di Daniele Cesaretti
Il bombice del gelso Sono un bombice del gelso faccio tanta seta costruisco un letto dove addormentarmi felice tra i lucenti filamenti e i miei riposi setati, ti faccio molto. Sono un bombice gelsato sogno di diventare la tua falena alata, ma ancora striscio nei rugosi rami tra un rivolo di more e un cielo glassato di zucchero a velo. Il tuo bombice del gelso dal minuto bozzolo cerato e setato, un lepidottero, come mi chiamano nei libri, io, invece, chiamo te mia flautata, tenera, foglia venata, sei vita. primo febbraio 2021 Mitosi Avere il piacere, dunque, di guardare quelle mani che si muovono, fanno qualcosa, magari ti struccano composte o ripongono il cellulare in modalità aereo sul comodino, scostano la suola del tacco dalla pianta del piede, o lavano il viso appena struccato. Forse quelle mani ora ricevono tra i palmi le tue tempie, portano indietro i capelli finiti davanti alla vista, sostengono un libro, leggendolo al posto dei tuoi occhi stanchi. Quelle mani, che si alzano nuove nel giorno bambino, spezzano un biscotto e lavorano, fanno qualcosa, tritano la cipolla cruda sopra il tagliere di legno e stringono la manciata di spaghetti, la gettano nella casseruola cocente. Quelle mani, da capo ripetono, strappano via il peso del fare, gettano scontrini scaduti accoppiati alle mie lettere, quelle mani, finalmente, ti rendono libera. 28 gennaio 2021 Il mestiere di coltivare Ricordi, o dolce, quando io piantavo speranze per sfamare la nostra giocondità e tu disboscavi promesse: i tuoi stessi prelibati frutti, disseccavi tenere terre, assetate, invereconde, dove avremmo germogliato. Una timida gemma pralinata, coccolata dalla brina fresca nel gelido mattutino crescere del giorno, nato breve, il sussultare d’una piantina che cercava il suo posto squarciando le zollette lavorate, era difendibile con la dolcezza d’un infinito raggio assolato. Uno scempio della natura mal cacato nel freddo di gennaio, questo siamo stati. gennaio 2021 Il giorno prima Serenità, tu che per sempre riposi sotto la ghiaia umida, battono fuori le tue gesta in coloro che si cercano ancora nel verde degli oleandri o in una casa diroccata vinta dall’edera bagnata, attraverso il lucido riflesso della notte che impera con tanta equità mai vista, distribuendo le passioni là, dove ricacciano i chiari gelsi, brucio nascoste occasioni; l’anima tanto si rattrista sopra le vigne calme e spruzzate già di solitudine, quell’abbraccio strozzato e malnutrito nel mattino, solo un lungo addio poteva tanta forza avere ancora.
Daniele Cesaretti è laureato in lettere e filosofia indirizzo Dams. Da quasi sette anni è responsabile tecnico del Teatro Pietro Mascagni di Chiusi (SI) e prima è stato attore. Oltre ad essere tastierista e bassista e ad occuparsi di musica elettronica è consigliere comunale con delega alla Cultura.
Piccole realtà vive della natura, con uno sguardo introspettivo alla Francis Ponge, semplici gesti del quotidiano, animazioni sottotraccia che si riflettono nell’agire umano, in un simbiotico respiro, qualche riflessione dolce-amara. Componenti di una poesia delicata e, nel contempo, espressiva.
esserci e sfasciarsi delle cose, e delle relazioni e dell’interloquire.
scrittura affettuosa, nitida, che corrisponde, non velleitaria.
un andamento, diciamo così nel senso nobile della parola, sanamente postcrepuscolare.
Quattro poesie – tutte scritte nel mese di gennaio, in risposta, si immagina, a un’urgenza.
Le prime tre ci offrono metafore e similitudini dal regno animale e vegetale, ma in un registro embrionale, biologico: la larva del bombyx mori nel bozzolo; una mitosi; la cura, o meglio non-cura, di un germoglio. Nella quarta, la realtà di una vegetazione matura (“nel verde degli oleandri”, “edera bagnata”, “chiari gelsi”) è accostata a un bruciare di nascoste occasioni e chiude su un’anima che “tanto si rattrista/sopra le vigne calme/e spruzzate già di solitudine”. L’ “abbraccio/strozzato e malnutrito nel mattino” riceve, antifrasticamente, la sua forza da “un lungo addio”.
Esaminandole più da vicino, il bombice del gelso, col quale il poeta si identifica, si costruisce un morbido letto di seta, sogna di diventare “la tua falena alata” ma è ancora bruco fra i rami e chiama lei “tenera foglia venata” e “vita” – a ragione poiché se ne nutre golosamente.
Mitosi indica uno sdoppiamento e una separazione. Allo sdoppiamento di un identico (speculare) alludono le mani, che assicurano a chi le guarda, a chi ne è circondato, una ovvietà del quotidiano che è come un bozzolo. Ora però sembrerebbe che le mani non siano più lì: “Forse quelle mani ora/ricevono tra i palmi le tue tempie…”. Alla mitosi come sdoppiamento tranquillizzante segue la mitosi come separazione proprio attraverso le mani che “gettano scontrini scaduti/accoppiati alle mie lettere” e liberano la donna a cui appartengono.
Il mestiere di coltivare ha tutta l’aria di un titolo antifrastico, se è vero che il poeta “piantava speranze” e l’altra, la donna, “disboscava promesse”, “disseccava tenere terre”. Solo lì, comunque, essi potevano germogliare, senonché la piantina avrebbe avuto bisogno della “dolcezza/d’un infinito raggio assolato” che, si capisce, è mancato. Da qui la chiusa di realistica amarezza: non germogli che maturano in una naturale (?) ovvietà, ma “uno scempio della natura/mal cacato nel freddo di gennaio,/questo siamo stati.”
La forza non appartiene all’abbraccio ma al “lungo addio”. L’abbraccio, come finalità ideale, rimane a “coloro che si cercano/ancora”, forse come occasione da bruciare. Accettazione di un narcisismo ineliminabile, che sfocia in una quasi-serenità obbligata.
…le poesie di Daniele Cesaretti mi suggeriscono l’idea di quattro quadri di un’unica sinfonia, che nasce intima e calda nel segno di un sogno di felicità del bombice del gelso…Cresce poi musicalmente in “Mitosi”, seguendo il movimento di due mani, quelle di un direttore d’orchestra, che compongono e scompongono in molteplici forme e gesti una trama vitale. Proseguendo pero’, nel gelo dell’inverno, “Il mestiere di coltivare” si fa arduo e la piantina nata in un sussulto di vita, non raggiunto dalla “::dolcezza/ d’un infinito raggio assolato.” sfiorisce…La serenità sembra ormai qualcosa di pietrificato al giorno prima. Sepolta nei ricordi di un amore, che ritorna nei luoghi e nelle forme ormai trascorsi, ma nello strascico doloroso di un lungo addio che non si dà pace…