di Davide Morelli
Ci sono tre modi per combattere e vincere la noia: fare le stesse cose in modo diverso, fare cose nuove, cambiare il rapporto tra la propria coscienza e le cose. Cercare di analizzare questo terzo modo significa scandagliare l’insondabile. E’ quello che Moravia fa nel suo romanzo-saggio: l’analisi dell’ontologia della noia. Come ha rilevato la critica, Moravia scrive in “prima persona intellettuale”: l’io narrante è lo stesso autore. Moravia inizia questo viaggio metafisico interminabile con quella che nell’epilogo definirà “un’ambizione insostenibile”. Nel primo capitolo il protagonista confessa che si annoia sin dall’adolescenza. Addirittura una volta ha cercato di interpretare la storia universale sulla base della noia. La noia è dovuta ad una mancata conciliazione tra la coscienza ed il desiderio. Flaiano diceva che per essere felici bisogna desiderare quello che si ha. Ma -ahimè- è cosa ardua, dato che, raggiunto un obiettivo, posseduto un oggetto, il nostro desiderio si sposta e si proietta verso altre mete. Moravia vuole smontare questo meccanismo, cercare di carpirne le leggi. Vuole scoprire un modo per chiamarsi fuori da questo circolo vizioso. Moravia nel corso della narrazione ci dà molteplici definizioni della noia. Me le sono annotate: “la noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità nei confronti della realtà”, “una malattia degli oggetti”, “incapacità di uscire da me stesso”, “malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti”, “specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarrisce”. Per analizzare la noia Moravia abbandona qualsiasi tipo di sovrastrutture e qualsiasi tipo di schemi precostituiti: niente Marx, niente Freud e nessun altro maestro di pensiero che se stesso. Le sue considerazioni sono del tutto personali: dall’inizio alla fine del romanzo. Il pittore protagonista, dopo aver distrutto a coltellate un quadro, smette di dipingere. Fino ad allora dipingeva per cercare di instaurare un rapporto autentico con la realtà. Incontra Cecilia, la modella dell’anziano pittore Balestrieri, suo vicino di casa. Successivamente verrà a sapere che Balestrieri è morto, mentre stava facendo l’amore con Cecilia. Essendo un dongiovanni Balestrieri, il protagonista si chiede che cosa mai avesse Cecilia per aver fissato il desiderio nell’ultimo periodo della sua vita unicamente su di lei. Cecilia diventa quindi lo strumento per analizzare la noia. Il protagonista Dino ne diventa l’amante; però a questo punto scopre che non ha niente di speciale. Non sa baciare. Nel dialogo tra il protagonista e la ragazza regna l’incomunicabilità. Nelle conversazioni tra i due le risposte della ragazza sono sempre superficiali ed evasive: non lo so, uffa, non ti capisco, non ho niente da dire, non saprei, niente, etc etc (queste espressioni sono ricorrenti nelle sue risposte). Il protagonista si chiede se è lei ad essere noiosa o è lui che si annoia. Ma il viaggio metafisico continua. Cecilia ormai è il simbolo della realtà, tant’è che Moravia scrive: “volevo ignorare e conoscere Cecilia, ossia la realtà”. Il tentativo che compie il protagonista è quello di disfarsi totalmente della realtà. Cerca di farlo prima con ripetuti ed ossessivi possessi fisici, pensando che questo possa portare alla fine al possesso mentale su Cecilia e di conseguenza sulla realtà. Ma nonostante i numerosi amplessi il protagonista si accorge che talvolta Cecilia è altrove, in certi momenti addirittura chiude gli occhi: si estranea, è distante. Allo stesso modo gli oggetti per quanto possono essere comprati ed essere posseduti (usati e logorati), rimarranno sempre per ogni uomo circondati da un alone di mistero e di impenetrabilità. A questo proposito mi vengono in mente i versi di una poesia breve di Auden: “Tavoli e sedie e sofà di casa/ sanno cose di noi/ che i nostri amanti ignorano”. Inoltre Borges a riguardo scrive: “Quante cose: atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi; ci servono come taciti schiavi senza sguardo, stranamente segrete. Dureranno più in là del nostro oblio, non sapranno mai che ce ne siamo andati.” Il possesso insomma ha i suoi limiti sia con gli oggetti che con le persone: è un vicolo senza uscita. Allora il protagonista per distruggere “l’autonomia e il mistero” di Cecilia (ed anche della realtà) utilizza il moralismo, ossia giudicarla significa possederla e disfarsene. Allora indaga sui rapporti tra la ragazza e l’attore Luciani. La pedina, la spia. Ma qui il discorso si complica. Fino a quando Dino riteneva che Cecilia fosse innamorata di lui la relazione era scontata. Quando invece si accorge che la ragazza non lo ama, allora il desiderio di lei aumenta. Si comporta come se fosse un innamorato geloso. In un certo senso è geloso: la sua però non è una gelosia dovuta ad angoscia di separazione, ma è una gelosia determinata soltanto dal possesso esclusivo che credeva di avere nei confronti della ragazza. Deve ancora tentare altre strade, come quella della mercificazione (Cecilia diventa Danae…stessa mitologia de “La vita interiore”). Ma Cecilia non accetta la proposta di matrimonio né di instaurare un rapporto puramente mercenario. E’ ancora una volta autonoma e lo dimostra andando a Ponza con l’altro suo amante Luciani. Il protagonista ha l’incidente in macchina. Dopo l’incidente ha la rinascita e trova il modo per chiamarsi fuori dal meccanismo del desiderio inconciliabile (dato che l’animo umano è insaziabile): ecco la contemplazione disinteressata dell’albero. Può così finalmente “amare in modo nuovo Cecilia” e questo vuol dire ” ricominciare a dipingere”.
Ma ora vorrei lasciare il romanzo di Moravia e fare delle considerazioni a largo raggio.
La presenza del desiderio è la dimostrazione che non siamo monadi isolate, che nessuno è un’entità a sé stante. Necessitiamo dell’alterità, dell’altro da noi. Ci sarà sempre una parte di noi, anche una minuscola regione subcosciente, che brama qualcosa che è altro da noi: oggetto o persona, talvolta ridotta ad oggetto. Per non rendere ancora più equivoco il concetto di desiderio dovremmo attuare una netta distinzione tra questo e l’aspirazione (altrimenti finiremo in un ginepraio): aspirare all’uguaglianza, alla libertà, alla prosperità di tutti sono sentimenti più nobili e più alti dell’impulso che muove il semplice desiderio rivolto ad un oggetto o ad una persona. Se così non facessimo dovremmo trattare del legame tra desiderio e valore e ciò implicherebbe necessariamente valutare che un valore è difficilmente classificabile e che talvolta questo nasce da una problematica di carattere generale, talvolta è una norma o un codice morale. Finiremo inevitabilmente per trattare di soggettivismo e di relativismo di valori e non finiremo più. Diciamo piuttosto che concordiamo con chi ritiene che il valore sia “un fine desiderabile”, ma noi tratteremo solo di desideri superficiali e semplici, che hanno oggetti del desiderio definiti. E’ un’impresa ardua giungere ad una fenomenologia del desiderio. Non mi risulta che qualche filosofo sia riuscito a dare una definizione esaustiva. Il desiderio, infatti, si confonde con la memoria. Memoria e desiderio attingono sia dal mondo sensibile che dall’immaginazione. Memoria, desiderio, immaginazione, realtà: si finisce quindi in un circolo vizioso della ragione. Ad intuito possiamo ritenere – semplificando un po’- che il desiderio si situi tra vedere e pensare, tra soggetto ed oggetto, tra reale e immaginario, tra fatto e rappresentazione mentale, tra dimensione intrapsichica e dimensione intersoggettiva, tra assenza e possesso, tra essere e poter-essere. La scienza al momento non ci fornisce ragguagli. Non mi risulta neanche che qualche neuropsicologo sia mai riuscito a stabilire scientificamente la struttura o il processo, che determinano il desiderio. Insomma, brancoliamo nel buio. L’etica e la morale pongono dei limiti e dei freni al nostro desiderio. Ma non vorrei dilungarmi oltre riguardo alla genealogia della morale. Perfino i nostri stessi sogni risentono di una censura psichica, che sposta e condensa. I sogni non sempre hanno un contenuto manifesto, ma possono rivelare i nostri desideri repressi, trasformati dal lavoro onirico. Grazie a Nietzsche e a Freud abbiamo appreso qualche informazione utile su desiderio, morale e sogno. Per le religioni orientali l’uomo per eliminare la sofferenza deve eliminare il desiderio e annichilire l’io. Deve acquisire la consapevolezza che ciò che desidera è effimero, è pura illusione. Semplificando potremmo affermare che viene svalutato sia il soggetto che l’oggetto del desiderio. In Oriente il desiderio è considerato un fattore limitante per la libertà umana. Ma per noi occidentali è sinonimo di libertà. Noi occidentali lo consideriamo come inesauribile e ineludibile. Noi occidentali abbiamo anche cercato nel corso dei secoli di conciliarci con il desiderio. Gli stoici ad esempio cercarono di dominare le passioni. Flaiano sosteneva che bisognava desiderare ciò che si aveva. Ottimo aforisma, che però non contiene altro che un imperativo categorico irrealizzabile. Si desidera solo ciò che non si è mai avuto o ciò che si è avuto e si è perduto. L’orizzonte del desiderio comprende solo l’assenza e la perdita. Desiderare in fondo significa volere il possesso e/o la presenza di una determinata cosa o persona. Una volta raggiunto l’obiettivo, nella maggioranza dei casi diminuisce (a volte addirittura scompare) il desiderio e subentra l’abitudine, la noia, l’incomunicabilità (se si tratta di una persona). E’ difficile rinnovare continuamente il desiderio verso lo stesso oggetto o la stessa persona. Il desiderio è dovuto molto spesso alla novità o ad una separazione non ancora elaborata. Probabilmente nasce da un impasto di realtà e immaginazione e tende a diminuire (e spesso a scomparire) quando il desiderante instaura una relazione con il proprio oggetto del desiderio. Esiste quindi una relazione di inversa proporzionalità tra desiderare ed avere quell’oggetto del desiderio. Una persona poi – una volta ottenuto ciò che desiderava – continua a desiderare ancora: non è mai paga. Un racconto sufi è un’ottima metafora del desiderio incessante dell’uomo. Narra di un mendicante, che chiede ad un imperatore di riempire la sua ciotola. Ma l’impresa si rivela impossibile perché il mendicante aveva adibito a ciotola il teschio di un uomo. Infatti, era impossibile riempire quel cranio perché voleva sempre di più. L’avere implica riflettere sui limiti del rapporto tra noi e l’oggetto posseduto. Il desiderare, invece, ci porta a meditare su uno dei maggiori problemi della filosofia: le nostre rappresentazioni mentali della realtà non sempre coincidono con la realtà stessa. In parole più povere a tutti può accadere di essere vittime di un desiderio non realistico o addirittura irrealizzabile. Il desiderare implica necessariamente anche ricercare una spiegazione della ragione per cui abbiamo scelto quel determinato oggetto del desiderio. Spesso si desidera ciò che è bello. Quindi noi abbiamo selezionato tra i tanti quell’oggetto del desiderio perché soddisfa certi canoni e criteri estetici individuali e/o collettivi. Ma potremmo anche aver scelto il nostro oggetto del desiderio perché ci è utile, ci dà piacere o provoca in noi uno stato di benessere interiore.
Direi quindi che nella maggior parte dei casi il desiderio cessa con il possesso. Il possesso è spesso la morte del desiderio. E questo non accade solo e soltanto con gli oggetti, che un tempo ambiti finiscono spesso per essere dimenticati in un angolo remoto della casa, ma anche in quel che chiamano amore. La donna desiderata una volta, diventata moglie non è più desiderabile quanto prima. L’eros diventa allora una formalità da sbrigare o talvolta un’esigenza fisiologica da soddisfare. Diventa solo una pulsione sessuale da completare per ripristinare l’equilibrio. L’abitudine soggioga allora la passione. E’ un problema che l’uomo si porta nell’animo dalla notte dei tempi quello del riuscire a conciliarsi con il proprio desiderio. E’ sempre accaduto che l’uomo cercasse di appropriarsi di più oggetti possibili per avidità e per vanità. In entrambi i casi però gli oggetti devono considerarsi come protesi mal riuscite del proprio ego o come tentativo goffo di rafforzarlo. Freud parlava di principio di realtà. Secondo il celebre psicanalista viennese nei soggetti maturi il principio di piacere deve sempre essere supervisionato dal principio di realtà. Ciò assicurerebbe dei limiti alle frustrazioni che potrebbero derivare nel prefiggersi degli obiettivi irraggiungibili per l’individuo. Nonostante il principio di realtà freudiano che esamina le nostre aspirazioni e le nostre mete, la noia di ciò che abbiamo e di ciò che possediamo è sempre in agguato. Il rapporto con gli stessi oggetti familiari ci annoia. Eppure abbiamo una contraddizione interna riguardo agli oggetti, ancora più accentuata da questa epoca consumistica: desideriamo gli oggetti, li andiamo a visionare nei negozi, ci facciamo prendere dall’istinto di acquisizione o da qualcosa del genere, li compriamo, ci sentiamo rassicurati perché avremo qualcosa di nuovo a cui dedicare attenzione per i prossimi giorni, facciamo in modo che gli oggetti occupino sempre più gli spazi vuoti della nostra casa, come se invece degli spazi vuoti della nostra abitazione potessero riempire gli spazi vuoti del nostro animo, il nostro senso di solitudine. Alcune persone hanno un bisogno compulsivo di fare shopping. A costo di lasciare debiti devono fare acquisti. Comprano libri che non leggeranno mai, dischi che non ascolteranno mai, oggetti che non hanno per loro nessuna utilità pratica né nessuna utilità. Eppure sono momentaneamente appagati. Il guaio è che il giorno dopo sono punto e daccapo. Come se non bastasse si è consumatori non solo perché compriamo continuamente secondo i nostri bisogni reali, i nostri desideri ed i dettami della pubblicità, ma anche perché i prodotti hanno vita breve e sono stati studiati per rompersi a breve termine. Si chiama obsolescenza programmata. Nel giro di poco tempo gli oggetti comprati si rompono e quindi siamo costretti a portare ad aggiustare o a ricomprare. Quanto dura uno stereo, un computer, un’automobile? Ogni quanto le portiamo ad aggiustare? Ogni quanto li ricompriamo perché non vanno più? I prodotti sono fatti perché si rompano nel giro di pochi anni, altrimenti tutto il sistema produttivo andrebbe in crisi. Se il problema di conciliarsi con il proprio desiderio è un problema antico per l’umanità, a mio avviso questa società lo ha aumentato esponenzialmente, dato che l’industria (avvalendosi del marketing e della pubblicità) cerca continuamente di creare nuovi bisogni. Viene allora da interrogarsi su quale significato dare alla parola bisogno, perché secondo alcuni questa muta al mutare del contesto storico, sociale, civile, scientifico. Qualche decennio fa non era necessario il bagno nelle case, mentre oggi nessuno ne farebbe a meno e nessuno andrebbe ad evacuare quotidianamente nel campo vicino a casa. Oggi viene considerato necessario possedere un cellulare, quando fino a pochi anni tutti vivevano senza. Alcuni studiosi sostengono che si tratta in ogni caso di bisogni: prima i bisogni era fisici, oggi invece bisogna rilevare un aumento dei bisogni psicologici. A mio avviso invece il rischio della società odierna è quello di confondere i bisogni primari con le comodità ed i comfort. Marx parlava di creazione di falsi bisogni nella società capitalistica. La pubblicità cerca continuamente (e spesso ci riesce) di convertire le comodità in bisogni primari o quantomeno vuole che i comfort acquistino nell’ordine simbolico dei consumatori la stessa valenza dei bisogni primari. Con questo non voglio essere apocalittico, non voglio configurare scenari inquietanti; è sufficiente solo avere presente la netta linea di demarcazione tra bisogno e comodità. Anni fa effettuando un blind test [i] i ricercatori scoprirono che per la maggior parte delle persone la Pepsi era più buona della Coca-Cola. Il dottor Montague scoprì, studiando l’attività cerebrale di 67 soggetti, che quando le persone vedevano ciò che bevevano allora ritenevano più buona la Coca-Cola. Quest’ultima era la più venduta e considerata la più buona perché nelle pubblicità aveva associato il proprio marchio ad immagini di felicità. Questo è uno degli esperimenti di neuromarketing più famosi. Ci sono già le suggestioni dei singoli individui che possono essere potenti. Immaginiamoci i condizionamenti dei mass media e la pressione esercitata dal conformismo! La merce comunque è sempre più una “astrazione”. Si pensi a quanto valore aggiunto può dare un marchio, al di là del costo effettivo del prodotto. Si pensi a tanti vestiti, prodotti a basso costo nel terzo mondo, che poi diventano costosi perché i loro marchi sono famosi e ritenuti esclusivi. In definitiva abbiamo la crisi dell’oggetto, la crisi del soggetto e la crisi del rapporto tra oggetto e soggetto a causa di questo tipo di società.
A questo riguardo è significativo un racconto di Moravia, intitolato “Palocco”. Un’infermiera a domicilio supplisce alle proprie carenze affettive idolatrando un cane di nome Palocco, che viene investito ed ucciso da una macchina. Da allora la donna considera Palocco una sorta di spirito guida, un’entità astratta con cui parlare quando è da sola a casa. In realtà Palocco non è altro che una proiezione psichica della donna, una parte di se stessa, che ad esempio le vieta di convincere il signor Gesualdo a comprarle una pelliccia ecologica, che ha sognato. In questo racconto scabro, scarno ed essenziale di Moravia viene rappresentata in modo efficace la dinamica del desiderio della protagonista in contrasto con il suo senso di solitudine e la sua crisi psicologica. Non c’è solo la crisi del rapporto tra soggetto ed oggetto, c’è anche la crisi del soggetto. La donna ingenuamente cerca di stringere un patto con il signor Gesualdo ed un suo amico per avere la pelliccia, ma dopo una discussione capisce che per averla deve umiliarsi di fronte a loro, deve fingere di essere un cane. Deve quindi snaturarsi per avere l’oggetto del proprio desiderio. Ma istintivamente – questione di un attimo – capisce che non può snaturarsi e fingere di essere un animale e scappa via. Moravia tramite un caso-limite, una situazione paradossale evidenzia una condizione sempre più frequente dell’essere umano in questo tipo di società, e cioè di chi si snatura a costo di perdere la propria identità per avere degli oggetti. Ma forse nel fondo della propria interiorità resta un residuo di ragionevolezza…
Nota
[i] Assaggio di prodotti alimentari privati dell’etichetta o di altri contrassegni, allo scopo di valutarne la qualità senza essere influenzati dal marchio di produzione
Ringrazio di cuore Ennio Abate per la pubblicazione.
Per ragioni di sintesi nell’articolo non ho riportato alcuni brani del romanzo di Moravia. Lo faccio ora.
Moravia scrive nel romanzo: “Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà… insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva consistenza. Per esempio, può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualcosa di estraneo, col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne”.
Ed ancora è scritto: “Io ero certamente fallito, ma non già perché non sapessi dipingere dei quadri che piacevano agli altri; bensì perché sentivo che i miei quadri non mi consentivano di esprimermi, ossia di illudermi di avere un rapporto con le cose, cioè, in una parola sola, non mi impedivano di annoiarmi”.
Per ragioni di sintesi non ho accennato il legame tra Freud e Moravia. Non ho fatto nell’articolo una analogia tra Moravia e Marcuse. Lo faccio ora, mettendo altra carne al fuoco:
Consideriamo il rapporto tra Moravia e Freud. Per Dominique Fernandez in “Il romanzo italiano e la crisi della coscienza moderna” Freud va considerato un garante intellettuale di Moravia. Secondo la Fernandez Moravia si è incamminato da solo autonomamente sulle stesse tematiche, scandagliate da Freud. Moravia come Freud considera la sessualità un’esigenza dell’essere umano. Per il cattolicesimo invece il sesso è considerato un peccato. Moravia è freudiano anche nella sua concezione dell’amore. Per lo scrittore l’amore è come Freud un investimento oggettuale da parte di pulsioni sessuali, in vista di un puro ed immediato soddisfacimento sessuale. Per Freud nella mente di ogni individuo esistono tre istanze psichiche: Io, Es, Super-Ego. Ma questa struttura tripartita della mente ha una sua precisa cronologia secondo Freud. Alla nascita e nei primi anni di vita è presente solo l’Es. Successivamente si forma l’Io. Quindi per ultimo il Super-Ego (verso i 3-5 anni). La dottrina di Freud è stato spesso accusata di pansessualismo. Tutto dipende e scaturisce dal sesso. Per Freud la sessualità riveste un’importanza fondamentale nell’eziologia della nevrosi. Il disagio della civiltà dell’uomo moderno per Freud si gioca tutto sul rapporto tra esigenze naturali innate (quindi anche sessuali) e civiltà. Anche per Moravia tutto ha inizio dall’es. Anche Moravia mette in primo piano la libido nei suoi romanzi. Anche per Moravia libido e nevrosi sono strettamente connesse. Inoltre Freud non accenna nel suo lavoro a quelle che chiamiamo oggi subpersonalità e neanche Moravia lo fa nei suoi scritti.
“L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse compare in Italia nel 1967. E’ una delle opere preferite dai sessantottini. Il sociologo marxista Marcuse diventa uno dei maestri di pensiero del’68. Non riesco a capire come mai la critica letteraria non abbia mai rilevato non dico l’influenza diretta di Marcuse sul pensiero di Moravia, ma perlomeno dei richiami, delle somiglianze, delle analogie. Marcuse nel terzo capitolo de “L’uomo a una dimensione” tratta della DESUBLIMAZIONE REPRESSIVA, ovvero della desublimazione imposta dal Potere. In parole povere un popolo sublimante può cambiare le cose, può fare anche la rivoluzione. Un popolo desublimato invece non può niente. La desublimazione avviene nell’arte moderna ad esempio, con lo sfruttamento commerciale delle espressioni artistiche e con la fruizione semplicistica di grandi opere dei maestri di pensiero. Faccio un esempio dello sfruttamento commerciale dell’arte: mettere Mozart come sottofondo di una pubblicità, mettere le frasi dei poeti o gli aforismi dei letterati nei cioccolatini eccetera eccetera. Entrambi questi processi tolgono il carattere rivoluzionario delle opere artistiche. Ma esiste per Marcuse anche una desublimazione repressiva sessuale nella società. Intendiamoci bene: il piacere non è solo sessuale. Ci sono svariate fonti di piacere, di cui il sesso è la più popolare ed il più intenso. Altri piaceri sono: il vino, il fumo, il cibo, viaggiare, vedere film, leggere libri , etc, etc. Ma secondo Marcuse il Potere cerca di canalizzare tutta la libido dell’uomo moderno nella sessualità. La razionalità tecnologica ad esempio ha permesso all’uomo diverse comodità, però allo stesso tempo gli ha tolto il piacere del contatto con la natura. Marcuse fa un esempio preciso: nella società moderna i fidanzati o gli sposi fanno l’amore in macchina oppure in camera da letto. Non certo come nella società contadina, in cui potevano fare l’amore in un campo. Ma nel campo esisteva il contatto con la natura, nell’abitacolo di un automobile no. Marcuse scrive che nel caso del far l’amore in un prato “l’ambiente partecipa all’investimento libidico” e di conseguenza “la libido si effonde al di là delle zone erogene immediate, in un processo di sublimazione non repressivo”, nel caso del farlo in macchina no. La società industriale secondo Marcuse è più permissiva: il sesso viene permesso anche sul luogo di lavoro ad esempio, i richiami sessuali possono essere proposti anche in televisione. Secondo Marcuse anche i movimenti dei lavoratori nella catena di montaggio sono un richiamo al piacere genitale. Secondo Walker infatti “i movimenti ritmici interdipendenti” generano soddisfazione erotica. E Marcuse inoltre cita anche Sartre che ne “La ragione dialettica” scrive: “nei primi tempi delle macchine semiautomatiche, certe inchieste hanno mostrato che le operaie a cottimo si lasciavano andare, lavorando, a fantasticherie d’ordine sessuale, rivedevano nella mente la camera, il lume, la notte…..”. Però il piacere viene incanalato solo e soltanto verso la genitalità, di conseguenza la quantità di piacere è minore. Per dirla alla Brel esiste la passione (erotica), ma tra i due sessi è scomparsa la tenerezza. Il rafforzamento dell’erotismo inoltre secondo Marcuse causa una minore energia aggressiva: la coscienza infelice dell’uomo moderno sarebbe perciò fermata dall’attuazione della rivolta tramite questo processo di desublimazione repressiva. Allo stesso tempo per gli esseri umani di quest’epoca l’erotismo sarebbe l’unica fonte di piacere e l’unica valvola di sfogo. Ecco allora che al momento dell’amplesso l’uomo ci mette non solo il piacere, ma anche tutta la sua disperazione, la sua infelicità per come stanno le cose. L’orgasmo nella società consumistica è l’unica via di uscita per tutte le frustrazioni e le oppressioni subite. Ecco perchè ne “L’uomo che guarda” di Moravia le amanti del padre del protagonista sono capaci di “un coraggio diabolico”. Ecco perché gli amanti non lo fanno con delicatezza, con tenerezza, ma con violenza, brutalità, con istinto animalesco. Ecco perché nella stragrande maggioranza dei romanzi di Moravia i personaggi fanno spesso sesso in camere d’albergo, macchine, camere da letto, etc etc…..ma raramente in aperta campagna. Resta però da stabilire quale sia il rapporto tra Marcuse e Moravia. Sono arrivati alle stesse intuizioni da soli? Marcuse ha subito l’influenza di Moravia o viceversa? È una analogia forzata quella tra Moravia e Marcuse? Mi sono avventurato troppo? Tutto questo è da stabilire.
Più precisamente per Freud l’Io nelle primissime fasi di vita è solo “corporeo”.
Grazie per l’articolo e per i numerosi spunti di riflessione. Due pensieri:
“è sufficiente solo avere presente la netta linea di demarcazione tra bisogno e comodità.”
Obiettivo lodevole ma di difficile realizzazione – per i motivi ben esposti nell’articolo. E’ l’annoso problema del costringere la gente alla virtù.
Non ho letto La noia, ma la citazione che comincia ““Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà…” non fa pensare anche alla Nausea sartriana?
Grazie a lei prof. Elena per l’attenzione. È un piacere per me sapere che mi legge. Molto interessante la sua domanda.
“Moravia traduce in italiano il famoso capitolo di La nausea sulla ‘radice del castagno’ (atto di presunta nascita, nella storia della letteratura, dell’esistenzialismo), traduzione che compare con il titolo Le sei di sera nel secondo numero di “Quaderni internazionali – All’insegna della Medusa”, rivista diretta per Mondadori da Gianna Manzini (marzo 1946).” (R.de Ceccaty, Alberto Moravia, Bompiani, 2010).
Il legame perciò c’è. Forse un minimo di influsso c’è stato. Tuttavia mi sembra indipendente Moravia da Sartre. Il protagonista moraviano è forse più consapevole di quello de “La nausea”. Su Moravia ho già scritto abbastanza a mio modesto avviso. Vorrei ora spendere due parole su Sartre.
Ritengo sia interessante paragonare “La nausea” ad un racconto pubblicato un anno dopo, intitolato “Il muro”. Ne “La nausea” il protagonista Roquentin, dopo aver viaggiato per il mondo, si trova in una cittadina a fare ricerche storiche su un personaggio minore del settecento. Queste ricerche lo portano spesso alla Biblioteca dove conosce l’autodidatta, che si erudisce leggendo per ordine alfabetico gli autori. L’autodidatta è una figura importante del romanzo perché il suo atteggiamento nei confronti dell’umanità è agli antipodi di quello del protagonista. L’autodidatta dichiara di essere socialista e di amare l’umanità. Pur tuttavia gli ideali non trovano corrispondenza nella vita dell’uomo, che viene addirittura scoperto a molestare un ragazzo in biblioteca. Roquentin ha viaggiato per tutto il mondo. Ma se è vero che per Sartre alla nausea si può contrapporre solo l’avventura, è altrettanto vero che il protagonista guardandosi indietro si rende conto di aver avuto solo storie e non avventure. Da quattro anni si è lasciato con Anny, la sua donna, che nel frattempo è diventata una trasandata e depressa. Anny non gli interessa più, così come non gli interessano più le sue ricerche storiche. Mentre scrive questo capolavoro Sartre ha in mente la sua filosofia dell’ “uomo solo”. Ma quest’opera, strutturata come un romanzo poliziesco, è anche un feroce attacco alla borghesia. La nausea causa nel protagonista l’estraneità degli oggetti, la percezione distorte delle cose e della propria immagine. Non riesce nemmeno a conciliarsi con l’immagine che gli rimanda lo specchio: un uomo addirittura estraneo a se stesso. A mio avviso la nausea è dovuta principalmente alla illogicità dell’esistenza. Per dirla in termini esistenzialisti è determinata dal riconoscimento della “deiezione”, cioè dal fatto dell’essere gettati nel mondo senza saperne il motivo. Non solo, ma Sartre in questo suo capolavoro registra fedelmente lo scarto tra la richiesta chiarificatrice e classificatrice della logica umana e l’aspetto frammentario e dispersivo della realtà. Roquentin è sospeso tra solipsismo e scetticismo. Ma non ha certezze né riguardo al proprio modo di essere né riguardo al mondo esterno. Sartre svela sia la fallibilità della conoscenza interiore che la limitatezza e la pochezza dell’agire umano. Il rapporto tra protagonista ed esperienza non è però solo quello del divenire temporale, ma è anche quello della negazione di ogni forma di relazione tra simili. Mi viene in mente l’esistenzialismo positivo di E.Paci, filosofo oggi ormai dimenticato. Per Paci non è possibile essere soltanto idealisti(cioè prendere in esame solo “il pensiero per il pensiero”) né soltanto esistenzialisti(cioè considerare solo “l’esistenza per l’esistenza”), né avere soltanto dei presupposti etici(cioè considerare solo “il valore per i valori”). Bisogna invece attuare una sintesi tra queste tre sfere dell’universo umano. Sartre per tutto il romanzo analizza solo il pensiero e l’esistenza: è invece totalmente assente qualsiasi fondamento etico, che possa risollevare Roquentin. Il protagonista de “La nausea” non ha un ideale per vivere. Questa sarà poi l’unica ancora di salvezza secondo Sartre, che infatti successivamente scriverà in un suo saggio: “l’uomo è costantemente fuori di sé; solo progettandosi e perdendosi fuori di sé egli fa esistere l’uomo e , d’altra parte, solo perseguendo fini trascendenti”. Ma nel suo racconto “Il muro” Sartre fa sfoggio di un umorismo tragico, che era totalmente assente nel suo primo capolavoro. Qui il protagonista è un anarchico spagnolo, condannato a morte per le sue idee. Viene messo in una cella con altri due condannati e deve passare la notte più lunga della sua vita: all’alba lo fucileranno. La luce entra da alcuni spiragli e da piccola apertura sul soffitto, da cui si può intuire uno squarcio di cielo. Ma non ha più nessuna evocazione dal cielo. Ha la morte nell’anima, ma non ha paura di soffrire. Gli altri sono sempre l’inferno e la compassione lo disgusta. Oramai è preparato a morire perché passare tutta la notte ad aspettare la morte significa “vivere venti volte l’esecuzione”. Nonostante questo il protagonista ritiene che morire sia la cosa meno naturale del mondo. Non ha nemmeno più ideali. Dell’anarchia e della liberazione della Spagna non gli interessa più niente. Al mattino però gli danno un’opportunità: deve scegliere se essere fucilato o dire dov’è il suo amico Gris. Il protagonista sa che Griss si è nascosto in casa dei suoi cugini, ma nonostante questo preferisce morire. E prima di morire ha una trovata comica. Vuole gabbare i soldati, dicendo che Griss si trova al cimitero. Vuole immaginarsi la scena di quegli uomini in uniforme che corrono tra le tombe. Ma Griss ha abbandonato la casa dei cugini e si è rifugiato davvero al cimitero. Il protagonista ha salva la vita. Mi viene naturale paragonare la notte insonne che passa il protagonista de “La nausea” in un albergo di commessi viaggiatori e questa notte terribile, che passa il protagonista de “Il muro”. E’ questa la chiave di volta per capire il rovesciamento di prospettiva che Sartre attua in questo breve racconto. Ne “La nausea” il grande scrittore fa un’analisi minuziosa dei paradossi dell’esistenza, scrive una fenomenologia del disagio interiore. Il protagonista tuttavia ha libertà di scelta e d’azione. Ne “La nausea” c’è alla fine una apertura, un piccolo spiraglio. Ne “Il muro” invece si trova di fronte al paradosso dei paradossi della vita: la morte che nullifica ogni scelta ed ogni malessere interiore. Il filosofo Adorno a proposito dell’esistenzialismo scrisse che la scelta alla fin fine era tra crepare o crepare. E se per K. Jaspers l’uomo di fronte alla morte si può aggrappare alla fede, molto più difficoltoso è il rapporto con la finitezza e la precarietà dell’esistenza per un esistenzialista ateo come Sartre. Ma viene in soccorso la trovata comica ed il protagonista si salva e ride dell’assurdità dell’esistenza e della morte. Sartre dà definitivamente scacco matto alla nausea ed alla morte.
Non sapevo che Moravia avesse tradotto il capitolo della “radice del castagno”. Questo è interessante, anche se, come dice lei, non è il caso di parlare di una filiazione diretta. Il tema della noia è già presente negli Indifferenti, quindi molto prima della pubblicazione della Nausée. Pensavo piuttosto a un clima generale di quegli anni, grosso modo dai ’30 ai ’60, alla perdita di “significanza” da parte delle cose. Per Sartre a questo punto siamo noi che dobbiamo “decidere” il significato, il senso. Forse si può dire che Moravia, meno legato a una filosofia della libertà, segue di volta in volta altre vie, meno generali.
Cara Elena,
sono d’accordo con lei. Però si può fare solo ipotesi e congetture. Difficile stabilire quanto la visione del mondo dipenda dal vissuto (come ritiene la fenomenologia) e quanto dalla temperie culturale (in fondo anche quest’ultima fa parte in un certo qual modo del vissuto). È molto difficile dirlo. Nessuno ha la verità in tasca. Questi libri fanno parte della narrativa psicologica , trattano entrambi della crisi della coscienza ed i protagonisti, come in tutti i grandi romanzi del novecento, sono degli inetti. Ci sono probabilmente solo queste tre cose certe. Per il resto sono possibilista.
Questo intreccio analitico sul desiderio, sul sesso e sul concetto di noia in Alberto Moravia lo trovo acuto ed adeguatamente esaustivo. A partire dagli ‘Indifferenti’ lo scrittore romano pose sotto la sua lente di ingrandimento i vizi della borghesia, traendone la conclusione che ‘sesso e denaro’ sono i fondamenti della società. Inoltre, una visione vagamente freudiana del sesso, come rileva in questo intervento Davide Morelli, lo portò a dichiarare (se non ricordo male nel libro intervista concessa ad Alain Elkann nel ’90) che “esiste sesso senza amore ma non amore senza sesso”.
La seconda parte di questa affermazione è un’ evidente forzatura, un po’ freudiana, un po’per suggestione del realismo della letteratura d’oltralpe che ha molto influenzato Moravia. Penso, ad esempio, al romanzo di grande successo ‘Le diable au corps’ di Raymond Radiguet, pubblicato in Francia nel 1923.
Ritengo che l’incidenza del sesso all’interno del rapporto di coppia dipenda dal’valore’ che si attribuisce a questo sentimento e al corpo e, non ultimo,al ‘progetto’ che si costruisce su questo rapporto, magari se di breve o lunga durata. E’ evidente, ad esempio, che nel caso uno dei partners si ammalasse altri valori dovrebbero sostituire il piacere del sesso. E’ risaputo che tante persone vivono l’esperienza d’amore al di fuori del rapporto sessuale, sia in una condizione etero che omo sessuale (o anche all’interno del matrimonio), perché alimentato da altri ideali.
Tornando a Moravia, al di là della sua produzione letteraria più conosciuta, mi piace ricordare i ‘Racconti d’Africa’ (se ricordo bene il titolo), di quando andava a svernarci con Pasolini, come uno dei più bei libri di carattere esotico scritti in Italia. Alcuni di questi racconti li leggevo a scuola, nell’ambito di insegnamento della Geografia, quando si affrontava lo studio del continente africano, che non volevo limitare al solo nozionismo, e i ragazzi ascoltavano con molto interesse.
L’ultima parte della vita di Moravia fu purtroppo segnata dal sentimento di gelosia verso la giovane compagna di vita Carmen Llera.
Ringrazio Davide Morelli per avermi fornito lo spunto per queste riflessioni e ricordi.
Come dicono i francesi: pour parler!
Ringrazio Franco Casati per le riflessioni. Quando commenta si vede sempre la sua cultura. Ho anche apprezzato i suoi racconti, anche se non sono un letterato. Ma in genere leggo più saggistica e poesia contemporanea che narrativa.