]», poiché occorreva «attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità»: questo doveva essere l’obbiettivo delle scelte economiche e monetarie da attuare, scelte che hanno avuto l’effetto di vincolare la politica alle logiche della finanza, nonché di assestare un colpo mortale ai diritti sociali conquistati nel corso del Novecento.
(Da https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/17941-giulio-gisondi-progresso-fede-e-censura-nell-analisi-politica-della-sinistra-italiana.html?highlight=WyJtZXJpdG9jcmF6aWEiLCInbWVyaXRvY3JhemlhJyIsIidtZXJpdG9jcmF6aWEnLiJd)
AL VOLO/ INDIVIDUARE VIRTUOSI E VIZIOSI, MERITEVOLI E INCAPACI, REGOLARI E INDISCIPLINATI, VINCENTI E PERDENTI
Ci sono diverse buone ragioni per leggere questo libro di Diego Giannone (IN PERFETTO STATO. Indicatori globali e politiche di valutazione dello Stato neoliberale, Mimesis, Milano-Udine, 2019) dedicato alla «trasformazione dallo Stato nazionale welfarista keynesiano allo Stato internazionale competitivo hayekiano» (p. 103, ma cfr. anche pp. 11 e 24-32). E sono tutte anticipate dal titolo e da un’«Introduzione» ben fatta, che consente al lettore, recensore o meno, di orientarsi rapidamente.
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La sesta e ultima ragione, di particolare interesse per il recensore, è che si tratta di un libro che, sia pur implicitamente, ha per oggetto anche le teorie e le politiche meritocratiche e, dunque, può fungere ottimamente da inquadramento per studi che più dettagliatamente si concentrino sulle politiche dell’eccellenza relative a questo o quel settore in questo o quel Paese. Il testo, in cui pure «meritocrazia» compare una sola volta (p. 38), «eccellenza» una sola volta (p. 121), «merito» due sole volte (pp. 120-121 e 143), è di particolare interesse per il critico della meritocrazia perché discute di amplificazione e di giustificazione delle diseguaglianze materiali e culturali, laddove dello Stato sociale, desocializzato dalla razionalità neovalutativa, l’eguaglianza era stato il valore e dunque la politica più caratterizzante.
Il libro ricorda alla prima pagina (di testo: p. 11) la «centralità [per lo Stato sociale] dell’eguaglianza e della solidarietà». E ricorda all’ultima pagina, anzi all’ultimo capoverso, che lo Stato neoliberale «affonda i suoi cardini nella legittimazione della competitività e, tramite essa, nella legittimazione delle diseguaglianze». Ora, che cos’è la meritocrazia se non la giustificazione della persistenza e dell’ampliamento delle diseguaglianze sociali, economiche, educative, culturali, politiche sulla base di gare che dividono l’umanità in pochi vincenti e molti perdenti, gare regolate da indicatori che fanno vincere sempre gli stessi individui e le stesse istituzioni?
Per concentrare risorse e talenti, anziché ridistribuirli, occorre istituire gare, distribuire premi e sanzioni, medaglie e stigmatizzazioni, normalizzare, standardizzare, reprimere ogni tentativo di deviazione, di originalità. Come dice l’autore, «Gli indicatori sono […] i guardiani dell’ortodossia, pronti a punire i comportamenti eterodossi o devianti e a premiare quelli conformi e allineati. Sono i costruttori di una nuova “normalità”, e quindi di nuove norme, rispetto alle quali consentono di individuare virtuosi e viziosi, meritevoli e incapaci, regolari e indisciplinati, vincenti e perdenti» (p. 75).
Chi non sta al passo, chi non sta nei binari, chi perde merita di perdere e di non essere aiutato a spese della collettività. Se volesse impegnarsi, non perderebbe, anzi recupererebbe il distacco. Ma, evidentemente, preferisce oziare e restare indietro, povero, senza cultura, senza dignità, senza speranza. Se non è un libro contro la meritocrazia questo… Al recensore fa tornare in mente la critica milaniana dell’«agonismo» (che ha l’etimo in comune con «agonia») e quella capitiniana dell’«attivismo». Discutendo e citando la seconda, scrive Guido Calogero, altro grande critico della meritocrazia in anni in cui il vocabolo ancora non è stato coniato o non circola in Italia: «La “civiltà attivistica” valuta l’uomo secondo la sua efficienza, secondo ciò che sa dire e fare. Ma chi baderà a colui che “non può fare”, che “si aggira esaurito per le strade e tra il lavoro degli altri”, che è “sofferente, ed è messo al margine della vita”? […] Una realtà in cui ci siano degli sconfitti è una realtà da rifiutare: la religiosità sta appunto in tale rifiuto» (Aldo Capitini e la «religione aperta» [1969], in Id., Difesa del liberalsocialismo ed altri saggi, a cura di M. Schiavone e D. Cofrancesco, 1972² [ma 1940-69, più il parzialmente inedito primo manifesto del liberalsocialismo e l’inedito secondo manifesto], p. 314).
(Da https://www.sinistrainrete.info/teoria/17729-enrico-mauro-in-perfetto-stato-indicatori-globali-e-politiche-di-valutazione-dello-stato-neoliberale.html?highlight=WyJtZXJpdG9jcmF6aWEiLCInbWVyaXRvY3JhemlhJyIsIidtZXJpdG9jcmF6aWEnLiJd)
SEGNALAZIONE
Meritocrazia e disuguaglianza
di Carlo Formenti
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/16955-carlo-formenti-meritocrazia-e-disuguaglianza.html?highlight=WyJtZXJpdG9jcmF6aWEiLCInbWVyaXRvY3JhemlhJyIsIidtZXJpdG9jcmF6aWEnLiJd
Stralcio:
Ma torniamo al merito e alla meritocrazia. L’ideologia liberal progressista delle nuove sinistre si illude di poter distinguere: una cosa è il merito, altra è la meritocrazia. La seconda può ispirare pratiche autoritarie, laddove il primo è, al tempo stesso, un dato “oggettivo” (il vero merito di cui migliaia di aspiranti docenti, funzionari, dirigenti pubblici e privati invocano il rispetto contro il merito “truccato” dalle “caste” burocratiche, politiche, mafiose, ecc.) e un attributo del singolo individuo. Ma le cose stanno davvero così, si chiede Boarelli [autore di “Contro l’ideologia del merito” (Ed. Laterza)], per poi smontare questa ingenua visione tracciando una sorta di genealogia dei due concetti che, giustamente, considera di fatto inseparabili.
La diffusione dell’ideologia meritocratica deriva, argomenta l’autore, dal progressivo affermarsi dei concetti anglosassoni di uguaglianza e giustizia sociale nei confronti di quelli europei. Mentre questi ultimi partono dalla constatazione del dato di fatto che la società è divisa in classi, per cui affidano alla politica il compito (come sancisce la nostra Costituzione) di correggere le ingiustizie generate da tale divisione, i primi ignorano le classi e considerano solo gli individui, teorizzando la possibilità di conciliare disuguaglianza e giustizia sociale nella misura in cui siano garantite a ciascuno pari possibilità di successo. La vita è una gara, una competizione in cui tutti devono partire alla pari perché possa vincere il migliore. Il sistema meritocratico dunque presuppone di per sé una disuguaglianza che è giusta nella misura in cui i talenti vengono selezionati sulla base del talento e delle pari opportunità di metterlo in pratica.
Da questa visione derivano alcune importanti conseguenze. In primo luogo, se avere successo dipende esclusivamente dal talento individuale, il mancato successo è una colpa; in altre parole, siamo di fronte a un’ideologia il cui scopo principale è convincere i perdenti della giustezza della loro condizione. In secondo luogo, l’individuo è incoraggiato a investire in capitale umano, definito come la somma delle competenze (altra parola feticcio opportunamente generica, in modo da poterla stiracchiare per giustificare questo o quel meccanismo di esclusione a danno degli “incompetenti”) acquisite nel corso del processo di formazione. Dall’idea di capitale umano si arriva all’idea del lavoratore come impresario di se stesso che compete sul mercato con tutti gli altri. Insomma: competere nella scuola per acquisire più competenze, per poi competere nella vita in una guerra di tutti contro tutti.
Che fine fa il merito in tutto ciò? Ha senso rivendicare il vero merito evitando, nel contempo, di cadere nella trappola della meritocrazia? La difficoltà – o meglio l’impossibilità – di tale pretesa si nasconde nelle seguenti domande: chi può o deve riconoscere il merito? Chi e come può o deve misurarlo? La risposta alla prima domanda rischia di essere del tutto arbitraria e soggettiva: infatti ognuno è intimamente convinto di meritare più degli altri o almeno di molti di essi, e le comunità (ordini professionali, gerarchie, commissioni concorsuali, ecc.) che dovrebbero trascendere questi giudizi arbitrari e soggettivi, sono esposte al sospetto di manipolazioni, accordi sottobanco fra lobby e famiglie, ecc.
Quanto alla misurazione è ovvio che essa è possibile solo nella misura in cui si accetta il principio secondo cui l’economia deve diventare la chiave di lettura di tutti i processi sociali.
SEGNALAZIONE
Una risata vi seppellirà
di Olimpia Malatesta
Il Joker di Todd Phillips è la rappresentazione perfetta della degenerazione di una rabbia giusta, la manifestazione dei sintomi morbosi del pericoloso interregno in cui viviamo
https://www.sinistrainrete.info/societa/16251-olimpia-malatesta-una-risata-vi-seppellira.html?highlight=WyJtZXJpdG9jcmF6aWEiLCInbWVyaXRvY3JhemlhJyIsIidtZXJpdG9jcmF6aWEnLiJd
Stralcio:
Adesso Joker riconosce chiaramente il suo nemico politico, anche quando afferma «I’m not political. I just want to make people laugh». In effetti non ha intenzione di compiere un gesto politico: il suo unico desiderio è di essere riconosciuto e amato. Ma ora sa che questo desiderio non verrà mai soddisfatto e dichiara di non volere più interpretare il ruolo che gli assegna la società, le cui leggi sono quelle del più forte: «The system decides what’s funny and what’s not», così come è il sistema che decide cosa è degno di riconoscimento sociale e cosa non lo è. Sicuramente non il lavoro di cura svolto da un povero reietto che passa la vita ad occuparsi della madre. Joker alla fine si vendica contro Murray e prima di sparargli un colpo in testa esclama: «You get what you fuckin’ deserve!».
La vendetta di Arthur/Joker distrugge la finzione della meritocrazia, vero caposaldo della retorica neoliberale. Le sue promesse non si realizzano mai. Sono pura propaganda. Non è vero che chiunque può diventare ciò che vuole se solo si impegna duramente. Non se si proviene dai bassifondi di Gotham City. Non se si è costretti a svolgere lavori sottopagati. Ricchi e poveri non sono uguali: non solo non hanno uguali chances di successo, ma i secondi vengono sfruttati dai primi e derisi per la loro “inadeguatezza”. E nonostante dedichino spesso la loro esistenza a prendersi cura degli altri, svolgendo una funzione di riproduzione sociale di importanza vitale, vengono abbandonati dal sistema, privati dei servizi sociali, privati persino di quel briciolo di amore e di riconoscimento di cui avrebbero un disperato bisogno. Per questo i ricchi “vincenti” meritano di morire.
Leggo solo ora, e del tutto inattesa, la sintesi critica che Ennio Abate ha fatto delle mie posizioni (espresse, fra l’altro, in modo frammentario in una serie di commenti, in risposta e in dialogo con altri commenti, e non in un saggio organico). Trovo il modo di operare di Abate scorretto, in senso letterale. Cioè la sua sintesi non rispecchia, se non in parte, ciò che ho scritto. È una sua lettura, una sua interpretazione.
Lettura e interpretazione errate che nascono da una cattiva filosofia che confonde e mescola continuamente l’analisi della realtà con la sua interpretazione ideologica. Maestri di questa dialettica che se ne frega della logica e della coerenza furono già Marx e Lenin. Questo filone di pensiero politicamente ha portato, e si è esaurito, a due realtà opposte: Stalin da un lato, Zingaretti e il governo Conte dall’altro, che non solo non può più dirsi di sinistra, ma nemmeno democratico. Ennio Abate rifiuta entrambe le derive, sia Stalin sia Zingaretti, ma come tutta la sinistra non è poi riuscito ancora a delineare una proposta alternativa complessiva, né a livello pratico né teorico. E non ci può riuscire chi continua a confondere l’analisi dei fatti con l’ideologia, chi continua a mescolare, come Marx e il Pelligra di cui Ennio segnala una lunga intervista, ottime osservazioni e considerazioni con sciocchezze ideologiche che non hanno mai avuto fondamento. La mancanza di un atteggiamento che sia insieme realistico, scientifico e progettuale, proiettato verso l’ideale (altri direbbero verso l’utopia, ma l’utopia è negativa, perché è un ideale senza progetto, costruito su un pensiero più simile al favolistico che al realistico), fa sì che tutto l’argomentare di certa sinistra cada continuamente nel vuoto o nel disastro. L’astrattezza di chi confonde l’essere con il dover essere porta a immaginare un dover essere che non può essere perché contrario alla logica dei fatti e a perdere di vista, o a contrastare, i progetti di un dover essere che potrebbe esserci. Si crea il mito di un’uguaglianza da perseguire in forme che non porteranno mai all’uguaglianza, e si critica e condanna chi propone forme e riforme più adeguate.
La sinistra, due secoli di storia lo hanno dimostrato, è la peggiore nemica di se stessa. E la sinistra radicale è un nemico radicale di se stessa.
L’unica svolta capace di migliorare la situazione potrebbe solo fondarsi su un pensiero più razionale e meno mitologico, ma Ennio Abate accusa di “positivismo” (come se essere positivi fosse un vizio) e di ideologismo questa che a lui pare solo una pretesa di destra.
Intanto la società va avanti, si rinnova, peggiora e migliora, distrugge miti, crea nuovi miti, infischiandosene dei trucchi e delle critiche del pensiero dialettico ma non logico, del dover essere moralistico che non si fonda sulla corretta analisi dei fatti e sulle politiche conseguenti e adeguate.
@ Luciano Aguzzi. Ancora con questa opposizione tra fatti e ideologia!
“non ci può riuscire chi continua a confondere l’analisi dei fatti con l’ideologia, chi continua a mescolare … ottime osservazioni e considerazioni con sciocchezze ideologiche che non hanno mai avuto fondamento”. Evidente che lei non distingue tra due significati di ideologia.
Nella sua citazione, che riporto, ideologia equivale a sciocchezze ideologiche, meglio si potrebbe dire superstizioni, fantasticherie, oppure opzioni culturali e politiche incapaci di confronto.
Ma ideologia ha un significato ben più forte, che si riallaccia a Kant, e prima ancora ad Aristotile, ideologia come categorie, o tout court linguaggio. Nel senso, che sicuramente non le sfugge, che i fatti rispetto a noi che li consideriamo sono sempre detti e pensati, e solo così diventano fatti ai quali per tutti sia possibile riferirsi e… discuterne.
Del resto la stessa espressione “analisi dei fatti”, che lei impiega, dice immediatamente, con la parola “analisi”, che un fatto, qua talis, è appena aria fritta.
@ Luciano Aguzzi
Trovo anch’io irritante questo continuo rimprovero di ideologia, che 1) non si sa bene cos’è, 2) può essere fatto anche a lei, nel momento in cui, come scrive Fischer, lei fa “un’analisi” dei fatti. Naturalmente lei afferma che la sua analisi è “corretta”. Ma chi glielo certifica?
Non essendo mai stata né marxista (filosofia), né borghese (vita), ho il piacere di considerarmi scevra da ideologie in senso forte. La “letteratura del cuore” gliela rimando al mittente. Non sono mica io che scrivo di voli di rondini su bionde messi. Il mio pudore letterario è un po’ più sviluppato. Semplicemente, rifletto su quello che vedo e quello che leggo.
Essere e dover essere (v. sopra, le bionde messi – personalmente apprezzo Van Gogh che sulle bionde messi, à l’heure qu’il est, ci ha messo i corvi, non le rondini). Non si tratta affatto di questo. Si tratta di una diversa valutazione e eziologia dei fenomeni, e della convinzione che certe ricette compiaciutamente a-morali, quand’anche possano condurre a una società ricca (cosa che al momento attuale e per l’Occidente mi pare assai difficile), non condurranno a una società almeno passabilmente sana e produttiva in senso complessivamente umano.
Ho trovato illuminante l’intervista a Pelligra – ben documentata, ben ragionata, e ben esposta. In particolare due punti:
– il formarsi di un “destino” sociale entro i primi sei anni di vita (e lì sarà difficile parlare di merito o demerito – o vogliamo allinearci al Dio che punisce i peccati dei genitori nei figli fino alla settima generazione?). Questo innesca un meccanismo diabolico e alla fine esiziale per l’intera società, come si sta vedendo molto bene nelle attuali società capitalistiche – e dico capitalistiche senza nessuna aprioristica valutazione negativa, sia chiaro. Come constatazione dei fatti.
– Il peso del caso (e comunque dei fattori imponderabili e sui quali l’individuo non può intervenire) sul successo/insuccesso individuale e collettivo. (Altrimenti bisognerebbe presumere che da un certo punto in poi, circa nel momento in cui, fra le altre cose, le grandi scoperte geografiche hanno spostato il baricentro economico-commerciale dal Mediterraneo all’Atlantico, gli italiani siano diventati tutti, nel giro di mezzo secolo, degli incapaci.)
Un’ultima osservazione: le sue proposte “nuove” sono, ribadisco, piuttosto vecchie.
Non voglio ora criticare Aguzzi. Voglio solo ricordare che a volte si parla di meritocrazia ma talvolta si rischia di sconfinare nel darwinismo sociale(e non voglio affermare in questa sede che lo faccia Aguzzi). Questo rischio però c’è sempre. Ci sono solo due opzioni: si può essere di sinistra o darwinisti sociali. Una cosa esclude l’altra. Terzo escluso. Chi vuole essere entrambe le cose è incoerente. Il darwinismo sociale è una dottrina per conservatori e non certo per marxisti o progressisti. A onor del vero il darwinismo sociale non dovrebbe essere contemplato neanche da liberali autentici, a meno che non vogliano diventare liberisti selvaggi. Infatti il darwinismo sociale non considera minimamente la solidarietà. Si fa presto a passare da concetti come la selezione, la legge del più forte, la lotta per la vita all’eugenetica e all’eliminazione di chi ritenuto disadattato. Il darwinismo sociale è ancora in voga. È rintracciabile anche nel pensiero di chi dice di essere di sinistra. Eppure lo sanno in molti che la società umana non è solo biologia ma è caratterizzata da più elementi, che con la biologia non hanno niente a che fare. E poi siamo forse animali? Ci dovremmo scannare come animali? Un conto infatti sono gli animali delle Galapagos studiati da Darwin ed un conto sono gli esseri umani. Un conto è la natura ed un altro è la società umana condizionata fortemente sia dalla cultura umanistica che dal progresso tecnico-scientifico. Alcune teorie genetiste farebbero pensare ad un nuovo tipo di determinismo. Ma non tutti gli uomini di scienza sono d’accordo con i fautori della sociobiologia. L’uomo non è frutto solo del suo DNA. Il fenotipo dipende anche dall’ambiente e dal caso. E poi si potrebbe veramente parlare di evoluzionismo? Forse ci siamo evoluti solo dal punto di vista scientifico. Ma dal punto di vista culturale, storico e psichico? Che dire? Il darwinismo sociale ha fornito giustificazioni al colonialismo e all’imperialismo sulla fine dell’Ottocento e dopo ai massacri di Hitler. Al mondo di oggi è un caposaldo anche per coloro che pretendono in economia la deregulation. Lo stesso Darwin non fu mai un darwinista sociale. Si tenne sempre alla larga da simili deformazioni e strumentalizzazioni della sua teoria. L’uomo ha dalla sua parte l’etica perché la società non sia una lotta di tutti contro tutti. Forse l’unico fondo di verità del darwinismo sociale è che molti cercano il massimo successo riproduttivo e probabilmente per questo la crescita sta diventando insostenibile. Personalmente ritengo che in una società liberale e aperta dovrebbero coesistere competizione e cooperazione, ma a quanto mi pare oggi siamo ben lontani da tutto ciò. Dovrebbero esserci libera concorrenza e allo stesso tempo salvaguardia dei più deboli, ma in pratica entrambe le cose finora non si sono realizzate.Ricordiamoci che essere darwinisti sociali non significa essere solo incongruenti concettualmente, ma anche di fatto essere persone che non vogliono uno stato assistenziale. Eppure dovremmo ricordarci che dovrebbero essere garantiti anche i diritti dei più deboli. Esistono dei diritti che sono considerati universali. Sarebbe un controsenso volere uno stato di diritto che garantisca le libertà di tutti e allo stesso tempo volere smantellare il cosiddetto welfare. Sarebbe assurdo! Un conto naturalmente è legittimare la meritocrazia e un altro è giustificare totalmente le ineguaglianze. È forse solo per merito che una ristretta elite fa guadagni stratosferici a discapito della grande massa di produttori-consumatori? Non sarebbe l’ora di vedere che l’ingranaggio può incepparsi da un momento all’altro se non migliorano le condizioni materiali di tutti? Essere darwinisti sociali significa essere miopi. Significa non saper vedere oltre. Soltanto gli ultrareazionari possono abbracciare il darwinismo sociale. Di solito ci sono due tipi di darwinisti sociali: i giovani autoesaltati(dalle letture di Nietzsche e Spencer) e gli uomini di una certa età, ormai arrivati, che hanno una visione edulcorata del mondo e della vita(secondo cui chi si impegna ce la fa). Sarebbe l’ora di finirla. Per vivere in una società veramente democratica un welfare efficiente dovrebbe essere garantito. Il welfare dovrebbe essere la premessa fondamentale della democrazia. Gli industriali e gli economisti credano pure alla mano invisibile di Smith o alla selezione naturale di Darwin, ma dovrebbe esserci un welfare che riesca ad assistere anche i più deboli! A mio avviso non si tratterebbe di dare ad ognuno a secondo dei suoi bisogni o delle sue capacità, ma di garantire prima a tutti un minimo indispensabile per la sopravvivenza! Questa è la condizione ineliminabile senza la quale ogni società aperta fallisce e non si rivela più tale. Se non lo fanno gli individui almeno lo Stato dovrebbe provvedere ad aiutare chi non ce la fa indipendentemente dal motivo per cui non ce la fa. Naturalmente va messa in conto una cosa: in Italia nella seconda metà del novecento c’è stato molto assistenzialismo, che ha disgustato molti alla fine ed era dovuto ad un senso della solidarietà malinteso e travisato.
Le critiche di Abate, col supporto di varie “segnalazioni” e lunghe citazione di scritti di diversi autori, non affronta l’analisi dei singoli aspetti, ma, come è tipico degli autori ispirati dall’ideologia, svolge critiche complessive.
Ad esempio nelle tante pagine riportate si confondono continuamente concetti diversi e piani diversi di analisi e argomentazione: capacità, merito, meritocrazia, selezione delle capacità, selezione del merito, “retribuzione” (in senso materiale e morale) delle capacità, dei meriti; origini biologiche e psicologiche delle capacità, privilegi sociali, retroterra familiare e sociale; capacità e mercato del lavoro, merito e mercato del lavoro; differenze di fatto (naturali), differenze sociali; problemi di efficienza, problemi etici, ecc. ecc. L’esercizio analitico non è sempre facile e normalmente risulta odioso a chi naviga con le vele al vento dell’ideologia, perché è più facile lasciarsi trasportare dai propri miti politici. Nelle analisi i conti tornano, ma i totali non sono sempre positivi. Mentre nelle somme ideologiche i totali sono sempre come si vuole che siano.
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Proviamo ad analizzare un brano apparentemente chiaro, in realtà confuso (forse volontariamente, forse inconsapevolmente) di Pelligra.
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1) «riesco a imparare se ho imparato ad imparare. Lo stesso impegno, dunque, produce risultati differenti in base alle dotazioni iniziali che dipendono totalmente dalla fortuna».
— Che vuol dire fortuna? Si riferisce al retroterra genetico o al retroterra sociale? La differenza è enorme. O ci si riferisce a entrambi? L’esperienza quotidiana ci dimostra che ci sono persone che, fin da piccole, proprio fin dalla nascita, dimostrano una notevole capacità di imparare che a volte non dipende dalla fortuna sociale ma da quella genetica. Figli di genitori analfabeti, cresciuti in famiglie poverissime, imparano ad imparare fin da neonati. Altri figli di professori ricchi non ci riescono. Dunque non è sempre vero (anche se spesso è vero) che le capacità dipendono dalla fortuna di nascere ricchi.
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2) «E infatti le condizioni per poter ottenere risultati ottimali da un percorso scolastico si formano molto prima dell’accesso a quel percorso. Le componenti non cognitive del capitale umano (perseveranza, autocontrollo, capacità di posticipare le gratificazioni, ecc.) si formano ben prima dei 6 anni».
— È vero. E allora, perché si formano prima dei sei anni, bisogna considerarle come inesistenti o come ininfluenti? Al contrario: ciò dimostra che esistono differenze di capacità che svolgono un ruolo sociale (e storico) grandissimo e che non si possono ignorare né reprimere.
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3) « Queste cose, naturalmente, non sono frutto del merito, eppure hanno un impatto fortissimo su quello che chiamiamo “impegno”. Premiare l’impegno vuol dire, dunque, premiare qualcosa che si è sviluppato grazie a fattori al di fuori del nostro controllo. Ecco il fraintendimento di fondo».
— Ecco che Pelligra fa un salto gigantesco e passa al merito. Prima ha parlato di «componenti non cognitive del capitale umano», che si potrebbe tradurre in qualità frutto di eredità genetica e di educazione (come complesso di quell’insieme di imprinting che a volte certi genitori analfabeti e certi ambienti poveri sanno dare meglio di genitori dotti e di ambienti privilegiati), mentre il merito sposta il discorso su componenti anche cognitive e anche morali. Se le «componenti non cognitive del capitale umane» non sono utilizzate con impegno e non sono applicate all’apprendimento e al buon uso possono portare non al “merito” ma al demerito. Quanti criminali ci sono estremamente dotati di capacità? E quanti docenti universitari dotati di ottime capacità e preparazione scrivono sciocchezze per favorire la propria carriera, anziché rischiare dicendo la verità?
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4) «Quello del merito più che un ideale praticabile è una retorica, che nasce per dare risposte semplici a domande molto concrete e molto complesse. Le disuguaglianze richiedono una risposta, ma la soluzione scelta da una certa sinistra è una scorciatoia».
— Passato al merito, non torna più alle capacità. Il concetto di “merito”, se scollegato con le capacità e il loro buon uso, il che vuol dire con i risultati dell’applicazione delle proprie capacità, è un concetto estremamente ambiguo e sfuggente, perché ricade sotto la valutazione etica e politica. Per Hitler gli ebrei non avevano in nessun caso dei meriti, mentre le SS ne avevano. In proporzioni diverse, questa aberrazione di giudizio vale per tutti i regimi politici e per «una certa sinistra» di cui si lamenta Pelligra.
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5) «Bonetti: Quello che Padoa-Schioppa ci disse in quell’articolo è che i meccanismi di mercato dovevano tornare a regolare la vita delle persone. Qual è il legame fra il ruolo del mercato e l’ideologia del merito?
«Pelligra: Anche qua c’è un equivoco, quello secondo il quale necessariamente il mercato premia il merito in maniera automatica. Questo non fa parte del pensiero liberale tradizionale: von Hayek e lo stesso Hume erano perfettamente coscienti che il mercato non premia il merito, ma una serie di circostanze al di fuori della dimensione individuale. Per esempio, quando studiamo la concorrenza, sappiamo benissimo che i prezzi di mercato non sono legati a scelte dei singoli».
— È vero che il mercato non premia “necessariamente” il merito, perché non agisce sulla base di considerazioni morali astratte. Ma Pelligra passa disinvoltamente dal mercato del lavoro alla concorrenza e alla formazione dei prezzi, con una confusione terribile da cui il povero lettore, se inesperto, non riuscirà a ricavarci nulla se non una confusa idea di avversione al mercato.
— E là dove, a proposito di rapporti fra merito e mercato del lavoro, dovrebbe scendere in dettagli analitici, se la cava con un’affermazione vuota di senso: «una serie di circostanze al di fuori della dimensione individuale». Caspita! Ma di che circostanze si parla? Non è proprio questo che dovrebbe chiarirci? E perché «fuori dalla dimensione individuale»? Dunque, la selezione del personale è del tutto «fuori dalla dimensione individuale» o la preparazione individuale conta qualcosa, anche se non sempre è determinante?
— Dunque, l’art. 97, terzo comma, della Costituzione italiana, che dice: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge», dice una sciocchezza? E chi, pur partendo da condizioni familiari e ambientali disgraziate, si è dato da fare ed è salito nella scala sociale lo deve solo a «una serie di circostanze al di fuori della dimensione individuale», o anche a qualche condizione individuale? E la battaglia dei sindacati e dei partiti di sinistra per tenere aperti e allargare gli ascensori di mobilitazione sociale dei «meritevoli e capaci» è un cumulo di errori? E ciò che afferma l’art. 34 della Costituzione è del tutto privo di fondamento («[…] I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»)? Certo, per chi a suo tempo ha portato avanti la battaglia del sei politico attribuito a tutti anche senza sostenere gli esami le affermazioni ideologiche e false di Pelligra possono andare bene, non agli studenti lavoratori fuori sede che, estranei al “movimento” in sede, erano gli unici a dover sostenere gli esami e in modo severo, senza che mai il movimento studentesco abbia detto una parola a loro favore, mentre grossi nomi della borghesia milanese e romana sono arrivati alla laurea senza sostenere davvero nessun esame e copiando la tesi o pagando per farsela scrivere da altri.
— Bisogna averle vissute di persona, certe situazioni, per capirle e per vedere quanta distorsione di giudizio e anche di corretto senso etico ci sia nelle parole di Pelligra.
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6) Il mercato non «premia il merito in maniera automatica». E chi l’ha mai sostenuto? Certo che il mercato non premia il merito né “necessariamente” né “in maniera automatica”. Solo chi non ha la minima idea di come funziona il mercato, anzi di che cos’è il mercato, può sostenerlo. E poi, di che mercato parla Pelligra? C’è l’idea teorica del mercato, che vale come vale la geometria che si basa su enti matematici astratti. Poi nella pratica ci sono molte forme di mercato che, come i triangoli reali, non sono mai perfetti. E tanto meno sono perfetti quanto più subiscono le distorsioni di situazioni di privilegio e di potere. Allora, vogliamo analizzare per diminuire o, se possibile, abolire le situazioni di privilegio e di potere, o vogliamo abolire il mercato, che è come dire abolire le relazioni umane, abolire la vita?
— Chi contesta questa mia ultima affermazione è pregato di non cianciare a vuoto contro il mercato, ma di darmi un esempio, un solo esempio storico (o anche fantascientifico, come puro esperimento mentale) di società senza mercato.
— Il caso estremo, in cui il mercato sembra non esistere, è quello di una estrema distopia totalitaria dove solo una persona, o un algoritmo automatico, decide tutto e per tutti, e dove, pertanto, non vi è nessuna forma di incontro e scambio fra le persone. Eppure, anche in questo caso, non è che il mercato non esista del tutto, ma è solo interamente monopolizzato, sia sotto l’aspetto della domanda sia sotto quello dell’offerta, dal supremo dittatore o dall’algoritmo, che decide lui, da solo, ciò che deve essere la domanda e ciò che deve essere l’offerta. Tuttavia nemmeno in questo caso estremo è garantita l’uguaglianza perché il supremo dittatore applicherà suoi criteri i quali, anche se prescindessero da ogni considerazione di capacità, efficienza, merito ecc., causerebbero comunque delle disuguaglianze, e magari assai gravi, come il premiare i killer del Kgb e uccidere i poeti dissidenti.
— Il mercato non premia le capacità e il merito, in sé, in senso astratto, ma premia le capacità e i meriti di cui hanno bisogno e di cui si servono gli operatori di mercato. E questi, che sono poi tutti i membri della società, solo in parte, a volte in piccolissima parte, operano nello stesso mercato, nel mercato globalizzato, complessivo. Spesso, per molte cose, operano in “mercati ristretti”. Le dinamiche di offerta e domanda nell’ambito delle relazioni di coppia o in quelle di famiglia sono, ad esempio, diverse da quelle del mercato globale. Le dinamiche interne a una banda di ladri sono pure diverse, e qui il merito da premiare è quello del ladro più bravo. Il mercato globale si suddivide in moltissime forme di sotto-mercati, distinte per ragioni di spazio e/o di qualità, e ognuna ha alcune leggi che sono comuni a tutti i mercati, altre leggi che sono proprie e diverse. Quelli del dono e dello scambio sono mercati diversi da quello degli investimenti finanziari e pertanto valorizzano capacità e meriti diversi.
— Possiamo analizzare e proporre riforme per integrare i diversi mercati e basarli sempre più su comportamenti virtuosi, ed educare ai comportamenti virtuosi, o possiamo continuare a lamentarci delle enormi disparità sia economiche sia di valutazione etica dei comportamenti. Ma le istanze etiche, astratte, non adeguate alle dinamiche reali, restano incapaci di agire su di esse e di modificarle. Al massimo, agiscono su ristrette cerchie di persone. Non a caso, in uno dei miei commenti, parlavo di “santi”. Solo i “santi”, religiosi o atei che siano, possono costruire una comunità etica del tutto slegata da certi condizionamenti della realtà. Da certi, non da tutti, perché anche queste comunità etiche, salvo che non vivano in un’isola e siano del tutto autosufficienti e prive di relazioni con l’esterno, non possono prescindere da alcuni legami col mondo, quindi con l’economia del mondo e con il mercato.
***
Tralascio, obbligatoriamente, le molte altre incongruenze del testo di Ennio Abate e dei testi da lui riportati. Invito i lettori, e Abate stesso, ad esercitare lo spirito critico in modo analitico, razionale e logico. Unico modo per accorgersi da soli di ciò che va e di ciò che non va.
@ Luciano Aguzzi
Lascio volentieri il campo ai tuoi monologhi liberal-destrorsi da ex- Psiup, quaderni rossi, ecc.
Ho già dato: “Ma niente da fare. Aguzzi non coglie la violenza che esercita sciorinando la vastità, impadroneggiabile anche dal lettore più ben disposto, dei suoi commenti martellanti. Che seppelliscono ogni seria possibilità di dialogo. E non lasciano scampo, poiché si capisce che è attrezzato per continuare all’infinito, tirando fuori sempre altri pezzi da una sua inesauribile enciclopedia storica, filosofica, cosmica.”
Le segnalazioni e i vari stralci non erano rivolti a te, ma ai lettori di Poliscritture.
Devo porgere l’altra guancia e rinunciare a chiarire? Devo subire madornali distorsioni del mio pensiero e di ciò che ho scritto? Non si risponde a me ma a dei bersagli ideologici generali? Rispondere con attenzione diventa un esercizio di violenza? Trovo tutto questo in linea con la peggiore sinistra, quella che non soffre l’approfondimento dei problemi oltre il confine del proprio orticello.
Se è così, allora faccio male a insistere, perché c’è un’avversione pregiudiziale, una volontà a non voler capire, a non provarci nemmeno.
Forse ho sbagliato blog? Ed è meglio che torno ai miei studi di storia locale del Sette e Ottocento dove almeno non vengo contestato con banalità irrisorie e offensive.
Gentile Luciano Aguzzi, capisco il suo sconforto per non essere stato capito, ma non credo si tratti di questo! Il confronto lei non lo ha *argomentato*. I principi che ostende sono ideologie come altre. Ma, come ho insistito, ogni sistema di idee è ideologia, anche le sue. Che lei però non intende confrontare.
Capisco il mood tipo political correctness che la ha accerchiata. Dipende solo da lei, però, il confronto reale. Il suo, lo accetti, è niente altro che un sistema ideologico di cui si tratta ampiamente, e su cui si opzionano scelte diverse, a seconda delle decisioni, personali e collettive. Lei invece presenta le sue opzioni come la vera verità.
In una prospettiva quasi incline all’idea che la trascendenza abbia le sue buone ragioni, mi dico che nessuno può, lei neppure, pretendere a verità assolute che non siano storiche e temporali.
La tolleranza che mi ispira non vuol dire incapacità di scelta e di decisioni.
Pace, se possibile.
Finalmente ho capito cosa intende Aguzzi per ‘ideologia’: intende la sintesi!
Infatti se ne astiene rigorosamente. Fortuna che c’è qualcuno che la fa per lui.
Posso… ridere?
Devi: parce que rire est le propre de l’homme.
G.G.F. Hegel, Filosofia dello spirito, vol.II, La Nuova Italia, 1963: “Il feminino, eterna ironia della comunità … Ma la comunità può mantenersi soltanto opprimendo questo spirito della singolarità; e, poiché esso è momento essenziale, la comunità lo produce bensì e precisamente con l’atteggiamento oppressivo contro di lui, come se fosse un principio ostile” p. 34.
Del resto ripreso da Carla Lonzi “Sputiamo su Hegel” pag. 26.
Mi piace una sacco.
…la parola “merito” in sè non ha alcun significato, se non per i valori ( o disvalori ) di rifermento ..se, in riferimento alla nostra società, si parla di “meritocrazia”, come modalità discutibile e comprovata di affermarsi, fare carriera, imporsi spesso sfruttando le varie situazioni…visto il quadro di riferimento, sono assolutamente contraria alla meritocrazia, in quanto strumento per estendere le ingiustizie e incrementare i dislivelli sociali…soprattutto nella scuola, dove si puo’ sperare di cambiare qualcosa nelle dinamiche dei rapporti umani e per la conoscenza…Se “merito” si riferisce ad una società, oa un piccolo gruppo, dove già si riconoscono realmente i diritti alla giustizia e alla libertà di ogni persona, allora la “meritocrazia” potrebbe assumere un significato positivo, come di stimolo per un equilibrio egualitario, che non significhi appiattimento, fra i componenti del gruppo…Come per dire che le parole contano fino ad un certo punto. Anch’io non riesco a entrare in piena comprensione, la vista poi non mi segue, negli scritti di Luciano Aguzzi, tuttavia capita che , dopo il labirinto in cui mi perdo, sbuca nella mia ( nostra) “nebbia cognitiva”uno scritto che mi convince del tutto, che mi apre una luce , come quello, se fosse possibile riprodurlo qui, del ventiseiesimo giorno del “Poema dell’anno eterno”, intitolato “Il canto della merda”…e allora si capirebbe da che parte sta Luciano Aguzzi…secondo me
@ Annamaria Locatelli
Soddisfo io la tua richiesta ricopiando da Poliscritture FB il testo di Aguzzi a cui fai riferimento:
Luciano Aguzzi
*
POEMA DELL’ANNO ETERNO [26]
*
VENTISEI GENNAIO
*
Nota preliminare
Nell’immenso oceano di isole, acque e creature marine della cultura polinesiana si aggirano moltissimi dei di diversa natura e potenza, quasi sempre con qualche riferimento al mare. Alcuni di questi antichi racconti mitologici presentano particolarità interessanti. Ad esempio c’è un dio del Sole che si chiama Ra, come l’equivalente dell’Antico Egitto, e un racconto sul Diluvio universale. Entrambi questi, e altri aspetti, ci riportano a probabili e antichissimi rapporti fra i popoli che popolarono il Nord Africa e il Medio Oriente e quelli che in successive emigrazioni si spinsero nell’Estremo Oriente, colonizzando le isole dell’Oceania.
Ma fra i tanti c’è un mito che mi ha colpito e che riprendo, a modo mio, in questo “canto” del “Poema dell’anno eterno”. Nelle Samoa e fra i Maori il dio supremo è Tangaroa (o Tagaloa o altre varianti del nome), creatore delle isole, che inizialmente erano grandi pesci che nuotavano liberi, di altri dei e degli esseri umani. Il mito della creazione degli esseri umani ha di particolare che spiega la radicale differenza sociale fra chi comanda e chi lavora. I semidei, gli eroi, i sovrani e i nobili sono creati con un impasto d’acqua, sale ed argilla a cui dio ha soffiato la vita e parte del suo stesso spirito. Tutti gli altri: pescatori e marinai, servi e raccoglitori di frutta, sono invece stati creati dalla trasformazioni in uomini di una lunga fila di vermi che abitavano nel putridume di vecchie liane e canne. E questi non hanno avuto il soffio dello spirito divino.
Nel mio canto immagino che questi esseri umani radicalmente inferiori si ribellino e rivendichino con fierezza la loro nascita, perché sono loro, tutto sommato, che alimentano dei, semidei, eroi, sovrani e nobili.
Il titolo, con un po’ di provocazione anche lessicale, potrebbe essere «Il canto della merda».
*
Nelle Samoa gli antichi,
gli antichi uomini delle Samoa,
prima che Tangaroa creasse se stesso e il cielo e la terra
e gli dei e i semidei
e gli eroi e gli uomini di Ra,
gli antichi uomini delle Samoa,
i plebei che tirano le corde,
che emigrano senza guida,
che navigano senza timonieri
e pregano senza sacerdoti,
i plebei che mangiano il pesce da loro pescato
e il pane dell’albero che cresce sulla terra di altri,
sulle isole pescate da Manui:
nelle Samoa gli antichi
non avevano un dio che li plasmasse con terra e con sale
ma per vedere la luce
dalle fibre marce di una liana
in una lunga fila verminosa
cibandosi di putridume e di merda
trassero origine.
*
Miei padri antichi anch’io
sono un plebeo e anch’io
senza timoniere navigo e senza dei.
Una fantasia strana oggi
mi spinge ad alzare le note
alte verso il Sole, non
per cantare Ra il dio degli eroi,
ma per cantare te merda, nostro primo nutrimento.
*
Ci accompagni nei millenni della nostra storia
per ogni generazione
e negli anni della nostra storia
per ogni momento.
Tutti i punti viventi del nostro corpo
sono nati da te e finiscono in te.
Tu dissolvi le scorie indurite
e le prepari per un nuovo ciclo
di vita e nutrimento.
*
Qual è il primo elemento,
l’elemento che unisce i mille destini
della vita e della morte,
l’elemento che unisce i mille destini
del finito e dell’infinito,
l’elemento che unisce i mille destini
del moto e dell’immoto,
l’elemento che unisce i mille destini
della materia e dello spirito,
l’elemento che unisce i mille destini
della storia e del sogno?
*
Qual è il primo elemento
cercato dai semplici e dai saggi,
rincorso con frenesia nel mondo
e aspettato con fiducia nei monasteri,
disprezzato e adorato,
fantasticato o esperimentato?
*
I diecimila sistemi religiosi e filosofici
non lo dicono,
né le infinite domande degli uomini
rimaste senza risposta,
né le infinite risposte tentate
per una sola domanda.
*
O antichi uomini delle Samoa,
o mio popolo che navighi senza timonieri,
che preghi senza sacerdoti,
che combatti senza generali,
solo tu da sempre contieni in te tutte le risposte
perché tu sei il primo elemento.
*
Tu sei l’escremento che l’uomo nasconde,
l’escremento che il gatto sotterra,
l’escremento che il cavallo lascia in mezzo alla strada,
l’escremento che le mosche lavorano,
l’escremento che scorre nei rigagnoli sotterranei,
l’escremento che gli eroi disprezzano e calpestano.
*
Ma tu sei il primo elemento,
l’elemento che fermenta la vita,
l’elemento che nutre le radici delle piante,
l’elemento che nutre ogni specie di animale,
l’elemento che spinge le navi degli eroi,
che sorregge gli altari dei sacerdoti,
che dà forza agli ordini dei generali.
*
Tu sei il mio popolo che nessuno può distruggere.
*
Nell’Olimpo di Opoa e in quello Greco,
sugli altipiani del Perù e lungo il Gange,
nelle foreste dell’Africa e alle foci del Nilo,
a Roma e nei mari freddi dei Vichinghi,
da secoli ormai gli dei giacciono spenti
e con essi i semidei e gli eroi.
Resta vivo solo il lamento
dell’antica leggenda. Gli orgogliosi
ti negarono un padre: nella lunga fila degli incesti,
degli adulteri amplessi,
delle amorose metamorfosi
non fu mai sparso il seme dell’uomo,
il tuo seme o popolo mio.
*
Tu dovevi nascere da una liana
imputridita nell’umido della foresta.
Dai suoi vermi cresciuti nel buio e nel caldo della terra
doveva nascere il mio popolo
per poter essere separato per sempre,
schiavo per sempre degli eroi,
per sempre costretto a vivere senza amore
perché nato senza amore.
*
Ma ora
il disprezzo è la nostra fortuna!
La schiavitù è la nostra forza!
Crollano i templi ma ovunque nel mondo
gli escrementi fermentano nuova vita.
*
Gli eroi si lamentano,
si sentono soffocare dalla noia,
si arrabbiano perché tutto crolla,
si contorcono avviluppati
in grigie ragnatele.
*
Si lamentano a ragione perché la vita
che fermenta negli escrementi
ha capito che gli eroi sono inutili,
che si può navigare senza timonieri,
pregare senza sacerdoti,
combattere senza generali.
*
E quando essi che ci hanno resi schiavi
e disprezzati per la nostra nascita
saranno avvolti nella merda e soffocati,
il dio Sole vedrà stupefatto
che l’antica specie dei vermi
ha partorito uomini veri,
indistruttibili,
che per vivere non hanno bisogno di timonieri
e sacerdoti e generali,
né degli dei creati da Tangaroa né degli eroi
plasmati con la terra e animati da un soffio divino.
*
Gli antichi uomini delle Samoa
daranno risposta ad ogni domanda
e non avranno il cieco orgoglio che ha perduto gli dei.
Legheranno il carro del dio Sole
per allungare le giornate
e far crescere palme da cocco
sulle rocce e nei deserti.
Rinnoveranno la loro forza
di generazione in generazione
e gli escrementi fermenteranno
la nuova vita.
…grazie, Ennio
Il canto fa riferimento a un tempo in cui “da secoli ormai gli dei giacciono spenti / e con essi i semidei e gli eroi”, un tempo in cui “crollano i templi” e gli eroi, se qualcuno è rimasto, si annoiano e sono avvolti da ragnatele. In questo tempo, necessariamente vago perché poetico, “gli escrementi fermenteranno / la nuova vita”.
Combinando la poesia di Aguzzi con la sua prosa direi che dalla merda emergeranno i vermi migliori.
Leggendo certi brani qui su “premi” e “meriti”, su “responsabilità personale” e “assistenzialismo parassitario”, mi sono venute alla mente le ormai “celebri” parole di Padoa-Schioppa, ministro dell’economia nel secondo governo Prodi (quindi un governo che giornali e tivvù – i famosi meRdia – hanno definito di sinistra), secondo cui bisognerebbe “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del XX secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere”.
@ Roberto Bugliani
E’ citato apertamente in una delle segnalazioni da me fatte:
“Come ancora ancora stridono le parole di chi proprio di Prodi fu ministro dell’economia tra il 2006 e il 2008: Tommaso Padoa-Schioppa, il quale nel 2003, dalle pagine del Corriere della Sera, affermava la necessità di attuare nell’Europa continentale «un programma completo di riforme strutturali […] nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola […]», poiché occorreva «attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità»: questo doveva essere l’obbiettivo delle scelte economiche e monetarie da attuare, scelte che hanno avuto l’effetto di vincolare la politica alle logiche della finanza, nonché di assestare un colpo mortale ai diritti sociali conquistati nel corso del Novecento.
(Da https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/17941-giulio-gisondi-progresso-fede-e-censura-nell-analisi-politica-della-sinistra-italiana.html?highlight=WyJtZXJpdG9jcmF6aWEiLCInbWVyaXRvY3JhemlhJyIsIidtZXJpdG9jcmF6aWEnLiJd)”
Ora ho visto. E’ che ne fai troppe, di segnalazioni… o io che leggo sempre di fretta…
@ Roberto
Eh, no! Siete voi che ne fate poche o nessuna! ( Eppure ce ne sarebbero tante da selezionare e collocare opportunamente nei punti giusti dei discorsi che qui tentiamo di fare…).
Anche se i temi trattati richiederebbero un intervento più articolato, rispondo brevemente per il tempo che mi concede la mia stanchezza e la mia prostrazione psicofisica.
@ Cristiana e @ Elena
L’ideologia (senza scomodare Kant e Aristotele) non è altro che la ipostatizzazione di una idea (o ideale, che dir si voglia) in un sistema organico immodificabile nella sua struttura profonda: può tollerare solo pseudotrasformazioni di facciata ma non una ‘rivoluzione’ con un’altra idea (che rischierà poi a sua volta di produrre un’altra ideologia).
Quanto al ‘merito’, questo concetto ha una connotazione etica (di bene e di male o di giudizio morale di buono/cattivo) che dovrebbe invece, laicamente, essere lasciata fuori da una analisi socio-economica.
Più pertinente il concetto di ‘capacità’ che implica una operazione di sintesi tra dotazioni personologiche e contesti ambientali, favorevoli o sfavorevoli che siano.
Quanto al rapporto tra merito (o capacità) e mercato (al momento a trazione capitalistica sia pure in sofferenza e alla ricerca di una sua riorganizzazione), ciò che il sistema dominante tende a valorizzare riguarda soltanto chi riesce (meritevole/capace o no) a permettergli la sopravvivenza, prima, e la sua riproduzione, poi, una volta assestatosi.
Emblematico sotto questo profilo è ciò che sta succedendo in Italia: l’incapacità (pur nella difficoltà pandemica) e la ‘omertosità’ nel gestire questo Paese è evidente tranne a chi non vuole vedere e sapere.
Per questo condivido quanto scritto da Aguzzi : “Il mercato non premia le capacità e il merito, in sé, in senso astratto, ma premia le capacità e i meriti di cui hanno bisogno e di cui si servono gli operatori di mercato”. I commerci tra Stati Uniti e Germania di Hitler (e anche con la Repubblica di Vichy) continuavano tranquillamente anche nel pieno della seconda guerra mondiale.
@ Ennio
Sinceramente non ho avuto l’impressione che Aguzzi intendesse esercitare violenza “sciorinando la vastità, impadroneggiabile anche dal lettore più ben disposto, dei suoi commenti martellanti. Che seppelliscono ogni seria possibilità di dialogo.”
Ma che ci sia un pregiudizio ‘ideologico’ che, in quanto tale, non procede attraverso l’analisi di ‘fatti’ (Lenin: “analisi concreta della situazione concreta”) ma su etichette, ovvero Aguzzi procederebbe per “monologhi liberal-destrorsi da ex- Psiup, quaderni rossi, ecc.”. Così commenta Ennio. E ciò vale per chiunque pensi con la propria testa e arrivi a considerazioni che possono assomigliare a quelle di Salvini: automaticamente viene etichettato di ‘destra’ e dove ‘destra’ è equiparata a ‘infame’ (ancora un giudizio morale e non di contenuto).
E tutto questo non solo è molto triste ma appiattisce veramente la capacità di pensare. Con i risultati devastanti che oggi sono sotto gli occhi di tutti: una tragedia nella tragedia!
Vorrei precisare (caso mai non fosse chiaro) che il mio dissenso non ha nulla di ideologico, ma è partito da una grosso dubbio relativo alla proposta di Aguzzi di affidare il welfare (assistenza agli indigenti e malati, fra l’altro) alla buona volontà dei privati e delle varie associazioni, fra cui naturalmente le Chiese. E altro grosso dubbio relativo ad una automatica moltiplicazione delle virtù sociali dei singoli su base emulativa.
Precisavo inoltre che le sue tesi, abbastanza circonvolute, erano di fatto quelle sorte quaranta o cinquant’anni fa negli ambiti liberal – perché non si tratta di affibbiare etichette, ma di chiamare le cose col loro nome.
Trovavo infine la frase “I migliori hanno sempre trovato lavoro” – che naturalmente ha varie implicazioni, da “Se uno non trova lavoro è un “peggiore””, a “Che i peggiori si arrangino, ci penseranno le dame di San Vincenzo a fornirgli un pasto caldo” – 1) di un cinismo rivoltante, 2) di rara miopia politica.
E via di seguito fino agli ispirati discorsi sui comportamenti animali.
Infine: se uno, pensando con la propria testa, arriva a conclusioni che assomigliano a quelle di Salvini, vuol dire che la sua testa assomiglia a quella di Salvini. Niente da dire, per l’amor del cielo. Ma che sia chiaro.
@ Rita Simonitto
” E ciò vale per chiunque pensi con la propria testa e arrivi a considerazioni che possono assomigliare a quelle di Salvini: automaticamente viene etichettato di ‘destra’ e dove ‘destra’ è equiparata a ‘infame’ (ancora un giudizio morale e non di contenuto).”
Lungi da me l’equiparazione destra/infame. Prima di parlare, nell’ultimo commento rivolto a Luciano, di “monologhi liberal-destrorsi da ex- Psiup, quaderni rossi, ecc.”, ho motivato nel post “Aguzzi, Fischer, Grammann” il mio dissenso, che è sia morale che politico. E sicuramente soggettivo.
Visto che siamo all’esame di testi letterari, propongo un apologo:
Il manovale e mia cugina (Un fatto vero)
Mia cugina, che ha avuto la grossa sfiga di sposare un migliore – uno di quelli che si son fatti da sé e fanno frullare l’economia – non fa mai la spesa in paese. Si reca oltre il ponte, nel primo borgo del parmigiano, che per essere nel parmigiano è più nobile.
Un giorno dunque che strisciava il visone extra-long sui marciapiedi del parmigiano (un portamento da zarina, mia cugina), un manovale che per caso si trovava a lavorare alla strada scoreggiò rumorosamente e voluttuosamente al suo passaggio. Ovviamente perché era digiuno di etologia. Così infatti interpretò mia cugina. Disse, ingoiando l’affronto, che da sempre e sotto tutti i cieli sono esistiti i ricchi e i meno abbienti. Ma che in passato i meno abbienti non si comportavano così.
Poi andò alla riunione dei Lyons a occuparsi di beneficenza.
@ Elena Grammann
“Infine: se uno, pensando con la propria testa, arriva a conclusioni che assomigliano a quelle di Salvini, vuol dire che la sua testa assomiglia a quella di Salvini. Niente da dire, per l’amor del cielo. Ma che sia chiaro.”
Gentile Elena, la ringrazio per la grande illuminazione che mi ha dato e a cui non ci ero arrivata in tanti anni (ne ho parecchi sul groppone) di onorata (spero!) vita.
Solo che mi apre un problema, anzi, un dilemma (che, per sua natura è di difficile soluzione): infatti, a volte, pensando con la mia testa, arrivo a conclusioni che assomigliano a quelli di Renzi. Allora la mia testa assomiglia a quella di Renzi? E la mia testa che assomiglia a quella di Salvini dove la metto? Va bene che si chiamano Matteo tutti e due, ma è sufficiente a tranquillizzarmi su questa spaventosa scissione?
Chi sono allora io? Quale è la mia testa?
Mi aiuti, per favore! Non lanci il sasso e poi nasconda la mano.
Con gratitudine.
“Non lanci il sasso e poi nasconda la mano.”
Non lo farei mai. Lei saprà benissimo, non sono certo io che glielo devo dire, che in una testa ci sono molte teste e un io molti “io”. Per cui in effetti capita che talvolta si assomigli a qualcuno e talvolta a qualcun altro. Questo, peraltro, è un antidoto sicuro contro l’ideologia. Tuttavia, politicamente parlando, e non intendo per la vita ma per un certo, congruo periodo, bisogna decidere a quale delle proprie innumerevoli teste si vuole aderire. Ora, se uno in uno spazio pubblico, sostiene la sua testa simil-Salvini, vuol dire che, almeno per il momento, per quella si è deciso.
@ Rita Simonitto. No Rita, l’ideologia non è un pacco di contenuti -anche se sbocca in quel mucchietto- ma una lettura per categorie, strumenti, operativa per dir così. È questo a priori che le dà la sua unità di base, che raccoglie poi altri elementi.
Quali poi siano le categorie all’opera, questo è appunto quel rimando alla vita umana che consente, consentirebbe, il confronto tra ideologie. Ma qui si va a radici complesse, di cui tu sei esperta.
@ Cristiana, Elena e Ennio
A tutti un grazie per le significative precisazioni.
Rita S.
Luciano Aguzzi è divertente, sistema le cose in poco tempo e non si fa sviare né a destra né a sinistra. Riconosce la “cattiva filosofia”, che è quella che insiste a “mescolare” realtà e pensiero, mentre sarebbe ora di una analisi oggettiva, e individua anche i colpevoli: Marx e Lenin, ma sopra tutto la dialettica. Credo abbia un paio di paragrafi del benedetto manuale di Dal Prà sottolineati in rosso, o blu, da molti anni.
È divertente e raffinato, Aguzzi, quando confonde “essere positivo” – anglicismo un poco becero – con “positivismo” e conia nuovi termini (e tutto da solo!) come “favolistico”, perché, come tutti sanno, non esistono i corvi e fratelli al massimo si può esserlo essendo nati dagli stessi genitori.
Mi interessa molto la sua “logica dei fatti”, e non mi azzardo a suggerire di guardare due pagine della Scienza della Logica, ma volesse, per evitare reazioni allergiche, passare per Durkheim e Weber andrebbe bene lo stesso. Il suo “realismo” è affascinante, proprio perché è il suo, e nessuno glielo può togliere: neanche la realtà.
Decade un po’, è vero, quando contrappone “essere” e “dover essere”, come se Hegel l’avesse letto, ma si riprende subito dopo con la scoperta secondo la quale “l’utopia è negativa, perché è un ideale senza progetto”; mi piacerebbe che il sottile Aguzzi spiegasse come i libri della Repubblica di Platone, per partir dal principio, siano “utopia negativa”, ma capisco che in tutta quella dialettica uno ci si confonda e preferisca tornare al sano realismo del “per lo più”.
Un poco mi stupisce la “logica dei fatti”, concetto un poco troppo metafisico per un positivista ferreo come Aguzzi, ma non dispero possa chiarire con la logica dei fatti le contraddizioni e i dubbi che abbiamo noi sopra il linguaggio, la società, l’economia, l’arte, la religione, l’ideologia, il sesso, e da che parte vada imburrato il pane, e se prima o dopo averlo messo a scaldare.
Luciano Aguzzi ha un repertorio così ampio da non farsi mai mancare la battuta: “un pensiero più razionale e meno mitologico” straccia un paio di secoli di studi antropologici, ma in cambio è chiara e distinta (nel caso la citazione la spiego più tardi).
Non è mai troppo tardi, e così ho imparato, sempre da Aguzzi, che “gli autori ispirati dall’ideologia” svolgono critiche complessive. Come si faccia a “essere ispirati”, o “non ispirati” è lo stesso, dall’ideologia rimane per me ancora un mistero, ma almeno ho appreso che la critica non deve mai rivolgersi al meccanismo complessivo, alla struttura, al tutto insomma, ma solo a singole parti, e possibilmente che stiano bene insieme.
Va bene; ho perso la matita blu e anche quella rossa, l’astio per l’ideologia no.
Simpatico. Soprattutto perché si diverte, beato lui. Tristitia abundat in ore stultorum, oppure no, non mi ricordo.
MERITEVOLI, COMPETENTI, DRAGHI, INSOMMA!
Segnalazione da FB
Stefano G. Azzarà
Draghi e l'”epistocrazia”, ovvero il governo dei competenti
Da “Il virus dell’Occidente”
“… È la proposta di un rilancio in grande stile di quella spinta a una ridefinizione in chiave bonapartista delle istituzioni liberali che si è incrociata con la fine della democrazia moderna, secondo una linea di tendenza che Domenico Losurdo aveva individuato già negli anni Novanta . E nella quale, più di recente, la concentrazione del potere viene appoggiata per lo più alla costruzione di forme di legittimazione tecnocratico-scientifiche o epistocratiche , come vedremo presto, al fine di aggirare quella che in democrazia dovrebbe essere la fonte di legittimazione principale, ovvero la rappresentanza e gli organismi che dovrebbero garantirla (il parlamento in primo luogo). Ed è un discorso che Panebianco ha espresso in un’altra occasione in questi termini: nell’emergenza, la politica si è affidata ai medici e agli epidemiologi; verrà presto il momento in cui essa dovrà riprendersi ciò che le spetta e cioè l’onere della solita «decisione» . Ma siccome, come sappiamo, «coloro che fanno parte della classe politica sono stati indottrinati contro il mercato fin da quando andavano a scuola» e sono «nemici della società industriale», non è possibile affidare completamente ad essi «la massiccia immissione di denaro che deve alleviare gli effetti dell’attuale blocco delle attività produttive», perché la dedicherebbero molto probabilmente a «scopi improduttivi», in modo da dare soddisfazione a tutte le proteste che arrivano dal basso fino a fare del paese un «Venezuela». Troppo sensibili per definizione alle richieste popolari, i politici devono perciò essere accompagnati da una sorta di tutore permanente o da un ceto di tutori permanenti che faccia loro sistematicamente presenti le istanze dei veri mandanti dell’azione di governo e cioè dei detentori del potere reale e degli azionisti principali della proprietà nazionale. I tecnici a cui affidarsi dovranno essere perciò «esperti indicati dalle principali categorie produttive, economisti con una autentica conoscenza della struttura occupazionale del paese e del sistema produttivo, specialisti dell’amministrazione che indichino le strategie per superare lacci e inefficienze burocratiche»: l’iniziale rivendicazione dell’autonomia della politica si rovescia così nel giro di pochi capoversi nell’affermazione della necessità di una direzione interamente privata degli affari pubblici garantita da tanti cloni dello stesso Panebianco…”.
P.S.
Ricordo che il principale teorico dell’epistocrazia in Italia, Sabino Cassese, è anche il principale riferimento intellettuale di Renzi e del Giglio Magico.
Niente di nuovo. Sempre stati organi di in-formazione per l’accarezzamento dei lavoratori.
Ma, anche se i lavoratori sono decimati (e amputati atrofizzati) finora “non ci credono” nelle loro varie forme. Io mi fido, accidenti.
“Io mi fido, accidenti.”….dei draghi o dei lavoratori?
Dei lavoratori, of course. O dobbiamo aspettarci che siano gli altri a soddisfarci?
Ma la lotta di classe è in soffitta?
Rispetto a una gestione ordinovista dei nostri industriali pubblici e privati sottomessi, Draghi slatentizza il quadro. Poi tocca a noi. Mi pare così evidente!